mercoledì 8 novembre 2017

Il Fatto 8.11.17
Leader e dittature. Il vero pericolo della democrazia è la classe dirigente
risponde Furio Colombo

Analizzando il trascorrere della storia dopo l’ultimo conflitto mondiale, si può affermare che il nemico della democrazia siano le dittature. Ma oggi la realtà dei fatti evidenzia un’altra tesi: il vero pericolo della democrazia è dentro la democrazia stessa, vedi la salita al potere di figure quantomeno contraddittorie come Erdogan, Putin e Trump, personaggi indiscutibilmente antidemocratici. Un paradosso, perché niente è più democratico delle libere elezioni. Anche in Italia si intravedono prassi dirette a conseguire un sistema oligarchico: in Parlamento si è fatto uso con modo disinvolto dei regolamenti per elaborare una legge elettorale più idonea a tutelare i nominati dai notabili dei partiti a discapito della volontà degli elettori. Ecco che allora il concetto di democrazia viene meno, configurando come la democrazia per essere tale e compiuta abbia l’essenziale bisogno di una attenta e incessante evoluzione culturale e sociale. Quando questo processo politico viene a mancare, si instaura un inesorabile deterioramento che mina le fondamenta su cui si basa una solida democrazia popolare. Ma questa deriva istituzionale non sembra preoccupare minimamente l’indifferente classe dirigente che contraddistingue l’attuale panorama politico, il che è tutto dire.
Silvano Lorenzon

Caro Silvano Lorenzon,c’è una frase all’inizio della sua lettera che è il punto caldo (e cruciale) del discorso che le sta a cuore. Lei scrive: “Oggi la realtà dei fatti evidenzia un’altra tesi: il vero pericolo della democrazia è dentro la democrazia”. Seguono però tre esempi che non sostengono la sua argomentazione.
Erdogan, il presidente turco, non è al momento al potere per un processo democratico, ma dopo un colpo di Stato che si regge su decine di migliaia di prigionieri politici. Putin ha creato e controlla (da ex capo dei servizi segreti del suo Paese nel precedente regime) un suo meccanismo istituzionale che sembra fondato sul voto, ma si sostiene grazie a una nervatura di potere su cui chiunque abbia tentato di far luce non è sopravvissuto. Trump è alla Casa Bianca per libere elezioni democratiche, ma è contestato con forza non solo da quasi tutti i media americani (vere e proprie roccaforti di libertà democratica), ma anche da autorevoli personaggi del suo stesso partito, dal 60 per cento dell’opinione pubblica americana, da istituzioni che indagano su alcuni aspetti oscuri delle elezioni presidenziali. Negli Usa siamo dunque di fronte a una democrazia che resta forte e si difende bene.
Tutto ciò non basta a negare ciò che lei nota sulle vicende italiane (specialmente le più recenti) e, credo di poter dire, su vicende europee dello stesso basso livello (la questione catalana, l’abbandono degli emigranti). Non parlerei di indifferenza della classe dirigente, ma di classe dirigente scadente e coinvolta nel malaffare della cattiva politica. Il deterioramento della democrazia in cui viviamo c’è, ma non è inesorabile, nel senso di un non ritorno.
Io non credo che lei e io, mentre ci scambiamo queste righe di tensione e di ansia, siamo soli in Italia. È il Paese di Gramsci, Gobetti, dei fratelli Rosselli e non diventerà un’altra Polonia, un’altra Ungheria.
Furio Colombo

Il Fatto 8.11.17
“Assedio” ai pm che indagano sui carabinieri
Il procuratore di Massa Aldo Giubilaro
Interrogazioni in Parlamento e attacchi sui social dopo l’inchiesta sugli abusi in caserma
di Ferruccio Sansa

“I carabinieri di Aulla mi dicono che quando fermano i delinquenti, questi tirano fuori i numeri di telefono dei pm e minacciano di chiamarli”. Parola di Lucio Barani. È l’ultimo attacco del senatore e di Ala al pm che indaga sulle violenze nella caserma dell’Arma in Lunigiana: 4 interrogazioni parlamentari, Facebook e cortei con Maurizio Gasparri. L’accusa, infondata, è di non aver fatto partecipare un carabiniere arrestato ai funerali del padre. Poi di aver svelato segreti istruttori. Fino a una censura perché non aveva i calzini.
Il procuratore di Massa Aldo Giubilaro è sotto attacco. Con la pm Alessia Iacopini ha condotto l’inchiesta: 8 militari sottoposti a misure cautelari, 37 indagati. Ma contro i pm si schiera Barani, già sindaco di Aulla e seguace di Bettino Craxi cui dedicò una piazza. Poi è passato con Silvio Berlusconi e infine con Denis Verdini (originario della Lunigiana): “Io mi preoccupo della criminalità che ad Aulla dopo l’inchiesta è esplosa”, esordisce Barani. Poi sbotta: “Ci sono pm che per finire sui giornali indagherebbero la madre”. Barani, lei si è speso per i carabinieri indagati… “Sono andato a trovarli in carcere”. Ha telefonato ai vertici dei carabinieri? “Ho telefonato al generale Emanuele Saltalamacchia (comandante della Legione Toscana, ndr), al colonnello Valerio Liberatori (poi indagato, ndr), ma anche ad altri generali. E ora voglio parlare con i ministri Andrea Orlando e Roberta Pinotti. Ma solo perché sono preoccupato della sicurezza in Lunigiana. Non ho parlato di inchieste”, giura Barani, imputato a Massa per l’alluvione che colpì Aulla nel 2011 (due morti).
Dopo le prime notizie sui carabinieri indagati sono cominciati gli attacchi: il 15 giugno un’interrogazione di Barani con 14 parlamentari di Ala. Si chiede a Orlando e Pinotti se vogliano “accertare la sussistenza di un parallelo fascicolo secretato aperto dalla Procura nei confronti di appartenenti all’Arma, anche di grado elevato (ufficiali superiori e generali)”. Giubilaro viene censurato perché va in tribunale con abbigliamento “poco consono, in particolar modo per l’assenza dei calzini”. Come Raimondo Mesiano, il giudice che condannò Fininvest per il Lodo Mondadori, colpevole di avere i calzini azzurri. Il 26 luglio l’interrogazione di Gasparri: “L’opinione pubblica si è schierata con i carabinieri”. A settembre altra interrogazione di Ala. Dieci giorni dopo gli indagati salgono a 37, tra cui il colonnello Liberatori (favoreggiamento). Ai pm dice: il generale Saltalamacchia (non indagato) era contrario alle intercettazioni in caserma e telefonò a Giubilaro per dirglielo.
Barani torna alla carica con sei colleghi con la quarta interrogazione. E su Facebook: il 14 ottobre sulla sua bacheca compare la foto di un uomo anziano con il cagnolino. È il padre appena deceduto di Alessandro Fiorentino, carabiniere detenuto per l’inchiesta. Barani scrive: “Abbiamo perso ogni tipo di umanità. Vergogna. Un figlio non può piangere e partecipare al funerale del padre”. Giubilaro allarga le braccia: “Non è vero. Nessuno mi aveva detto che il padre di Fiorentino stava male, né è stata presentata istanza per consentire al figlio di andare al funerale”.

Il Fatto 8.11.17
Ecco perché Mussari suicidò Mps e nessuno disse (e dice) nulla
Come nacque il disastro Antonveneta tra finanza cattolica, Opus Dei e Vaticano Uno scandalo che nessuno fermò perché acquirenti, acquisiti e controllori erano tutti legati
di Elio Lannutti e Franco Fracassi

Domani esce in edicola e in libreria Morte dei Paschi (edito dalla nostra Paper First) di Elio Lannutti e Franco Fracassi. Storia di come è stata distrutta la più antica banca del mondo, i misteri (e le morti) che circondano lo scandalo. Pubblichiamo una sintesi di come nacque l’acquisto scellerato di Antonveneta, l’origine del disastro. In attesa delle cronache giudiziarie, il quadro è la spiegazione limpida del perché si distrusse la banca e perché nessuno disse nulla.
Nel 2005 Abn Amro era la più grande banca olandese e l’ottava in Europa per capitalizzazione (68 miliardi e 300 milioni). Poi, sempre nel 2005, acquistò Antonveneta, strappandola ai “capitani coraggiosi” amici dell’ultracattolico presidente della Banca d’Italia, Antonio Fazio. Da quel momento tutto cambiò. Nel giro di un anno la banca si trovò in gravi difficoltà. E così, nessuno si stupì quando, il 19 marzo 2007, la britannica Barclays annunciò di aver avviato una trattativa investendo 67 miliardi. Ma ai tavoli di poker c’è sempre chi rilancia. Il 29 maggio, un consorzio formato dalla prima e dalla seconda banca europea (Banco Santander e Royal Bank of Scotland) e dalla prima banca belga (Fortis), annunciò un’offerta di acquisto di Abn Amro, valutandola 71 miliardi e 100 milioni. Una cifra esagerata: prezzo maggiorato del 54,6% sui valori di mercato. Santander avrebbe messo 19,9 miliardi. Era metà luglio e i soldi andavano trovati entro pochi mesi. Rbs e Fortis avevano avuto l’ok degli azionisti. Diversa era la situazione della banca spagnola. Ricca quanto l’intero Prodotto interno lordo della Spagna è guidata dal 1909 da una famiglia così cattolica da essere il punto di riferimento della potentissima e ultra conservatrice organizzazione massonica: l’Opus Dei. All’epoca dei fatti, a capo di Santander sedeva Emilio Botin. Aveva due fari nella vita: fare tanti soldi e servire il potere all’interno delle mura vaticane, anche se spesso “era il Vaticano a chinarsi al cospetto del suo potere”, come spiegò a El Paìs il cardinale di Milano, Carlo Maria Martini. Nessuno dei tre acquirenti aveva denaro da spendere. Ma nel poker si può bluffare. E così l’8 ottobre 2007 diedero il lieto annuncio: l’Opa su Abn Amro era andata a buon fine, ma i pagamenti e i passaggi di azioni erano ancora lontani.
Nella trimestrale di Santander al 31 marzo, si legge la cifra che la banca spagnola avrebbe dovuto investire (i 19 miliardi). Ma come faceva un “rendiconto” a riportare dettagli di un’operazione che sarebbe dovuta avvenire il 29 maggio? Nella stessa relazione si legge: “Santander reperirà una prima tranche di 9 miliardi con un aumento di capitale”. I restanti quasi 11 miliardi erano stati derubricati a “operazioni di bilancio” e di “vendita di asset”. Un altro miliardo e 200 milioni sarebbe stato ottenuto vendendo la quota di Intesa-San Paolo (1,79%) detenuta da Santander dopo la fregatura rimediata con la fusione tra Banca Intesa e San Paolo. E gli altri 13? Non fu il genere di problemi che destò preoccupazione negli uffici di Basilea del Financial Stability Forum (Fsf). I funzionari e il loro presidente (Mario Draghi), non espressero nemmeno una perplessità sull’immensa e sconclusionata fusione. Eppure, il Fsf era stato creato proprio per impedire operazioni così. In quella operazione c’era solo un “ma”, rappresentato da Antonveneta. Al momento dell’acquisto da parte di Abn Amro, era venuto fuori che la banca padovana stava saltando. All’inizio del 2007, la filiale di Padova di Bankitalia aveva scritto alla sede centrale che Antonveneta era un buco nero. L’acquisizione aveva messo nei guai Abn Amro e Santander rischiava di fare la stessa fine, cosa che Botin voleva evitare. E per questo aveva un asso nella manica. Due anni prima, Botin aveva cercato per due volte di scalare una banca italiana: la Popolare di Bergamo e, soprattutto, San Paolo. Il premier Romano Prodi e il banchiere Giovanni Bazoli gli avevano fatto saltare i piani. Santander aveva il 10% di San Paolo. Con la fusione con Intesa, le azioni persero valore (8 miliardi). Santander andava risarcita. E così, Botin passò all’incasso.
All’inizio del 2007, il presidente di Abn Amro Rijkman Groenink aveva proposto a Giuseppe Mussari del Monte, la fusione tra i due istituti: non se ne fece nulla. Eppure, quando Botin si rivolse a Gotti Tedeschi, suo proconsole in Italia per riscuotere da Bazoli il credito promesso questi non ebbe esitazioni a indirizzarlo verso Rocca Salimbeni e il suo dominus. E Mussari decise di trattare. Cos’era cambiato? L’offerta era arrivata non più da un olandese, bensì da un gruppo di potenti italiani legati al Vaticano e alla politica, quella che contava. Mussari colse al volo l’occasione. Era ambizioso. Aveva tre obiettivi: la presidenza dell’Abi, la presidenza dell’Istituto opere religiose (lui che era ateo), il ministero dell’Economia. Al governo c’erano Prodi e il centrosinistra. Avrebbe reso felici i banchieri della finanza cattolica, alcuni dei quali molto influenti nell’Abi, come Giovanni Bazoli. Avrebbe reso felice l’Opus Dei, aprendogli le porte del Vaticano, facilitandogli la candidatura alla presidenza dello Ior. Avrebbe reso felice Giulio Tremonti, tenendosi aperta la possibilità di ricevere una poltrona nell’eventuale nuovo governo. Avrebbe reso felici perfino Prodi e i vertici del Pd, tanto innamorati delle fusioni bancarie.
Andrea Orcel di Merrill Lynch era l’uomo chiave della trattativa (aveva gestito le più grandi fusioni bancarie in Italia, ndr). In conflitto d’interessi, visto che Orcel rappresentava Abn Amro nella trattativa con Rbs, Fortis e Santander.
La stranezza più macroscopica fu però la totale assenza di una due diligence su Antonveneta da parte di Mps. Si stavano spendendo miliardi per acquistare un bene di cui non si conosceva lo stato. Mussari si stava imbarcando nell’operazione senza conoscerne il motivo. “In nessun momento mi spiegò quale era il suo interesse per acquisire Antonveneta”, ha dichiarato Botin ai pm senesi. “Non ci furono riunioni con i rappresentanti di Mps per negoziare la vendita di Antonveneta, ma si trattò tutto per telefono, due o tre volte con Mussari”. Alla seconda o terza telefonata Botin disse a Mussari: “Nove miliardi. Risposta entro 48 ore. Prendere o lasciare”. A questo punto il presidente del Monte, secondo quanto ricostruito dalla Procura di Siena, “tentò di abbassare il prezzo, ma lui era consapevole di essere in una posizione ottima per mantenere il prezzo, dato l’enorme interesse che il compratore aveva”. Tre telefonate al buio in due giorni (in che lingua, Mussari parla solo italiano?) per decidere di sborsare oltre 9 miliardi per una banca che nominalmente la stessa Santander avrebbe comprato a 6,6.
Nella testimonianza resa ai pm dall’allora ad di Antonveneta, Pierluigi Montani, si legge: “Dopo che Mussari e Vigni vennero a trovarmi per definire i termini operativi del passaggio, mi rivolsi ai miei collaboratori, che erano stati presenti al colloquio: ‘Voi che cosa avete capito?. Risposta: questi non sanno cos’hanno comprato e non sanno che ci devono dare 7,5 miliardi’”, in riferimento ai debiti accumulati da Antonveneta con Abn Amro. Botin riferì, con esultanza, giorni dopo, agli azionisti di Santander: “Non ci servono più 20 miliardi per Abn ma solo 11, quindi l’aumento di capitale non è necessario”.
Il 17 marzo 2008 Bankitalia diede il via libera. L’operazione “non risulta in contrasto con il principio della sana e prudente gestione”. Firmato, Mario Draghi. Nonostante il prezzo esorbitante sborsato per Antonveneta, gli infiniti bonifici avanti e indietro per il pagamento, i passaggi di denaro senza senso intorno a Mps e la palese stranezza di tutta l’operazione, la Banca d’Italia disse di sì. Eppure la legge obbligava Bankitalia ad accertarsi che l’acquirente avesse spalle solide e che fossero rispettati i criteri di sana e prudente gestione. Perfino dopo che erano state palesemente ignorate, da parte di Mps, le raccomandazioni ricevute nessuno intervenne. Mario Draghi, governatore di Bankitalia, aspirava già a diventare presidente della Bce? Fu per questo che delegò ad altri ogni decisione? Che fece finta di non vedere nulla lasciando che Mussari suicidasse il Monte? Anche dal Fsf ci fu solo silenzio. I simboli di questo disastro furono il direttore generale e il capo della vigilanza di Bankitalia, Fabrizio Saccomanni e Anna Maria Tarantola. La Tarantola, ascoltata dalla Procura di Siena, non ricordò di aver incontrato i vertici di Mps nel corso della trattativa e solo dopo che il pm, Giuseppe Grosso, le ebbe mostrato un appunto scritto sull’agenda del direttore genetaledi Mps Antonio Vigni, in cui si parlava chiaramente di una riunione avvenuta il 22 novembre 2007, la dirigente ammise: “Ricordo l’incontro con il governatore Draghi. Eravamo nel suo ufficio. E per Mps c’erano il presidente Mussari e il direttore generale Vigni. I due illustrarono al governatore l’operazione. (…) Ci raccomandammo con i vertici di Mps di fare per bene l’acquisizione”.
Anche la Consob sapeva. Quando la Finanza sequestrò le carte in un armadio nella sede di Santander, spuntarono anche alcune carte su Antonveneta, con i nomi di chi supervisionò l’affare. Uno di questi era l’avvocato Marco Cardia. All’epoca, suo padre, Lamberto, era presidente Consob.

