Il Fatto 8.11.17
Ecco perché Mussari suicidò Mps e nessuno disse (e dice) nulla
Come
nacque il disastro Antonveneta tra finanza cattolica, Opus Dei e
Vaticano Uno scandalo che nessuno fermò perché acquirenti, acquisiti e
controllori erano tutti legati
di Elio Lannutti e Franco Fracassi
Domani
esce in edicola e in libreria Morte dei Paschi (edito dalla nostra
Paper First) di Elio Lannutti e Franco Fracassi. Storia di come è stata
distrutta la più antica banca del mondo, i misteri (e le morti) che
circondano lo scandalo. Pubblichiamo una sintesi di come nacque
l’acquisto scellerato di Antonveneta, l’origine del disastro. In attesa
delle cronache giudiziarie, il quadro è la spiegazione limpida del
perché si distrusse la banca e perché nessuno disse nulla.
Nel
2005 Abn Amro era la più grande banca olandese e l’ottava in Europa per
capitalizzazione (68 miliardi e 300 milioni). Poi, sempre nel 2005,
acquistò Antonveneta, strappandola ai “capitani coraggiosi” amici
dell’ultracattolico presidente della Banca d’Italia, Antonio Fazio. Da
quel momento tutto cambiò. Nel giro di un anno la banca si trovò in
gravi difficoltà. E così, nessuno si stupì quando, il 19 marzo 2007, la
britannica Barclays annunciò di aver avviato una trattativa investendo
67 miliardi. Ma ai tavoli di poker c’è sempre chi rilancia. Il 29
maggio, un consorzio formato dalla prima e dalla seconda banca europea
(Banco Santander e Royal Bank of Scotland) e dalla prima banca belga
(Fortis), annunciò un’offerta di acquisto di Abn Amro, valutandola 71
miliardi e 100 milioni. Una cifra esagerata: prezzo maggiorato del 54,6%
sui valori di mercato. Santander avrebbe messo 19,9 miliardi. Era metà
luglio e i soldi andavano trovati entro pochi mesi. Rbs e Fortis avevano
avuto l’ok degli azionisti. Diversa era la situazione della banca
spagnola. Ricca quanto l’intero Prodotto interno lordo della Spagna è
guidata dal 1909 da una famiglia così cattolica da essere il punto di
riferimento della potentissima e ultra conservatrice organizzazione
massonica: l’Opus Dei. All’epoca dei fatti, a capo di Santander sedeva
Emilio Botin. Aveva due fari nella vita: fare tanti soldi e servire il
potere all’interno delle mura vaticane, anche se spesso “era il Vaticano
a chinarsi al cospetto del suo potere”, come spiegò a El Paìs il
cardinale di Milano, Carlo Maria Martini. Nessuno dei tre acquirenti
aveva denaro da spendere. Ma nel poker si può bluffare. E così l’8
ottobre 2007 diedero il lieto annuncio: l’Opa su Abn Amro era andata a
buon fine, ma i pagamenti e i passaggi di azioni erano ancora lontani.
Nella
trimestrale di Santander al 31 marzo, si legge la cifra che la banca
spagnola avrebbe dovuto investire (i 19 miliardi). Ma come faceva un
“rendiconto” a riportare dettagli di un’operazione che sarebbe dovuta
avvenire il 29 maggio? Nella stessa relazione si legge: “Santander
reperirà una prima tranche di 9 miliardi con un aumento di capitale”. I
restanti quasi 11 miliardi erano stati derubricati a “operazioni di
bilancio” e di “vendita di asset”. Un altro miliardo e 200 milioni
sarebbe stato ottenuto vendendo la quota di Intesa-San Paolo (1,79%)
detenuta da Santander dopo la fregatura rimediata con la fusione tra
Banca Intesa e San Paolo. E gli altri 13? Non fu il genere di problemi
che destò preoccupazione negli uffici di Basilea del Financial Stability
Forum (Fsf). I funzionari e il loro presidente (Mario Draghi), non
espressero nemmeno una perplessità sull’immensa e sconclusionata
fusione. Eppure, il Fsf era stato creato proprio per impedire operazioni
così. In quella operazione c’era solo un “ma”, rappresentato da
Antonveneta. Al momento dell’acquisto da parte di Abn Amro, era venuto
fuori che la banca padovana stava saltando. All’inizio del 2007, la
filiale di Padova di Bankitalia aveva scritto alla sede centrale che
Antonveneta era un buco nero. L’acquisizione aveva messo nei guai Abn
Amro e Santander rischiava di fare la stessa fine, cosa che Botin voleva
evitare. E per questo aveva un asso nella manica. Due anni prima, Botin
aveva cercato per due volte di scalare una banca italiana: la Popolare
di Bergamo e, soprattutto, San Paolo. Il premier Romano Prodi e il
banchiere Giovanni Bazoli gli avevano fatto saltare i piani. Santander
aveva il 10% di San Paolo. Con la fusione con Intesa, le azioni persero
valore (8 miliardi). Santander andava risarcita. E così, Botin passò
all’incasso.
All’inizio del 2007, il presidente di Abn Amro
Rijkman Groenink aveva proposto a Giuseppe Mussari del Monte, la fusione
tra i due istituti: non se ne fece nulla. Eppure, quando Botin si
rivolse a Gotti Tedeschi, suo proconsole in Italia per riscuotere da
Bazoli il credito promesso questi non ebbe esitazioni a indirizzarlo
verso Rocca Salimbeni e il suo dominus. E Mussari decise di trattare.
