giovedì 16 novembre 2017

il manifesto 16.11.17
«Si sapeva che la Libia non rispetta i diritti umani»
Migranti. Minniti tira dritto nonostante l’Onu: «Tripoli non ha firmato la Convenzione di Ginevra»
di Adriana Pollice

L’Alto commissario Onu per i diritti umani martedì ha definito «disumana» la collaborazione tra Ue e Libia per fermare il flusso di migranti, mettendo sotto accusa soprattutto l’Italia e il suo appoggio alla Guardia costiera libica, attrezzata e sovvenzionata per riportare i migranti nei campi di prigionia. Il Viminale è rimasto in silenzio, la replica è arrivata ieri dal ministro dell’Interno, Marco Minniti. Dall’artefice degli accordi con Tripoli e con le milizie nessun passo indietro, visto anche il sostegno ottenuto dal segretario Pd, Matteo Renzi. «Il rispetto dei diritti umani in Libia non è questione di oggi – ha spiegato Minniti durante il question time alla Camera -, il paese non ha mai firmato la convenzione di Ginevra. Si tratta per noi di una questione irrinunciabile, su questo l’Italia sente l’assillo di agire».
L’Onu accusa l’Ue di non aver mosso un dito per difendere chi subisce le violenze dei trafficanti e poi di chi gestisce i campi di prigionia. Il ministro tira dritto: «Se oggi l’Unhcr ha potuto visitare 28 dei 29 centri di accoglienza presenti in Libia, individuando oltre mille soggetti a cui potrà essere riconosciuta la protezione internazionale, se l’Oim ha portato a termine dalla Libia oltre 9.353 rimpatri volontari assistiti, se c’è un piano italiano di aiuti ai sindaci libici, se stiamo procedendo a un bando per l’attività delle Ong in territorio libico, se i ministri dell’Interno dell’Europa e dell’Africa settentrionale hanno firmato un documento di impegni sui diritti dei migranti, lo si deve all’impegno del nostro paese e dell’Europa».
L’Onu chiede la cancellazione del reato di clandestinità, Minniti è prudente: «Per sconfiggere il traffico di essere umani bisogna aprire corridoi umanitari, con ingressi legali concordati con i paesi di provenienza». Ma sulla gestione delle frontiere punta sull’Agenzia Frontex in versione potenziata: «Si è proposto che il piano operativo 2018 abbia a oggetto la gestione complessiva dei flussi migratori del Mediterraneo, dal soccorso in mare sino al rimpatrio di coloro che non hanno diritto a permanere nel territorio europeo». E sul tema Minniti mostra i muscoli: nel 2017 sono stati rintracciati in Italia 39.634 migranti irregolari, più 15% rispetto al 2016, ne sono stati allontanati (tra rimpatri e riammissioni nei paesi d’origine) 17.405 (più 15,4%); sono stati espulsi in 93 (più 40%). Quanto ai Centri per i rimpatri, ne sono attivi 5, entro fine anno ne aprirà un sesto e «sono state già individuate altre 5 strutture».
Sulle responsabilità della Guardia costiera libica nessun accenno, tranne una salomonica dichiarazione sul naufragio del 6 novembre, costato la vita a 50 naufraghi perché la marina di Tripoli si rifiutò di cooperare con la Ong Sea Watch: «Le ricostruzioni dei fatti appaiono divergenti». Infine, sull’accusa di aver provocato morti in mare grazie all’allontanamento delle Ong per lasciare la gestione delle coste alla marina libica, il ministro squaderna i numeri: «L’Oim attesta che, dall’inizio dell’anno, risultano disperse 2.749 persone a fronte delle 3.793 del 2016. Tuttavia anche una sola morte è per noi inaccettabile».
La replica arriva dal deputato di Mdp, Arturo Scotto: «Serve un tagliando sulla missione che noi abbiamo sottoscritto con Tripoli, fin quando non sarà firmata la convenzione di Ginevra». Si fa sentire anche Emma Bonino, molto critica rispetto alle posizione di Minniti e Renzi sui migranti: «Bisogna aprire canali legali per l’accesso in Europa togliendo il reato di clandestinità e convincendo il governo della Libia ad approvare le convenzioni sui rifugiati».

Corriere 16.11.17
Noi, l’Onu e la Libia
I migranti e le lezioni tardive
di Fiorenza Sarzanini

Sono agghiaccianti le foto e i video che arrivano dalla Libia. Mostrano uomini, donne e bambini ammassati nei centri di detenzione e costretti a vivere in condizioni atroci. Svelano i dettagli della vendita di esseri umani, come documentato dalla Cnn con il reportage sull’asta degli schiavi. Ha ragione l’Alto commissario dell’Onu per i diritti quando parla di «mancanza di umanità» e racconta lo choc dei suoi colleghi che hanno effettuato le ispezioni. E fa bene il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani quando annuncia l’invio di una delegazione in modo da verificare sul campo che cosa sta accadendo.
Di fronte a simili barbarie nessuno può far finta di niente, si deve agire e bisogna farlo in fretta, senza perdere altro tempo. Perché è vero che la Libia è un Paese nel caos, ma quando al potere c’era il colonnello Gheddafi le condizioni di migranti e rifugiati non erano migliori. Anzi. E il regime di Tripoli impediva alle organizzazioni internazionali di entrare nel Paese, dunque non era possibile alcun tipo di controllo.
Sulla base di quelle immagini e della missione in Libia l’Onu ha attaccato in maniera frontale l’Unione Europea e l’Italia per aver siglato un patto con il governo guidato da Al Sarraj. L’accordo ha certamente dei punti deboli, soprattutto perché concede ampi poteri alla Guardia costiera locale. Ma è pur vero che la scelta del governo guidato dal presidente Paolo Gentiloni è stata fatta per far fronte all’arrivo di decine di migliaia di migranti.
U na decisione per reagire all’immobilismo non solo dell’Europa, ma anche degli organismi internazionali. Ecco perché alla denuncia dovrebbe seguire adesso un’azione unitaria forte e concreta. Per la prima volta — anche grazie alla mediazione della Ue e dell’Italia — l’Onu con l’Unhcr e l’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, sono state ammesse nelle strutture di detenzione. Ed esiste la possibilità di creare proprio nell’area di Tripoli un grande centro di accoglienza dove i profughi possano essere ospitati e identificati in modo da favorire poi l’accoglienza come richiedenti asilo negli Stati europei. È questa la strada da percorrere per salvare le persone e garantire loro condizioni di vita accettabili. Ma per ottenere il risultato bisogna procedere insieme. Ergersi sul pulpito e dare lezioni non serve a risolvere i problemi, soprattutto se sono così complessi come quelli che si devono affrontare quando si deve gestire un esodo migratorio dagli Stati africani. Bisogna farlo superando gli egoismi e mettendo invece a disposizione degli altri competenze e capacità.

il manifesto 16.11.17
«Fondi Ue per lo sviluppo usati per fermare i migranti»
Una ricerca di Oxfam. 400 milioni di euro in meno alla cooperazione per blindare le frontiere
di Carlo Lania

Soldi europei destinati allo sviluppo utilizzati per finanziare progetti di contrasto all’immigrazione. E’ quanto emerge da una ricerca condotta da Oxfam sull’uso del Trust Fund per l’Africa, finanziamenti dell’Unione europea che stando a quanto previsto dall’Agenda per le migrazioni del presidente della Commissione Ue Jean Claude Juncker dovrebbero servire esclusivamente a creare lavoro e migliorare le condizioni di vita nei Paesi di origine dei migranti e che invece vengono impiegati anche per impedire a chi fugge da miseria e violenze di raggiungere l’Europa. 400 milioni di euro, pari al 22% del fondo, che l’Europa spende per blindare i confini dei Paesi di transito, addestrare guardie di frontiera e organizzare i rimpatri. «Da tre anni c’è una tendenza alla securizzazione dell’aiuto» denuncia Francesco Petrelli, responsabile relazioni istituzionali di Oxfam. «Non puoi dire che vuoi rimuovere le cause dell’immigrazione e pensare di risolvere il problema chiudendo le frontiere. E invece è quello che sta facendo l’Unione europea».
L’idea di dar vita a un Trust Fund per l’Africa è nata nel 2015 durante il vertice Ue-Unione africana di La Valletta. Allo stanziamento iniziale di 1,8 miliardi di euro, quest’anno si sono aggiunti altri 2,9 miliardi di fondi europei ai quali vanno sommati 200 milioni messi a disposizione dagli Stati membri (con 15 milioni di euro l’Italia è il primo Paese donatore). In tutto 3,1 miliardi, sulla carta interamente destinati a contrastare le cause dell’emigrazione e l’esodo di uomini, donne e bambini dall’Africa.
In realtà, denuncia Oxfam, le cose non starebbero completamente così. I progetti approvati fino a settembre di quest’anno sono stati 117 per un totale di 1,9 miliardi di euro. Di questi, solo il 63% è per la cooperazione (pari e 1,1 miliardi di euro destinati principalmente ai rifugiati e, in misura minore, agli sfollati interni al continente) mentre invece altri 400 milioni (22% del totale) riguardano la gestione della migrazione e mirano, spiega Oxfam, «a limitare e scoraggiare la migrazione irregolare» attraverso misure di contenimento dei migranti, aumentando i controlli alle frontiere e addestramento le guardie di confine (attività che assorbono il 55% del finanziamento) ma anche incentivando i rimpatri (25%), l’attività di identificazione della nazionalità dei migranti (13%) e l’avvio di campagne di sensibilizzazione nei Paesi di origine in cui si sottolineano i rischi del viaggio verso l’Europa (4%). «C’è un uso dei fondi in parte diverso da quello per cui sono stati destinati», prosegue Petrelli. «In tutti i suoi documenti ufficiali l’Unione europea sostiene che per mettere un argine alle migrazioni si deve incidere sulle sue cause profonde: povertà, cambiamenti climatici, assenza di democrazia. Per far questo occorre sostenere progetti e iniziative utili a promuovere uno sviluppo che sia anche rispettoso dell’ambiente. Così invece si sottraggono risorse alla lotta contro la povertà».
«Da un po’ di tempo i rapporti con i Paesi africani sono pesantemente condizionati dalle politiche di esternalizzazione delle frontiere portate avanti da Consiglio e Commissione europea», commenta Elly Schlein, eurodeputata di Possibile a capo di un gruppo di lavoro della commissione Sviluppo che ha compito di monitorare proprio come vengo impiegati i fondi Ue per lo sviluppo. «Questa tendenza tradisce l’essenza della cooperazione allo sviluppo che secondo i Trattati deve mirare a eliminare la povertà. Ma così le povertà aumentano e di certo non si creano opportunità per i giovani africani».
Proprio i tentativi di bloccare i migranti in Africa potrebbero dunque spingere a nuove e massicce partenze, con il rischio di trasformare in un fallimento gli obiettivi di sviluppo del Fondo. Per di più – denuncia sempre Oxfam – costringendo i migranti ad avventurarsi lungo rotte sempre più pericolose.