Il Fatto 8.11.17
Mps, la tempesta perfetta: vigilanza e governo tremano
Perdite nascoste: tre inchieste fanno emergere sempre più le sviste dei controllori. Poi c’è la Commissione...
di Carlo Di Foggia

È inutile girarci intorno, le avvisaglie ci sono tutte: il groviglio giudiziario sul Monte dei Paschi di Siena è una tempesta perfetta che può rovesciare le cronache bancarie degli ultimi anni e travolgere i suoi attori. A oscurare il cielo ci ha già pensato la commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche. Giovedì ha regalato un assaggio – la figuraccia di Bankitalia e Consob sulle popolari venete – di cosa può succedere. Ed è nulla al confronto del caso Mps.
Il quadro. I processi nascono tutti dall’inchiesta sulla disastrosa acquisizione nel 2007 di Antonveneta, pagata tre volte il suo valore. Bankitalia – governatore Mario Draghi – sapeva che Giuseppe Mussari stava suicidando l’istituto perché aveva appena fatto un’ispezione in Antonveneta, ma decise di rispettare la privacy del venditore, il capo del Santander Emilio Botin. Al centro dei processi ci sono però i trucchi con i derivati Alexandria e Santorini per occultare le perdite. E la loro contabilizzazione a bilancio può dare il via al terzo e più esplosivo filone. La linea di difesa degli imputati è unanime: Banca d’Italia sapeva tutto. E in questo quadro ogni procedimento è una via crucis per via Nazionale.
Andiamo con ordine. L’agenzia Bloomberg giovedì sgancia la prima bomba: al processo milanese che vede alla sbarra gli ex vertici di Mps (Mussari e il dg Antonio Vigni in testa) e alcuni manager di Deutsche Bank e della giapponese Nomura per aggiotaggio, falso in bilancio e ostacolo alla vigilanza è emerso che Bankitalia sapeva fin dal 2010 che Mps aveva occultato 370 milioni di perdita su Santorini strutturando un derivato con la banca tedesca con cui incassava un utile di pari importo spalmando il “rosso” su più anni. Tutto riassunto in un report del 17 settembre 2010. Un alto dirigente di via Nazionale ha ammesso in aula che la mancata valorizzazione a prezzi di mercato (mark to market) dell’operazione permise di non svelare la perdita nel 2008, cosa che avrebbe cambiato la storia degli ultimi anni. Bankitalia si limito a riservarsi “approfondimenti” e non informò i pm, che ne vennero a conoscenza un paio d’anni dopo.
Palazzo Koch ha sempre sostenuto di non aver trovato nulla da segnalare nelle ispezioni del 2010, ma i conti non tornano. Nel verbale ispettivo – visto dal Fatto – la vigilanza che staziona a Siena da maggio ad agosto inserisce un capitolo finale in cui nota le anomalie dell’operazione simmetrica con Deutsche Bank: “Il Btp/repo di dicembre 2008 era contemporaneo a un altro di pari importo nominale intercorso con la stessa Deutsche e la controllata Santorini (…) il positivo esito finale della seconda operazione veniva a compensare le perdite allora in formazione in un collared equity swap tra i medesimi soggetti”. E mancano ancora diverse udienze prima della sentenza…
Sentenza che invece è attesa il 7 dicembre a Firenze al processo d’appello che vede imputati sempre Mussari e Vigni (condannati in primo grado a 3 anni e 6 mesi per ostacolo alla vigilanza). L’accusa è di aver occultato la ristrutturazione di Alexandria fatta con Nomura e mascherata con due operazioni legate all’acquisto di titoli di Stato italiani per miliardi di euro, fatte lo stesso giorno e con coincidenze inequivocabili. Gli ispettori che entrano al Monte a settembre 2011 guidati da Giampaolo Scardone (ispezionerà poi Pop Vicenza senza notare il bubbone del capitale finanziato con i prestiti) notano la coincidenza: “L’equiparazione nella sostanza, piuttosto che nella forma, a un Cds (derivato, ndr) era parsa l’unica soluzione plausibile”, ha spiegato Scardone, ma mancava “una prova provata che le due operazioni andassero insieme”. Prova che arriverà solo a ottobre 2012, quando Alessandro Profumo (presidente) e l’ad Fabrizio Viola scopriranno il contratto con Nomura (“mandate agreement”) nella cassaforte di Vigni (svelato dal Fatto a gennaio 2013).
Nell’arringa finale, giovedì i legali degli imputati hanno spiegato che furono dati agli ispettori tutti i documenti per capire Alexandria, come i deed, gli atti esecutivi del contratto. Se Mussari ha commesso l’ostacolo alla vigilanza, questa sembra farsi ostacolare. I guai che emergono nel 2011 sono infatti così grossi che a novembre – a ispezione in corso e con Draghi appena volato in Bce – Ignazio Visco “fa fuori” Mussari e Vigni e spedisce a Siena Profumo e Viola. In primo grado sono state dimezzate le richieste della procura. Un’altra limatura metterebbe in serio imbarazzo Bankitalia.
Ma l’imbarazzo supremo può arrivare il 10 novembre, quando a Milano il gup deciderà se rinviare a giudizio Viola e Profumo per falso in bilancio per la contabilizzazione a “saldi aperti” di Alexandria e Santorini. L’inchiesta, partita a gennaio 2016, si era conclusa con la richiesta di archiviazione dei pm, ma la procura generale l’ha avocata portando all’imputazione coatta: i due sono accusati di aver continuato a contabilizzare miliardi di derivati come titoli di Stato dal 2012 al 2015. Cosa rilevante perchè su quei bilanci è stato concesso il prestito statale da 4 miliardi dei “Monti bond” nel 2012 e sono stati chiesti (e persi) 8 miliardi al mercato. Per i consulenti della procura Corielli e Tasca, probabilmente il prestito non poteva andare in porto senza colpire anche i soci Mps (tra cui la Fondazione Mps). Bankitalia e Consob sapevano, eppure pochi giorni fa si è scoperto che i due sono indagati anche per “ostacolo alla vigilanza” in un filone anch’esso appena chiuso. Segnale dei timori per un processo esplosivo. Ed è solo l’inizio. E poi c’è la commissione banche…

Il Fatto 8.11.17
Il cannolo siciliano
di Silvia Truzzi

Breve apologo di come il cannolo può andare di traverso, ovvero di come il voto in Sicilia ha fatto saltare i calcoli tattici alla base dell’accordo tra Pd, Forza Italia, Lega (e la fu Ap del fu Alfano) sulla legge elettorale. I furbetti dell’accordino, lato sinistro, ieri hanno avuto un brutto risveglio. L’idea dell’ennesimo governo di larghe intese – o, come più elegantemente chiamano l’inciucio, governo del Presidente – con il Pd alla guida è ormai del tutto improbabile. Lunedì, per dire, a risultati acquisiti i democratici si sono accorti con sgomento che, in Sicilia, perderebbero tutti i collegi anche alleati con la sinistra aggregata (Mpd, Possibile, Campo progressista): la vittoria andrebbe o ai candidati di centrodestra o a quelli dei Cinque Stelle. Ieri su Avvenire Arturo Parisi, oltre a ribadire ciò che su questo giornale ripetiamo da settimane (quelle Rosatellum non sono coalizioni per il governo, ma alleanze strumentali) spiegava con chiarezza che “La nuova legge prevede che ogni partito cerchi di conquistare il maggior numero di seggi, per consentire al proprio segretario di sedersi al tavolo della trattativa post-elettorale e portare a casa il massimo possibile. (…) Suggerisco ai politici di misurare le parole. Sorridere a tutti i possibili alleati. Limitarsi ad attaccare solo chi si esclude in modo assoluto da ogni forma di negoziato”. Su Renzi: “La condotta sulla legge elettorale, più che una causa delle sue difficoltà ne è il segno più sicuro”.
Invece il segretario ieri, oltre ad avvisare chi lo vuol mettere da parte che non cederà di un centimetro, ha detto: “Se il Pd fa il Pd e smette di litigare al proprio interno possiamo raggiungere, insieme ai nostri compagni di viaggio, la percentuale che abbiamo preso nelle due volte in cui io ho guidato la campagna elettorale: il 40 per cento, raggiunto sia alle Europee che al Referendum”. Ora, a parte la tenerezza che suscita l’ostinazione con cui rivendica una delle sconfitte più clamorose della storia politica recente, riflettiamo su quel numeretto magico, il 40 per cento. Che ci riporta all’Italicum, sciagurata legge elettorale pensata in tandem con l’altrettanto sciagurata riforma costituzionale che avrebbe abolito il Senato elettivo, così tanto che fu prevista solo per Montecitorio e non per Palazzo Madama: l’inizio di una serie di errori, dettati più da avventato cinismo che da inettitudine. La Consulta ha dichiarato incostituzionale il medesimo Italicum e dopo si è ripetuta la stessa dinamica malata, ovvero ritagliare la legge elettorale esclusivamente sulla base dei rapporti di forza di quel preciso momento. L’Italicum era tarato sulla vittoria alla Europee del Pd (il premio di maggioranza scattava al 40%), così come gli astrusi magheggi del Rosatellum sono stati inventati contro M5s e Mdp, guardando i sondaggi. In entrambi i casi l’arroganza del governo ha imposto il voto di fiducia su una legge che invece necessita del massimo della discussione possibile. Si dice che è irrealistico che i partiti non pensino ai loro interessi mentre scrivono le regole delle competizioni elettorali. Vero, però esiste anche l’interesse generale ad avere una legge elettorale chiara, corretta, giusta. Interesse del tutto ignorato. L’effetto paradosso è che si è voluto approvare il Rosatellum alla vigilia del voto (in barba al Codice di buona condotta del Consiglio d’Europa): ora non c’è tempo nemmeno per un’eventuale pronuncia della Consulta (va detto che la Corte non può diventare l’insegnate di sostegno del Parlamento, incapace di produrre norme legittime: è ormai una prassi ed è aberrante). Come avevamo previsto, c’è la forte possibilità che il Rosatellum si riveli un boomerang per i partiti che avrebbe dovuto aiutare: quando si scelgono le scorciatoie capita di finire nei vicoli ciechi.

