il manifesto 1.11.17
Togliatti sta a Renzi come la cultura politica al marketing
di Paolo Favilli
L’intervista
rilasciata sabato scorso da Emauele Macaluso a questo giornale merita
una riflessione attenta. Non solo per la grande storia di cui Macaluso è
stato protagonista, onorevolmente protagonista, ma proprio perché il
problema della forza dei numeri ch’egli pone è ben reale e va presa in
seria considerazione anche se non si è d’accordo con le sue proposte e
con la sua analisi del momento attuale. Le riflessioni da cui muove
Macaluso derivano da una parte da uno dei modi di concepire la politica
di derivazione togliattiana che ha profondamente innervato tutta la
vicenda storica del Pci, dall’altra da una seria preoccupazione per la
rinascita impetuosa della destra italiana ed europea. Penso di poter
comprendere appieno un modo di intendere la politica che, nonostante la
differenza di generazioni, è stato anche il mio. Un modo centrato sempre
sulle necessità di incidere sugli equilibri politici esistenti, di
stare sempre dentro, ad ogni costo, nella logica degli equilibri dati
per modificarli. Un modo che rifugge da ogni comportamento da «anime
belle», che avversa le piccole forze, «politicamente marginali», come si
dice nell’intervista. Un modo che è stato il pendant politico
dell’«aderire ad ogni piega della società civile», uno dei capolavori
strategici di Palmiro Togliatti. La realtà con cui oggi dobbiamo
confrontarci rende pressoché impossibile una tipologia politica che per
una lunga fase della storia repubblicana ha dato positivi risultati. I
numeri, la forza, stanno per ora, dalla parte del Pd, cioè dalla parte,
sono parole di Macaluso, di «un agglomerato elettorale senza più cultura
politica», che «si muove solo per restare al potere»; «un assemblaggio
di potere che di sinistra non ha più niente». Parole pesanti se si
pensa che vengono da una personalità che non ha mai avuto alcuna
simpatia per il radicalismo di sinistra, da una personalità chiave del
«migliorismo» interno al Pci. Parole che condivido completamente, ma
credo che sul problema della «cultura politica» del Pd sia necessario un
ulteriore ragionamento. Non c’è dubbio infatti che la struttura dei
dirigenti-cacicchi di ogni livello si muova soltanto sulla base di
logiche di potere, di interesse personale (nessuna differenza, del
resto, rispetto alla grande maggioranza del ceto politico degli altri
partiti). Può farlo con disinvoltura perché ha interiorizzato a fondo, e
quindi non è più nemmeno in grado di percepirla come tale, proprio la
«cultura politica» più adatta a quel tipo di comportamento politico: la
dimensione totalizzante del neoliberismo. Il neo-liberismo, infatti,
non è una nuova riedizione del laissez-faire, del liberismo classico,
anch’esso peraltro garantito in equilibrio con la sfera protezionista
dalle politiche statuali. Il neoliberismo è un sistema normativo
mondiale ed europeo che ormai determina comportamenti politici,
economici e sociali, per certi aspetti è anche un’antropologia. Un
dispositivo di regole che determina, o intende comunque determinare,
qualsiasi «valore» in termini di valore di mercato. E la politica, le
istituzioni politiche, sono state i soggetti fondamentali del complesso
normativo. Un edificio la cui costruzione è iniziata negli anni Ottanta
del Novecento e che si è solidificato, ben prima di Renzi, in un
reticolo di norme cui hanno contribuito fattivamente anche i governi ai
quali hanno partecipato in posizione dominante tutte le «cose» prima del
Pd. Si tratta dunque di una «cultura politica» ormai compattata e
coerente. Su queste dure fondamenta sono possibili giochi di potere
senza mettere in pericolo la stabilità strutturale della rete
normativa. In tale contesto cosa c’è di più inutile, di più «marginale»
davvero, che adoperarsi a sollecitare la formazione di un forza
politica atta ad evidenziare «le divergenze tra Renzi e Gentiloni» per
«aprire una battaglia politica interna al Pd», in vista di un’ «alleanza
che si può ancora fare».? Le «culture politiche» sono una cosa seria, e
a noi è necessaria una «cultura politica» antitetica rispetto a quella
dominante, quella sulla cui solida base possono esercitarsi senza paura i
«ballerini» (Kundera) della politica. Nella nostra tradizione ci sono
materiali teorici di prim’ordine per la costruzione/ricostruzione. Certo
vanno tradotti in politica, in numeri e questo è il realismo di
Macaluso che dobbiamo tenere presente. Un’operazione non facile né di
breve durata, ma non esistono scorciatoie. Soprattutto non esiste la
riproposizione di un’ennesima operazione di mutamento di scena della
stessa piéce teatrale. Se vogliamo cambiare veramente stagione, non
possiamo farlo rimaneggiando lo stesso copione ed utilizzando gli stessi
attori.