il manifesto 16.11.17
Basta finanziare gli aguzzini, cancellare l’accordo
Migranti nel centro di detenzione Abu Salim a Tripoli, in Libia, il 15 agosto
di Francesca Chiavacci, Filippo Miraglia

Nelle ultime ore gli effetti dell’accordo del nostro governo con la Libia si sono materializzati davanti a tutto il mondo. Prima i 50 morti provocati dal comportamento della guardia costiera libica.
Che cerca di impedire alla nave della Ong Sea Watch di prestare soccorso. Poi la denuncia del Comitato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite che accusa esplicitamente il governo e l’Unione Europea di essere corresponsabili dei crimini che vengono commessi nei lager libici. E ancora, le terribili immagini dei migranti venduti come schiavi, probabilmente dalle stesse milizie con cui ha trattato il ministro Minniti. Da ultimo, la denuncia alla Corte Internazionale dell’Aja per crimini contro l’umanità del generale Khalifa Haftar, uno degli autorevoli interlocutori del ministro.
Un quadro terribile, che conferma la sistematica violazione dei diritti umani nel paese che l’Italia ha rifornito di armamenti e soldi per fermare i flussi migratori.
Salvare i migranti da quell’inferno, interrompere i finanziamenti – trovati attingendo ai fondi per la cooperazione – è ormai un imperativo.
Non ci si può dire preoccupati per le sorti di chi viene ricacciato in Libia e allo stesso tempo finanziarne gli aguzzini.
In questi giorni il nostro Parlamento discute la legge di bilancio, che prevede risorse per la cooperazione allo sviluppo che in realtà vengono utilizzate per tutt’altri fini. In particolare, il Maeci (Ministero affari esteri, Cooperazione internazionale) ha istituito un fondo straordinario per l’Africa per il 2017, con una dotazione di 200 milioni di euro, volto a finanziare interventi di cooperazione allo sviluppo e di controllo e prevenzione dei flussi di migranti irregolari. Fondi che sono stati in parte finalizzati a progetti specifici nei principali paesi interessati dalla rotta del Mediterraneo Centrale – Niger, Libia e Tunisia in particolare –  in parte sono invece transitati per il contenitore europeo dei Fondi Fiduciari per poi arrivare direttamente nelle casse dei Paesi africani coinvolti. Un sistema di vasi comunicanti – sia tra Italia e Europa, che tra il Maeci e il Ministero degli Interni –  che rende ancora più difficile il monitoraggio del loro utilizzo.
È però evidente che l’utilizzo reale del Fondo per l’Africa ha poco a che vedere con l’obiettivo dello sviluppo previsto dalla legge.  Le risorse più ingenti sono infatti quelle stanziate per il contrasto all’immigrazione e il controllo delle frontiere. L’esempio più esplicito del sistema di vasi comunicanti è il fondo allocato per il Niger, con cui questo paese s’impegna a creare nuove unità specializzate necessarie al controllo dei confini. Una militarizzazione delle frontiere che obbliga i migranti a uscire dalle rotte abituali, aumentandone i rischi e trasformando così il deserto, come già il Mediterraneo, in un cimitero a cielo aperto. Il fondo per l’Africa  è dunque diventato lo strumento centrale per l’esternalizzazione delle frontiere, affidando a paesi che violano sistematicamente i diritti umani l’intercettazione dei migranti per deportarli in luoghi dove sono esposti a trattamenti violenti e disumani.
L’esempio più lampante, come riportano le tante denunce documentate, è quello della Libia, per la quale il Maeci stanzia dieci milioni, gestiti dal Ministero degli Interni italiano, che si aggiungono agli altri due milioni e 500mila euro forniti per la riparazione di quattro motovedette assegnate alla guardia costiera libica perché svolga la sua violenta opera di intercettamento e respingimento. Con gli stessi obiettivi, dodici milioni sono stati destinati al governo tunisino per il pattugliamento delle zone costiere e delle frontiere terrestri. Con questo utilizzo dei fondi l’Italia viola le Convenzioni Internazionali, affidando ad altri Paesi i respingimenti sistematici di cittadini stranieri, potenziali richiedenti protezione internazionale.
Chiediamo che sia cancellato l’accordo con la Libia e che le risorse previste per la cooperazione vengano destinate all’aiuto allo sviluppo, come prevede la legge, e non utilizzate per finanziare strumenti di controllo e di militarizzazione delle frontiere africane.
* Francesca Chiavacci è presidente nazionale Arci
* * Filippo Miraglia è presidente Arcs

La Stampa 16.11.17
In Libia c’è chi soffia sul fuoco
di Stefano Stefanini

In Libia c’è un problema umanitario urgente. Il messaggio dell’Onu, ribadito dalle immagini della Cnn, è chiaro e inequivocabile: le condizioni dei campi - assembramenti? - di migranti in Libia sono disumane. Gli interventi necessari, e immediati, non devono però offuscarne la causa vera: la precarietà e pericolosità della situazione libica. Senza stabilizzazione del Paese resterebbero dei palliativi.

Se la comunità internazionale ha a cuore le sorti dei migranti, presenti e futuri, deve innanzitutto sostenere i tenui equilibri interni libici, fissati dall’accordo di Skhirat del 17 dicembre. Scade l’anno; il rischio che non venga rinnovato farebbe riprecipitare la Libia in un caos da cui si stava faticosamente estraendo.
Il Paese è stato sull’orlo dello Stato fallito. Ha visto sventolare a Sirte, sulla costa mediterranea, la bandiera nera dello Stato Islamico; ci sono voluti i raid americani per farla ammainare. Resta esposto al virus terrorista sia di Isis che di Al Qaeda. Rischiava di finire in un conflitto senza fine come quello che insanguina la Siria da oltre sei anni. La guerra civile avrebbe visto Tripoli contro Tobruk, Tripolitania contro Cirenaica, Al Sarraj contro Haftar, più altre milizie e componenti tribali. È stato l’accordo di Skyra a scongiurarlo.
L’accordo stabilisce essenzialmente una tregua (armata) fra Al Sarraj e Haftar. Non ha completamente pacificato il Paese, ma ha ridotto la conflittualità ad una bassa intensità in termini di scontri e di vittime, spesso di matrice terroristica quindi di schegge fondamentaliste che non si riconoscono nelle parti dell’accordo. Questo è il compromesso che ha evitato alla Libia le sorti della Siria.
Sul piano politico, Skhirat ha però anche mantenuto ferma la fragile legittimità internazionale di Al Sarraj. È un elemento importante nel bilanciamento delle forze. Non dà certo al governo di Tripoli il controllo del territorio, ma gli permette di avere le credenziali per confrontare l’alleanza tra Parlamento di Tobruk e il generale Haftar, l’uno legittimato da un’elezione, l’altro più forte militarmente. Questo precario equilibrio offre oggi l’unica prospettiva di riconciliazione nazionale e di stabilizzazione sostenibile della Libia. È pertanto essenziale che regga. Questa è stata ed è la costante della politica italiana sulla Libia.
Il pericolo, oggi, è la tentazione di una parte di prevalere sull’altra anziché rispettare un compromesso di convivenza e di divisione di potere. Potrebbe cadervi soprattutto Khalifa Haftar, forte delle armi, e d’importanti sostenitori, come Egitto, Russia e Francia. A loro dissuaderlo: c’è da augurarsi che iniziative come i recenti contatti russi con tribù dell’interno non siano un pescare nel torbido. Quanto a Parigi, qui si mette alla prova l’europeismo di Emmanuel Macron: collaborare con Roma e Bruxelles ad un approccio comune o ricadere in una sterile gara d’influenza post-coloniale?
Il problema delle condizioni dei migranti in Libia va affrontato rapidamente, ma non deve tradursi in una delegittimazione di Al Sarraj e di Tripoli - a danno dei precari equilibri interni e, tanto meno, a vantaggio di una parte, che nel caso sarebbe Haftar. Il messaggio dell’Onu sulla situazione umanitaria è rivolto innanzitutto alla Libia, ma ci vogliono una Libia stabile, e un governo responsabile per ascoltarlo. Una ricaduta nella guerra civile non aiuta nessuno, men che meno i migranti.
Cosa fare allora? Bisogna subito rimboccarsi le maniche per alleviare la situazione umanitaria dei campi. È una responsabilità dell’intera comunità internazionale. Ue e Italia sono in prima fila, ma anche l’Onu e l’Unhcr forse possono fare qualcosa di più oltre che accusare. Ma, soprattutto, bisogna raddoppiare gli sforzi per stabilizzare la Libia attorno al nucleo della legittimazione internazionale di Al Sarraj e di un processo politico di riconciliazione internazionale. I migranti non potranno che beneficiare del ristabilimento di autorità responsabili, mentre sarebbero di nuovo vittime innocenti di una recrudescenza della conflittualità e di una rottura della tregua fra Tripoli e Tobruk.

