Corriere 1.11.17
lo scenario Le elezioni
Le urne a marzo, poi il rischio di stallo L’opzione estrema di tornarci a giugno
di Massimo Franco
Un rosario di incertezze e l’incognita Grasso sulla creazione di un quarto polo
Il
fatto che da alcune settimane si indichi la data del 4 marzo come
probabile giorno delle prossime elezioni politiche è passato quasi
inosservato. Si è detto che risponde alla fretta del vertice del Pd di
andare alle urne, per interrompere una deriva logorante e altre
scissioni; che è inutile tirare per le lunghe una legislatura agli
sgoccioli, una volta approvata la legge di Stabilità: la si esporrebbe a
una gara di provvedimenti estemporanei e elettoralistici. Ma a queste
riflessioni, tutte pertinenti, se ne aggiunge un’altra che da tempo
rimbalza tra i vertici istituzionali: la possibilità che dal voto emerga
un Parlamento incapace di formare una qualsiasi maggioranza; e dunque
che sia necessario fare subito nuove elezioni.
Si tratta di uno
scenario estremo, e altamente improbabile; ma che non può essere escluso
a priori. D’altronde, tutti i sondaggi dicono che con la nuova legge
elettorale sarà quasi impossibile formare una maggioranza omogenea:
nessun partito né coalizione avrà verosimilmente la forza per governare.
L’eventualità che a questo si aggiunga il rifiuto di collaborare,
costringe a passare in rassegna tutte le possibilità: anche le meno
augurabili. Ebbene, un voto entro la prima metà di marzo sarebbe l’unico
che permetterebbe, una volta certificata l’ingovernabilità, di
sciogliere di nuovo le Camere e rimandare l’Italia alle urne entro il
mese di giugno: dunque, prima dell’estate.
Sarebbe l’esito di una
campagna che sembra destinata a polarizzarsi e a radicalizzarsi. E
quindi renderà difficile qualsiasi ricomposizione anche dopo, per
ragioni non solo numeriche ma politiche. È anche per questo che
tacitamente un po’ tutte le forze, di governo e di opposizione, non
hanno fiatato sulla scadenza di marzo. I tempi imposti dalla
Costituzione sono stretti, e in caso di impasse andrebbero abbreviati al
massimo. Ma la prospettiva di una trattativa lunga e inconcludente e di
un Paese privo di governo, come avvenne in Spagna dopo le elezioni del
dicembre del 2015 e giugno del 2016, preoccupa e spaventa. È vero che in
quel caso l’economia recuperò. In compenso, però, le istituzioni
subirono un logoramento vistoso.
Le tensioni che si stanno
affastellando in questa fase fanno temere una deriva non troppo
dissimile. Gli attacchi del vertice del Pd e di M5S e Lega a Bankitalia;
l’ipotesi che la commissione parlamentare sul sistema bancario
sopravviva allo scioglimento del Parlamento, diventando un’arma
impropria sulla strada delle urne; lo scollamento tra il partito-perno
della maggioranza e il «suo» premier, Paolo Gentiloni; l’offensiva
polemica nei confronti dell’Unione Europea di un arco di forze tale da
raffigurare il Paese come potenziale serbatoio dell’eurofobia; le
tensioni permanenti in un Pd che guarda con apprensione al risultato
delle Regionali in Sicilia di domenica prossima: tutto congiura per una
frammentazione ancora più accentuata.
Su questo sfondo va inserita
anche l’uscita dal Pd della seconda carica dello Stato, Pietro Grasso, e
le indiscrezioni sulla creazione di un «quarto polo» di sinistra:
sebbene il presidente del Senato abbia informato preventivamente della
sua decisione il capo dello Stato, Sergio Mattarella, e il presidente
del Consiglio, Paolo Gentiloni, rassicurandoli sul piano istituzionale.
Significa che resterà al suo posto almeno fino all’approvazione della
legge di Stabilità. Quanto al dopo, nonostante le voci il futuro è tutto
da scrivere. La sensazione è che Grasso non si veda bene nei panni di
un «secondo Giuliano Pisapia», l’ex sindaco di Milano calato sulla scena
per unificare una sinistra alternativa al Pd, e uscitone dopo una lunga
e inutile trattativa.
Semmai, il processo dovrebbe essere
inverso: la diaspora dell’«altra sinistra» che si coagula, attira
settori di opinione pubblica che si sono allontanati dalla politica. E
poi offre a questi «sfrattati» dai partiti esistenti un nuovo
contenitore e un leader con i contorni del coordinatore più che
dell’aspirante premier. Sarebbe questa la strategia dell’«uovo fresco»,
immaginata dall’ex segretario del Pd, ora leader di Mdp Pierluigi
Bersani: con Grasso nel ruolo di «uovo fresco» o «uomo nuovo» in grado
di rappresentarli e di amalgamare un arcipelago dimostratosi finora
ingestibile nella sua rissosità e autoreferenzialità. Per questo
l’operazione continua a essere tutt’altro che scontata; e proietta
l’ennesima ombra confusa sulla coda della legislatura.
Anche
perché un «quarto polo» guidato da Grasso non garantirebbe il dialogo
con il Pd renziano dopo il 4 marzo. Anzi, confermerebbe una spaccatura
difficilmente sanabile, dopo l’uscita dal Pd seguita all’approvazione
della riforma elettorale in Senato con cinque voti di fiducia. Per
paradosso, sarebbe visto come uno dei possibili interlocutori chiamati a
istituzionalizzare dopo le elezioni un Movimento 5 Stelle ansioso di
entrare nei giochi di governo; e da tempo a caccia di sponde che lo
legittimino non agli occhi dell’elettorato ma dello «Stato profondo»:
quello di cui un politico e ex magistrato rispettato come Grasso è
espressione da anni.