il manifesto 12.11.17
Ripudiata, maga, assassina, Medea nel prisma del mito
Mitologia
classica. Giuseppe Pucci, in un volume monografico Einaudi uscito nella
collana diretta da Bettini, ha selezionato le tappe-chiave, da Euripide
a oggi, di un personaggio antropologicamente complesso
di Maria Jennifer Falcone
Quando,
nel terzo secolo a.C., il poeta Ennio portò per la prima volta sulle
scene romane la storia di Medea, su quel palcoscenico provvisorio (il
primo teatro in pietra, quello di Pompeo, fu costruito solo molto dopo)
la maga della Colchide, rivolgendosi al coro di donne di Corinto come
nel modello euripideo, le chiamava matronae e optumates, e parlava loro
usando concetti tipici della mentalità romana (la patria, il vincolo del
matrimonio, il ruolo della donna, i temi del destino e della libertà
individuale). Quel racconto lontano rinasceva a Roma, ne assorbiva la
cultura per trarne nuova linfa. È quello che succede ogni volta che un
artista decide di dare voce al mito: esso prende vita, e parlando di sé
ci racconta molto della civiltà che lo ha accolto e rielaborato.
Nel
nuovo titolo della serie «Mythologica» Einaudi: Maurizio Bettini e
Giuseppe Pucci, Il mito di Medea Immagini e racconti dalla Grecia a oggi
(«Saggi», pp. XI-321, € 30,00), sono descritte alcune delle numerose
rinascite di questo mito (più di quattrocento) che ha affascinato gli
antichi e continua a turbare i moderni. Come accade in tutti gli altri
volumi della collana (dedicati di volta in volta a Elena, Narciso,
Edipo, le Sirene, Circe, Enea, Arianna), il libro inizia con un racconto
scritto da Bettini. La scena si svolge sull’Isola dei Beati, ultima
destinazione di Medea, che qui – secondo una variante del mito – sta per
sposare Achille. Prima delle nozze, esitante e inquieta, la donna si
abbandona ai ricordi: il flusso dei pensieri dà corso al racconto.
Ripercorrendo la sua vita, dall’amore per Giasone («in quel momento lui
era entrato dentro di lei e da allora non era più uscito») ai crimini
commessi per lui, Medea è contemporaneamente personaggio e interprete di
sé stessa. «Ma io sono una dea, e sono differente. Cioè indifferente»:
questa sequenza, che si ripete con variazioni come un ritornello e si
incide nella memoria anche grazie al gioco di parole di gusto ‘romano’,
mostra in filigrana la sensibilità dell’antropologo e del classicista e
risuona in sottofondo durante la lettura del saggio.
Nell’ampia
seconda parte del volume Giuseppe Pucci esplora le tappe più
significative del lungo percorso artistico e letterario di Medea: dopo
aver analizzato le rappresentazioni antiche del mito, mostra i caratteri
principali di alcune riprese medievali, rinascimentali e moderne,
distinguendole per generi (teatro, cinema, opera, arti figurative).
Di
fronte a un mito così fortunato, il primo ostacolo è la selezione. Per
il mondo greco, senza trascurare altri autori (in particolare Eumelo di
Corinto, Pindaro, e poi Apollonio Rodio), Pucci riserva opportunamente
lo spazio maggiore alla tragedia di Euripide, verisimilmente la prima in
cui Medea fu associata al terribile atto del figlicidio. La sua lettura
è l’occasione per mostrare l’attualità del dramma negli anni in cui fu
messo in scena e così esplorare alcuni caratteri della cultura greca. La
philía, per esempio, ovvero l’appartenenza a un gruppo di ‘amici’,
ospiti e congiunti, da cui ci si aspetta solidarietà: Giasone ne esclude
Medea quando la ripudia, giacché la considera una «concubina» priva di
diritti, proprio come avrebbe fatto un qualsiasi cittadino ateniese del
tempo nei confronti di una compagna straniera; conseguentemente, Medea,
«l’esclusa», può giustificare l’assassinio dei figli, che non sono più
‘suoi’ perché Giasone non li chiama mai ‘nostri’. E, ancora,
l’importanza della retorica, all’epoca rappresentata da Gorgia (al suo
Encomio di Elena la ‘sofista’ Medea è particolarmente debitrice), e
l’ottemperanza al codice eroico maschile da parte di una donna che
preferirebbe «tre volte imbracciare lo scudo piuttosto che partorire»
(un verso, questo, tra i più noti e fortunati del dramma).