La Stampa 16.11.17
Negli Usa Di Maio vede Parolin
Piano per il disgelo col Vaticano
Intervista al leader grillino: taglierò le tasse alle imprese come Trump
di Ilario Lombardo Andrea Tornielli

Sulla strada che porta al governo ci sono due tappe fondamentali da compiere, per chiunque ambisca a giungere vittorioso alla fine. Gli Stati Uniti d’America e il Vaticano. Coincidenza ha voluto che Luigi Di Maio li incontrasse nello stesso posto, Washington, dove il candidato premier del M5S ha visto il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato nella Santa Sede. L’incontro, espunto dall’agenda ufficiale consegnata dall’ambasciata ai giornalisti, è avvenuto martedì dopo i colloqui al Dipartimento di Stato e con i congressmen repubblicani e democratici. Un fuoriprogramma nato per caso ma che accelera il percorso di accreditamento di Di Maio. Parolin era nella capitale Usa per le celebrazioni del centenario della conferenza episcopale americana. Il grillino lo ha scoperto e ha chiesto all’ambasciata di organizzare l’incontro. Alle tre del pomeriggio è stato accolto alla sede della nunziatura apostolica di Washington. «Leggiamo tante cose su di voi…» è stata una delle battute di Parolin, incuriosito anche dalle ragioni di questo viaggio negli Stati Uniti. Per Di Maio un’ulteriore occasione per raccontare la sua idea di un Movimento che vuole ridisegnarsi in una forma più moderata, più credibile per il governo. Appena sei mesi fa il braccio destro del papa gelò Beppe Grillo per un paragone azzardato tra il M5S e la chiesa di Francesco. Erano i giorni in cui si parlava del reddito di cittadinanza, una misura apprezzata dalle gerarchie ecclesiastiche: «Nessun politico - disse Parolin - può definirsi francescano».
Nella geografia del potere, Di Maio ha piantato due cruciali bandierine di presenza. Ma il colloquio riservato di Washington con il «primo ministro» vaticano è già il secondo importante appuntamento che ha visto il candidato premier del M5S confrontarsi con le autorità vaticane. Come «La Stampa» è in grado di rivelare, una ventina di giorni fa, in gran segreto e lontano dai sacri palazzi, Di Maio ha infatti incontrato un altro dei più stretti collaboratori del Papa, anche in questo caso su sua esplicita richiesta. Segno che nelle manovre di accreditamento il leader del movimento grillino da tempo vuole tener conto anche della Santa Sede e più in generale della Chiesa cattolica. Nel corso dei colloqui Di Maio ha presentato diffusamente il programma di governo dei Cinque Stelle, su energia, lavoro, agricoltura, difesa e scuola, cercando di mandare messaggi il più possibile rassicuranti ai suoi interlocutori vaticani. In particolare ha spiegato di voler moderare certi estremismi movimentisti presentandosi come un interlocutore affidabile e «di governo». Nei faccia a faccia con i due alti prelati il candidato premier si è sentito ricordare le preoccupazioni per le politiche familiari, che non sembrano ai primi posti nell’agenda della politica nonostante la tenuta della famiglia sia fondamentale per il Paese, specie in tempi di crisi economica come quelli che viviamo. E si è anche sentito ricordare il tema dell’immigrazione, un’emergenza che richiederebbe risposte non emergenziali, ma meditate e di lungo periodo.
È significativo che l’aspirante premier grillino abbia incontrato gli uomini più vicini a Papa Francesco in entrambi i casi senza recarsi in Vaticano. A Washington, per una voluta coincidenza di date; per l’incontro romano di fine ottobre per sua esplicita richiesta di confrontarsi in un terreno «neutro» e soprattutto lontano da occhi indiscreti.
Questi incontri non sono comunque una novità per le autorità della Santa Sede: i canali di dialogo informale con il mondo della politica sono sempre esistiti ed è normale che si intensifichino con l’avvicinarsi della scadenza elettorale, anche se oggi il Vaticano e più in generale la Chiesa italiana non appaiono certamente più in grado di influenzare come un tempo il voto dei cattolici.

La Stampa 16.11.17
Le ambizioni grilline crescono nonostante la Sicilia
di Marcello Sorgi

Per quanto limitato a incontri non di primissimo piano - segno di curiosità, ma anche di cautela rispetto a qualsiasi tentativo di accreditamento - il viaggio in Usa di Luigi Di Maio e i contatti, di cui s’è avuta conferma, con il Vaticano, dopo le polemiche sugli immigrati, rivelano che la sconfitta nelle elezioni regionali siciliane non ha affatto frenato le ambizioni dei 5 stelle per le prossime elezioni politiche. Anche perché, se è vero che in Sicilia il Movimento ha mancato l’obiettivo della guida della Regione, lo è altrettanto che, almeno per ciò che riguarda il voto sul presidente, quel 35 per cento raccolto dal candidato Cancelleri è l’indicatore del vero potenziale politico pentastellato, la soglia che potrebbe raggiungere e superare nel voto di primavera.
Una percentuale così elevata, specie di fronte al default quasi scontato del centrosinistra (il tentativo di Fassino di riannodare Pd e sinistra non sembra sortire grandi risultati), rende inaspettatamente competitivo M5s anche nei collegi uninominali in cui saranno eletti un terzo dei parlamentari, e dove la competizione, nelle intenzioni dei partiti che avevano fatto approvare il Rosatellum in funzione anti-5 stelle, doveva essere riservata a centrosinistra e centrodestra. Invece, se la tendenza del centrosinistra a presentarsi diviso sarà confermata, si avrà una riedizione in chiave nazionale della partita siciliana tra centrodestra e 5 stelle, una sorta di rivincita.
Inoltre la sera del voto, oltre a non sapere, per la prima volta dopo venticinque anni, chi sarà il vincitore chiamato a formare il governo, occorrerà cominciare a fare i conti con il ritorno del proporzionale, che prevede che l’incarico sia assegnato al partito che, avendo più voti, dovrebbe avere più possibilità di mettere insieme una maggioranza. In altre parole, gli occhi di tutti gli osservatori non dovranno più guardare, com’è avvenuto fino al 2013, la tabella delle coalizioni, per capire se è meglio piazzato il centrosinistra o il centrodestra. Ma quella dei partiti: nella quale, a meno di sorprese inimmaginabili, i 5 stelle dovrebbero essere largamente primi, con un vantaggio da cinque a dieci punti sul Pd, che arriverebbe secondo, e con un terzo e un quarto classificato - si vedrà se Forza Italia e Lega o viceversa - che avranno percentuali pari più o meno alla metà dei voti M5s. Se nessuno degli aspiranti sarà in grado di dimostrare di aver costruito alleanze e accordi politici solidi per formare il governo, sarà difficile per Mattarella evitare di consentire a Di Maio di fare il primo tentativo.

La Stampa 16.11.17
Il popolo di centrosinistra chiede unità
E Grasso insidia Renzi come leader
Il sondaggio di Piepoli: due elettori su tre a favore della coalizione
di Nicola Piepoli

Nella direzione del Partito democratico si è aperto il tema delle alleanze in vista delle elezioni del prossimo anno. Renzi ha proposto, a determinate condizioni, un’intesa con i fuoriusciti dal Pd, quelli che se ne sono andati per formare nuovi soggetti politici, tra cui Mdp.
La relazione del segretario ha posto così al centro della discussione il tema delle alleanze: dobbiamo combattere insieme ad altri soggetti di sinistra nella prossima tornata elettorale? La risposta del partito è stata favorevole. E rispecchia il sentore dell’opinione pubblica italiana: secondo il sondaggio realizzato per La Stampa, infatti, due elettori del centrosinistra su tre concordano sul fatto che allearsi farà bene in termini di risultati. Il messaggio unitario di Renzi è piaciuto al 34% degli italiani; una percentuale che cresce, appunto, al 66% tra gli elettori del centro-sinistra. Le aeree di incertezza, ovviamente, sono più presenti tra gli elettori di destra alle quali non importa molto il futuro politico del Pd e della sinistra in generale.
Per quanto riguarda il tema della leadership, cioè la discussione su chi dovrebbe guidare un’eventuale sinistra unita, emergono due nomi: da un lato quello di Renzi, il segretario in carica e vincitore delle ultime primarie Pd, dall’altro quello di Grasso, il presidente del Senato, che ha da poco deciso di abbandonare il partito. Alla precisa domanda («chi potrebbe essere il leader della coalizione?») Renzi e Grasso sono appaiati al 17% tra gli elettori del centrosinistra. E anche se si considera tutto il campione elettorale la sfida resta tra loro due.
Tra le dichiarazioni non del tutto in sintonia con l’opinione pubblica colpisce l’affermazione di Renzi di «essere più in sintonia con gli scissionisti che con gli avversari storici, visto che con i primi il Pd governa in 14 Regioni». Su questa parte della relazione solo la minoranza dei simpatizzanti del centrosinistra da la propria approvazione mentre gli altri italiani se ne fregano.
L’opionione pubblica, in generale, dimostra comunque sintomi di disorientamento. Quest’ultimo si è manifestato quando è stato chiesto agli intervistati a quale delle due parti, tra il Pd o il resto della sinistra, si sentissero più vicini e quale delle due parti ha più probabilità di vincere. Dalla risposte emerge che non vincerà nessuno delle due parti e che, di conseguenza, saranno altre forze a imporsi.
Passando ad altri argomenti risulta privilegiata la posizione del ministro Minniti che, nella sua difesa dello Ius soli, è riuscito a ottenere l’approvazione non solo del centrosinistra ma anche da parte di elettori di centrodestra
E infine, un confronto: quasi in contemporanea alla direzione del Pd c’è stata la partita di ritorno dell’Italia per le qualificazioni ai Mondiali. La gara ha raccolto in termini di popolarità tre volte quella ricevuta dalla politica. Quindi il calcio batte la politica in termini di attrazione con un secco 3-1.

