il manifesto 16.11.17
Frutto della scienza non della magia
Duecento
anni fa veniva pubblicato «Frankenstein, o il moderno Prometeo». La
forza del capolavoro di Mary Shelley sta nella sua ambiguità, nel suo
prestarsi a interpretazioni diverse. Considerato il primo romanzo di
fantascienza, è però dotato di atmosfere gotiche, e effetti visionari.
L’autrice concepì la sua mostruosa creatura a diciannove anni, tra il
1816 e il 1817
di Andrea Colombo
Quando Lord
Byron, assediato con quattro amici dal maltempo e dalla noia in una
villa sul lago di Ginevra, sfidò tutti a inventare una storia gotica non
immaginava probabilmente che quel gioco letterario avrebbe aperto la
strada a un filone del tutto inedito nella letteratura fantastica. Un
fiume destinato a gonfiarsi nei decenni fino a sfociare con Blade Runner
nella battuta forse più citata del cinema moderno, «Ho visto cose che
voi umani…», passando per i robot di Asimov e gli androidi di Dick.
Ancora meno avrebbe supposto che ad aprire quella nuova strada sarebbe
stata la giovanissima Mary Wollstonecraft Godwin, amante e futura sposa
di Percy Shelley.
SEBBENE APPENA diciannovenne Mary non era del
tutto alle prime armi con la penna. Figlia di una pioniera del
femminismo morta poco dopo il parto e del filosofo William Godwin, era
cresciuta in una casa dove capitava che Samuel Coleridge leggesse agli
ospiti, prima di darlo alle stampe, il manoscritto della Ballata del
vecchio marinaio. Mary scriveva compulsivamente novelle e racconti sin
da bambina, anche se quasi tutti i manoscritti precedenti Frankenstein
sono andati perduti. Nei circoli letterari che frequentavano casa Godwin
aveva conosciuto a diciassette anni il poeta Percy Shelley e i due
erano fuggiti insieme, girando senza un soldo in tasca mezza Europa e
portandosi dietro la sorellastra di Mary, Claire, destinata a
impigliarsi di lì a poco in una tempestosa relazione con lord Byron.
Nel
1816 i tre si ritrovarono sul lago di Ginevra con lo stesso Byron e il
suo medico personale, lo scrittore John Polidori. Costretti in casa
dalla pioggia, ammazzavano il tempo discutendo di filosofia e leggendo
storie gotiche. L’idea della tenebrosa sfida letteraria venne in mente a
Byron proprio in seguito a quelle letture, ma nel suo capolavoro Mary
fece scivolare anche i discorsi di quei giorni, che vertevano
essenzialmente sulle potenzialità della scienza e in particolare sulla
possibilità di scoprire, come ricorda l’autrice nella prefazione del
1831 al libro sino a quel momento attribuito ingiustamente al celebre
marito, «la natura del principio della vita e la possibilità di
scoprirlo e divulgarlo».
IL GOTICO ANDAVA forte all’epoca, le
storie spettrali di Ann Radcliffe e William Beckford incatenavano
migliaia di lettori. La giovane Mary adoperò le stesse atmosfere cupe e
ombrose, superando i maestri nell’effetto orripilante. Però, per mettere
a punto il suo mostro non setacciò il sovrannaturale. Inventò, per la
prima volta nella storia dell’immaginario gotico, un essere creato
dall’uomo, in particolare dal giovane e geniale dottor Victor
Frankenstein. Il mostro era un prodotto della scienza, non della magia.
Per questo Frankenstein ossia il moderno Prometeo, è considerato non a
torto il primo romanzo di fantascienza. Gotiche e spettrali sono però le
atmosfere e gli effetti visionari, in un intreccio di generi che a
prima vista apparenta il Mostro più alle tribù degli spettri e dei
vampiri che non a quella dei cyborg e dei robot, della quale è invece il
capostipite.
La Creatura aveva poco a che vedere con l’automa
lento e inarticolato che oggi viene richiamato alla mente dal solo nome
«Frankenstein». Era brutto, anzi ripugnante oltre misura, come la
scrittrice si perita di far ripetere innumerevoli volte dal creatore
stesso dell’essere senza nome. Ma era anche velocissimo,
straordinariamente forte, capace di adattarsi a ogni clima come di
arrampicarsi a mani nude sulle Alpi. Era anche dotato di eccezionale
intelligenza e sensibilità delicata. La mostruosità della Creatura del
dottor Frankenstein è in prima battuta solo fisica. È la sua bruttezza a
respingere sin dal primo sguardo lo scienziato che gli ha dato la vita e
a rendere poi ostile chiunque posi gli occhi sulle sue scostanti
fattezze, persino quando il Mostro salva una bambina in procinto di
annegare.
