Il Fatto 3.11.17
“Il male in famiglia fa più vittime del terrorismo”
La scrittrice norvegese di gialli: “Ho preso spunto da Breivik
Credevo che la storia avesse insegnato a sufficienza”
di Stefano Caselli e Fabrizio d’Esposito
Il Male eccezionale e il male quotidiano. Uno con la maiuscola, il primo. Il secondo con la minuscola. La Norvegia ha conosciuto il terrore il 22 luglio 2011. Due attentati. Il centro di Oslo e l’isola di Utoya. Settantasette morti e un solo colpevole. Biondo e scandinavo e nazista: Anders Breivik. Anne Holt fa partire il suo ultimo thriller di successo, Il presagio, proprio da quel 22 luglio. Non senza sorprese. Holt, ex ministra laburista della Giustizia, è tra le più brave e importanti gialliste della scuola nordica dell’Europa. Ha creato due serie. Una con Johanne Vik e Yngvar Stubø, in cui rientra Il presagio, l’altra con Hanne Wilhelmsen, poliziotta lesbica. La scrittrice vive a Oslo con la moglie e la figlia.
L’inizio è scioccante, una scena da incubo: il cadavere di un bimbo di otto anni, Sander, e la polizia che non ha mezzi perché è il 22 luglio. C’è l’incrocio tra due mali, uno eccezionale e l’altro ordinario: il terrore del mondo esterno e il male in famiglia.
Fortunatamente la maggior parte delle persone sta ancora al sicuro quasi sempre! Tuttavia le statistiche ci insegnano come la famiglia sia la scena del crimine più frequente in Occidente. Con questo libro ho cercato di riflettere sul fatto che le catastrofi “pubbliche”, come la strage di Utoya del 22 luglio, colonizzano l’attenzione e la paura di ciascuno di noi, mentre le piccole tragedie, come la morte di un bambino, sono relegate, appunto, nel campo di un tragico privato.
Il suo è il racconto di un male che continua nonostante media e risorse siano attirati da altri eventi giganteschi. Come l’è venuta questa idea che è il cuore della trama del libro?
Ho cominciato a scriverlo molto prima dell’estate 2011. Quando ci fu la strage di Utoya il manoscritto era a buon punto. A quel punto ho capito di non avere scelta. Ho pensato che l’attacco di Utoya, in quel momento, fosse troppo “caldo” per scriverne subito, di getto. D’altra parte, non potevo ignorare che fosse accaduto. L’espediente è stato parlarne attraverso una storia completamente differente. Penso fosse il giusto tributo a tutte le persone coinvolte.
La morte di Sander forse è un omicidio. In una famiglia ricca, abusi: una dramma di cui non si hanno confini certi in Norvegia.
La violenza sui bambini non conosce steccati sociali. È solo più visibile, o più facile da rilevare, nelle famiglie con meno risorse. Il romanzo è ispirato a un caso di cronaca realmente accaduto, quello di un bambino sistematicamente abusato e picchiato dal suo patrigno e morto probabilmente per le violenze cui fu sottoposto per anni. Non ci fu nessun allarme, eppure i segni degli abusi erano evidenti per chiunque avesse voluto interessarsene. Il vero problema degli abusi domestici, in particolare di quelli sui minori, è innanzitutto la paura di parlarne. Siamo riluttanti a intervenire nelle vite degli altri e così facendo abbandoniamo i bambini al peggiore dei destini.
L’inchiesta su Sander è insolita. Lei lascia sullo sfondo Yngvar: a indagare sono la moglie Johanne e un poliziotto inesperto ma determinato.
Sì, cerco sempre di popolare i miei libri di personaggi che abbiano importanza per la storia. Ho pensato che Yngvar, in questo caso, non avrebbe funzionato bene. In più ho sentito la necessità di creare un legame con la grande tragedia collettiva di Utoya. Che Yngvar sia chiuso nel silenzio di uno stato mentale devastante risponde a questa esigenza.
I sospetti su Sander portano al padre Jon ma è una vicenda che coinvolge soprattutto donne: Ellen, la mamma di Sander, le due nonne, le sue insegnanti, la stessa Johanne che peraltro forse è incinta a 43 anni: nel male in famiglia sono soprattutto le donne a rifiutarsi di vedere?