La Stampa 16.11.17
Il Pd spera di giocarsi la carta Prodi
Ma Bersani chiude: “Uniti si perde”
Il presidente del Senato incontra Fassino: “Intese difficili”
di Carlo Bertini

Pure se Matteo Renzi è sicuro che dopo il 2 dicembre, quando sarà battezzata la lista unitaria di Mdp guidata da Piero Grasso, i compagni arriveranno a più miti consigli (così ha detto ad uno dei suoi interlocutori), ad oggi Pierluigi Bersani chiude la porta a un’intesa elettorale. Non solo rinviando a data da fissare un confronto con il delegato di Renzi alle alleanze a sinistra, Piero Fassino: al cui cospetto si presenterà magari Epifani e non certo D’Alema (che pare gli abbia già comunicato al telefono il suo «niet») o Bersani. Ma coniando uno slogan efficace, come quell’ «uniti si perde», evocato dalla Gruber ieri sera.
L’ex segretario è persuaso infatti che andando in coalizione col Pd renziano, la sinistra unita perderebbe la sua forza propulsiva, per usare un termine in uso negli anni del Pci: dimezzando i suoi consensi. «C’è un pezzo di popolo del centrosinistra che non ne vuol sapere di Renzi e della sua arroganza», ha spiegato a Otto e Mezzo. Dove ha definito «un teatro» questa mediazione affidata a Fassino.
Grasso-Boldrini attaccano
Il quale si è visto chiudere la porta, anche se con garbo istituzionale, pure dai due presidenti delle Camere, che ha incontrato ieri mattina. A Fassino che gli spiegava il suo compito Grasso ha infatti risposto «sulle alleanze non ti posso dire nulla perchè non rappresento alcun soggetto politico». Facendogli notare però che per gli effetti perversi di questa legge elettorale, è difficile trovare qualsiasi intesa. Il Presidente del Senato è infatti scettico, «ad oggi mi pare difficile fare un’alleanza col Pd», avrebbe detto a chi gli ha parlato ieri.
Il clima non è dei migliori se i suoi uomini contrattaccano, «ieri dal Pd lo criticavano perchè starebbe assumendo un ruolo politico e oggi viene consultato dal delegato della segreteria pd...» E anche la Boldrini non sarebbe stata da meno, se è vero che ha rintuzzato le critiche, dicendo a Fassino che in questi anni sul merito delle politiche ha visto «contaminazioni con la destra» che l’hanno portata a dare quel giudizio sul Pd.
E se queste sono le premesse di due presidenti che ancora parlano senza avere ruolo, «abbiamo avuto un piacevole scambio di opinioni che ho espresso a titolo personale», chiarisce la Boldrini, non stupisce che Bersani si mostri tranchant, tagliando per ora i ponti col suo ex partito. «Uniti si perde. È cambiando che si vince. Questo a Renzi non è chiaro», dice l’ex leader. Che spara a zero. «Senza un cambio di politiche inutile ammucchiarsi. Vince la destra». Con una sola flebile apertura. «Se il Pd cancella il Jobs act e si tiene Renzi come leader ci stiamo alla grande. La gente che incontro io e non è disposta a votare Pd perché glielo dice Bersani».
Il Prof. darà una mano
Mentre Lorenzo Guerini, delegato per i centristi marcia in discesa (ieri ha visto Dellai, Casini, la Lorenzin), Fassino invece va in salita, ma non dispera di convincere Mdp, concedendo qualcosa di concreto. «Non siamo chiamati a dare un giudizio su come abbiamo governato ma a scrivere un programma con cui presentarci agli elettori. Nel fare questo si può andare oltre, introducendo le correzioni necessarie». Il delegato per la sinistra oggi vedrà Romano Prodi, che ieri ha pranzato con Martina e Franceschini: il Professore, confida Arturo Parisi, ha apprezzato le aperture alle alleanze larghe: «Prodi ha sempre dichiarato la sua preoccupazione per la unità più ampia e non può che incoraggiare e se possibile mettere qualche buona parola», dice Parisi.
Ultimatum Mdp a Pisapia
E in questo calderone che è la sinistra, Pisapia (che sabato vedrà Fassino) incassa pure un duro strattone per uscire dal guado: in Transatlantico gira voce che si sia beccato un ultimatum da Mdp. Della serie: decidi entro il 26 novembre, giorno delle assemblee provinciali, o sei fuori dalla lista unitaria...

Corriere 16.11.17
Gli scenari post voto Berlusconi teme nuove fratture nel Pd e un asse con i 5 Stelle
di Francesco Verderami

ROMA Berlusconi non si fida. Più si avvicinano le elezioni più si mostra perplesso sulla prospettiva delle larghe intese, che oggi è considerata l’ipotesi di scuola: se dalle urne non emergesse una maggioranza omogenea, il patto di governo tra Forza Italia e Pd viene dato quasi per scontato. Per il Cavaliere invece di scontato non c’è nulla, visto come nutre di dubbi i suoi ragionamenti e si interroga sulla reale capacità di Renzi di gestire questo eventuale processo.
Perché in caso di sconfitta, secondo Berlusconi, un partito scosso e con un leader contestato potrebbe ulteriormente dividersi. E la nuova frangia scissionista potrebbe essere magari tentata di appoggiare la nascita di un esecutivo a guida grillina, d’accordo con Mdp. D’altronde è da tempo che Bersani si dice pronto a uno «streaming» con Di Maio e ieri su La7 ha ribadito il suo pensiero: «Con la destra non vado, quanto ai Cinquestelle decidano dove li porta il cuore...». Appunto.
L’analisi del Cavaliere, che sarà anche un processo alle intenzioni, contiene due messaggi: uno è indirizzato all’opinione pubblica, per fornire l’immagine di un Pd poco affidabile e accreditarsi come unico argine alla deriva populista; l’altro è rivolto a Salvini, per avvisarlo che a forza di giocare con i grillini potrebbe essere giocato. È vero che sono tante, troppe le variabili perché il leader azzurro possa spingersi oltre in un simile scenario, ma in politica tutti studiano in anticipo le mosse altrui per non farsi trovare impreparati.
Bersani, per esempio, immagina che Berlusconi non si stia predisponendo alle larghe intese: «Piuttosto sono convinto che, se il centrodestra arrivasse primo alle elezioni senza avere una maggioranza autosufficiente, forzerebbe la mano per tornare subito al voto», come ha fatto Rajoy in Spagna. Con l’obiettivo di conquistare i consensi mancanti per formare in autonomia un governo. Ecco su cosa ragionano i dirigenti di partito, nonostante la partita non sia iniziata e non si conoscano le formazioni che si sfideranno.
Se il centrodestra deve trattare «solo» sui collegi e sulle liste di appoggio, il centrosinistra è appena un cantiere. L’obiettivo minimo del Pd è di avere un alleato alla sua destra e uno alla sua sinistra. E se appare impraticabile la strada che conduce a Mdp, si è aperto un sentiero verso Campo progressista. Pisapia è rassegnato al fallimento del piano originario: «Mi ero speso per un progetto unitario di tutta l’area — ha spiegato — ma il progetto è mutato. Questo non vuol dire che mi tiri indietro».
Il punto è che l’impegno dell’ex sindaco di Milano sembra limitato alla riuscita dell’accordo programmatico con i democrat ma esclude una personale discesa in campo: «Non mi candido». Il pressing dei dirigenti di Cp perché ci ripensi è proseguito l’altra sera, nel corso del vertice che ha sancito l’avvio del dialogo con il Pd: «La tua assenza dalla lista indebolisce la lista». Pisapia ha ribadito il suo contributo per la riuscita del progetto e si è ripromesso di guidare le trattative con i democrat. Senza dare però altre garanzie.
Garanzie che Cp attende anche dal Pd, sui contenuti e sulla struttura della coalizione. Tema delicato (quasi) quanto la distribuzione dei collegi uninominali. Perché una cosa è se Campo progressista sarà l’unico contenitore «a sinistra», altra cosa è se ci saranno altri simboli sulla scheda, se cioè Radicali, Verdi e Socialisti presenteranno liste autonome, che porterebbero alla frammentazione del consenso di quell’area e pregiudicherebbero il superamento della soglia del 3%. Se così fosse — in base al Rosatellum — quei voti andrebbero tutti al Pd. E Cp non vuol ridursi nella parte del portatore d’acqua di Renzi: piuttosto non presenterebbe la sua lista.

il manifesto 16.11.17
Boldrini e Grasso peccano di critica, disturbano la maggioranza
di Massimo Villone

Dalla penna di Scalfari arriva la diffida ai presidenti delle Camere a dimettersi immediatamente. Nella sostanza, l’accusa è la mancanza di imparzialità. L’esperienza di Scalfari in Parlamento è lontana nel tempo. Ma il mondo cambia, e sarebbe strano che il cambiamento non toccasse la presidenza delle assemblee.
Consideriamo, ad esempio, i nomi dei presidenti della Camera dal 1994 a oggi. Sono nell’ordine: Pivetti, Violante, Casini, Bertinotti, Fini. In Senato troviamo Scognamiglio Casini, Mancino, Pera, Marini, Schifani.
È appunto con il 1994 che hanno fine le presidenze affidate a personalità dell’opposizione, come Iotti, Ingrao, Napolitano. Si avvia invece una fase in cui la presidenza è data a esponenti della maggioranza. In qualche caso a esponenti che sono anche leaders di componenti della stessa maggioranza, pienamente inseriti nella dialettica politica, di partito, di coalizione. Che poi formalmente mantengano la tessera o meno, si iscrivano al gruppo del partito di appartenenza o no, appare marginale. La stessa titolarità della carica diventa invece un elemento nella definizione della cifra politica della persona.
È un corollario della scelta maggioritaria fatta con il Mattarellum, e del progressivo affermarsi del mantra della governabilità e del diritto della maggioranza di governare senza indebiti intralci da parte dell’opposizione. Chi vince conquista il diritto a esercitare il comando fino al successivo turno elettorale. Il compito del presidente dell’assemblea è sì quello di garantire il rispetto delle regole, ma sempre considerando tale diritto. Mentre non è diritto dell’opposizione impedire alla maggioranza di governare.
Questa lettura pro-maggioranza della presidenza di assemblea trova esplicito riscontro nei discorsi di investitura. Violante (9 maggio 1996): «Nel lavoro quotidiano mi sforzerò di garantire tanto il diritto-dovere di governare, quanto quello di opporsi … c’è il rischio che il problema delle decisioni sia completamente trascurato, che il dibattito diventi fine a se stesso… troveremo il giusto equilibrio tra confronto delle idee e decisione politica, nella consapevolezza che un Parlamento che non riuscisse a decidere segnerebbe la propria sconfitta e quella della democrazia». Casini (31 maggio 2001): «C’è un diritto della maggioranza a governare. C’è un diritto dell’opposizione a controllare». Mentre Fini (30 aprile 2008) esplicitamente dà atto della collocazione politica sua e di altri presidenti: «Come i più recenti tra i miei predecessori, gli onorevoli Bertinotti, Casini e Violante, che saluto, sono anch’io un uomo di parte fortemente convinto della bontà dei valori che hanno ispirato il mio impegno politico».
Da oltre vent’anni, quindi, i presidenti non sono – sostanzialmente – super partes. Grasso e Boldrini non fanno eccezione. La Presidente della Camera, in una lettera a Repubblica il 6 febbraio 2014, prendendo spunto da una sua decisione che aveva suscitato polemiche, afferma che la minoranza deve poter far valere i suoi diritti «ma non fino ad impedire a una maggioranza di esercitare le sue prerogative». Dunque, la Boldrini del 2014 andava lodata, e la Boldrini di oggi invece va lapidata? Lo stesso vale per Grasso, che ammette per l’Italicum il maxi-canguro con l’emendamento Esposito che stronca l’ostruzionismo, che avrebbe potuto dichiarare inammissibile perché privo di contenuto normativo.
Sia Boldrini che Grasso non hanno opposto ostacoli alle famigerate questioni di fiducia che hanno condotto all’approvazione del Rosatellum 2.0. il peccato non è dunque in quel che hanno fatto in aula, ma in quel che hanno detto dopo, fuori dell’aula. In breve, nell’aver osato criticare. Presidenti espressione di maggioranza non hanno titolo a dissentire da chi ha deciso che ricoprissero la carica? Allineati e coperti, e mai disturbare il manovratore?
No, grazie. Non apparteniamo a quelli per cui la critica è sinonimo di animo debole, predisposto al male, foriero di peccati futuri. Né riteniamo che una critica possa mai di per sé recar danno all’immagine di un soggetto politico, in specie se preminente nelle istituzioni. Ancor meno se è tanto bravo a farsi male da solo.