LA CREATURA CEDE all’odio e al desiderio di vendetta
solo dopo essere stata violentemente rifiutato dal mondo e in
particolare da quello che è a tutti gli effetti «suo padre». Se di
Mostro bisogna parlare, quello è proprio lo scienziato. Abbandona la sua
creatura un attimo dopo averle dato la vita e poi, senza nemmeno
preoccuparsi di verificare quale sia la natura dell’essere che ha messo
al mondo, si dimentica della sua esistenza per mesi. Tradisce la solenne
promessa di alleviare il peso della sua estrema solitudine dotandolo di
una compagna, pur sapendo che così esporrà a rischi mortali tutti
quelli a cui vuole bene.
Quando il Mostro tradito promette di
punirlo «nella prima notte di nozze», il dotto immagina che sia lui in
pericolo e non anche la sposa, nonostante il vendicativo essere abbia
già dimostrato di volerlo colpire negli affetti strangolando suo
fratello e il suo miglior amico come farà poi con la moglie appena
impalmata. Difficile immaginare un creatore più sordo e impermeabile
alla sofferenza dell’essere che ha portato al mondo ma anche al pericolo
che fa correre a chiunque ami.
Il dolore e la furia della
Creatura di Frankenstein sono certamente il riflesso della rivolta
contro una divinità indifferente alla sorte delle sue creazioni, o
peggio ostile, tanto più che questo tema era centrale nella riflessione
filosofica di Percy Shelley. Ma l’enigma non riguarda la reazione
sanguinaria del Mostro. Misterioso e inspiegato è invece il rifiuto
immediato e insanabile dello scienziato nei confronti del frutto del suo
lavoro. La corazza di Victor Frankenstein viene incrinata da una
ventata di empatia e compassione solo per un fugace attimo, subito
rinnegato. Sembra evidente che la repulsione del Creatore nei confronti
del proprio stesso parto sia il rifiuto inorridito di fronte a una parte
di se stesso: dunque non è forse dovuto solo a distrazione l’equivoco
abituale per cui siamo tutti abituati a chiamare «Frankenstein» la
Creatura senza nome invece che lo scienziato.
L’assonanza tra il
rapporto vizioso che vincola Victor Frankenstein al suo Mostro e lo
«strano caso» che Robert Louis Stevenson avrebbe illustrato esattamente
settant’anni più tardi, quello del dottor Jekyll e mr. Hyde, è stata più
volte segnalata. La sensibilità della Creatura è affine a quella dello
scienziato, la straordinaria intelligenza li accomuna, persino la
passione per la montagna è la stessa. Il Mostro è una parte di
Frankenstein, priva però della voluttuosa e feroce amoralità di Hyde. Al
contrario è tormentato dai sensi di colpa proprio come l’inventore: i
due sono avvinghiati in un rapporto funesto e fatale di reciproca
dipendenza.
FORSE CIÒ CHE FRANKENSTEIN vede riflesso nella
Creatura e che lo inorridisce è semplicemente un se stesso depurato non
dalle pastoie della morale, come nel caso di Jekyll e Hyde, ma dai
legacci imposti dai rapporti sociali e affettivi, delle buone maniere,
dai buoni sentimenti: un essere che vanta le sue stesse doti e i suoi
stessi difetti ma amplificati in forma estrema e molto più violenta, un
Frankenstein tanto drastico quanto lui è irresoluto e titubante. Il
replicante desta nel modello originale paura e repellenza ma forse anche
inconfessata invidia, se è vero che il dottore giustifica la decisione
di non rispettare la promessa di costruire una compagna per il Mostro
con il terrore di una super-razza destinata a rimpiazzare quella umana.
La
forza del capolavoro di Mary Shelley è proprio nella sua ambiguità: in
una capacità di prestarsi a interpretazioni diverse e opposte
modificando il punto di vista dovuta probabilmente alla padronanza non
ancora piena, per fortuna, dell’autrice sul testo. Negli anni successivi
Mary Shelley avrebbe pubblicato altri libri, con padronanza e
consapevolezza molto maggiori e tuttavia senza mai sfiorare il risultato
raggiunto con quel libro buttato giù in pochi giorni e poi revisionato
solo marginalmente.