Cos’era cambiato? L’offerta era arrivata non più da un olandese, bensì
da un gruppo di potenti italiani legati al Vaticano e alla politica,
quella che contava. Mussari colse al volo l’occasione. Era ambizioso.
Aveva tre obiettivi: la presidenza dell’Abi, la presidenza dell’Istituto
opere religiose (lui che era ateo), il ministero dell’Economia. Al
governo c’erano Prodi e il centrosinistra. Avrebbe reso felici i
banchieri della finanza cattolica, alcuni dei quali molto influenti
nell’Abi, come Giovanni Bazoli. Avrebbe reso felice l’Opus Dei,
aprendogli le porte del Vaticano, facilitandogli la candidatura alla
presidenza dello Ior. Avrebbe reso felice Giulio Tremonti, tenendosi
aperta la possibilità di ricevere una poltrona nell’eventuale nuovo
governo. Avrebbe reso felici perfino Prodi e i vertici del Pd, tanto
innamorati delle fusioni bancarie.
Andrea Orcel di Merrill Lynch
era l’uomo chiave della trattativa (aveva gestito le più grandi fusioni
bancarie in Italia, ndr). In conflitto d’interessi, visto che Orcel
rappresentava Abn Amro nella trattativa con Rbs, Fortis e Santander.
La
stranezza più macroscopica fu però la totale assenza di una due
diligence su Antonveneta da parte di Mps. Si stavano spendendo miliardi
per acquistare un bene di cui non si conosceva lo stato. Mussari si
stava imbarcando nell’operazione senza conoscerne il motivo. “In nessun
momento mi spiegò quale era il suo interesse per acquisire Antonveneta”,
ha dichiarato Botin ai pm senesi. “Non ci furono riunioni con i
rappresentanti di Mps per negoziare la vendita di Antonveneta, ma si
trattò tutto per telefono, due o tre volte con Mussari”. Alla seconda o
terza telefonata Botin disse a Mussari: “Nove miliardi. Risposta entro
48 ore. Prendere o lasciare”. A questo punto il presidente del Monte,
secondo quanto ricostruito dalla Procura di Siena, “tentò di abbassare
il prezzo, ma lui era consapevole di essere in una posizione ottima per
mantenere il prezzo, dato l’enorme interesse che il compratore aveva”.
Tre telefonate al buio in due giorni (in che lingua, Mussari parla solo
italiano?) per decidere di sborsare oltre 9 miliardi per una banca che
nominalmente la stessa Santander avrebbe comprato a 6,6.
Nella
testimonianza resa ai pm dall’allora ad di Antonveneta, Pierluigi
Montani, si legge: “Dopo che Mussari e Vigni vennero a trovarmi per
definire i termini operativi del passaggio, mi rivolsi ai miei
collaboratori, che erano stati presenti al colloquio: ‘Voi che cosa
avete capito?. Risposta: questi non sanno cos’hanno comprato e non sanno
che ci devono dare 7,5 miliardi’”, in riferimento ai debiti accumulati
da Antonveneta con Abn Amro. Botin riferì, con esultanza, giorni dopo,
agli azionisti di Santander: “Non ci servono più 20 miliardi per Abn ma
solo 11, quindi l’aumento di capitale non è necessario”.
Il 17
marzo 2008 Bankitalia diede il via libera. L’operazione “non risulta in
contrasto con il principio della sana e prudente gestione”. Firmato,
Mario Draghi. Nonostante il prezzo esorbitante sborsato per Antonveneta,
gli infiniti bonifici avanti e indietro per il pagamento, i passaggi di
denaro senza senso intorno a Mps e la palese stranezza di tutta
l’operazione, la Banca d’Italia disse di sì. Eppure la legge obbligava
Bankitalia ad accertarsi che l’acquirente avesse spalle solide e che
fossero rispettati i criteri di sana e prudente gestione. Perfino dopo
che erano state palesemente ignorate, da parte di Mps, le
raccomandazioni ricevute nessuno intervenne. Mario Draghi, governatore
di Bankitalia, aspirava già a diventare presidente della Bce? Fu per
questo che delegò ad altri ogni decisione? Che fece finta di non vedere
nulla lasciando che Mussari suicidasse il Monte? Anche dal Fsf ci fu
solo silenzio. I simboli di questo disastro furono il direttore generale
e il capo della vigilanza di Bankitalia, Fabrizio Saccomanni e Anna
Maria Tarantola. La Tarantola, ascoltata dalla Procura di Siena, non
ricordò di aver incontrato i vertici di Mps nel corso della trattativa e
solo dopo che il pm, Giuseppe Grosso, le ebbe mostrato un appunto
scritto sull’agenda del direttore genetaledi Mps Antonio Vigni, in cui
si parlava chiaramente di una riunione avvenuta il 22 novembre 2007, la
dirigente ammise: “Ricordo l’incontro con il governatore Draghi. Eravamo
nel suo ufficio. E per Mps c’erano il presidente Mussari e il direttore
generale Vigni. I due illustrarono al governatore l’operazione. (…) Ci
raccomandammo con i vertici di Mps di fare per bene l’acquisizione”.
Anche
la Consob sapeva. Quando la Finanza sequestrò le carte in un armadio
nella sede di Santander, spuntarono anche alcune carte su Antonveneta,
con i nomi di chi supervisionò l’affare. Uno di questi era l’avvocato
Marco Cardia. All’epoca, suo padre, Lamberto, era presidente Consob.