Il Fatto 16.11.17
Ma cosa c’entrano i radicali con Renzi?
di Daniela Ranieri

Posto che ci sono cose più importanti a cui pensare, ma i Radicali italiani non erano transnazionali? Vederli oggi, nell’incarnazione dei Radicali di Emma Bonino e Riccardo Magi (da non confondere con quelli del Partito Radicale di Rita Bernardini e Maurizio Turco) abbracciare questa riedizione raffazzonata del Partito della Nazione renziano che va da Verdini a Alfano, dalla Lorenzin a (mah) Pisapia, produce un certo sbigottimento.
La nuova lista radicale + Europa (cioè, c’è da presumere dal dato storico, più austerità, meno welfare, più tagli alla Sanità, più impoverimento dei ceti deboli, meno sovranità-che-appartiene-al-popolo) sta pesantemente flirtando con quell’accrocco di partitaglia che fa capo a Renzi e che sta cercando polli da spennare mediante l’abile capacità di tessitura di Piero Fassino, il Cyrano di Renzi che sussurra parole d’amore a manca pur di sfangare le prossime elezioni.
Del resto, quando si fonda una lista che si chiama + Europa (veramente prima era Forza Europa, poi pudicamente scartato), con chi allearsi se non con uno che su suggerimento di un guru sfigato, giusto un anno fa, fece istericamente togliere le bandiere dell’Europa dalla scenografia della conferenza stampa post-terremoto a Palazzo Chigi, incassando i complimenti del Front National di Marine Le Pen? E con chi sottoscrivere apparentamenti pre-elettorali, secondo la terminologia orrenda cui costringe la indecente legge elettorale detta Rosatellum, se non con chi si è appena accusato, come ha fatto Bonino con Renzi, di aver siglato un patto segreto con l’Europa per ottenere più flessibilità in cambio delle proprie coste (“Siamo stati noi a chiedere che gli sbarchi avvenissero tutti in Italia, anche violando Dublino”)?
I Radicali sono contro la Bossi-Fini, ancora in vigore dal 2002: dunque perché non correre in soccorso del partito di maggioranza del governo che l’ha mantenuta e anzi inasprita col pugno duro di Minniti, che ha fatto anche accordi con le milizie africane perché i profughi fossero trattenuti nei canili libici?
Solo qualche giorno fa Bonino diceva: “È inaccettabile il patto del governo con la Libia. Come si fa a rivendicare il calo degli sbarchi se aumentano i morti in mare e quelli detenuti in Libia?”. Pare che lo abbia accettato, se si è accontentata di strappare a Renzi una delle sue promesse da marinaio, che poi ritratterà senza pudore accampando variegati pretesti. Bonino ha condotto, sempre con onestà e dignità, fondamentali battaglie civili. Ma a guardar bene, era naturale che finisse nelle braccia della gorgone renzista, come ben sanno gli squinternati che leggono Il Foglio, già verdiniano e ormai pornograficamente renziano-totalitario, come fosse il Washington Post. E nemmeno per il motivo che si potrebbe immaginare, e cioè perché nel 2008 i Radicali si allearono col Pd di Veltroni, di cui condivisero il programma. Quanto perché Bonino si candidò con Forza Italia nel ’94, e fino al 2006 amoreggiò col partito del mafioso dell’Utri e di B., del quale Bonino diceva di “apprezzare ciò che fa come premier” (tipo frodare lo Stato che doveva servire e farsi leggi personali per non finire in galera). Comprensibile che Renzi, con tutti i casini giudiziari della sua famiglia e dei suoi amici ministri, volesse accanto, oltre ai lanzichenecchi di Verdini, una garantista autorevole come Bonino, che negli anni si è schierata con B. contro le toghe “komuniste”, a favore dell’amnistia e contro l’autorizzazione all’arresto dei deputati (persino Cosentino). Era anche naturale che Bonino, da sempre favorevole alla deregulation del mercato del lavoro, fosse attratta dall’uomo che ha distrutto lo Statuto dei lavoratori e eliminato l’art. 18.
Pazienza, se ricordavamo i Radicali come paladini del diritto ad autodeterminare la propria morte, mentre come tutti sanno a Renzi la legge sul testamento biologico interessa solo per far contenta Repubblica; se i Radicali sono a favore dello Ius soli, che Renzi usa come specchietto per le poche allodole di sinistra rimaste nel suo potenziale elettorale; se i Radicali sono antiproibizionisti e allegramente cannaroli mentre il Pd di Renzi ha affossato in Commissione la legge sulla cannabis legale votando insieme a Lega, Ncd e Forza Italia (capolavoro denunciato da Benedetto Della Vedova, eletto al Senato nel 2013 con Scelta Civica e oggi a fianco di Magi e Bonino nella trattativa col Pd); se i Radicali, ancora, sono laici e anticlericali mentre Renzi è un cattolico provinciale che va a messa tutte le domeniche. Insomma, se Renzi li vuole con sé, questi democratici schizoidi, e se manderà i militanti dem a raccogliere le 50 mila firme necessarie per fargli presentare il loro simbolo alle elezioni, è per prenderne la parte che gli fa comodo, che non è certo la migliore, in ottemperanza alla sua ormai catastrofica vocazione peggioritaria.

Il Fatto 16.11.17
L’ultimo giorno di Gabanelli in Rai: “Proseguirò altrove”

“Oggi ho consegnato il badge, la chiave della mia stanza, il telefono aziendale, la scheda del computer”. Inizia così il messaggio di saluto di Milena Gabanelli alla redazione di Report, pubblicato sulla pagina Facebook della trasmissione. Ieri è stato l’ultimo giorno di Gabanelli in Rai. ”Sono passata a salutare questo pezzo di famiglia – scrive –. Sì, più che colleghi sono la mia famiglia, e più che madre mi sento quasi una figlia che esce di casa”. Il messaggio è accompagnato da una foto di gruppo con tutta la redazione, nella quale Gabanelli indossa un paio di occhiali scuri, probabilmente per nascondere la commozione. “Ci siamo fatti belle risate… sono davvero simpatici, e me ne vado con l’orgoglio di lasciare una bella eredità. Proseguirò il mio mestiere su un altro mezzo, da un’altra parte, ma prima dovevo salutarvi su questa pagina, dove di tanto in tanto ho consegnato un po’ dei miei pensieri e preoccupazioni. Un bacio a tutti voi. Uno per uno”. La storica conduttrice di Report aveva annunciato l’addio alla televisione pubblica lo scorso 31 ottobre.

Il Fatto 16.11.17
Morte di Rossi, la Procura apre un nuovo fascicolo su Mps
di Davide Vecchi

Sul caso David Rossi sembra prepararsi un cortocircuito tra organi dello Stato. La Procura di Siena ha aperto due nuovi fascicoli senza ipotesi di reato e contro ignoti per verificare se esistono i termini per avviare nuove indagini sulla morte di David Rossi, capo della comunicazione di Mps e braccio destro di Giuseppe Mussari dal 2001 in Fondazione e poi in banca. Intanto, sempre ieri, il comitato di presidenza del Csm ha trasferito alla prima commissione la richiesta formulata dal consigliere laico Zanettin di valutare i profili di incompatibilità dei magistrati senesi sulla vicenda di Rossi. Come dimostrato nelle ultime settimane dalla trasmissione Le Iene, da articoli del Fatto e da un libro di Chiarelettere, infatti, le due indagini svolte nel 2013 e nel 2015 da parte della Procura toscana sono state contraddistinte da errori grossolani come la distruzione di reperti fondamentali alle inchieste. Motivo per cui gli avvocati dei familiari di David, i legali Luca Goracci e Paolo Pirani, stanno valutando se rivolgersi alla procura di Genova per aprire una nuova inchiesta per accertare la verità su quanto accaduto la notte del 6 marzo 2013 a Rossi. Non certo a Siena. E Genova si sta già occupando di altri due fascicoli relativi al caso: uno aperto a seguito della querela contro ignoti presentata dai pm senesi a seguito delle dichiarazioni rilasciate dall’ex sindaco Pierluigi Piccini in merito a presunti festini cui avrebbero partecipato anche alcuni inquirenti, e un secondo per abuso d’ufficio nei confronti di quegli stessi inquirenti.
I magistrati guidati dal procuratore capo, Salvatore Vitello, hanno già sentito diverse persone per i nuovi fascicoli modello 45, tra cui l’avvocato Goracci, l’ex segretaria dell’allora amministratore delegato di Mps Fabrizio Viola, Lorenza Pieraccini, e l’ex segretario dell’ex presidente di Mps Giuseppe Mussari, Valentino Fanti.