Repubblica 8.11.17
Sicilia, prove per il Nord
di Ilvo Diamanti

LA SICILIA non è l’Italia. Storicamente e politicamente, è un contesto specifico. È difficile leggerlo come riassunto delle tendenze che si affermano nel Paese. Tuttavia, è difficile non valutare il voto di domenica in questa prospettiva.
PERCHÉ, in Italia, non esiste un voto che non abbia riflessi politici “nazionali”. Tanto più se mancano pochi mesi alle elezioni politiche “nazionali”. Quando tutte le elezioni diventano passaggi cruciali della campagna elettorale. In particolare quelle siciliane. Dove 5 anni fa si era affermato Rosario Crocetta, candidato del Centrosinistra. Davanti a Nello Musumeci, a capo del Centro-destra. E a Giancarlo Cancelleri, candidato del Movimento 5 Stelle. Il primo importante successo del “partito di Grillo” (per citare un recente libro del Mulino, curato da Piergiorgio Corbetta) in una elezione di rilievo nazionale.
Cinque anni dopo, i soggetti politici concorrenti sono simili, se non gli stessi. Come alcuni dei principali candidati. Quel che è, sicuramente, cambiato è il risultato. Ma anche il ruolo — e il peso — dei concorrenti. Il Centrosinistra, in particolare: ha perso. Nettamente. Mentre ha vinto il Centro-destra, guidato, come cinque anni prima, da Musumeci. Un leader di “destra”, più che di Centro. Formatosi nel Msi. Cancelleri, come cinque anni prima, esce sconfitto. Anche se il M5s è sempre il primo partito in Sicilia. In particolare, nelle province occidentali. Il vero sconfitto, in Sicilia, è, dunque, il Centrosinistra, guidato da Fabrizio Micari. Il Pd. Ma anche Mdp, che non ha aggiunto molto al bacino elettorale di Claudio Fava. D’altronde Micari e Fava, insieme, non avrebbero raggiunto il 25%. Ben lontani dalla Destra e dal M5s. L’intesa con Alfano, in questo caso, non ha portato molti benefici. A conferma di una tendenza non solo siciliana. Il declino dei progetti e dei soggetti “moderati”. Le elezioni in Sicilia offrono, al proposito, indicazioni interessanti sulle prospettive del Centro-Destra. Meglio: della Destra. Vista l’impronta specifica del nuovo presidente. Micari, invece, ha una biografia poco politica. E molto universitaria. Anche per questo ha perduto. Anche per questo, al contrario, ha vinto Musumeci. Dopo il passaggio a vuoto delle precedenti elezioni. Quando il Centro- destra aveva perso, per la prima e unica volta, nel corso della Seconda Repubblica. Perché interpretava la Destra senza il Centro. Vista la divisione con le liste collegate a Forza Italia. Guidate da Micciché. Così, il Centrosinistra, guidato da Crocetta si affermò. Grazie alla presenza, in coalizione, dell’Udc. Determinante (come rammenta il Centro italiano studi elettorali della Luiss), perché veicolò l’11% dei voti validi. Sul 30% totale. Nel 2017 il Centrodestra è tornato a marciare unito, dall’Udc a FI, fino ai Fratelli d’Italia e a Noi con Salvini. E la sfida tra i due blocchi tradizionali del bipolarismo italiano non ha avuto storia. Così, Nello Musumeci è divenuto il nuovo presidente della Regione siciliana, con circa il 40% dei consensi. Oltre il doppio, rispetto al rivale di Centrosinistra, Fabrizio Micari. Ha superato di 5 punti Giancarlo Cancelleri, candidato del M5s. Grande favorito fino a qualche tempo fa. Paga i limiti del M5s nelle elezioni amministrative. Quando entra in gioco il rapporto con il territorio. Con gli interessi e i sistemi locali. Come in Sicilia, appunto. Dove Musumeci e il Centro-destra hanno schierato 350 candidati, che hanno attratto, nelle liste di sostegno, il 42% dei voti.
Ma il M5s è, dichiaratamente, un Non-Partito. Evita ed esorcizza ogni coalizione. Mentre il Centro- Destra è riuscito, in questo caso, a formare una coalizione. A canalizzare voti ed elettori di provenienza diversa. Attorno a una figura riconosciuta. Dal profilo marcato. In grado di rispondere all’insoddisfazione sociale ed economica degli elettori. È lecito sostenere, per questo, come ha fatto il Cise della Luiss, che il voto di preferenza-scambio ha battuto il voto di opinione e di protesta. Perché il peso del “voto di protesta” aumenta in rapporto diretto con la partecipazione elettorale. Mentre quando la partecipazione si riduce, come in questa occasione, cresce l’importanza delle reti di relazioni personali e locali. Il peso del “voto di scambio”.
Il voto in Sicilia, per quanto specifico, offre, comunque, indicazioni interessanti, per delineare — e immaginare — il futuro del Centro-destra.
Sottolinea, anzitutto, l’importanza di riuscire a coalizzare tutto. Quel che sta al di là dei (post)comunisti. Un marchio che Berlusconi ha usato, con successo, fin dai tempi della sua “discesa in campo”. Nel 1994. Quando ha mobilitato e aggregato, contro il Nemico, tutto e tutti. Dai cosiddetti moderati fino alla destra post (e, perché no?, neo) fascista. Perché divisi si perde. E, comunque, dare rappresentanza ai ri-sentimenti più estremi è utile. In tempi di disagio sociale, economico. E democratico. Per affermarsi contro la Sinistra, più o meno moderata, bisogna rivolgersi anche alle frazioni della Destra ultrà. Soprattutto nei contesti metropolitani. Come mostrano i risultati ottenuti da CasaPound nelle elezioni a Ostia. Ostentare un volto duro serve, inoltre, ad attirare gli elettori impauriti. Dalla crisi, dagli altri che ci invadono. Dal mondo che ci assedia. Così la Destra può sfidare la Sinistra, senza mèta e senza identità, descritta ieri, con efficacia, da Ezio Mauro. Ma può, al tempo stesso, sfidare il Non-Partito sul suo stesso terreno.
Unico, serio problema: la leadership. Il Capo. Su base locale, trovare accordi è possibile. Diverso quando si sale di scala. Fino all’ambito nazionale. Berlusconi: ha fatto il suo tempo. Un altro come lui: non c’è.
Le elezioni siciliane, infine, sono utili se proiettate sulle prossime elezioni. Ai tempi di Rosatellum. Perché, per vincere, nei collegi uninominali, serve radicamento. Ma anche capacità di coalizione. Come ha dimostrato il Centrodestra, guidato dalla Destra, in Sicilia. Uno scenario che si può riprodurre anche a Nord, sulla spinta dei Forza-leghisti.
Mentre a Centro-sinistra, oggi, l’Unità è solo un (bel) ricordo…

Il Fatto 8.11.17
Caro Matteo, la rana di Fedro alla fine esplose
di Luisella Costamagna

“La sconfitta ha qualcosa di positivo: non è definitiva. In cambio, la vittoria ha qualcosa di negativo: non è mai definitiva”. Se Matteo Renzi leggesse Josè Saramago, invece dei tanti incensatori-ventriloqui che continuano imperterriti a pompare il suo ego ipertrofico, non rischierebbe di fare la fine della rana della favola di Fedro, che a forza di gonfiarsi esplose. Nel 2012 il suo pigmalione Giorgio Napolitano disse di non aver sentito nessun boom dei grillini nelle elezioni amministrative anche siciliane: oggi possibile che il Fonzie di Rignano non senta il bum che gli arriva dall’isola? No, niente da fare.
Ammette sì, tramite la Sibilla renziana Meli, che “la sconfitta è netta”, ma “tutto come previsto, il risultato è quello che ci aspettavamo” e se pure “cercano di mettermi da parte, non mollo”. Anche perché la colpa mica è sua, ma di Grasso che non ha accettato la candidatura (e poi st’ingrato ha pure lasciato il Pd) e della “trappola degli scissionisti” Bersani e D’Alema che, dopo “la cilecca in Sicilia”, se ora decidessero di correre da soli pure alle politiche, si prenderebbero “una responsabilità non da poco”.
Maledetti vetero-comunisti che non hanno digerito il fidanzamento siciliano con Alfano e adesso non vogliono accompagnarlo all’altare da Berlusconi! Niente da fare, Renzi come Fonzie non riesce a dire “ho sbagliato”, non riesce a fare mea culpa: “sei stato tu, sei stato tu” ripete mulinando il dito accusatorio a 360 gradi mentre si gonfia e gonfia.
Ancora aggrappato al 40% delle europee 2014, quando gli italiani ancora non lo conoscevano bene e furono “conquistati” con gli 80 euro in busta paga, ha rimosso tutte le sconfitte elettorali degli ultimi tre anni fino alla Sicilia. Regionali 2015: la batosta epocale di Lady Like Moretti in Veneto e della Paita nella rossa Liguria del decennale Pd Burlando. Comunali 2016: la conquista grillina della Roma rutellian-veltronian-mariniana e di Torino, con Fassino Appendino al chiodo. Fino alla storica dèbacle al referendum del 4 dicembre quando, invece della luna del 60% degli italiani che gli hanno detto NO, ha preferito il dito del 40% come se fosse ancora il 2014.
Non che non sia apprezzabile vedere sempre e solo il bicchiere mezzo pieno, non scoraggiarsi e ripetere con Simona Ventura “Crederci sempre, arrendersi mai” o eleggere a manifesto “L’ottimismo è il profumo della vita” dello spin-doctor Farinetti. Ma qui – nella Penisola dei Leader Famosi – il calice renziano sembra ormai a secco e se gocce di qualcosa ci sono ancora, non sembrano di acqua dissetante bensì di assenzio obnubilante.
In questo ingiustificato delirio d’onnipotenza, di cui – ripeto – non è l’unico responsabile (chi nel suo partito e su stampa e tv continua a dirgli “gonfiati, gonfiati”?), c’è però – sono sicura – uno squarcio di verità e pentimento reale.
Possiamo scommettere che, tra i tanti errori commessi che non vuole vedere, ci sia una decisione che ammette sia stata uno sbaglio madornale, al punto da non dormirci la notte: essersi dimesso da premier. “Tornassi indietro col cavolo che lo farei” – si sente distintamente ad ogni stazione ferroviaria del suo tour elettorale, ormai sorta di Via Crucis – e giù a mangiarsi le mani. Di questo passo infatti, quando gli ricapita?

La Stampa 8.11.17
Gotor: Renzi in tv
“Era in modalità Fonzie. Sempre lo stesso copione”
di Francesca Schianchi

«Renzi era in modalità Fonzie. Quando è così mi diverte: gli si chiede un’autocritica e non riesce a farla. Ma ci sono altre due cose che mi hanno colpito».
Quali, senatore Gotor?
«Lo stile: recita sempre lo stesso copione. Non si rende conto che ormai può avere stancato».
Seconda cosa?
«Il tentativo di inseguire il M5S sul terreno della lotta anti casta. È un errore politico di fondo, dopo aver governato per tre anni. Non si possono sempre fare tutte le parti in commedia».
Detto questo, ha ribadito la proposta di coalizione «senza mettere veti»: come risponde?
«Renzi ha piena legittimità a rivendicare il Jobs Act, ma se noi lo riteniamo sbagliato è difficile trovare un punto di incontro sui programmi».
Dice che il problema tra voi non è di natura personale: su questo è d’accordo?
«Su questo, assolutamente sì. Descrivere la politica come un problema di risentimenti personali è un racconto pigro e insufficiente».

Il Sole 8.11.17
Caos a sinistra, Renzi si blinda nel Pd
Mdp chiude la porta e si compatta su Grasso. Ma i «pontieri» sono al lavoro per ricucire
Dopo il voto in Sicilia. «Il premier? Lo decide il Capo dello Stato dopo il voto»
Il Colle sulle voci di urne a maggio: «Pura fantasia»
di Emilia Patta

Roma Il passo indietro per riunire il centrosinistra sotto altra premiership? «Sono mesi che cercano di mettermi da parte, ma non ci riusciranno nemmeno stavolta». Matteo Renzi tira dritto e non intende farsi immolare da chi «è contro il Pd» sull’altare dell’unità a sinistra. E lancia un chiaro messaggio ai suoi, in fibrillazione dopo l’annunciata sconfitta in Sicilia, anche in relazione al fatto che le liste elettorali le farà la segreteria: «Da un lato c’è Berlusconi, dall’altro Grillo: due schieramenti pieni di estremisti e populisti. Noi siamo nel mezzo. Con la direzione nazionale del 13 inizia la campagna elettorale. Quello che deve essere chiaro è che io non posso essere il segretario dei caminetti tra correnti, degli equilibri e dei bilancini: io sono perché tutti nel Pd si sentano a casa, rispettando il pluralismo e mettendo i migliori in lista».
Renzi punta dunque a blindarsi nel partito con la direzione del 13 novembre (nel “parlamentino” del Pd i renziani hanno la maggioranza assoluta) e si tiene il più lontano possibile dalla questione della premiership, rilanciata da molti all’interno del Pd. Da ultimo dal capogruppo del Pd in Senato Luigi Zanda, che invita Renzi a «decidere di spezzare l’indentificazione prevista dal nostro statuto tra segretario e candidato premier. Lo ha fatto un anno fa con Gentiloni e ha funzionato, ha fatto bene al partito, al Paese e a Renzi stesso». E financo dal capogruppo dei deputati dem Ettore Rosato, pure molto vicino a Renzi: «Gentiloni è un nome spendibile. Fermo restando che il candidato premier del Pd è Renzi». Il ragionamento di molti nel Pd è che, con il nuovo sistema elettorale che incentiva le coalizioni nei collegi, la scelta del candidato premier diventa una scelta comune da fare con gli alleati. E un nome diverso da quello di Renzi sarebbe meno divisivo agli occhi della “cosa” che si sta costruendo a sinistra del Pd. Anche per questo qualcuno immagina elezioni a maggio invece che a marzo, proprio per dare il tempo di costruire una diversa premiership: tutte ipotesi, in ogni caso, bollate come «pura fantasia» da fonti del Quirinale.
Un ragionamento, quello sulla premiership degli anti-renziani di ogni sfumatura, che viene rovesciato da Renzi e dai suoi: proprio perché la legge elettorale non richiede l’indicazione del candidato premier(il Rosatellum prevede l’indicazione del capo del partito, non del capo della coalizione) non esiste un problema legato al candidato premier del centrosinistra. «Renzi sarà il capofila della lista Pd, legittimato dal voto delle primarie – detta il senatore Andrea Marcucci, fedelissimo del segretario –. Il premier si vedrà dopo le elezioni, a seconda dei numeri che le diverse forze politiche potranno vantare». E Renzi stesso, partecipando in serata alla trasmissione Di Martedì di Giovanni Floris su La 7, ribadisce il concetto descrivendo la discussione sulla premieship come surreale: «Il potenziale premier lo sceglie il presidente della Repubblica dopo il voto, è così dopo la sconfitta del referendum costituzionale purtroppo».
Quanto al dialogo con i bersaniani di Mdp, invocato tra gli altri dal fondatore del Pd Walter Veltroni(«le persone responsabili della sinistra dovrebbero capire che sia pur non amandosi devono stare insieme»), la porta al momento resta chiusa proprio per volontà degli scissionisti, anche se i pontieri del Pd sono al lavoro in queste ore per tentare di ricucire, da Lorenzo Guerini e Matteo Richetti a Graziano Delrio. «Lavoriamo per dare una casa al popolo progressista che non si riconosce più nelle politiche sbagliate del Pd», dice infatti Roberto Speranza al termine della direzione del movimento. E Pier Luigi Bersani parla a sua volta di «rottura profonda» con il Pd renziano. Insomma, Mdp marcia verso una lista unica a sinistra del Pd, e alternativa al Pd, assieme a Sinistra italiana di Nicola Fratoianni e a Possibile di Pippo Civati. E guarda a Pietro Grasso come leader di quest’area.
Come possibile alleato a sinistra del Pd resta solo Giuliano Pisapia, ma il voto siciliano sembra aver approfondito il solco con il Pd. Con o senza i bersaniani, per Renzi comunque la coalizione c’è e ci sarà: «Già oggi siamo in coalizione, e siamo pronti ad allargare ancora al centro e alla nostra sinistra». Con ci sta, insomma. E il segretario dem, a un anno dal quel 41% di sì alla riforma, ha ancora quel perimetro in mente: «Possiamo raggiungere, assieme ai nostri compagni di viaggio, quel 40% raggiunto sia alle europee che al referendum».