Penso sia più che una questione di genere. Abbiamo tutti paura di intrometterci nel quotidiano delle altre famiglie. Questo è il modo in cui oggi si tradiscono i bambini che non hanno la possibilità di parlare da soli.
Gli attentati del 22 luglio 2011 producono un altro choc quando si scopre che il colpevole è norvegese, biondo con gli occhi azzurri: Breivik. Lei fa dire a Joachim, uno dei protagonisti, che i suoi connazionali anziché arrabbiarsi e affrontare seriamente la questione preferiscono piangere con preghiere e bandiere pacifiste. È una differenza notevole, abissale.
Solo per Joachim. Sono convinta che la reazione in Norvegia sarebbe stata ben diversa se a uccidere fosse stato un terrorista musulmano. Magari ci scriverò un romanzo fra qualche anno!
Breivik è un nazista. Oggi in Europa spira un brutto vento di razzismo e di destra. Il passato può tornare? Se sì, sotto quali nuove forme?
Come tutti mi faccio questa domanda. Ho sempre creduto che la storia avesse insegnato a sufficienza quanto pericolosa sia questa deriva. Ebbene, oggi purtroppo non ne sono più tanto convinta.
Nel giallo scandinavo sempre più emerge il denaro come unico valore e come unica misura della società: è il trionfo del capitale cinico e senza scrupoli?
No! Non è così, almeno lo spero.
Ci dobbiamo rassegnare al male, in famiglia e nel mondo?
Sono convinta che l’unico modo per sopravvivere decentemente da esseri umani sia non smettere mai di confidare nella moralità delle persone.
All’ultimo rigo c’è una sorpresa scioccante per il lettore, ma non diciamo quale per non rovinare la lettura. Le chiediamo però: la serie di Yngvar e Yohanne è finita?
Sì, ora sta vivendo con successo una nuova vita nella serie tv svedese Modus. Diciamo che le ho detto un arrivederci.
Il Fatto 3.11.17
Uno spettro estremista si aggira per l’Europa: è il ’29, sembra oggi
Presentata a Roma la serie Sky più costosa mai prodotta in Germania. Ricostruzioni eccellenti, musica d’autore e un convitato di pietra: Adolf Hitler
Uno spettro estremista si aggira per l’Europa: è il ’29, sembra oggi
di Federico Pontiggia
La storia si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come serie-tv. In Germania ci credono davvero a questo Marx riveduto e scorretto, e filmano di conseguenza: la Guerra fredda con Deutschland 83 e ora il 1929, sprofondato tra due guerre mondiali eppure così pregno di vita, arte, idee. E l’altroieri, sembra oggi: uno spettro antisistema si aggira per l’Europa, il nazionalismo è recrudescente, i profughi premono, l’economia ristagna, la miccia è corta. “I parallelismi sono evidenti, perfino sconcertanti: allora nessuno pensava a Hitler, come cinque anni fa nessuno avrebbe potuto immaginare la fragilità del sistema economico e sociale europeo. E che dire di Trump presidente degli Usa, della Brexit, o che la destra più radicale diventasse il terzo partito in Germania?”, osserva alla Festa di Roma lo showrunner di Babylon Berlin Tom Tykwer.
Il cineasta di Cloud Atlas e Lola corre, appena designato presidente della prossima Berlinale, ha diviso regia e scrittura con Henk Handloegten e Achim von Borries, mentre l’architrave narrativo viene dalla saga best-seller di Volker Kutscher, con protagonista l’ispettore di polizia Gereon Rath. Babylon Berlin è la serie più costosa mai prodotta in Germania, 38 milioni di euro per due stagioni da otto episodi ciascuna, con la terza già pianificata. Non è un’eccellenza autarchica, plaude la critica di mezza Europa, e presto potremo farlo pure noi: la coproduzione di Sky con Betafilm, già venduta in oltre 30 paesi, arriva dal 28 novembre su Sky Atlantic HD.