Il Fatto 16.11.17
L’imbarazzo di cercare Corbyn in Italia
di Francesca Fornario

C’è una parola tedesca per descrivere il sentimento che pervade il popolo di sinistra: Fremdschämen. Fremd, estraneo, e Schämen, provare vergogna. Sentirsi in imbarazzo per qualcosa che qualcun altro ha fatto. Per “popolo di sinistra” intendo la diaspora dei cittadini che qui non votano o votano partiti diversi ma che fossero inglesi avrebbero sostenuto Jeremy Corbyn, americani Bernie Sanders, spagnoli Podemos, francesi Jean-Luc Mélenchon: interrogandosi affatto sulla loro appartenenza ai partiti piuttosto che alla società civile, apprezzando il linguaggio nuovo e movimentista del giovane Iglesias che non nomina mai la sinistra tanto quanto quello vecchio di Corbyn e Mélenchon che stanno in Parlamento da trent’anni, cantano Bandiera Rossa e accusano “I padroni”.
Quel che entusiasma sono le loro proposte radicali, la promessa di giustizia sociale, le critiche feroci al sistema, la coerenza. Il popolo di sinistra che altrove si ritrova e si esalta da noi assiste perplesso a Giuliano Pisapia che lancia “Diversa”, una proposta per chi, ogni giorno, dice una cosa diversa. Al ritorno di Walter Veltroni che scrive la storia di un comunista che prende una botta tremenda, va in coma per anni, si risveglia in stato confusionale e scrive la storia di un comunista che… A Matteo Renzi che ora tratta per spaccare Mdp tra quanti vogliono un nuovo centrosinistra e quanti, invece, rivogliono quello vecchio.
Agli esponenti della società civile che convocano assemblee e le sconvocano per continuare a discutere tra loro su Twitter delle condizioni che avrebbero imposto ai partiti se avessi partecipato all’assemblea che hanno sconvocato: “Non candidare nessuno che avesse avuto incarichi di governo”. Bastava dirlo prima! Ci saremmo risparmiati mesi di discussioni su – e con – Massimo D’Alema e Pierluigi Bersani sull’oggettiva difficoltà di riaccendere l’entusiasmo in chi ha patito le conseguenze delle riforme Monti e Renzi candidando chi quelle riforme le ha votate. Adesso è troppo tardi. Meglio troppo tardi che mai.
di Francesca Fornario

il manifesto 16.11.17
Frutto della scienza non della magia
Duecento anni fa veniva pubblicato «Frankenstein, o il moderno Prometeo». La forza del capolavoro di Mary Shelley sta nella sua ambiguità, nel suo prestarsi a interpretazioni diverse. Considerato il primo romanzo di fantascienza, è però dotato di atmosfere gotiche, e effetti visionari. L’autrice concepì la sua mostruosa creatura a diciannove anni, tra il 1816 e il 1817
di Andrea Colombo

Quando Lord Byron, assediato con quattro amici dal maltempo e dalla noia in una villa sul lago di Ginevra, sfidò tutti a inventare una storia gotica non immaginava probabilmente che quel gioco letterario avrebbe aperto la strada a un filone del tutto inedito nella letteratura fantastica. Un fiume destinato a gonfiarsi nei decenni fino a sfociare con Blade Runner nella battuta forse più citata del cinema moderno, «Ho visto cose che voi umani…», passando per i robot di Asimov e gli androidi di Dick. Ancora meno avrebbe supposto che ad aprire quella nuova strada sarebbe stata la giovanissima Mary Wollstonecraft Godwin, amante e futura sposa di Percy Shelley.
SEBBENE APPENA diciannovenne Mary non era del tutto alle prime armi con la penna. Figlia di una pioniera del femminismo morta poco dopo il parto e del filosofo William Godwin, era cresciuta in una casa dove capitava che Samuel Coleridge leggesse agli ospiti, prima di darlo alle stampe, il manoscritto della Ballata del vecchio marinaio. Mary scriveva compulsivamente novelle e racconti sin da bambina, anche se quasi tutti i manoscritti precedenti Frankenstein sono andati perduti. Nei circoli letterari che frequentavano casa Godwin aveva conosciuto a diciassette anni il poeta Percy Shelley e i due erano fuggiti insieme, girando senza un soldo in tasca mezza Europa e portandosi dietro la sorellastra di Mary, Claire, destinata a impigliarsi di lì a poco in una tempestosa relazione con lord Byron.
Nel 1816 i tre si ritrovarono sul lago di Ginevra con lo stesso Byron e il suo medico personale, lo scrittore John Polidori. Costretti in casa dalla pioggia, ammazzavano il tempo discutendo di filosofia e leggendo storie gotiche. L’idea della tenebrosa sfida letteraria venne in mente a Byron proprio in seguito a quelle letture, ma nel suo capolavoro Mary fece scivolare anche i discorsi di quei giorni, che vertevano essenzialmente sulle potenzialità della scienza e in particolare sulla possibilità di scoprire, come ricorda l’autrice nella prefazione del 1831 al libro sino a quel momento attribuito ingiustamente al celebre marito, «la natura del principio della vita e la possibilità di scoprirlo e divulgarlo».
IL GOTICO ANDAVA forte all’epoca, le storie spettrali di Ann Radcliffe e William Beckford incatenavano migliaia di lettori. La giovane Mary adoperò le stesse atmosfere cupe e ombrose, superando i maestri nell’effetto orripilante. Però, per mettere a punto il suo mostro non setacciò il sovrannaturale. Inventò, per la prima volta nella storia dell’immaginario gotico, un essere creato dall’uomo, in particolare dal giovane e geniale dottor Victor Frankenstein. Il mostro era un prodotto della scienza, non della magia. Per questo Frankenstein ossia il moderno Prometeo, è considerato non a torto il primo romanzo di fantascienza. Gotiche e spettrali sono però le atmosfere e gli effetti visionari, in un intreccio di generi che a prima vista apparenta il Mostro più alle tribù degli spettri e dei vampiri che non a quella dei cyborg e dei robot, della quale è invece il capostipite.
La Creatura aveva poco a che vedere con l’automa lento e inarticolato che oggi viene richiamato alla mente dal solo nome «Frankenstein». Era brutto, anzi ripugnante oltre misura, come la scrittrice si perita di far ripetere innumerevoli volte dal creatore stesso dell’essere senza nome. Ma era anche velocissimo, straordinariamente forte, capace di adattarsi a ogni clima come di arrampicarsi a mani nude sulle Alpi. Era anche dotato di eccezionale intelligenza e sensibilità delicata. La mostruosità della Creatura del dottor Frankenstein è in prima battuta solo fisica. È la sua bruttezza a respingere sin dal primo sguardo lo scienziato che gli ha dato la vita e a rendere poi ostile chiunque posi gli occhi sulle sue scostanti fattezze, persino quando il Mostro salva una bambina in procinto di annegare.
LA CREATURA CEDE all’odio e al desiderio di vendetta solo dopo essere stata violentemente rifiutato dal mondo e in particolare da quello che è a tutti gli effetti «suo padre». Se di Mostro bisogna parlare, quello è proprio lo scienziato. Abbandona la sua creatura un attimo dopo averle dato la vita e poi, senza nemmeno preoccuparsi di verificare quale sia la natura dell’essere che ha messo al mondo, si dimentica della sua esistenza per mesi. Tradisce la solenne promessa di alleviare il peso della sua estrema solitudine dotandolo di una compagna, pur sapendo che così esporrà a rischi mortali tutti quelli a cui vuole bene.
Quando il Mostro tradito promette di punirlo «nella prima notte di nozze», il dotto immagina che sia lui in pericolo e non anche la sposa, nonostante il vendicativo essere abbia già dimostrato di volerlo colpire negli affetti strangolando suo fratello e il suo miglior amico come farà poi con la moglie appena impalmata. Difficile immaginare un creatore più sordo e impermeabile alla sofferenza dell’essere che ha portato al mondo ma anche al pericolo che fa correre a chiunque ami.
Il dolore e la furia della Creatura di Frankenstein sono certamente il riflesso della rivolta contro una divinità indifferente alla sorte delle sue creazioni, o peggio ostile, tanto più che questo tema era centrale nella riflessione filosofica di Percy Shelley. Ma l’enigma non riguarda la reazione sanguinaria del Mostro. Misterioso e inspiegato è invece il rifiuto immediato e insanabile dello scienziato nei confronti del frutto del suo lavoro. La corazza di Victor Frankenstein viene incrinata da una ventata di empatia e compassione solo per un fugace attimo, subito rinnegato. Sembra evidente che la repulsione del Creatore nei confronti del proprio stesso parto sia il rifiuto inorridito di fronte a una parte di se stesso: dunque non è forse dovuto solo a distrazione l’equivoco abituale per cui siamo tutti abituati a chiamare «Frankenstein» la Creatura senza nome invece che lo scienziato.
L’assonanza tra il rapporto vizioso che vincola Victor Frankenstein al suo Mostro e lo «strano caso» che Robert Louis Stevenson avrebbe illustrato esattamente settant’anni più tardi, quello del dottor Jekyll e mr. Hyde, è stata più volte segnalata. La sensibilità della Creatura è affine a quella dello scienziato, la straordinaria intelligenza li accomuna, persino la passione per la montagna è la stessa. Il Mostro è una parte di Frankenstein, priva però della voluttuosa e feroce amoralità di Hyde. Al contrario è tormentato dai sensi di colpa proprio come l’inventore: i due sono avvinghiati in un rapporto funesto e fatale di reciproca dipendenza.
FORSE CIÒ CHE FRANKENSTEIN vede riflesso nella Creatura e che lo inorridisce è semplicemente un se stesso depurato non dalle pastoie della morale, come nel caso di Jekyll e Hyde, ma dai legacci imposti dai rapporti sociali e affettivi, delle buone maniere, dai buoni sentimenti: un essere che vanta le sue stesse doti e i suoi stessi difetti ma amplificati in forma estrema e molto più violenta, un Frankenstein tanto drastico quanto lui è irresoluto e titubante. Il replicante desta nel modello originale paura e repellenza ma forse anche inconfessata invidia, se è vero che il dottore giustifica la decisione di non rispettare la promessa di costruire una compagna per il Mostro con il terrore di una super-razza destinata a rimpiazzare quella umana.
La forza del capolavoro di Mary Shelley è proprio nella sua ambiguità: in una capacità di prestarsi a interpretazioni diverse e opposte modificando il punto di vista dovuta probabilmente alla padronanza non ancora piena, per fortuna, dell’autrice sul testo. Negli anni successivi Mary Shelley avrebbe pubblicato altri libri, con padronanza e consapevolezza molto maggiori e tuttavia senza mai sfiorare il risultato raggiunto con quel libro buttato giù in pochi giorni e poi revisionato solo marginalmente.