La Stampa 8.11.17
Mdp si compatta su Grasso
“I renziani lo temono”
di Francesca Schianchi

«Il dibattito sui candidati premier è solo tatticismo. Con il Pd siamo a una rottura che si risolve andando nel profondo: chiedo al Pd, rivendicate ancora le cose fatte?». La chiusura di Mdp alla proposta di coalizione dei dem arriva dalle parole di Pier Luigi Bersani. Un no all’ipotesi di fare la “gamba di sinistra” di un’alleanza che abbia il partito di Renzi come perno, anche nell’improbabile ipotesi di un cambio di cavallo nella corsa alla premiership, a favore di Paolo Gentiloni: «Ha segato il referendum sui voucher e messo otto fiducie sulle legge elettorale», lo boccia l’ex ministro. «Se è in grado, il Pd faccia proposte serie sui temi cruciali, a Genova e in tanti altri posti si è perso anche da alleati», la sfida lanciata da Bersani ai pontieri come Dario Franceschini e Andrea Orlando. Parole sottolineate dagli applausi, ieri alla Direzione di Mdp convocata per presentare il programma che - a partire dalla richiesta di cancellare il Jobs act - deve riunirli sotto lo stesso tetto con Sinistra italiana, Possibile, e gli autoconvocati del Brancaccio di Falcone e Montanari. Una lista di sinistra che aspetta solo di poter ufficializzare il leader: il presidente del Senato Pietro Grasso.
«Per il nostro profilo, ci starebbe da Dio», non lascia dubbi Bersani, così come D’Alema: «La sua presenza sarebbe fondamentale». Il corteggiamento è serrato e, sono convinti gli ex Pd, destinato al successo: l’ufficializzazione arriverà in un’Assemblea, probabilmente il 2 dicembre, una volta che il Senato avrà approvato la manovra.
«Dobbiamo ridare speranza e forza a un Paese che appare stanco e deluso», si limita a dichiarare lui. La proposta lo alletta, incontri e telefonate si susseguono. Il suo stato d’animo è trapelato in questi giorni, nella risposta piccata del portavoce all’accusa dei renziani di aver fatto perdere il Pd in Sicilia con la sua mancata candidatura. «Stanno provando a costruire un avversario - ragiona chi lo conosce bene - prima imputandogli di voler stoppare la Commissione banche, quando è prassi che finisca col finire della legislatura, poi attaccandolo sulla sconfitta siciliana». Di fondo, «nel Pd lo temono». I rapporti con Renzi sono nulli, nemmeno una telefonata dopo le dimissioni dal gruppo Pd: e ieri il segretario ha insistito sul punto che «se si fosse candidato, come gli era stato chiesto, i risultati sarebbero stati diversi». Anche se, giudica qualcuno anche tra i dem, attaccarlo non è una scelta lungimirante se si considera che, a capo di una lista di sinistra, potrebbe essere un interlocutore.

il manifesto 8.11.17
Parte la lista unitaria Mdp-Si, attesi i civici. E poi arriverà Grasso
Sinistre&alleanze. L’area del Brancaccio decide il 18, assemblee il 19 per i due partiti. A dicembre la scelta del leader. Che dice: «Paese stanco e deluso, ridare speranza». Il presidente del senato resta ’istituzionale’ fino a fine manovra e punta a includere. Pisapia: no alla ridotta
di Daniela Preziosi

La navigazione non sarà facile, il non smagliante risultato siciliano riporta tutti con i piedi per terra, ma le sinistre sciolgono le vele. E partono verso una lista «unitaria». Se sarà anche «unica» si vedrà.
IERI MDP HA RIUNITO la sua direzione e ha lanciato nuovi affondi contro Renzi. Bersani invita a dire «un bel no all’arroganza» del suo ex segretario, e si incarica di rispondere alle vaghe offerte di alleanza di Dario Franceschini: «Se ci vengono attorno con dei tatticismi perdono tempo perché gli elettori non ci seguirebbero. Il Pd è in condizione di chiudere una fase nei contenuti?». La domanda è retorica, il Pd non ha intenzione – né possibilità – di cambiare linea. Quindi, nonostante i boatos da Transatlantico, la strada per le alleanze è sbarrata. Peraltro nel Pd i frondisti antirenzi lanciano proposte irricevibili da questa parte. Come la premiership futura di Gentiloni, a cui Mdp sta per votare contro sulla manovra. O quella del ministro Minniti, contestato e detestato dopo la vicenda Ong e i patti con la Libia sui migranti. Nel pomeriggio alla camera Lorenzo Guerini (Pd) sonda Nico Stumpo (Mdp). La risposta che riceve: «Non è neanche questione di nomi, tu ci vedi a fare una campagna elettorale con lo slogan ’abbasso le tasse’?».
MA IL SEGNALE DELLA PARTENZA della lista è il documento che vede la luce dopo mesi di buio delle stanze chiuse. Una tela di Penelope, più volte in procinto di essere lanciato sin dal lontano primo luglio (giorno della malnata creatura politica con Pisapia, Insieme). Stavolta il testo è parto delle quattro forze che si sono sedute a un tavolo di via Zanardelli, concordando riga per riga. Guglielmo Epifani a nome di Mdp, Giovanni Paglia per Sinistra italiana, il costituzionalista Andrea Pertici per Possibile, lo storico dell’arte Tomaso Montanari per i civici del Brancaccio. Diecimila battute, alcune questioni di principio e di programma: ispirazione alla Costituzione, ambientalismo e economia circolare, la centralità del lavoro e l’obiettivo della piena occupazione (ovviamente la cancellazione del jobs act), investimenti pubblici, sud, diritti civili (ius soli e testamento biologico), pari dignità delle donne.
LA NOTIZIA STA IN FONDO: «Ci impegniamo a costruire una lista comune alle prossime politiche: una lista che appartenga a tutte e tutti quelli che vorranno partecipare, insieme e nessuno escluso, e che si riconoscano nelle proposte e valori del nostro programma». Invito a: «Tutte le esperienze del civismo, a chi lavora quotidianamente nell’associazionismo, alle forze organizzate del mondo del lavoro, ma soprattutto a tutte le donne e gli uomini trascinati in basso dalla crisi, che hanno bisogno di una politica diversa per risollevarsi; ai tanti portatori di competenze che non trovano occasione per metterla in pratica, a coloro che ce l’hanno fatta ma non si rassegnano a una condizione diversa di tanti».
MDP E SINISTRA ITALIANA, come già anticipato dal manifesto, procederanno con assemblee in parallelo per l’approvazione del testo. Per gli ex Pd la road map è annunciata da Roberto Speranza: «Dal 9 al 18 novembre le assemblee provinciali, il 19 l’assemblea nazionale a Roma. L’ultimo weekend di novembre un momento di partecipazione democratica dal basso, unitaria, e poi a dicembre una fase, un momento comiziale, di tutte le forze politiche della sinistra in una lista unita. Lì ci sarà la prova del nove». Cioè il sì finale alla lista. Per Si è il segretario Nicola Fratoianni a dare i tempi: assemblee territoriali e assemblea nazionale, sempre il 19 sempre a Roma. Civati ha sbrigato le pratiche interne un mese fa e deve solo riaggiornare il suo sì.
Fin qui tutto liscio: il testo è concordato fin nelle virgole. I colpi di scena potrebbero arrivare invece dall’assemblea del Brancaccio.
I CIVICI SI VEDRANNO il giorno prima, il 18 a Roma. E decideranno. Ma si sa già che almeno una componente della loro assemblea, il Prc, non ha intenzione di allearsi con gli ex Pd e già lamenta eccessi di mediazione. Ieri Falcone e Montanari hanno pubblicato sul loro sito un comunicato sul voto siciliano. Con un passaggio a proposito del documento concordato: «È solo il punto di partenza per un percorso che dovrà immediatamente allargarsi a tutte le forze che vorranno condividerlo e migliorarlo (a partire dall’Altra Europa e dal Prc)», che non erano al tavolo, «e che dovrà darsi regole chiare per le decisioni assembleari su programma, leadership e candidature». Insomma, l’assemblea è sovrana. Chi andrà in minoranza che farà?
E POI C’È IL CASO GRASSO, last but not least. Il presidente del senato, leader in pectore, è corteggiatissimo. Ieri Bersani e D’Alema gli hanno rinnovato chiassosamente la stima. «Noi non si tiriamo nessuno per la giacchetta. Cerchiamo una persona che abbia un profilo civico e di sinistra… perciò andrebbe da dio!», ha detto l’ex segretario Pd. Per far capire che Grasso, nonostante l’incontro avuto con Pisapia lunedì, è della partita della lista unitaria. Grasso ieri ha fatto altri incontri, tra gli altri ha visto un esponente di Campo progressista. Il presidente ha le idee chiare: non abbandonerà il suo profilo istituzionale fino alla fine della sessione di bilancio della sua Camera, a occhio fine mese. Per il dopo, c’è chi lo descrive ben attento a non farsi rinchiudere in una ridotta. Escludendo però la possibilità di accordo con il Pd. Ieri, alla presentazione di un libro sulle stragi di mafia, ha usato parole istituzionale che però qualcuno legge come profetiche del suo futuro prossimo: «L’ansia di cambiamento di uomini come Falcone e Borsellino è ciò che oggi ci deve spingere a migliorare questo paese che appare stanco e deluso e a cui dobbiamo ridare speranza e forza».

Il Fatto 8.11.17
Bersani chiude: “Basta tattiche, andiamo a sinistra”
Mdp non torna indietro: “Un tavolo con i dem? Se l’aprano da soli”. Accordo per la lista unica, il leader è Grasso
Bersani chiude: “Basta tattiche, andiamo a sinistra”
di Tommaso Rodano

Il mite Enrico Rossi, governatore della Toscana, lo dice con un sorriso insolito, malizioso: “La crisi del Pd non ci riguarda. Non apriamo nessun tavolo. Franceschini, Orlando, Delrio: arrivano tardi. Il tavolo se lo aprano da soli”. All’indomani della batosta siciliana, il centrosinistra non si ricompone, tutt’altro. Il messaggio che arriva dalla direzione di Mdp-Articolo 1 è quello di cui sopra: nessuna sponda. Il problema Renzi – se è in grado – il Pd se lo risolva da solo.
La riunione è in una saletta affollata del centro congressi di via Cavour, a Roma. Dentro scorre lento il rituale della “direzione”, decine di interventi, una liturgia da partito con la P maiuscola. Fuori i cronisti braccano Pier Luigi Bersani e gli altri volti noti. Si sfogliano i quotidiani. C’è la proposta di Dario Franceschini sul Corriere, che recita più o meno così: compagni, andiamo insieme, tanto col Rosatellum il candidato premier non esiste; Renzi fa solo il capo del Pd, dopo le elezioni ci si conta. Rimbalza pure l’intervista di Ettore Rosato a Radio Uno, che invece dice così: “Abbiamo Paolo Gentiloni, è a Palazzo Chigi ed è un nome spendibile”. Per la leadership di una coalizione di centrosinistra, s’intende.
Così all’improvviso dal Nazareno piovono a catinelle proposte di mediazione per loro, che fino a ieri erano definiti traditori. Ma come dice Rossi, non c’è più un tavolo a cui sedersi. Se lo sono portato via con posate, tovaglioli e tutto il resto.
Bersani è più benevolo del presidente toscano, ma ne riprende la metafora conviviale: “Io a tavola col Pd mi ci posso pure sedere, basta che non mi fanno mangiare i soliti cannoli”. Poi si fa serio: “Questo dibattito sui candidati premier è puro tatticismo. Con il Pd la lacerazione è profonda. Se vogliono parlarci, ci facciano vedere che hanno cambiato idea sui temi cruciali, come Jobs Act e Buona Scuola”. Infine liquida Gentiloni (e la mediazione di Rosato): “Stiamo parlando dello stesso premier che ha fatto scomparire il referendum sui voucher con un imbroglio e ha messo 8 voti di fiducia sulla legge elettorale”. Il percorso di Mdp è tracciato.
La direzione approva un documento concordato con Sinistra italiana, Pippo Civati e anche coi “civici” Anna Falcone e Tomaso Montanari. È la piattaforma della lista unica di sinistra che correrà alle prossime Politiche.
Dopo mesi di chiacchiere, un fatto concreto; una serie di proposte – da sviluppare – su lavoro, scuola, ambiente, sanità, governo dei beni culturali.
Il 19 novembre saranno discusse, separatamente, dai vari contraenti del nuovo soggetto politico (guai a chiamarla “cosa rossa”: gli ex Pd caricano come tori).
Poi, a inizio dicembre, l’assemblea comune che darà il battesimo alla lista unitaria. Tra i bersaniani qualcuno è ancora convinto di tirare dentro pure Giuliano Pisapia: “Vedrai che alla fine torna pure lui…”
Il leader è scelto, anche se non si può annunciare: Pietro Grasso. Anche ieri Bersani ha ripetuto il concetto: “Non lo tiriamo per la giacchetta, però uno come lui ci starebbe da dio”. Per Massimo D’Alema, più laicamente, “Grasso sarebbe fondamentale”. Il presidente del Senato aspetta solo di smettere le vesti istituzionali (dopo il voto sulla legge di bilancio). Intanto allude al prossimo impegno: “Dobbiamo ridare speranza e forza a un Paese che appare stanco e deluso”.

