Corriere 16.11.17
Gli scenari post voto Berlusconi teme nuove fratture nel Pd e un asse con i 5 Stelle
di Francesco Verderami
ROMA
Berlusconi non si fida. Più si avvicinano le elezioni più si mostra
perplesso sulla prospettiva delle larghe intese, che oggi è considerata
l’ipotesi di scuola: se dalle urne non emergesse una maggioranza
omogenea, il patto di governo tra Forza Italia e Pd viene dato quasi per
scontato. Per il Cavaliere invece di scontato non c’è nulla, visto come
nutre di dubbi i suoi ragionamenti e si interroga sulla reale capacità
di Renzi di gestire questo eventuale processo.
Perché in caso di
sconfitta, secondo Berlusconi, un partito scosso e con un leader
contestato potrebbe ulteriormente dividersi. E la nuova frangia
scissionista potrebbe essere magari tentata di appoggiare la nascita di
un esecutivo a guida grillina, d’accordo con Mdp. D’altronde è da tempo
che Bersani si dice pronto a uno «streaming» con Di Maio e ieri su La7
ha ribadito il suo pensiero: «Con la destra non vado, quanto ai
Cinquestelle decidano dove li porta il cuore...». Appunto.
L’analisi
del Cavaliere, che sarà anche un processo alle intenzioni, contiene due
messaggi: uno è indirizzato all’opinione pubblica, per fornire
l’immagine di un Pd poco affidabile e accreditarsi come unico argine
alla deriva populista; l’altro è rivolto a Salvini, per avvisarlo che a
forza di giocare con i grillini potrebbe essere giocato. È vero che sono
tante, troppe le variabili perché il leader azzurro possa spingersi
oltre in un simile scenario, ma in politica tutti studiano in anticipo
le mosse altrui per non farsi trovare impreparati.
Bersani, per
esempio, immagina che Berlusconi non si stia predisponendo alle larghe
intese: «Piuttosto sono convinto che, se il centrodestra arrivasse primo
alle elezioni senza avere una maggioranza autosufficiente, forzerebbe
la mano per tornare subito al voto», come ha fatto Rajoy in Spagna. Con
l’obiettivo di conquistare i consensi mancanti per formare in autonomia
un governo. Ecco su cosa ragionano i dirigenti di partito, nonostante la
partita non sia iniziata e non si conoscano le formazioni che si
sfideranno.
Se il centrodestra deve trattare «solo» sui collegi e
sulle liste di appoggio, il centrosinistra è appena un cantiere.
L’obiettivo minimo del Pd è di avere un alleato alla sua destra e uno
alla sua sinistra. E se appare impraticabile la strada che conduce a
Mdp, si è aperto un sentiero verso Campo progressista. Pisapia è
rassegnato al fallimento del piano originario: «Mi ero speso per un
progetto unitario di tutta l’area — ha spiegato — ma il progetto è
mutato. Questo non vuol dire che mi tiri indietro».
Il punto è che
l’impegno dell’ex sindaco di Milano sembra limitato alla riuscita
dell’accordo programmatico con i democrat ma esclude una personale
discesa in campo: «Non mi candido». Il pressing dei dirigenti di Cp
perché ci ripensi è proseguito l’altra sera, nel corso del vertice che
ha sancito l’avvio del dialogo con il Pd: «La tua assenza dalla lista
indebolisce la lista». Pisapia ha ribadito il suo contributo per la
riuscita del progetto e si è ripromesso di guidare le trattative con i
democrat. Senza dare però altre garanzie.
Garanzie che Cp attende
anche dal Pd, sui contenuti e sulla struttura della coalizione. Tema
delicato (quasi) quanto la distribuzione dei collegi uninominali. Perché
una cosa è se Campo progressista sarà l’unico contenitore «a sinistra»,
altra cosa è se ci saranno altri simboli sulla scheda, se cioè
Radicali, Verdi e Socialisti presenteranno liste autonome, che
porterebbero alla frammentazione del consenso di quell’area e
pregiudicherebbero il superamento della soglia del 3%. Se così fosse —
in base al Rosatellum — quei voti andrebbero tutti al Pd. E Cp non vuol
ridursi nella parte del portatore d’acqua di Renzi: piuttosto non
presenterebbe la sua lista.