Per il
mondo latino, Pucci si sofferma sulle Medee repubblicane, fondamentali
per comprendere lo sviluppo del racconto a Roma, ma di cui ci sono
rimasti solo frammenti: la Medea di Ennio, il Medus di Pacuvio e la
Medea sive Argonautae di Accio di cui – soprattutto grazie a Cicerone –
conosciamo bene le prime scene, con il celebre prologo e la descrizione
espressionistica della nave Argo che solca il mare. Seguono (prima di
Seneca, Valerio Flacco e Draconzio) le sfaccettate rappresentazioni
ovidiane: la maga delle Metamorfosi; la donna abbandonata delle Eroidi, e
quella vista con gli occhi della rivale, Ipsipile, che Giasone ha
lasciato per lei. Della Medea di Seneca, punto di riferimento per molti
moderni affascinati dal mito, Pucci offre una lettura «a una
dimensione», che mette al centro la ferocia, ma non trascura il tema del
nefas Argonautico (la colpa, cioè, di aver profanato il mare e
rovesciato così le leggi della natura). Anche in questo caso, la
tragedia è occasione di riflessione sulla cultura che l’ha espressa,
come mostrano, ad esempio, le considerazioni sul repudium (situazione
giuridica chiara, per cui i figli restano col padre e avranno una
matrigna) e quelle sui figli come pignora (pegni di un’alleanza di
sangue tra i coniugi).
Numerose davvero, e perciò qui solo
cursoriamente accennabili, le riprese moderne analizzate nel saggio,
dalle più note alle più, per così dire, esotiche: Pavese, Alvaro,
Pasolini e Maria Callas (forse un’autentica Medea moderna, anche grazie
alla sua vita tormentata: Pucci ricorda l’abbandono di Onassis e il
probabile aborto per cui finì sui tabloid quasi come ‘infanticida’); ma
anche la Medea da telenovela messicana di Arturo Ripstein e quella
ecologista dell’americano Robinson Jeffers. Oltre a queste, e a riprova
della fortuna del mito in diverse forme d’arte, mi piace ricordare anche
gli spunti che possono venire da un’analisi delle Medee nella danza
classica e contemporanea, da Noverre a Preljocaj, passando per le
sperimentazioni di Martha Graham: in esse il puro linguaggio del corpo
si fa immediata rappresentazione del cosiddetto ‘complesso di Medea’
discusso da Pucci.
La sezione sull’iconografia, pienamente
integrata nel tessuto argomentativo, consente di chiarire i rapporti tra
i testi e le arti figurative (molto belle le tavole a colori) e di
queste mette in luce il linguaggio. È il caso della composizione
‘sinottica’: l’artista introduce la sequenza temporale nello spazio
unico della rappresentazione, e così, su un cratere apulo del 320 a.C.,
sotto il riquadro che rappresenta la morte di Glauce già si vede il
carro pronto a portare via Medea da Corinto.
Per spiegare la
fascinazione ambivalente di questa figura inafferrabile Pucci ricorre,
insieme agli altri, ai necessari strumenti dell’antropologia: si
interroga sulla natura liminale di Medea, a metà tra l’umano e il
divino, ne indaga l’ambiguità connessa con la magia, esplora le ragioni
della sua marginalità difficile da integrare, tenta di interpretare il
figlicidio tenendo conto dell’androcentrismo che caratterizzava le
società antiche.
Almeno a partire dal V secolo a.C. Medea continua
a suscitare domande e a sfuggire alle risposte. La tensione in lei fra
umanità e alterità ne scatena una ‘simmetrica’ tra immedesimazione e
repulsione. Umana e terribilmente disumana. Insieme simile e ‘altra’,
donna e dea. E mentre ripete che «gli dèi sono differenti, cioè
indifferenti», la sua tremenda femminilità, così antica e così moderna,
sembra squarciare il velo dell’indifferenza divina. Un’altra
contraddizione, un altro enigma.