martedì 21 novembre 2017

Il Fatto 21.11.17
“Non ho capito Dante. Forse lui capisce me”
Le lezioni inedite sulla Commedia: “Non sono uno studioso, tuttalpiù uno studente attempato”
di Vittorio Sermonti

Pubblichiamo l’estratto di una lectio sulla “Commedia” che Vittorio Sermonti tenne a Firenze l’11 aprile 2013.
A rigor di lessico, io non sono un dantista: ciò che non mi mortifica e tantomeno — sia ben chiaro — mi inorgoglisce (ho conosciuto dantisti gretti e tediosi, e dantisti di straordinaria dottrina e spirito fulminante, qualche nemico distratto, e qualche preziosissimo amico). Ecco, ma in che senso io non sarei un dantista? (…) Un dantista è per definizione uno studioso, e io sono tuttalpiù uno studente: un molto attempato studente che campa scrivendo, e da qualche decennio leggendo forte quello che ha scritto (…) un grande scrittore; e che profitta del fatto che, in genere morto da tempo, quel grande non possa protestare. (…) È onesto io confessi che della Divina Commedia in generale io non ho mai “capito” troppo. (…) Non ho capienza mentale sufficiente. (…) Spero semmai che Dante e il suo libro “capiscano” me, cioè continuino a contenermi, a includere il mio viaggio: che insomma io non mi stia affaticando a remare sulla spiaggia. Basta. Per venire in qualche modo al punto, tanto vale che apriamo la Commedia. (…) alla seconda cantica detta Purgatorio, la più idonea a dar conto del nostro tema, che è appunto l’ombra di Dante.
Ora, a norma di un ostinato buonsenso diffuso, pare che delle tre cantiche l’Inferno sia la più “moderna” perché la più “umana”, dunque la meno “noiosa”; il Paradiso, la più “noiosa” perché la meno “umana”. (…) E fra gli estremi bordeggerebbe, né carne né pesce, il Purgatorio, di cui si ricorderà giusto qualche dettaglio paesaggistico (…). Prerogativa del purgatorio (almeno più attinente al nostro titolo) riguarda il regime della luce: nel provvisorio interregno fra un’implosione di tenebra e uno sconfinato abbaglio, solo il purgatorio consente ai solidi di versare ombra, e di versarla in ordine all’inclinazione dei raggi del sole. (…) Virgilio, come tutti i morti prima del dì del giudizio, dispone di una corporalità strana, evanescente. Mi piacerebbe dire, con una qualche precisione, di che genere di corporalità si tratti; temo sia impossibile. (…) Certo è che queste figure impalpabili o quasi, e comunque più che riconoscibili perché ad altissima definizione identitaria sono nude. (…) Insomma, è tassativamente escluso che le anime d’oltremondo dispongano di guardaroba. Tutte. (…) anche quella di Virgilio. (…) Però io (…) di Virgili nudi, nonne ho mai visti. Voi? Già, ma a rigor di teodicea nudi dovrebbero essere anche tutti i beati, Beatrice inclusa (che si presenti nell’Eden vestita di rosso-carità, e accessoriata di verde-speranza e bianco-fede, non dovrebbe far punteggio: lì vige un rigoroso statuto allegorico, secondo il quale i personaggi non sono quello che sembrano, ma esclusivamente quello che significano; in quanto anima beata però, come tutti i beati, su in paradiso, anche Beatrice. (…)
E io non ho mai visto… diciamo pure: noi non abbiamo mai visto rappresentata in figure questa inoppugnabile nudità plenaria. (…) Mi domando se la ho mai immaginata; e mi domando se un qualsiasi lettore impregiudicato, anche nell’ipotesi che non avesse mai visto una Divina Commedia illustrata con tanto di Beatrice in lungo e san Pietro in laticlavio, leggendo le terzine supreme del Paradiso se li sia mai immaginati nudi. Non lo so. E non credo.(…) È che non c’è forse grande narrazione dell’umanità più refrattaria della Divina Commedia a risolversi in formule visive. La ininterrotta ulteriorità fantastica, la slavina simbolica che le terzine di Dante scatenano dentro il lettore rilutta a lasciarsi frenare da immagini che non sono altro che quello che sono. Sotto questo profilo (e non solo sotto questo) vorrei timidamente rivendicare l’inattualità di Dante.
E la irrefrenabile proliferazione di iconcine della nuova didattica, con la sua metastasi di ammicchi, figurine e riquadrini con evidenziatore non penso riesca a irretire la Commedia. Non penso, insomma, che i nuovi protocolli sensoriali e cognitivi, fondati su simultaneità, ubiquità e virtualità, e deputati alla vista mediante abuso di polpastrello (il Castiglione avrebbe certamente deprecato questa singolarissima “ruina dalla vista al tatto” e viceversa)… non penso— dicevo — che i nuovi protocolli sensoriali eccetera, siano particolarmente omogenei all’orizzonte culturale di Dante e (se posso permettermi una parola grossa) alla sua poesia. Credo, invece, che la Commedia di Dante sia un immane racconto profetico che scorre via nel moto di una spazientita sequenzialità narrativa; e che sia bene lasciarlo scorrere: se ci costringerà a scorrergli dietro con la lingua di fuori, tanto meglio. (…)
No, (…) di quella sua visionarietà non sapremo mai altro che la nostra. (…)
Nessun poeta, nessun teologo, forse nessun essere umano ha immaginato morti così creaturalmente, così disperatamente, così concretamente vivi come le anime del purgatorio che racconta Dante: le ombre, ad esempio, che nel famoso V canto, alla vista del pellegrino che risale il monte con quelle membra con le quali è nato rimpiangono il corpo che le proiettava sulla terra, e desiderano, intimidite dalla bramosia, il corpo che il giorno del giudizio le assorbirà per sempre nella luce assoluta, che dicono sia l’ombra di Dio.