Il Fatto 16.11.17
Si alzi il sipario! Da Picasso a De Chirico: artisti all’Opera
Apre domani a Roma, al Museo di Piazza Navona, la mostra di scenografie e allestimenti del Teatro creati da grandi pittori e maestri dal 1880 a oggi
di Alessia Grossi

E ora, sipario! Quindici metri, per l’esattezza, dipinto da De Chirico per un Otello rossiniano. Ma anche bozzetti, maquette, figurini, allestimenti e costumi di alcune delle più grandi figure artistiche del Novecento che hanno calcato le tavole del palcoscenico del Teatro dell’Opera di Roma. È la mostra che da domani apre al pubblico fino all’11 marzo 2018 al Museo di Roma a Palazzo Braschi in Piazza Navona. Un allestimento – è proprio il caso di dirlo – che racconta l’intreccio tra l’Opera e i maestri che l’hanno abbellita. Un percorso che va da fine Ottocento con la prima della Cavalleria Rusticana che Pietro Mascagni portò in scena nel 1890 e prosegue con grandi titoli del nostro teatro lirico – ma anche perle “minori” – e si allunga fino a dietro le quinte, scoprendo così il lavoro delle maestranze.
Oltre a Mascagni, riscopriamo la Tosca di Giacomo Puccini, sul palco nel 1900, che ci riporta a Maria Callas e al suo costume ne La Tourandot. Ma non è l’unica soprano a essere ricordata: ritroviamo anche Emma Carelli, che negli anni ‘10 fu direttrice dell’allora Teatro Costanzi, finché nel 1928 il comune di Roma non lo acquisì e passò a chiamarsi come oggi.
Ed è qui che il legame con i grandi maestri si fa più intenso, le collaborazioni più fertili e le messe in scena diventano opere d’arte. Felice Casorati firma l’Elektra di
Richard Strauss, Filippo De PisisLa rosa del sogno di Alfredo Casella, il futurista Enrico Prampolini, I capricci di Callot di Gian Francesco Malipiero. Fino a Pablo Picasso, che nel 1919 disegna scene e costumi per il balletto di Manuel de Falla Il cappello a tre punte, messo in scena nel Secondo Dopoguerra. Per arrivare agli Anni Sessanta, quando sul palco dell’Opera Renato Guttuso lavora alla Carmen di Georges Bizet e alla Sagra della primavera di Igor Stravinskij, o Giacomo Manzù si cimenta con Oedipus Rex, sempre di Stravinskij, e Alexander Calder con Work in progress di Bruno Maderna. E nei decenni successivi arrivano anche Alberto Burri, è suo il “Cretto” per November Steps, il balletto di Minsa Craig del 1972, o Mario Ceroli La fanciulla del West di Puccini del 1980, Arnaldo Pomodoro, Semiramide di Gioachino Rossini del 1982, William KentridgeLulu di Alban Berg, in scena quest’anno. Ultimi ma non ultimi, in mostra anche i costumi di stilisti quali Armani, Valentino, Balestra e Ungaro. Per finire con i registi. Dal Don Carlo di Giuseppe Verdi nel mitico allestimento di Luchino Visconti, a Luca Ronconi, Bob Wilson, Emma Dante, Werner Herzog e Sofia Coppola.

Corriere 16.11.17
Terapia del dolore, cannabis gratuita Sarà a carico del Servizio sanitario
La norma nel decreto fiscale. Stanziati 2,3 milioni. Lorenzin: ne servono 350 chili all’anno
di Lorenzo Salvia

ROMA La cannabis per uso medico, utilizzata soprattutto nella terapia del dolore, diventa gratuita per il paziente e passa a carico dello Stato, cioè del Servizio sanitario nazionale. In tutta Italia. E non solo nelle undici regioni che già lo prevedono, a partire dalla Toscana che nel 2013 era stata la prima fare questa scelta seguita poi da altre, Lombardia compresa.
È l’ultima novità del decreto fiscale, il provvedimento che anticipa la manovra, la vecchia Finanziaria, e che ieri è arrivato nell’Aula del Senato. Non è ancora legge ma dovrebbe diventarlo presto. Il decreto potrebbe essere approvato già oggi a Palazzo Madama con il voto di fiducia per poi passare alla Camera, che però non dovrebbe modificarlo visti i tempi stretti per la conversione in legge. Il tema della cannabis è stato inserito un po’ a sorpresa nel decreto fiscale, provvedimento che tratta temi diversi come lo stop alle bollette a 28 giorni per i cellulari e le televisioni a pagamento o l’uscita da scuola degli studenti delle medie senza la necessità di essere accompagnati dai genitori. È il frutto di una serie di emendamenti presentati dal Pd, da Mdp e dal Movimento 5 stelle. Il passaggio dei costi a carico dello Stato in tutto il territorio nazionale non è l’unica modifica di rilievo. Per la cannabis terapeutica vengono stanziati 2,3 milioni di euro. Un fondo che sarà utilizzato per potenziare la produzione da parte dello stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze, che detiene il monopolio della coltivazione e della trasformazione legale. «L’obiettivo — dice il ministro della Salute Beatrice Lorenzin — è di garantire il soddisfacimento dell’intero fabbisogno nazionale di cannabis terapeutica, pari a circa 350 chilogrammi l’anno, senza dover più ricorrere all’importazione del prodotto da altri Paesi dell’Unione europea», come è avvenuto in questi anni. Non solo.
Il ministero della Salute è autorizzato a estendere ad altri enti e imprese, la possibilità di trasformazione e coltivazione di ulteriori quote di cannabis. Naturalmente seguendo i protocolli del ministero e le regole fissate nello stabilimento militare di Firenze. Previsto anche l’aggiornamento del personale medico, sanitario e socio-sanitario sulle potenzialità terapeutiche della cannabis per uso medico, in particolare sul trattamento del dolore. Viene poi aperta la strada allo sviluppo di nuove preparazioni a base di cannabis per la distribuzione nelle farmacie, dietro ricetta medica non ripetibile. Sarà necessaria in ogni occasione, cioè, una nuova prescrizione, senza poter utilizzare più volte quella vecchia. Oggi in Italia le persone che soffrono di dolore cronico sono stimate in 12 milioni, con punte tra gli over 65 e una presenza più rilevante tra le donne.
Gli emendamenti inseriti nel decreto fiscale ricalcano buona parte del disegno di legge sulla cannabis terapeutica approvato alla fine di ottobre dalla Camera dei deputati, dopo una serie di accelerazioni e frenate da parte della maggioranza. Il testo era arrivato al Senato ma avrebbe avuto la strada sbarrata proprio dal decreto fiscale e dalla successiva manovra, che va approvata prima della fine dell’anno e del probabile scioglimento delle Camere per andare al voto in primavera. Di qui la decisione di agganciare il pacchetto sulla cannabis a un provvedimento sicuro di arrivare fino al traguardo.

Repubblica 16.11.17
Perché la lezione del Nobel francese è ancora così attuale
Albert Camus e l’amore ai tempi della peste
di Paolo Di Paolo