Repubblica 8.11.17
A sinistra tutti d’accordo su Grasso “Sarà il nostro candidato premier”
Da Mdp  a Civati si accelera su programma e nuovo partito.
Bersani: “Pietro con noi starebbe da dio”
Freddezza da Pisapia. L’ex sindaco di Milano domenica riunisce Boldrini, radicali e sindaci arancioni
di Mauro Favale

ROMA. Il passo indietro di Matteo Renzi? «È solo il gioco delle figurine, con lacrime di coccodrillo», secondo Roberto Speranza, coordinatore di Mdp. E dunque, «basta tatticismi», gli fa eco Pierluigi Bersani: «La frattura è profonda e se facessimo alleanze con questo Pd non ci seguirebbero gli elettori». Addio coalizione (la cui costruzione in realtà non è mai seriamente iniziata): Mdp molla gli ormeggi e naviga verso un processo unitario che tenga insieme la galassia alla sinistra del Pd, da Possibile di Pippo Civati a Sinistra Italiana fino al cosiddetto movimento del Brancaccio (guidato da Tomaso Montanari e Anna Falcone).
Un’accelerazione che arriva al termine della direzione di Articolo 1, convocata ieri dopo il voto in Sicilia che pure non è stato confortante per quell’area: 6,1% a Claudio Fava, un solo seggio all’Ars. Ma i giochi che contano, adesso, sono quelli nazionali e dopo mesi di tira e molla con Giuliano Pisapia, Mdp ha trovato il suo leader. «Non tiro per la giacchetta nessuno ma se dipendesse da me Pietro ci starebbe da Dio», dice Bersani. “Pietro” è Grasso, il presidente del Senato, ex magistrato che, pur sorvolando sul suo futuro dopo l’addio al Pd, sembra raccogliere l’assist: «Questo Paese appare stanco e deluso», ha detto ieri più da leader in pectore che da seconda carica dello Stato. «L’ansia di cambiamento che esprimono uomini come Falcone e Borsellino — ha aggiunto — oggi ci deve spingere a cambiare e migliorare l’Italia». Il suo profilo di «ragazzo di sinistra», come ama definirsi lui stesso, piace a Mdp («La sua presenza sarebbe fondamentale», afferma Massimo D’Alema) e non solo: «È una buona idea», conferma Civati.
Potrebbe toccare a Grasso, dunque, riunire e guidare la sinistra a sinistra del Pd che, almeno a parole, attende ancora Pisapia. L’ex sindaco di Milano, due giorni fa, ha incontrato proprio Grasso per cercare una sponda al suo progetto di una “lista-ponte” che tenga in contatto Pd e Mdp. Un colloquio, da questo punto di vista, poco utile alla causa di Pisapia, con un Grasso calato già nel ruolo di leader piuttosto che in quello di ricucitore della sinistra.
Un ruolo, quest’ultimo, a cui Pisapia resta affezionato e che prova a portare avanti: domenica prossima sarà a Roma con la presidente della Camera, Laura Boldrini, il segretario dei Radicali, Riccardo Magi, un pugno di sindaci di centrosinistra e poi, ancora pezzi di minoranza dem e lo stesso Speranza. La domenica dopo, invece, il 19, Pisapia sarà a Bologna, con l’ex ministro prodiano Giulio Santagata a un appuntamento messo in piedi dal braccio destro del Professore che ha per titolo: «Le ragioni di una coalizione».
Quelle che, invece, sembra aver perso Mdp, ormai convinta della necessità di un processo unitario della sinistra senza più “centro”. La road map la detta Speranza: «Dal 9 al 18 novembre ci saranno le assemblee provinciali, il 19 quella nazionale. L’ultimo week end di novembre un momento di partecipazione democratica dal basso». La prova del nove per il nuovo soggetto, però, potrebbe arrivare il 2 dicembre o poco più in là, così da evitare a Grasso imbarazzi dettati dal suo ruolo istituzionale.
Intanto anche Sinistra italiana, negli stessi giorni, farà la sua riflessione. Chiaro il punto di partenza: «Renzi ha perso di vista il Paese», è convinto Nicola Fratoianni, segretario di Si. Da oggi, per la galassia a sinistra del Pd, parte la discussione del documento approvato ieri da Mdp: 11 cartelle per una «nuova sinistra» aperta a civismo e associazionismo in cui si criticano Jobs Act e Buona Scuola. La base di partenza del programma elettorale.

Repubblica 8.11.17
La tela di Orlando e la delusione di Franceschini: “Mi aspettavo aiuto dai padri nobili”
La diga dei ministri dem “Il Pd non è sua proprietà” Il rischio di un’altra scissione
di Goffredo De Marchis

ROMA. L’ordine del giorno della direzione di lunedì è stata la goccia finale: 1) avvio della campagna elettorale 2) vitalizi. E la Sicilia? E il pericolo concreto di arrivare terzi alle elezioni? Semmai, il richiamo alle pensioni dei parlamentari assomiglia piuttosto a una sfida da consumare dentro il partito visto che buona parte dei senatori dem non è favorevole all’abolizione. Come dire: c’è un segretario contro il suo partito, che in nome della campagna elettorale è pronto a sacrificare la breve storia democratica. «Renzi vuole trasformare il Pd in una bad company o, se va bene, in un suo alter ego», si sente dire dai parlamentari vicini ad Andrea Orlando. Punta a fare il Macron italiano libero dai vincoli di una forza politica. E se va male nel 2018, pace. Lui porta in Parlamento una pattuglia di fedelissimi e ci riprova al prossimo giro, dicono in molti. La voce gira e si alimenta anche un po’ da sola. «Se è così allora non potremo stare a guardare. Non si potrà attendere oltre. Significherebbe non solo la nostra morte, ma la morte dell’intero progetto».
Si affaccia, in questo modo, il rischio di una nuova scissione a lento rilascio, tra dubbi, contatti e tempo che scorre inesorabile verso il voto di primavera. Gianni Cuperlo oggi incontra il presidente del Senato Piero Grasso, sempre più leader in pectore della sinistra. Alla sua porta si è creata una fila di persone che vuole parlare e capire. Cuperlo si interroga: «Posso rimanere nel Pd?». Andrea Orlando e Dario Franceschini attendono le prossime mosse di Renzi anche se il comunicato di ieri mattina ha chiarito che non ci margini di discussione, che le aperture a alleanze future sono limitate, contenute e che la campagna elettorale sarà condotta all’arrembaggio secondo le forme e i contenuti del segretario.
Il ministro della Cultura ha lanciato la ciambella di un’alleanza in cui ognuno ha il suo leader, modello centrodestra. Appello che ha trovato solo reazioni negative fuori dal Pd e dentro mugugni e perplessità. Franceschini ha confidato agli amici che si sarebbe aspettato il sostegno «dei padri nobili», ovvero Prodi, Veltroni, Parisi. Ma niente, silenzio. Certo, non è una formula che si può realizzare nell’immediato, Franceschini è convinto che «quando smetteranno di ragionare con la pancia» anche in Mdp faranno i conti sui collegi da vincere per non lasciare il successo alle destre e rendere il centrosinistra «residuale». Ma il silenzio di Prodi è tutt’altro che casuale o frutto di distrazione. La ex portavoce del Professore, Sandra Zampa, viene fermata a ogni passo in Transatlantico dai suoi colleghi. La supplica è: «Ti prego, chiedi a Romano di intervenire». Un’ultima spiaggia, la voce che nessuno può ignorare. Prodi però fa sapere: «Non parlo e non parlerò. Il tempo è passato, non c’è più niente da fare. Andiamo incontro a una sconfitta epocale e poi vedremo ». Non starà vicino al Pd, non si affiancherà alle liste intorno al Pd. Fuori da tutto, ma la sua distanza pesa soprattutto su Renzi.
Orlando pensa che ora che gli scissionisti hanno trovato una figura come Grasso la coalizione con il Pd di Renzi è l’ultimo dei loro desideri. Franceschini invece crede che il tema sia aperto, che la legge elettorale ha una sua forza nel cambiare le cose, anche con la presenza di Renzi in campo. Con Paolo Gentiloni al posto del segretario in vesione front man si potrebbe aprire un tavolo con Mdp: limare il Jobs act sui licenziamenti, correggere la Buona scuola, cancellare il superticket già in questa manovra di bilancio. Questo dicono gli orlandiani. Provarci almeno. E non parlare più di nomi, perché Grasso risolve il problema della leadership e perché solo i programmi possono convincere la sinistra a cedere, altrimenti non hanno senso, non hanno futuro.
Ma Renzi non cederà lo scettro, più chiaro di così. Sfumerà il tema della candidatura a premier, dirà come ha fatto Ettore Rosato che Gentiloni comunque c’è, ma non dirà mai “tocca a un altro”. Allora i ministri aspettano, anche perché sia il premier sia Sergio Mattarella si sono raccomandati: niente rese dei conti ora, mettiamo in sicurezza la legge di bilancio. Però in tanti vogliono capire: il progetto Macron, che mette in conto la sconfitta, è solo una voce? Se è di più, tutto può succedere. Anche una nuova e definitiva scissione.

il manifesto 8.11.17
«L’Intellettuale ieri e oggi», dialoghi con Norberto Bobbio
Un volume a più voci per interrogare il pensiero e la lezione del filosofo torinese
di Alessandro Santagata

Come scrive Pietro Polito, direttore del Centro studi Piero Gobetti di Torino, «il panorama della cultura contemporanea è largamente popolato di chierici apolitici e di chierici politicizzati, mentre difetta di chierici mediatori». Sono categorie immesse nel dibattito pubblico da Norberto Bobbio e ora al centro della riflessione in L’Intellettuale ieri e oggi. Generazioni in dialogo con Norberto Bobbio (a cura di Pietro Polito, Ananke Lab, euro 16), un agile volume che raccoglie sette contributi a firma di giovani ricercatori coinvolti in diversi ambiti di lavoro e ricerca. Punto di partenza e di confronto è l’ormai celebre Politica e cultura (1955), in cui il filosofo torinese delineava la sua idea del ruolo civile dell’intellettuale.
LA RACCOLTA vuole essere un contributo utile tanto allo studio dell’itinerario storico di Bobbio, quanto, e soprattutto, per ragionare sulla condizione attuale del «mestiere» dell’intellettuale. Su questo punto si concentra Jacopo Rosatelli, firma nota alle pagine di questo giornale e da sempre attento alle involuzioni della funzione pubblica degli studi. La sua tesi è che la scena attuale sia occupata da una nuova figura di intellettuale interamente impegnato nella promozione di se stesso. Ciò sarebbe in parte il risultato del depauperamento e dello svuotamento di significato dei luoghi della cultura (scuola e università, in primo luogo), e in parte dell’iper-mediatizzazione e della spettacolarizzazione degli «intellettuali». Scrive Rosatelli: «l’intellettuale di se stesso è soprattutto l’intellettuale (o aspirante tale) delle generazioni del precariato, quella cresciuta dentro una sorta di bolla della formazione. Un soggetto la cui vita è interamente messa a lavoro nella permanente promozione di sé finalizzata all’acquisizione non già di un’influenza nella società, ma alla riproduzione delle condizioni materiali della propria esistenza».
ROSATELLI chiama in causa le molteplici forme di lavoro gratuito nel sistema dell’«economia della promessa» e denuncia un dibattito pubblico che è in realtà un insieme di soliloqui di attori che non hanno tempo (voglia) di leggersi e di approfondire: insomma l’esatto contrario della lezione di Bobbio sull’intellettuale che «semina dubbi».
Marco Albertaro e Giuseppe Sciara approfondiscono il pensiero liberaldemocratico del filosofo torinese in relazione ai rapporti con la cultura comunista e con l’insegnamento di Croce. Tornando all’attualità, Lorenzo Vai propone una riflessione interessante sul tema della libertà degli Stati e sul problema della democrazia reale (in termini bobbiani) dell’UE. In appendice il libro riporta l’ultimo contributo di Bobbio sull’argomento intellettuali riportato nel fascicolo della Rivista di Filosofia del 1997.
IL FILOSOFO vi ricapitola la storia che ha vissuto da protagonista fino all’avvento della cosiddetta «Seconda Repubblica» e lancia un appello contro il fanatismo intellettuale che risulta ancora condivisibile, in questo tempo di scontri tanto violenti nel linguaggio quanto strumentali e spesso privi di sostanza.

il manifesto 8.11.17
Musei romani, il pubblico rarefatto
Consumi culturali. La capitale e i suoi templi d'arte non riescono a essere accattivanti e a attirare fruitori, come accade a Milano, che può contare sul quadruplo dei visitatori
di Alessandro Monti

