il manifesto 16.11.17
Boldrini e Grasso peccano di critica, disturbano la maggioranza
di Massimo Villone
Dalla
penna di Scalfari arriva la diffida ai presidenti delle Camere a
dimettersi immediatamente. Nella sostanza, l’accusa è la mancanza di
imparzialità. L’esperienza di Scalfari in Parlamento è lontana nel
tempo. Ma il mondo cambia, e sarebbe strano che il cambiamento non
toccasse la presidenza delle assemblee.
Consideriamo, ad esempio, i
nomi dei presidenti della Camera dal 1994 a oggi. Sono nell’ordine:
Pivetti, Violante, Casini, Bertinotti, Fini. In Senato troviamo
Scognamiglio Casini, Mancino, Pera, Marini, Schifani.
È appunto
con il 1994 che hanno fine le presidenze affidate a personalità
dell’opposizione, come Iotti, Ingrao, Napolitano. Si avvia invece una
fase in cui la presidenza è data a esponenti della maggioranza. In
qualche caso a esponenti che sono anche leaders di componenti della
stessa maggioranza, pienamente inseriti nella dialettica politica, di
partito, di coalizione. Che poi formalmente mantengano la tessera o
meno, si iscrivano al gruppo del partito di appartenenza o no, appare
marginale. La stessa titolarità della carica diventa invece un elemento
nella definizione della cifra politica della persona.
È un
corollario della scelta maggioritaria fatta con il Mattarellum, e del
progressivo affermarsi del mantra della governabilità e del diritto
della maggioranza di governare senza indebiti intralci da parte
dell’opposizione. Chi vince conquista il diritto a esercitare il comando
fino al successivo turno elettorale. Il compito del presidente
dell’assemblea è sì quello di garantire il rispetto delle regole, ma
sempre considerando tale diritto. Mentre non è diritto dell’opposizione
impedire alla maggioranza di governare.
Questa lettura
pro-maggioranza della presidenza di assemblea trova esplicito riscontro
nei discorsi di investitura. Violante (9 maggio 1996): «Nel lavoro
quotidiano mi sforzerò di garantire tanto il diritto-dovere di
governare, quanto quello di opporsi … c’è il rischio che il problema
delle decisioni sia completamente trascurato, che il dibattito diventi
fine a se stesso… troveremo il giusto equilibrio tra confronto delle
idee e decisione politica, nella consapevolezza che un Parlamento che
non riuscisse a decidere segnerebbe la propria sconfitta e quella della
democrazia». Casini (31 maggio 2001): «C’è un diritto della maggioranza a
governare. C’è un diritto dell’opposizione a controllare». Mentre Fini
(30 aprile 2008) esplicitamente dà atto della collocazione politica sua e
di altri presidenti: «Come i più recenti tra i miei predecessori, gli
onorevoli Bertinotti, Casini e Violante, che saluto, sono anch’io un
uomo di parte fortemente convinto della bontà dei valori che hanno
ispirato il mio impegno politico».
Da oltre vent’anni, quindi, i
presidenti non sono – sostanzialmente – super partes. Grasso e Boldrini
non fanno eccezione. La Presidente della Camera, in una lettera a
Repubblica il 6 febbraio 2014, prendendo spunto da una sua decisione che
aveva suscitato polemiche, afferma che la minoranza deve poter far
valere i suoi diritti «ma non fino ad impedire a una maggioranza di
esercitare le sue prerogative». Dunque, la Boldrini del 2014 andava
lodata, e la Boldrini di oggi invece va lapidata? Lo stesso vale per
Grasso, che ammette per l’Italicum il maxi-canguro con l’emendamento
Esposito che stronca l’ostruzionismo, che avrebbe potuto dichiarare
inammissibile perché privo di contenuto normativo.
Sia Boldrini
che Grasso non hanno opposto ostacoli alle famigerate questioni di
fiducia che hanno condotto all’approvazione del Rosatellum 2.0. il
peccato non è dunque in quel che hanno fatto in aula, ma in quel che
hanno detto dopo, fuori dell’aula. In breve, nell’aver osato criticare.
Presidenti espressione di maggioranza non hanno titolo a dissentire da
chi ha deciso che ricoprissero la carica? Allineati e coperti, e mai
disturbare il manovratore?
No, grazie. Non apparteniamo a quelli
per cui la critica è sinonimo di animo debole, predisposto al male,
foriero di peccati futuri. Né riteniamo che una critica possa mai di per
sé recar danno all’immagine di un soggetto politico, in specie se
preminente nelle istituzioni. Ancor meno se è tanto bravo a farsi male
da solo.