Poche frasi mi hanno colpito di più — da lettore, da persona — di quel «Niente è inutile» con cui Camus conclude le pagine scritte a difesa di un proprio saggio filosofico, “L’uomo in rivolta”. Non è un dispensatore di certezze, ma di dubbi. Non è l’artista seduto, ma non è nemmeno quello blindato in un impegno ideologico. Non è un bugiardo. «Tutti, prima o poi, e
noi stessi, sentiamo. Si forgia allora qualcosa, la nostra coscienza comune sulla quale si costruiranno, un giorno, le opere di ciascuno, sulle quali ciascuno sarà giudicato».
Un romanzo come La peste — scritto da un Camus poco più che trentenne, negli anni Quaranta — andrebbe letto con questa frase nelle orecchie, senza badare troppo alle interpretazioni allegoriche che, nel tempo, ne sono state offerte. Prendete una città e prendete la peste che la assale. Prendete gli uomini e le donne di quella città. La città si chiama Orano, non è bella, è «priva di intuizioni ». È una città banale. Uno degli uomini che la abita, una mattina di metà aprile, inciampa in un topo morto. È il primo segno. La situazione, giorno dopo giorno, non fa che peggiorare. «La morte del portinaio — scrive Camus — si può dire che segnò la fine di quel periodo pieno di segnali inquietanti e l’inizio di un altro periodo, relativamente più difficile, nel quale la sorpresa dei primi tempi si trasformò via via in panico».
La peste è arrivata. La peste è un fatto. Prendetela alla lettera: la malattia infettiva di origine batterica. Il romanzo di Camus ne segue l’evoluzione affidandosi agli occhi di un medico, il dottor Rieux — non superstizioso, non affrettato, uno che semplicemente cerca di capire. Basterebbe questo: il suo sforzo di lucidità di fronte alla tragedia. Il modo in cui registra e interpreta le reazioni altrui, come un radiografo di stati d’animo — li analizza a uno a uno, coglie le oscillazioni fra il panico e la speranza, fra attaccamento alla vita, alla libertà e paura. E ancora: mette a fuoco i progressivi, e dolorosi, assestamenti per cui ciò che sembrava riguardare solo gli altri comincia a riguardare anche noi. D’altra parte, «un uomo morto ha un peso solo se qualcuno l’ha visto morto, per l’immaginazione cento milioni di cadaveri disseminati nella storia sono soltanto fumo». Quando non è più qualcosa che riguarda soltanto l’immaginazione, la peste esiste davvero.
Non c’è un solo tratto, nell’ampia gamma di emozioni che una catastrofe muove negli umani, non contemplato da Camus: una superiore gentilezza, un disincanto o un principio di resa, i cattivi sentimenti e i cosiddetti buoni, la fiducia nel cielo, l’ancoraggio alla terra. Il commerciante Cottard, per esempio, sembra cambiato: da uomo chiuso e silenzioso, «un po’ con l’aria della bestia selvatica», si è aperto, cerca di conciliarsi con le persone, di farsi benvolere da tutti. La peste, adesso, riguarda chiunque: rende più visibile il nodo fra i destini dei singoli, mette in luce la capacità di resistenza al dolore, fa sentire esiliati a casa propria. «Ciascuno dovette accettare di vivere alla giornata, e solo di fronte al cielo. Questa diserzione generale poteva alla lunga temprare i caratteri, ma sulle prime li rese vulnerabili ». Non so aggiungere niente di intelligente, non una frase, allo splendore dell’intelligenza — intelligenza per ciò che concretamente significa: la capacità di leggere nelle cose — che ogni pagina di questo romanzo manifesta. Posso però indicare un fenomeno invisibile che Camus, nella Peste, riesce a rendere visibile. Come fosse un macchinario dai congegni misteriosi, mette davanti ai nostri occhi l’ostinazione umana. Il macchinario sbuffa, si raffredda, si scalda a dismisura, pare essersi spento, poi riparte all’improvviso.
Come funziona? Da cosa viene alimentato? Si potrebbe forse leggere La peste come un manuale d’istruzioni, una raccolta dati, astratta e concreta allo stesso tempo. Non è la macchina dell’eroismo: di quella, Camus non si fida. Preferisce l’onestà. È la macchina che rivela una verità semplice: due più due fa quattro, partiamo da questo; la peste c’è, il male c’è. Alcuni non riescono a vederlo. Alcuni lo negano. C’è anche un particolare tipo di «nuovo moralista» convinto che sia tutto inutile e che bisogna mettersi in ginocchio. Poi, ci sono gli altri. I «cuori straziati ed esigenti», i consapevoli, sicuri che due più due fa quattro e che «in una maniera o nell’altra, bisognava lottare e non mettersi in ginocchio»: «L’essenziale era cercare di impedire al maggior numero possibile di uomini di morire e di conoscere la separazione definitiva. E il solo modo per farlo era combattere la peste. Non era una verità grandiosa, era solo una verità coerente». La macchina dell’ostinazione umana non si nutre di una speranza astratta, ma di «urgenza generosa », di slancio, di sollecitudine che — appena viene narrata con tono «da epopea o da encomio» — acquista qualcosa di retorico, di fasullo. Il linguaggio della retorica, quello da cui il dottor Rieux è irritato, perché è un linguaggio che non può applicarsi, per esempio, «ai piccoli sforzi quotidiani di Grand, un linguaggio che non poteva rendere conto di che cosa significava Grand nel bel mezzo della peste». Che cosa significa ciascuno di noi. Che cosa significano le voci «sconosciute e fraterne» che provano da lontano — «goffamente » — a offrire la loro solidarietà, ma dimostrano anche l’insufficienza, «l’impotenza di ogni uomo nel condividere davvero una sofferenza che non può vedere ». Non c’è altra risorsa — pensa il medico, pensa Camus — che amare e morire insieme. La macchina dell’ostinazione mette in moto anche i rassegnati e i vigliacchi, li convince, li rende migliori delle loro parole.
La macchina dell’ostinazione lavora di più nelle città appestate, ma non è mai inerte, nemmeno nel cuore di quelle che paiono sane. Avanza in senso contrario al disincanto, fende e talvolta dissolve la sua nebbiolina insopportabile, contraddice il cinismo ironico di chi tiene le braccia conserte, l’aria spavalda di quelli che la sanno lunga. Guadagna metri onestamente («Farà magari ridere, come idea, ma il solo modo di lottare contro la peste è l’onestà»), e se il buio della tragedia è più fitto, anche ciecamente — l’ostinazione cieca che nell’angoscia rimpiazza perfino l’amore. Ma non si arrende, fa quello che può: le sue vittorie sono provvisorie, sì, saranno sempre e solo provvisorie. Ma nell’«interminabile sconfitta» di ogni peste non trova mai un motivo buono per smettere di lottare. Non contempla l’orizzonte del «voi», ma solo quello del «noi». Non fugge dall’inaccettabile. Resta nell’inaccettabile, ci salta dentro, lo traduce nello spazio che sempre ci è offerto per fare una scelta.
Anticipiamo un brano dal nuovo libro di Paolo Di Paolo, Vite che sono la tua. Il bello dei romanzi in 27 storie ( Laterza, pagg. 224, euro 16) da oggi in libreria

Repubblica 16.11.17
C’era una volta Chiaromonte intellettuale straniero in patria
di Francesco Erbani

Cesare Panizza ricostruisce la biografia del filosofo antifascista fondatore di riviste liberal negli Stati Uniti e direttore di “Tempo presente”
In apertura della biografia che gli dedica, Cesare Panizza accosta Nicola Chiaromonte ad Antigone. E gli interrogativi sono conseguenti all’assimilazione dell’eroina di Sofocle al direttore di Tempo presente, intellettuale cosmopolita e senza parrocchia, straniero in patria, ma al centro di una rete cui partecipano Albert Camus e Hannah Arendt, artefice di riviste liberal negli Stati Uniti, fautore di una sinistra fuori dalle gabbie dello stalinismo. E dunque: può la politica prescindere dalla morale? Ci sono principi osservando i quali ci si sottrae alle leggi della politica? Questo filo percorre l’attraente volume di Panizza ( Nicola Chiaromonte, Donzelli).
Chiaromonte, che nasce a Rapolla, in Basilicata, nel 1905, è ritratto come un “maestro segreto”, che dunque ambisce «a vivere nascosto». Eppure spicca il suo nome negli anni Cinquanta e Sessanta nel fronte dell’anticomunismo democratico (celebre il suo Il tempo della malafede).
Su Tempo presente Chiaromonte denuncia il totalitarismo sovietico, ne racconta l’irriformabilità e ne anticipa il collasso. Al suo fianco è Gustaw Herling, lo scrittore polacco di Un mondo a parte. Contemporaneamente Chiaromonte tiene la rubrica di critica teatrale prima sul
Mondo, poi su Sipario e sull’Espresso.
Nella biografia definiscono il profilo di Chiaromonte sia i materiali della riflessione culturale, sia gli elementi caratteriali. Il suo, si legge, è un temperamento «facilmente portato alla malinconia e soggetto a cicliche crisi depressive». Di grande importanza è il carteggio che intrattiene dal 1957 fino alla morte con la poetessa Melanie von Nagel, che poi diventa “sister Jerome” in un convento benedettino del Connecticut.
L’antifascismo di Chiaromonte matura negli anni universitari e trova riscontro nell’amicizia di Paolo Milano, di Alberto Moravia, e poi, fra gli altri, di Carlo Levi, Corrado Alvaro, Alberto Carocci. Collabora al Mondo di Alberto Cianca. Scrive su Solaria e su Oggi. Ma presto l’antifascismo si precisa e dall’iniziale adesione a Giustizia e Libertà prende una strada a tratti isolata, ma ricca di spunti. La sua attenzione è sul rapporto fra la moderna società di massa e il regime. Lo impressiona la passività di fronte al fascismo di quella «poltiglia indefinibile, fatale prodotto della decomposizione della vecchia società sottoposta al lavorio dello Stato moderno e dell’industrialismo». Per Chiaromonte il fascismo è stato capace, scrive Panizza, di sublimare «in un’ideologia nazionalista e statolatrica quella “tragica assenza di libertà”, tipica della società di massa».
Dalla metà degli anni Trenta Chiaromonte è in Francia, bollato come cospiratore dal Tribunale speciale. I suoi orizzonti culturali si dilatano e allo scoppio della Seconda guerra mondiale vola negli Stati Uniti. Oltreoceano si sente spaesato. Entra però in contatto con Gaetano Salvemini, ma soprattutto con la Partisan Review, organo liberal. Insieme a due esponenti del mondo radicale, la scrittrice Mary McCarthy e Dwight Macdonald, dà vita nel 1943 alla rivista politics e conosce Hannah Arendt. L’irrequietezza culturale è la cifra del gruppo, che si propone una riforma del pensiero socialista, sganciato dal marxismo che nell’Urss ha soggiogato l’essere umano. Nel frattempo assume un peso decisivo Camus, che agli occhi di Chiaromonte (rientrato a Parigi nel 1947) appare alternativo al modello di engagement proposto dagli intellettuali comunisti. La guerra fredda cinge d’assedio la riflessione etica e culturale. Il filo di un socialismo libertario si riannoda in Tempo presente, che nasce nel 1956. Firmano per la rivista, di cui è direttore anche Ignazio Silone, Leonardo Sciascia e Alberto Arbasino, Furio Colombo, Vittorio Gorresio ed Enzo Bettiza. Enzo Forcella pubblica Millecinquecento lettori, la spietata analisi di un giornalismo che si svolge a circuito chiuso. La rivista si schiera contro l’arresto di Danilo Dolci e, anni dopo, a fianco del foglio studentesco La zanzara.
Inoltre sulle proteste giovanili Chiaromonte manifesta quell’interesse, condito da critiche, di cui non c’è tanto riscontro altrove.
Ma su Tempo presente si abbattono nel 1966 le rivelazioni sui finanziamenti della Cia al Congresso per la libertà della cultura, che a sua volta finanzia la rivista. La genuinità di una sinistra antitotalitaria viene macchiata. Panizza propende per la buona fede di Chiaromonte, che nulla avrebbe saputo sulla provenienza di quei soldi e i cui riferimenti politici e culturali hanno antiche origini. Inoltre Chiaromonte non tace il dissenso nei confronti dell’intervento americano in Vietnam. In ogni caso per Tempo presente la vita si fa precaria. L’ultimo numero esce nel dicembre del 1968. Poco dopo, nel 1972, Chiaromonte si spegne. IL LIBRO Panizza, Nicola Chiaromonte
(Donzelli, nella collana “ Italiani dall’esilio” sostenuta da Paolo Marzotto, pagg. 322, euro 29)