Benché non esaustivo delle potenzialità museali, il numero delle presenze nelle sale espositive è un indicatore obbiettivo del gradimento dell’offerta effettiva del museo, indispensabile per indagare sulla disaffezione del pubblico e apprestare rimedi. Come nel caso dei luoghi d’arte del Novecento e di questo secolo che a Roma, stando ai biglietti emessi, vedono diminuire i visitatori. Nell’ultimo quadriennio, l’insieme degli ingressi alla Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea (Gnamc), al Maxxi, al Macro, al Palaexpo, alla Galleria d’arte moderna (Gam) e museo Bilotti, è sceso di oltre un quarto: da 957mila del 2012 a 701mila del 2016, nonostante novantasei mostre e migliaia di eventi.
Non si tratta di una tendenza generalizzata. Milano, a esempio, ha un’elevata e crescente attenzione all’arte moderna e contemporanea sollecitata anche dalla vulcanica presenza della Triennale di design (741mila ingressi nel 2016). Per soddisfarlam il Comune, accanto al Pac, ha rilanciato Museo del ‘900 e Palazzo Reale e aperto il Mudec; mentre i privati hanno ampliato spazi espositivi (Pirelli Hangar Bicocca) e creato musei: Gallerie d’Italia (Intesa Sanpaolo) e Fondazione Prada. Così nel 2016 il totale dei visitatori è aumentato di due terzi rispetto al 2012, da 1.742mila a 2.826mila: è oltre il quadruplo di quello di Roma.
LE RAGIONI DEL RAREFARSI delle presenze nei musei romani, più che repentini mutamenti di gusto e di sensibilità estetica, riflettono deludenti esperienze di visita su cui pesa l’intreccio di molteplici fattori. Tra quelli esogeni, spicca la progressiva disarticolazione dell’assetto strutturale dei musei della capitale. L’apertura del Maxxi nel 2010 ha rotto un equilibrio consolidato e innescato un’accesa competizione sul piano dell’effimero che non ha dilatato ma ristretto il bacino d’utenza.
Così, dopo il boom del 2011 trainato dalla curiosità per l’edificio progettato da Zaha Hadid (450mila visitatori), i biglietti d’ingresso sono crollati a un terzo (168mila nel 2016). Il nuovo museo non ha creato nuovo pubblico ma ha finito per sottrarlo al Palaexpo, più che dimezzato nell’ultimo quadriennio (da 335mila del 2012 a 165mila del 2016), alla Gnamc, meno 18% (da 165mila a 135mila) e al Macro, meno 36% (da 252mila a 162mila) senza più sostegno dell’Enel (passato al Maxxi). Sulla caduta di interesse del pubblico hanno influito anche fattori endogeni: l’inadeguata valorizzazione delle collezioni permanenti, la modesta qualità dei servizi aggiuntivi non meno che la sovrapposizione di attività tra musei civici e statali.
IL NECESSARIO coordinamento tra le varie istituzioni è reso difficoltoso dalle diverse modalità di gestione: nelle sedi comunali si va dall’«Azienda Speciale» (Palaexpo) ai «musei-ufficio» con servizi affidati a Zètema srl (Macro, Gam, Bilotti), mentre in quelle statali si va dalla fondazione con ampia discrezionalità e ridotta vigilanza (Maxxi) all’«autonomia speciale» della Gnamc.
Gli strumenti per suscitare rinnovata curiosità sono noti ma poco praticati. Innanzitutto un allestimento accattivante degli spazi museali, concepito non per soddisfare i capricci estetici del direttore ma per favorire la conoscenza dei fenomeni creativi, la comprensione dei loro messaggi, la capacità critica degli utenti aiutandoli a distinguere vere opere d’arte da costruzioni mercantili. Combinato alla gratuità degli accessi potrebbe riavvicinare il pubblico perduto e oltre. Soprattutto se gratificato da incontri con artisti, frequenti visite guidate dai curatori, personale di accoglienza preparato. La trasparenza della gestione, con un maggior coinvolgimento delle «Associazioni amici dei musei» nella scelta delle opere da acquistare e delle altre iniziative da sostenere con forme di crowdfunding, è cruciale.
LA GIUNTA CAPITOLINA, guardando anche all’esperienza site-specific del museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz (Mamm) nella ex fabbrica occupata di via Prenestina, prospetta un «Polo per l’arte contemporanea» con al centro il Macro sottratto alle «cure» di Zètema e affidato a quelle del Palaexpo, svuotato dalle collezioni (oltre 1600 pezzi) e ripensato nel rapporto del pubblico con gli artisti e le loro creazioni in loco. Una scelta però non in linea con lo statuto del Palaexpo (non contempla la gestione stabile di opere) e che rischia di smobilitare una struttura museale di alto livello. Meglio limitarsi alla sede espositiva del Macro a Testaccio.
Più risolutiva appare l’estensione all’arte moderna e contemporanea degli accordi tra Stato e Comune per la gestione unitaria dell’area archeologica centrale previsti dalla «Legge su Roma Capitale», finora inapplicata. Il coordinamento condiviso della programmazione dell’attività di musei statali e comunali, accompagnato agli accorgimenti indicati, potrebbe far invertire la tendenza al declino dei visitatori riequilibrando il confronto con Milano, ora capitale indiscussa dell’arte del novecento e del XXI secolo.
SCHEDA, RAPPORTO FEDERCULTURE SUI CONSUMI CULTURALI
Nonostante la flessione nei musei della capitale, secondo il 13/mo Rapporto annuale di Federculture, i consumi culturali delle famiglie italiane – teatro, archeologia, luoghi d’arte, cinema – sono cresciuti attestandosi a un +7%, recuperando in tre anni circa quattro miliardi dopo il crollo vertiginoso del 2013. Ci sono più spettatori in platea e galleria (+2%), persone che tornano a preferire il grande schermo del cinema al divano di casa (+5%), molti che si aggirano per i siti archeologici del nostro paese e altrettanti che visitano mostre (+4%). Anche il turismo ha ripreso colorito e per le vacanze le famiglie italiane hanno investito denaro (+21,1%). Permangono però dei buchi neri. Il più grave è che gli italiani continuano a essere dei pessimi lettori. Il 40,5% della popolazione legge un libro l’anno e solo l’8,3% lo fa in ebook. La flessione è inesorabile: nel 2010, quello sparuto «libro all’anno» lo sfogliavano almeno il 46,8% dei cittadini. Per le famiglie a basso reddito, poi, l’esclusione dal consumo culturale ha percentuali altissime: circa il 50% di loro non ha accesso a nessuna delle attività sopra elencate.

Repubblica 8.11.17
L’agonia dei socialisti francesi, in vendita la sede
di Anais Ginori

PARIGI. Alle pareti ci sono ancora i manifesti elettorali, i più belli appartengono a François Mitterrand, il famoso slogan “La force tranquille” che portò alla vittoria nel 1981. Era stato il leader socialista a decidere di trasferirsi nel palazzetto tardo ottocentesco a rue Solférino, un tempo sede del ministero della Propaganda sotto Vichy. “Prestigioso complesso in vendita” recita l’annuncio immobiliare pubblicato in questi giorni sui principali quotidiani. Perditempo astenersi. La sinistra francese è in saldo.
Il ciclone macroniano sta portando via tutto, anche la sede del fu glorioso partito creato da Jean Jaurès nel 1905. È molto più che un indirizzo nel settimo arrondissement. Fino a pochi mesi fa bastava dire “Solfe” e tutti pensavano alla sinistra francese, alle sue tante anime. Mitterrand contro Rocard, Jospin contro Strauss-Kahn, Aubry contro Hollande. Quante guerre delle rose, simbolo del partito, sono passate in questi uffici piccoli, spesso non comunicanti, divisi da lunghi corridoi. «Non ha mai aiutato il lavoro di squadra» ricorda Valerio Motta, già responsabile dell’ufficio stampa e della strategia web. Motta, 35 anni, di padre italiano, conserva l’immagine di alcuni momenti forti. La folla venuta a rendere omaggio a Mitterrand nel decennale della morte. Il discorso di Ségolène Royal la sera della sconfitta contro Sarkozy.
Adesso le stanze sono deserte, i telefoni squillano a vuoto. Le guardie all’ingresso mandano via i curiosi. Il partito socialista è messo talmente male che mancano persino candidati alla nuova leadership. Il riformista Manuel Valls è passato con Macron. Il radicale Benoit Hamon ha fondato il suo movimento. In attesa del congresso che si terrà tra febbraio e marzo, la guida è affidata a un comitato non proprio ristretto: ben 28 membri che devono occuparsi di problemi amministrativi. Vendere la sede, trovarne una nuova, probabilmente in banlieue, mandare via oltre metà del personale. «Sono senza fissa dimora» scherza l’ex segretario Jean-Christophe Cambadélis dandoci appuntamento in un bar per raccontare la “sofferta” decisione di vendere “Solfe”. Il risveglio dopo la sconfitta di primavera è stato brutale. «Non c’era altra soluzione, dopo il taglio del finanziamento pubblico le banche rifiutavano di prestarci i soldi» spiega Cambadélis che tenta di sdrammatizzare. «Il partito è scomparso a livello nazionale ma siamo ancora presenti sul territorio. Governiamo in mille medie e grandi città. Il partito di Macron è presente solo in dieci».
In questi giorni ai militanti rimasti fedeli viene chiesto di rispondere a un questionario su cosa significa essere di sinistra. È una delle tante iniziative per “rifondare” il partito. Si parla anche di un cambio di nome. Il ristretto gruppo parlamentare non si chiama già più socialista ma “Nouvelle Gauche”. Qualcuno ipotizza un ritorno di Hollande per tentare di salvare la creatura morente che ha contribuito a uccidere. Le visite a rue Solférino per fare le offerte si sono concluse ieri. Nei prossimi giorni si dovrebbe conoscere il nuovo proprietario dei muri.

Corriere 8.11.17
«Il sequestro Abu Omar non si poteva organizzare senza coinvolgere l’Italia»
di Giovanni Bianconi
Sabrina De Sousa, unica diplomatica a scontare una pena

ROMA Da funzionaria della Cia complice del sequestro di Abu Omar a volontaria in una casa famiglia romana per bambini disagiati; dal mondo misterioso delle spie a quello meno affascinante dei reclusi, con tre anni di pena da scontare ai servizi sociali in virtù di un indulto e una grazia presidenziale che hanno abbattuto l’iniziale condanna a sette anni. Sabrina De Sousa — sessantaduenne cittadina statunitense e portoghese nata a Bombay da madre indiana, con un passato da agente segreto in Italia — è l’unica dei venticinque diplomatici americani sotto copertura colpevoli del rapimento dell’imam egiziano, avvenuto a Milano nel 2003, che sta pagando il conto con la giustizia. L’altro ieri il giudice ha dato il via libera all’affidamento in prova che dovrebbe concludere una brutta storia nella quale la donna si sente, in qualche modo, una vittima collaterale.
«L’unica mia attività in quella vicenda — racconta De Sousa — è stata aver partecipato a una riunione con funzioni di interprete tra uomini della Cia e del Sismi, il servizio segreto militare italiano, in cui si discusse di extraordinary rendition . Ma solo in termini generali. Senza nomi né indicazioni concrete. Avvenne al Consolato di Milano, dove io ero stata trasferita da un anno». Gli americani chiedevano l’appoggio degli italiani per portare via dei sospetti terroristi come Abu Omar, nella «sporca guerra» cominciata con l’attacco alle due torri dell’11 settembre 2001. «Nel giorno in cui è avvenuto il sequestro, a febbraio del 2003, io ero fuori città, in settimana bianca, e quando sono tornata mi hanno detto che c’era stata un’operazione andata a buon fine, niente altro. Poi io sono rientrata negli Usa e non ho saputo più nulla fino all’inchiesta della magistratura italiana».
All’epoca non c’era altro da dire né da chiedere: «Un musulmano pericoloso, che stava progettando un attentato a uno scuola-bus in Italia, era stato prelevato e portato via per essere interrogato. Solo dopo abbiamo saputo che non era vero, come hanno ammesso le stesse autorità egiziane che l’hanno torturato, e oggi Abu Omar scrive tweet di solidarietà in mio favore».
Questa, in sintesi, la versione di Sabrina De Sousa. Che si sofferma anche sui coinvolgimenti italiani nel sequestro, coperto da un segreto di Stato che ha cancellato le condanne in appello all’ex capo del Sismi Nicolò Pollari e ad altri funzionari del Servizio. «Secondo il nostro capo-centro Jeff Castelli (condannato a 7 anni di carcere, ma l’Italia non ne ha mai chiesto l’estradizione, ndr ) Pollari era d’accordo, mentre lui ha detto di no, ma senza poterlo dimostrare per via del segreto di Stato confermato dal governo», racconta oggi De Sousa. Che aggiunge: «Io non so che cosa sia accaduto, ma so per certo che un’operazione come quella su Abu Omar in un Paese alleato come l’Italia non si può portare a termine senza l’approvazione e il coinvolgimento delle autorità italiane».
Ma nella versione dell’ex agente segreto che ufficialmente svolgeva il compito di seconda segretaria d’ambasciata a Roma prima di essere spostata a Milano, mentre in realtà collaborava allo scambio di informazioni antiterrorismo «e ad operazioni di cui non posso parlare», c’è anche altro: «Se gli agenti della Cia hanno agito lasciando tracce evidenti come le carte di credito usate negli alberghi milanesi nei giorni del sequestro, lo hanno fatto non perché sono dei pasticcioni, come s’è detto in America sotto l’amministrazione Obama, ma perché convinti che in Italia non sarebbe successo niente dal momento che il vostro governo era d’accordo. Quella è gente esperta; a Beirut o altrove hanno fatto operazioni di cui non s’è mai saputo nulla. Se in Italia hanno lasciato tracce è perché c’era la sicurezza che potevano muoversi senza subire conseguenze. In ogni caso hanno usato dei nomi falsi, di copertura: 19 dei 25 condannati sono di persone che voi non sapete in realtà chi siano; dietro quei nomi ci sono persone sconosciute all’Italia».
Pur essendo l’unica condannata che sta scontando una pena, Sabrina De Sousa non ce l’ha con la magistratura italiana, bensì con i suoi due Paesi, Usa e Portogallo: «Io mi sento tradita dagli Stati Uniti, mi sono dovuta dimettere dalla Cia per poter andare a trovare mia madre malata in India, altrimenti avrei dovuto rispettare l’ordine di non uscire dal Paese; per me gli Usa non hanno chiesto l’immunità diplomatica e nemmeno la grazia parziale o totale sollecitata per altri, l’ho dovuta chiedere da sola. E quando sono stata prima arrestata e poi bloccata in Portogallo, il mio avvocato portoghese mi ha detto che un alto ufficiale dei servizi locali s’era proposto di farmi rientrare clandestinamente negli Usa. Ma io non ho voluto, perché preferisco chiudere la questione legale e tornare una cittadina libera».

