venerdì 3 novembre 2017

Il Fatto 3.11.17
“Il male in famiglia fa più vittime del terrorismo”
La scrittrice norvegese di gialli: “Ho preso spunto da Breivik
Credevo che la storia avesse insegnato a sufficienza”
di Stefano Caselli e Fabrizio d’Esposito

Il Male eccezionale e il male quotidiano. Uno con la maiuscola, il primo. Il secondo con la minuscola. La Norvegia ha conosciuto il terrore il 22 luglio 2011. Due attentati. Il centro di Oslo e l’isola di Utoya. Settantasette morti e un solo colpevole. Biondo e scandinavo e nazista: Anders Breivik. Anne Holt fa partire il suo ultimo thriller di successo, Il presagio, proprio da quel 22 luglio. Non senza sorprese. Holt, ex ministra laburista della Giustizia, è tra le più brave e importanti gialliste della scuola nordica dell’Europa. Ha creato due serie. Una con Johanne Vik e Yngvar Stubø, in cui rientra Il presagio, l’altra con Hanne Wilhelmsen, poliziotta lesbica. La scrittrice vive a Oslo con la moglie e la figlia.
L’inizio è scioccante, una scena da incubo: il cadavere di un bimbo di otto anni, Sander, e la polizia che non ha mezzi perché è il 22 luglio. C’è l’incrocio tra due mali, uno eccezionale e l’altro ordinario: il terrore del mondo esterno e il male in famiglia.
Fortunatamente la maggior parte delle persone sta ancora al sicuro quasi sempre! Tuttavia le statistiche ci insegnano come la famiglia sia la scena del crimine più frequente in Occidente. Con questo libro ho cercato di riflettere sul fatto che le catastrofi “pubbliche”, come la strage di Utoya del 22 luglio, colonizzano l’attenzione e la paura di ciascuno di noi, mentre le piccole tragedie, come la morte di un bambino, sono relegate, appunto, nel campo di un tragico privato.
Il suo è il racconto di un male che continua nonostante media e risorse siano attirati da altri eventi giganteschi. Come l’è venuta questa idea che è il cuore della trama del libro?
Ho cominciato a scriverlo molto prima dell’estate 2011. Quando ci fu la strage di Utoya il manoscritto era a buon punto. A quel punto ho capito di non avere scelta. Ho pensato che l’attacco di Utoya, in quel momento, fosse troppo “caldo” per scriverne subito, di getto. D’altra parte, non potevo ignorare che fosse accaduto. L’espediente è stato parlarne attraverso una storia completamente differente. Penso fosse il giusto tributo a tutte le persone coinvolte.
La morte di Sander forse è un omicidio. In una famiglia ricca, abusi: una dramma di cui non si hanno confini certi in Norvegia.
La violenza sui bambini non conosce steccati sociali. È solo più visibile, o più facile da rilevare, nelle famiglie con meno risorse. Il romanzo è ispirato a un caso di cronaca realmente accaduto, quello di un bambino sistematicamente abusato e picchiato dal suo patrigno e morto probabilmente per le violenze cui fu sottoposto per anni. Non ci fu nessun allarme, eppure i segni degli abusi erano evidenti per chiunque avesse voluto interessarsene. Il vero problema degli abusi domestici, in particolare di quelli sui minori, è innanzitutto la paura di parlarne. Siamo riluttanti a intervenire nelle vite degli altri e così facendo abbandoniamo i bambini al peggiore dei destini.
L’inchiesta su Sander è insolita. Lei lascia sullo sfondo Yngvar: a indagare sono la moglie Johanne e un poliziotto inesperto ma determinato.
Sì, cerco sempre di popolare i miei libri di personaggi che abbiano importanza per la storia. Ho pensato che Yngvar, in questo caso, non avrebbe funzionato bene. In più ho sentito la necessità di creare un legame con la grande tragedia collettiva di Utoya. Che Yngvar sia chiuso nel silenzio di uno stato mentale devastante risponde a questa esigenza.
I sospetti su Sander portano al padre Jon ma è una vicenda che coinvolge soprattutto donne: Ellen, la mamma di Sander, le due nonne, le sue insegnanti, la stessa Johanne che peraltro forse è incinta a 43 anni: nel male in famiglia sono soprattutto le donne a rifiutarsi di vedere?
Penso sia più che una questione di genere. Abbiamo tutti paura di intrometterci nel quotidiano delle altre famiglie. Questo è il modo in cui oggi si tradiscono i bambini che non hanno la possibilità di parlare da soli.
Gli attentati del 22 luglio 2011 producono un altro choc quando si scopre che il colpevole è norvegese, biondo con gli occhi azzurri: Breivik. Lei fa dire a Joachim, uno dei protagonisti, che i suoi connazionali anziché arrabbiarsi e affrontare seriamente la questione preferiscono piangere con preghiere e bandiere pacifiste. È una differenza notevole, abissale.
Solo per Joachim. Sono convinta che la reazione in Norvegia sarebbe stata ben diversa se a uccidere fosse stato un terrorista musulmano. Magari ci scriverò un romanzo fra qualche anno!
Breivik è un nazista. Oggi in Europa spira un brutto vento di razzismo e di destra. Il passato può tornare? Se sì, sotto quali nuove forme?
Come tutti mi faccio questa domanda. Ho sempre creduto che la storia avesse insegnato a sufficienza quanto pericolosa sia questa deriva. Ebbene, oggi purtroppo non ne sono più tanto convinta.
Nel giallo scandinavo sempre più emerge il denaro come unico valore e come unica misura della società: è il trionfo del capitale cinico e senza scrupoli?
No! Non è così, almeno lo spero.
Ci dobbiamo rassegnare al male, in famiglia e nel mondo?
Sono convinta che l’unico modo per sopravvivere decentemente da esseri umani sia non smettere mai di confidare nella moralità delle persone.
All’ultimo rigo c’è una sorpresa scioccante per il lettore, ma non diciamo quale per non rovinare la lettura. Le chiediamo però: la serie di Yngvar e Yohanne è finita?
Sì, ora sta vivendo con successo una nuova vita nella serie tv svedese Modus. Diciamo che le ho detto un arrivederci.