il manifesto 1.11.17
Podemos e sinistra indipendentista con le ossa rotte
di Marco Grispigni
Lo
scioglimento del Parlamento catalano e del suo legittimo governo,
democraticamente eletto nel 2015, la convocazione d’autorità da parte
del governo centrale di nuove elezioni nella regione, il 21 dicembre e
la «fuga» del Presidente repubblicano Puigdemont in Belgio, sembrano
chiudere il «processo» indipendentista catalano con una netta vittoria
del blocco nazionalista spagnolo. Come affermava Santiago Alba Rico, in
un amaro ma lungimirante articolo, «la crisi catalana ha chiuso quella
finestra di opportunità che le forze del cambiamento non hanno saputo
mantenere aperta in Madrid».
Il panorama politico e sociale che
emerge dopo la crisi è sicuramente preoccupante anche se la situazione
non è completamente stabilizzata. Il ricompattamento del fronte
reazionario all’insegna del «patriottismo costituzionale» permette a uno
dei partiti di governo più corrotti d’Europa, il Pp, di innalzare la
bandiera della «legalità». A questo quadro politico occorre aggiungere
la «ferocia» della magistratura che nei confronti dei dirigenti
indipendentisti utilizza l’accusa di «ribellione» e «sedizione»: la
stessa che fu mossa al colonnello Tejero, per il tentato golpe.
Le vicende di questi giorni potrebbero lasciare sul terreno due vittime politiche: l’indipendentismo di sinistra e Podemos.
Il
processo indipendentista catalano nel corso degli anni e nel
precipitare degli eventi degli ultimi mesi, è cambiato in maniera
significativa. Da un progetto egemonizzato dall’autonomismo della
borghesia catalana, si è trasformato in un movimento con fortissime
radici popolari grazie alla capacità di mobilitazione di due
associazioni: l’Assemblea Nazionale di Catalogna e Omnium culturale. La
capacità di mobilitazione nelle frequenti manifestazioni, ma soprattutto
in occasione del referendum «illegale» del 1 ottobre, ci parlano di un
fenomeno politico con un consenso popolare al quale qualsiasi forza di
sinistra dovrebbe guardare con rispetto e con attenzione (evitando
quindi le sciocche equiparazioni indipendenza=nazionalismo=razzismo
identitario).
Questo processo esce con le ossa rotte dal confronto
con l’apparato statale nazionale. L’abbandono da parte della borghesia
catalana, con lo spostamento della sede legale di numerose imprese,
l’impreparazione rispetto alle reazioni del governo spagnolo,
l’isolamento internazionale, dimostrano come l’analisi della Cup, che
riteneva la Catalogna l’anello debole dove i rapporti di forza esistenti
avrebbero permesso di aprire una vera e propria crisi del regime del
’78, fosse totalmente velleitaria.
L’altra vittima sembra essere
Podemos e la sua posizione netta ma difficile da gestire. No
all’indipendenza ma sì al diritto a decidere da parte dei catalani, con
un referendum legale, nel quadro di una profonda revisione
costituzionale che affermi il carattere plurinazionale della Spagna.
Questa posizione, nel momento della radicalizzazione del referendum
secessionista, è diventata il classico vaso di coccio.
Podemos si
trova lacerata da due spinte divergenti. Da un lato la pressione di chi,
a fronte della dimensione popolare della mobilitazione indipendentista,
spinge per schierarsi a favore della Repubblica Catalana, rifiutando la
«terza via» teorizzata dal partito. È il caso di Albano Dante Fachin,
segretario di Podem, la «sezione» catalana della formazione viola;
oppure quello della corrente degli «anticapitalisti» del partito
(minoritaria, fin dalle origini, dentro Podemos) che ha pubblicato un
comunicato ufficiale di riconoscimento della Repubblica catalana.
Dall’altro
lato le critiche di chi, ad esempio Carolina Bescansa, una delle
fondatrici di Podemos, rimprovera il partito di una vuota retorica e di
non sapere articolare un discorso e delle proposte concrete rivolte alle
masse popolari non catalane.
Il tutto mentre fioccano le accuse
di «tradimento della patria» che i partiti politici e la gran parte dei
mezzi di comunicazione muovono contro Podemos e le aggressioni fisiche
da parte di gruppi di «difensori della patria», che avvengono in diverse
città con la sostanziale tolleranza delle forze dell’ordine.
Resta
una speranza? Forse sì e si chiama Ada Colau, la sindaca di Barcellona.
Colau ha ripetutamente espresso posizioni politiche simili a quelle di
Podemos, ma il suo ruolo di sindaca, le iniziative nella città per
difendere sia il diritto di esprimersi che le libertà dei funzionari
pubblici catalani, hanno dato una dimensione concreta alle posizioni che
per Podemos restano invece astratte.
Ada Colau e la possibilità
di conservare quegli spazi conquistati dalle «amministrazioni del
cambiamento». A questo sembra ridotta la speranza di un futuro diverso
in Spagna: non è certo una prospettiva che induca all’ottimismo.
* curatore di Catalogna indipendente – Le ragioni di una battaglia, manifestolibri 2017