Corriere 8.11.17
Lo smog oscura New Delhi, la capitale più «avvelenata»
I medici: «Per gli abitanti è come fumare 50 sigarette al giorno»
di Michele Farina

La battuta più amara, anzi più tossica, l’ha fatta il signor Raghu Karnard via Twitter. Il re e la regina del Belgio sono in visita a New Delhi. Le foto li mostrano accanto al premier Narendra Modi mentre passano in rassegna le truppe avvolte in una coltre di smog: «In questo momento gli illustri ospiti stanno commemorando i soldati indiani che hanno combattuto nelle Fiandre con la divisa britannica. E noi — commenta Karnard — li abbiamo accolti con una fedele riproduzione atmosferica della Prima guerra mondiale».
Le strade di New Delhi come i campi di battaglia europei dove si usavano i gas letali. Un’esagerazione? Quasi. La capitale più inquinata del mondo (20 milioni di abitanti nel distretto) ha toccato ieri nuovi record, registrando livelli di particelle sottili nell’aria trenta volte superiori ai limiti consigliati dall’Organizzazione mondiale della sanità. Le centraline del Pollution Control hanno raggiunto quota 450 (su una scala di 500). In alcune aree il PM 2.5 (che misura la presenza di particolato) raggiunge i 700 microgrammi per metro cubo. L’associazione dei medici ha dichiarato «lo stato di emergenza sanitaria». «È come se ogni abitante si ritrovasse nei polmoni l’equivalente di 50 sigarette al giorno».
Mentre i ministri discutono se chiudere o no le scuole per qualche giorno, la città si attrezza. Si fa per dire. La gente gira con le mascherine. Chi può (e chi ce l’ha) resta in casa. Sui social girano foto del sole annebbiato. Il corrispondente della Bbc racconta che gli brucia la gola. Gli organizzatori della Mezza maratona del 19 novembre pensano di cancellare l’evento. Altro che sottili: qui le polveri sono diventate una cappa spessa, che batte anche quella proverbiale di Pechino. Il Pakistan è il Paese più inquinato? Ecco che l’India sfida gli eterni rivali (non solo in Kashmir ma) anche sul fronte smog. Un rapporto di The Lancet attribuisce all’inquinamento la morte prematura di 2,5 milioni di indiani.
La stagione dell’anno poi è la peggiore. Da Punjab e Haryana arriva il fumo delle stoppie bruciate per chilometri. I poveri della città cominciano ad ardere spazzatura per scaldarsi. I fuochi artificiali dei festival si aggiungono alla polvere dei cantieri. In più, c’è il solito traffico. L’anno scorso le autorità avevano provato a «razionare» il flusso delle auto. Ma senza successo. E così gli abitanti respirano il fumo di 50 sigarette al giorno. Neonati compresi.

il manifesto 8.11.17
Cento anni in Piazza Rossa e divisa
1917-2017. Sfilano per l’Ottobre e contro Putin il Pc russo di Zjuganov, Left Block (trotskisti), nuova sinistra e delegazioni straniere, esclusi movimenti gay e femministe. Scontri e arresti a San Pietroburgo
di Yurii Colombo

MOSCA A Mosca ieri era giornata festiva, non si ricordava però la rivoluzione russa. Da molti anni il 7 novembre è stato trasformato in giorno di ricordo della parata militare che si tenne nel 1941 quando le truppe naziste erano a soli 30 km da Mosca. Motivo sufficiente però per non concedere la piazza Rossa, simbolo della rivoluzione al corteo pomeridiano della forze comuniste e di sinistra per il centenario dell’Ottobre.
IN PIAZZA Pushkin già dalle 13.30 si è concentrato lo spezzone del Partito comunista di Zjuganov. Il partito ha organizzato molti autobus dalla provincia per ovviare alla debolezza dei comunisti nella capitale che ormai da molti anni superano solo faticosamente il 5% alle elezioni municipali.
Massiccia la presenza della polizia che vorrebbe che il corteo si svolgesse sui marciapiedi. Nel week-end le forze dell’estrema destra hanno sfidato i divieti della questura non solo a Mosca ma anche in altre città. Sono scese in piazza sventolando bandiere con la croce celtica e ci sono stati incidenti (oltre 500 fermati, 60 arresti, alcuni poliziotti feriti dal lancio di petardi).
OGGI QUI NESSUNO vuole incidenti, neppure i gruppi di estrema sinistra che raggruppano in fondo al corteo e intonano slogan contro Putin e per la democrazia proletaria. In attesa di partire si formano gli inevitabili capannelli. Si commentano negativamente le parole del deputato comunista Sergey Obuchov che ha aperto alla possibilità di tenere un referendum popolare sulla rimozione del corpo di Lenin dal mausoleo sulla Piazza Rossa. «Lo perderemmo, è quasi certo» osserva una signora che indossa una sciarpa rossa con la falce e martello.
Ci sono anche un gruppetto di pensionati che innalzano il poster di Stalin e che le televisioni occidentali si premurano subito di filmare. Sono tante invece, anzi tantissime le bandiere rosse dei vari partiti che hanno aderito: negli ultimi giorni si è alla fine riusciti a trovare un accordo e il Partito Comunista sfila assieme al Left Block, gli stalinisti assieme ai trotskisti. Un accordo a cui però i gruppi della «nuova sinistra» hanno dovuto pagare un prezzo salato: i movimenti gay e femministi non possono partecipare. Troppo imbarazzanti per Zjuganov, malgrado ci troviamo nel paese che ha dato i natali ad Alexandra Kollontaj. Non graditi neppure i nazionalboscevichi di Eduard Limonov perché considerati da molti neofascisti e per il timore che possano provocare incidenti.
MOLTE LE DELEGAZIONI straniere. Spagna, Francia, Cechia, Portogallo, Cuba e naturalmente Italia. Particolarmente rumorosi i greci, numerosi i turchi. E tanti anche i lavoratori di una fabbrica vicino a Mosca di ascensori che da 3 mesi lottano per difendere il loro posto di lavoro. Il serpentone si snoda tranquillo sulla centralissima via Tverskaya (un tempo via Gorky) e scende fino alla Piazza Teatralnaya dove è stato approntato il palco per il comizio finale. Ad attendere il corteo tanta gente che ha potuto raggiungere la manifestazione solo dopo il lavoro. Gennady Zjuganov prende la parola che è ormai buio. «Questo paese peggiora sempre di più. Ci vuole un programma che aumenti la spesa sociale» scandisce. Proprio ieri l’Istituto per la Riforma economica e politica ha diffuso i dati di una ricerca in cui si rende noto che «le manifestazioni di protesta in Russia sono aumentate del 60% nell’ultimo anno». Secondo l’Istituto i motivi principali sono i licenziamenti collettivi, il mancato pagamento dei salari ma anche l’inquinamento e gli alti prezzi degli alloggi. Zjuganov infine conferma che si presenterà ancora una volta alle presidenziali del marzo 2018. Decisione che lascia l’amaro in bocca al Fronte di Sinistra di Sergej Udalzov che aveva rilanciato solo due giorni fa la proposta «di un solo candidato della sinistra, giovane e fresco».
MENTRE LA MANIFESTAZIONE si scioglie, giunge notizia che a San Pietroburgo nella manifestazione per il centenario dell’Ottobre i «limonovisti» hanno cercato di fuoriuscire dal corteo ufficiale per indirizzarsi sulla Nevsky Prospekt al grido di «Lenin ha fatto la rivoluzione, possiamo farla anche noi» ma sono stati subito affrontati dagli agenti di polizia. Bilancio 23 fermati e 3 arresti. Nella notte a Ekaterinburg, città natale di Boris Eltsin, 4 militanti del partito di Limonov hanno anche cercato di dare fuoco alla statua in memoria dell’ex presidente russo. Gli arrestati dovranno rispondere dell’accusa di terrorismo.

La Stampa 8.11.17
Bandiere rosse con falce e martello, ritratti di Lenin e Stalin: a Mosca tornano i comunisti
Manifestazione per i 100 anni dalla Rivoluzione d’ottobre
Le immagini
di Giuseppe Agliastro
qui

Repubblica 8.11.17
In piazza nostalgia di Lenin e Stalin cantando Bella Ciao
Mosca. delegazioni di 130 partiti comunisti commemorano la rivoluzione del ’17

MOSCA. È all’ombra della statua di Carlo Marx che si sono riunite ieri oltre 130 delegazioni di Partiti comunisti da tutto il mondo per commemorare il centenario della Rivoluzione russa. Un tripudio di bandiere rosse. Alle spalle del Cremlino, tra i vari inni e canti, sono risuonate anche le note di “Bella Ciao” per salutare la delegazione italiana guidata da Marco Rizzo. Sui manifesti, i volti di Josip Stalin, che gode di rinnovata popolarità, e di Vladimir Lenin, la cui salma riposa tuttora in piazza Rossa. Il governo ha preferito non ricordare un evento che tuttora divide la Russia moderna.
(r. cas.)

Il Fatto 8.11.17
“Boh”: sintesi di 613 ore di Fusaro in video
Su Youtube - Il “filosofo marxista” che denuncia la selfie generation occupa la tv ma anche il web
di Selvaggia Lucarelli

Non ho più l’età per appassionarmi agli Youtuber, ma confesso di essere caduta nella dipendenza. No, non guardo tredicenni gameplayer scartare i regali dei fan né i tutorial sul trucco sposa. Mi sono iscritta al canale YouTube di Diego Fusaro. Trascorro nottate con i video del Massimo Ciavarro del marxismo rimasticato, del secchione dall’occhio ceruleo, dell’uomo a cui non interessa la fenomenologia dello spirito ma fare il fenomeno e basta. È su YouTube che Diego Fusaro, quello che “la selfie generation produce egomostri, basta esposizione mediatica e digitale permanente nel world wide web!”, trascorre buona parte della sua esistenza.
È lì che carica compulsivamente i video delle sue ospitate tv, dei suoi interventi in radio, dei suoi incontri e dei suoi monologhi solitari sottotitolati in inglese col font dei video di Favij. Ne ha caricati 3680. Roba che neppure Chiara Ferragni ha un’attività social così intensa. Del resto, il suo ultimo capolavoro letterario, Pensare altrimenti, significa “altrimenti con ‘sta cippa che mi invitano ancora in tv” e quindi lui, Marx Ciavarro, non smette mai di pensare o almeno, di farcelo credere. In particolare, di farlo credere a ospiti e conduttori che si ritrovano accanto uno che si definisce “sismografo della politica”. Lui.
A sentire le sue tesi nei migliori salotti tv, non fa che partorire analisi politiche lucidissime. Ci sono ben otto video tra ospitate a L’aria che tira e monologhi nel tinello di casa, in cui parla dell’Erasmus. Secondo Marx Ciavarro, udite bene, “c’è una coazione alla migrazione, un tempo il capitalismo utilizzava la leva obbligatoria, ora utilizza l’Erasmus per ortopedizzare le menti e abituare all’erranza globale.”. Immaginate la scena: “Papà, voglio andare a fare l’Erasmus a Barcellona!”. “Ti piace forse l’erranza globale?”. “No papà, mi piacciono le gnocche spagnole!”. “E invece resti a Cinisello, non permetterò a nessuno di ortopedizzarti il cervello!”.
Il nostro Marx Ciavarro pubblica con orgoglio anche altri video complottisti in cui sostiene che Mani Pulite sia stato un colpo di Stato. Pubblica perfino il video in cui lo dice con accanto Antonio Di Pietro, il quale, se fosse nella sua stalla di Montenero di Bisaccia, lo prenderebbe a badilate, ma siccome è in tv, si limita a rispondergli un misurato “Ma che cazzo stai dicendo?”. Fusaro non si scompone mai. Neppure quando lo sfanculano quelli che non lo sopportano, cioè tutti. Tra un “Va a cagare” e “che cazzo dici” lui prosegue con il suo linguaggio moderno, costellato da numerosi “rinunZio”, “nella misura in cui”, “certuno” e “financo” e stordisce gli avversari con supercazzole ampollose e fintamente dotte. Per esempio, a chi gli chiede cosa pensi del Movimento 5 stelle, lui risponde: “Il Movimento 5 stelle è su un crinale, possiede una forma magmatica in fieri, deve sedimentarsi su una forma partitica chiara”. Ovvero: “Boh”. A chi gli domanda quale sia la soluzione politica risponde: “Bisogna fondare un movimento né di destra né di sinistra contro l’élite finanziaria mondialista, la sinistra deve fare un riordinamento gestaltico!”. Ovvero: “Boh”.
Fusaro parla parla parla. Calcolando una media di 10 minuti a video per 3680 video, sono 613,3 ore di parlato. Manco Simona Izzo ubriaca parla tanto (e comunque, nell’eventualità, dice cose più lucide). Non si tira indietro mai, neppure quando, in collegamento da Catania, gli viene chiesto un parere sull’annosa questione “Cani di lusso e povertà crescente… cosa ne pensa il filosofo marxista?” e lui, anziché dire: “Un filosofo non discetta di chihuahua”, risponde compunto: “Colpa dei differenziali di ricchezza!”. Viene da chiedersi cosa faccia il nostro Marx Ciavarro nel tempo libero. C’ha provato con la rinomata eleganza Giuseppe Cruciani a La zanzara: “Ma lo vedi mai un pornazzo?”. E lui: “Io godo leggendo il Simposio!”. Insomma, l’allievo di Marx pensa solo alla filosofia. E in fondo, sta riscrivendo la storia della filosofia: dal capitalismo trionfante al capitalismo tronfio. E ora scusate ma vado a vedermi il suo video “Meno movida, più Goethe”, benché anche “Fusaro contro Marina Ripa di Meana” mi tenti parecchio.

Repubblica 8.11.17
La storia.
Nata nell’estate 1917 Rjabtseva è sopravvissuta alle guerre, a Stalin e alla fine dell’Urss
Maria, centenaria come l’“Ottobre” “Ma nell’era Putin si vive meglio”
di Rosalba Castelletti

MOSCA. Maria Rjabtseva ha visto nascere e crollare l’Unione Sovietica. È sopravvissuta al conflitto tra l’Armata Bianca fedele allo zar Nicola II e i Rossi bolscevichi, al Grande Terrore, alla II guerra mondiale che le ha strappato due figli e alla stagione “terribile” degli Anni Novanta, l’era di Eltsin. Era un bebè di pochi mesi quando, la notte tra il 6 e il 7 novembre di cent’anni fa, i bolscevichi rovesciarono l’impero secolare degli zar e inaugurarono il primo governo comunista al mondo cambiando irrevocabilmente il corso della storia della Russia e dell’intero pianeta. Nata il 14 giugno di cent’anni fa in un sobborgo a Nord di Mosca, Maria non ricorda ovviamente quei “giorni che sconvolsero il mondo”, né ha intenzione di celebrare l’anniversario della Rivoluzione russa. Come del resto le autorità e la maggioranza dei russi tuttora incapaci di indagare a fondo sul momento fondatore dell’Urss e troppo divisi sull’eredità di quel 1917 così tumultuoso.
Testimone ordinaria di tutte le tappe salienti del “secolo breve” segnato dallo scontro tra capitalismo e comunismo, Maria dice di non essere interessata alla politica e in ogni caso di non aver nulla da festeggiare questo 7 novembre. «Penso che avrei avuto la stessa vita con o senza la Rivoluzione. In ogni caso, non si può cambiare nulla».
Guardando indietro, quel che ricorda è di avere sempre «lavorato duro in tutta la sua vita», prima come contadina, poi come infermiera e infine come operaia. «Ho lavorato sin dalla più giovane età», ha detto alla France Presse che l’ha incontrata. I primi ricordi della centenaria risalgono agli anni Venti della collettivizzazione forzata delle terre in
kolkhoz e sovkhoz per promuovere lo sviluppo industriale. «Eravamo cinque tra sorelle e fratelli. Una famiglia normale di contadini. I bolscevichi confiscarono il nostro bestiame. Ci tolsero due cavalli e le mucche. Cosa avremmo dovuto fare? Ci unimmo a un kolkhoz ». Risparmiata dal Grande Terrore, la repressione che colpì alti dirigenti e cittadini ordinari negli anni Trenta, Maria pagò il suo prezzo di sangue durante la seconda Guerra mondiale che la Russia ricorda come la Grande Guerra patriottica. Tra oltre 20 milioni di cittadini sovietici, caddero anche due dei suoi quattro figli. «Fu dura. Non c’era molto da mangiare ». Rjabtseva lavorava come infermiera in un ospedale di Rostov Velikij, a Nord di Mosca. «Bisognava lavorare duro, c’erano così tanti soldati feriti, i letti erano pieni». Gli occhi le si illuminano quando ricorda il Giorno della Vittoria, la capitolazione nazista nel 1945: «Quant’eravamo felici, quanto ballammo e cantammo».
Della morte di Stalin nel 1953 non ha un ricordo particolare. «Non fu una catastrofe». Un evento invece impresso nella sua memoria è quando, dopo aver vissuto per decenni in komunalke, gli appartamenti condivisi da più famiglie con bagno e cucina in comune, nel 1961 si trasferì con il marito in un vero appartamento a Ovest di San Pietroburgo. Acqua calda, riscaldamento centrale, un «paradiso» e una «benedizione». «Cos’altro avrei potuto chiedere? ». Vedova da quarant’anni, vive ancora tra quelle quattro mura insieme alla famiglia di una delle sue nipoti. Gli anni della
perestrojka e della stagnazione «non hanno cambiato davvero la mia vita – dice oggi – con l’eccezione che era più dura di prima». È migliorata considerevolmente, conclude, con l’arrivo di Vladimir Putin al potere diciotto anni fa. «Sono stata felice? Non lo so. Ho vissuto. Se nasci, devi vivere, no? Soprattutto perché la vita passa molto velocemente».

Corriere 8.11.17
Giornata della ricerca
La premiazione di Rizzolatti nel ricordo di Veronesi
di Alessio Ribaudo

Sarà dedicata alla memoria dell’oncologo Umberto Veronesi la Giornata della Ricerca istituita dalla Regione Lombardia, che si celebrerà oggi al Teatro «Alla Scala» di Milano. A un anno esatto dalla scomparsa del grande ricercatore, figura di riferimento per la lotta ai tumori e per la cultura scientifica internazionale, la Giornata vuole celebrare la ricerca come strumento per migliorare la qualità della vita, favorire la cultura della prevenzione, valorizzare le risorse e le conoscenze sul territorio lombardo e, non in ultimo, sensibilizzare i giovani a riconoscere il valore dell’innovazione.
Nel corso della mattinata, sarà consegnato il premio internazionale «Lombardia è Ricerca» al neuroscienziato Giacomo Rizzolatti, a cui si deve la scoperta dei neuroni specchio. Il riconoscimento dal valore di un milione di euro è stato assegnato da una giuria, composta da 14 scienziati italiani d’eccellenza, che ha selezionato i candidati dalla lista «Top Italian Scientists». Durante la premiazione — con il direttore del Corriere della Sera , Luciano Fontana — il professor Paolo Veronesi, presidente della Fondazione, consegnerà a Rizzolatti anche una scultura che celebra il lascito culturale dell’oncologo scomparso l’anno scorso.
«L’opera — spiega l’artista Piero Gemelli — racconta della circolarità che ritengo esserci tra pensiero, ovvero ricerca, e l’uomo che al tempo stesso è soggetto pensante e fruitore ultimo della ricerca». Del resto, sostenere la ricerca è lo scopo della Fondazione che eroga borse di studio per medici e ricercatori e finanzia progetti che possano elaborare nuove conoscenze e cure per le malattie. Inoltre, realizza campagne di prevenzione ed educazione per promuovere l’adozione di stili di vita sani e consapevoli insieme a scuole e realtà pubbliche e private.

Repubblica 8.11.17
 “Quando”, il libro di Walter Veltroni racconta il risveglio di un ex ragazzo di sinistra dopo 33 anni di coma
Amarcord al buio dal mito Berlinguer ai sogni fragili di oggi
di Ezio Mauro

Il contrario della nostalgia, che guarda al passato, è vivere il presente come futuro, scoprendolo ogni giorno nella crescita continua che nasce dalla realtà del contemporaneo, con le sue seduzioni e le sue paure. Ma cos’è mai la contemporaneità per un ragazzo che cade in coma a vent’anni nel 1984 e si sveglia uomo fatto di mezza età oggi, tre decenni dopo, a 53 anni? Quando si guarda allo specchio gli sembra di vedere suo padre, non se stesso, con i
primi capelli bianchi e una coscienza di sé rimasta indietro, dopo aver attraversato un tempo infinito riempito da farmaci e abitato da un sogno sempre uguale, una soffitta polverosa ma sterminata piena di ricordi senza un ordine, attraversata talvolta dalle voci confuse dei genitori che lo chiamano da lontano, tra qualche luce che spiove.
Intanto il mondo faceva un giro, o forse non aveva mai girato così tanto: può dirlo solo chi viene dal passato e apre gli occhi di colpo sullo sbalordimento del nuovo, una mutazione a cui non era preparato né nel corpo né nell’anima, mentre la mente dormiva e il cuore non poteva sapere dov’era, accontentandosi miracolosamente di battere a vuoto. Per Giovanni — che si scopre solo, senza niente, neonato a cinquant’anni con tutte le funzioni vitali a posto ma sconosciuto a se stesso — il risveglio sarà insieme una rivelazione continua del nuovo mondo cui si è affacciato e un tenace inventario dell’universo perduto. Qualcosa di eccitante e stravolgente, senza un punto fermo, perché le novità sono aliene come una lingua sconosciuta e i ricordi sono soltanto individuali, quasi intimi, non avendo più un mercato comune.
Convinto com’è che i sentimenti (in un’epoca di risentimento dominante) siano una cifra dimenticata ma indispensabile del vivere insieme, capaci con la memoria e con un orizzonte di valori comuni di dare un senso ad una comunità culturale, politica, sociale, Walter Veltroni nel suo ultimo romanzo ( Quando, edito da Rizzoli) costruisce un paesaggio fatto solo di questo, comprimendo il tempo per attraversare tre decenni e soprattutto un cambio d’epoca con un testimone addormentato, seguito nel rendiconto stralunato del suo risveglio. Lo popola di riferimenti veltroniani: Roma sopra tutto, dal villaggio Olimpico a San Saba, ai cinema che non ci sono più, alle Botteghe Oscure diventate chissà che cosa, al “Biondo Tevere” che è il posto dell’ultima cena di Pasolini. Poi la musica di Morricone, La terrazza di Scola, il “Ciao” arancione dei quindici anni, senza casco e con poca miscela, la “Taunus” del padre, i libri di Calvino, una fidanzata con la gonna lunga e senza reggiseno che si chiama Flavia, la maglia giallorossa di Valigi, Cara di Lucio Dalla: «Cosa ho davanti, non riesco più a parlare/ Dimmi cosa ti piace, non riesco a capire». Infine, e prima di tutto, la mitologia di Berlinguer, l’unica coltivata fuori dal tempo e persino oltre la politica.
È ai funerali di Berlinguer che il ragazzo Giovanni crolla a terra, colpito alla tempia dal legno di uno striscione gigantesco, mentre teneva per mano Flavia e Nilde Jotti stava cominciando a parlare sul palco, il 13 giugno del 1984. Per trent’anni i genitori vanno a trovarlo in ospedale ogni pomeriggio, gli parlano, gli fanno gli auguri al compleanno e a Natale, aspettano con lui la mezzanotte di ogni 31 dicembre. Poi il padre di Giovanni muore, la madre perde il senno e la memoria, Flavia dirada le visite finché scompare, lui rimane solo e inerte con l’infermiere che lo lava ogni mattina e suor Giulia che gli rade la barba e gli taglia i capelli, la notte gli parla del padre iscritto alla sezione pci Fosco Fusaglia di Spello, mentre gli fa ascoltare la musica con gli auricolari, La donna cannone e Bruce Springsteen. È lei la prima che accorre nel reparto dei senza speranza quando incredibilmente Giovanni si sveglia nel luglio 2017 cantando L’Internazionale, custodita nella mente in sonno da quel pomeriggio di giugno in piazza San Giovanni.
C’è lo stupore di tutti, davanti a quel risveglio dall’impossibile. Ma c’è soprattutto lo stupore del ragazzo che non sa ancora di essere diventato uomo, non ha riferimenti, teme di essere finito in manicomio, avverte la nebbia dei trent’anni nella mente e non sa cosa sia, testa la memoria con la formazione della Roma nella finale persa di Coppa Campioni: «Tancredi, Nappi, Bonetti…». Seguono la carrozzella, l’esplorazione della stanza spoglia, il fisioterapista, il corpo che recupera, il traguardo dei primi passi, la conquista del terrazzo nel tramonto romano, quella suora cui si aggrappa moralmente, sfiorandola con la mano.
Poi c’è la coscienza, con la ricostruzione sentimentale, culturale, politica, per gradi. Scopre che la sua famiglia non c’è più, che Flavia si è infine sposata e ha tre figli, che c’è stato il terrorismo, è nato l’euro, è caduto il muro, è finita l’Urss e si è sciolto il pci, sono morti i vecchi partiti, Berlusconi ha governato, un Papa si è dimesso, a New York hanno abbattuto le Torri. Il suo tempo compresso, incollato dal coma, si riapre e si dilata, in quei buchi lui si spaurisce e si perde. È l’unico uomo che sente il passato inutile, il presente sconosciuto, dopo aver attraversato inutilmente tre decenni, cambiando incoscientemente secolo e millennio. Non sa se è davvero uomo o è rimasto ragazzo, il corpo è andato avanti per conto suo adeguandosi al tempo che passava, sopravanzando il sentimento di sé, rattrappito a quel 1984 e al suo codice di ricordi, per lui contemporanei, per gli altri fuori uso.
Quello spazio vuoto si anima di meraviglie improvvise, il cellulare al posto del duplex, i dodici tipi di latte al supermercato, il telepass e le partite alla play, l’alta velocità e i social network, mentre si affollano parole sconosciute come sushi, kebab, vegano. Finché dal buco del tempo affiora la politica, che per Giovanni è biografia familiare col padre, vocabolario di coppia con Flavia, memoria generazionale con gli amici. Il big bang di fine Novecento, svelato di colpo e già diventato storia è l’occasione di un bilancio postumo, purtroppo individuale, comunque in ritardo. Quando suo padre e la sua fidanzata discutevano a casa, nel dicembre ’81, sulla «spinta propulsiva » della rivoluzione d’Ottobre che Berlinguer dichiarò esaurita (senza però andare oltre nel giudizio), Flavia sosteneva che il socialismo o è libertà o non è: «E non è stato, perché con la guerra a Hitler avete giustificato Stalin, l’invasione dell’Ungheria, della Cecoslovacchia, siete stati coi carrarmati e non con i patrioti». Di notte, prima di andare a dormire, il padre di Giovanni parlò sottovoce col figlio: «Sai, credo che lei abbia ragione, ma non posso dirlo». È il blocco morale e politico che Martin Amis raccoglierà in una formula: «La verità poteva sempre essere posticipata».
Tutto è stato inutile, dunque? Per nulla. C’era un posto magico, e Giovanni e Flavia lo sapevano, all’angolo tra via Cavour e via Giovanni Lanza, dove la strada curva appena a destra e facendo un salto si poteva misurare giù nella discesa la forza e l’importanza di un corteo, come quello enorme per il referendum sul divorzio: oggi è un posto vuoto, nessuno salta più. Dunque tra le due correnti opposte che agitano Giovanni, quella scintillante della tecnologia e quella appassita della memoria, c’è qualche distinguo da fare, non tutto è così semplice e scontato. E infatti un ragazzo gli dice di non invidiare la potenza della nuova realtà, perché lui invidia il potere dei suoi vecchi sogni. Solo adesso, nel consuntivo febbrile del contagio tra presente e passato Giovanni capi- sce che la democrazia è l’unico viaggio nella libertà, mentre il comunismo era stagno, palude, con gli ideali traditi in ogni esperienza storica concreta: ma quella comunità, chiede dopo il risveglio, «si è dispersa come dopo un terremoto e è rimasta insieme come in rifugio dopo un bombardamento? ». In realtà la grande casa del pci aveva sentito arrivare la frana che avrebbe travolto l’Urss, ragiona Giovanni, aveva avvertito i movimenti della terra e gli scricchiolii, ma pensava che il crollo l’avrebbe risparmiata, sfiorandola: «Invece i detriti fecero un deserto, perché la nostra distanza non bastò. Non era la giusta distanza».
Mentre compie la sua vita, conciliando in un’unica esperienza le due esistenze che il risveglio ha messo a confronto, opponendole, Giovanni si accorge che un po’ di coscienza oggi è delegata, insieme con la memoria, alla meraviglia tecnologica del computer. Come se — potremmo aggiungere — nel paradiso dell’onnipotenza informatica la moderna mela che il serpente ci offre fosse quella della de-responsabilizzazione. Se tutto è già stato rivelato, infatti, se il mondo è finalmente piatto, allora non è più il caso di fare domande, basta riscuotere le risposte. Ma proprio qui Veltroni si sovrappone a Giovanni. Perché c’è qualcosa per cui vale la pena riprendere il cammino, far passare gli uomini dalla cruna dell’ago di questo cambiamento che è più complesso di un risveglio, salvando il dubbio e la capacità di fare domande. Fino all’ultima: quando è finito il partito, non può essere finita la voglia di cambiare. E allora i compagni da qualche parte dovranno pur stare, no?

7.11.17
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si ringrazia Giovanni Senatore