Nella Berlino capitale del mondo anni Venti, Rath (Volker Bruch, elegante e febbrile) indaga tra abuso – anche personale – di droga e intrighi geopolitici, omicidi efferati e suicidi torbidi, lotte sociali ed esuberanze sessuali, dal sadomaso al fisting. Soprattutto, cerca di salvarsi dal proprio passato: nato a Colonia, ha combattuto sulla Linea Sigfrido, è tornato, ma la madre gli avrebbe preferito il fratello. Vulnerabile, dipendente, barcolla – anzi, trema – ma non molla, trovando sulla strada Charlotte (Liv Lisa Fries, strappata a un muto di Chaplin), di giorno impiegata a catalogare foto di scena del crimine, la notte a prostituirsi, tendenza sadomaso, per aiutare la famiglia derelitta.
L’elastico è tra affondi psicologici e campi lunghi sociali, il caleidoscopio non elude nulla: mafia, polizia, organizzazioni paramilitari di estrema destra, stalinisti e trotzkisti, si respira un clima internazionale, e non solo per diegesi. Lo sforzo produttivo è ingente: tre anni di lavoro sullo script, sei mesi per girare, pezzi di Friedrichstrasse, Charlottenburg e Kreuzberg campionati e ricreati in studio a Babelsberg con effetti di realismo dirompenti. “L’idea di una Berlino protagonista, come se fosse il risultato di un viaggio nella macchina del tempo. Oggi è un disastro, un’accozzaglia di stili, noi abbiamo ricostruito quattro strade con relativi milieu e una piazza. E poi, abbiamo girato in location, anche ad Alexanderplatz”.
In uno dei setting principali, il night con facciata art déco Moka Efti, una scena di ballo e canto (la magnifica Zu Asche, Zu Staub, eseguita da Severija Janušauskaité) alla fine del secondo episodio rivela uno dei punti di forza della serie: le musiche, capaci di trasportarci tra Fritz Lang ed Espressionismo, Nuova Oggettività e Weimar. Ibridando cabaret ed elettronica, firma lo score Johnny Klimek, lo zampino è di Brian Ferry (Roxy Music). Non resta che parlare del grande assente, ovvero dell’elefante nella stanza: Hitler, “nominato, per di più in una barzelletta, una sola volta in sedici puntate”. Nondimeno, Tykwer lo sa, “è un fardello che dobbiamo portare. Il nazismo non era presente, è questo l’aspetto affascinante, era ancora marginale: qualche invasato che s’infervorava al pub, tutto lì”. Ma c’erano le avvisaglie, folli, addirittura incomprensibili: “Il Primo Maggio la polizia, socialdemocratica, sparò sui manifestanti inermi, facendo 35 vittime”. Perché? La risposta avrebbe sbraitato sotto i baffi, pochi anni dopo: da Cancelliere del Reich. Era il 1933.
il manifesto 3.11.17
Una democrazia che ragiona sui suoi principi
Scaffale. Una serie di libri dedicati alla Costituzione italiana, per Carocci editore, in cui storici, teorici, giuristi di diversa formazione rileggono i suoi articoli
di Gaetano Azzariti
È certo che il prossimo anno non si mancherà di festeggiare il settantesimo compleanno della costituzione, entrata in vigore il 1 gennaio 1948. Con il rischio, implicito in ogni ricorrenza, di assistere a stucchevoli discorsi di circostanza, magari espressi in malafede da chi, in cuor suo, vorrebbe porre fine all’anomalia costituzionale italiana. L’anniversario può però essere anche un’occasione per discutere dei principi fondamentali che sostanziano la nostra democrazia, per tornare a riflettere su quel particolare assetto politico-sociale che è stato definito dai nostri padri costituenti e che oggi appare in forte sofferenza.
POTREMMO COSÌ finalmente prendere sul serio la costituzione uscendo dalla retorica che di recente ha caratterizzato il suo uso troppo spesso prevalentemente strumentale. Se, dunque, vogliamo veramente onorare la ricorrenza dovremmo auspicare meno eventi spettacolari e più studi ponderati.
Tra le iniziative che si propongono di guardare ai contenuti non fermandosi alla celebrazione si segnala quella dell’editore Carocci che sta pubblicando una serie di agili volumi, sotto la direzione di Pietro Costa e Mariuccia Salvati, dedicata ai «principi fondamentali», i primi dodici articoli della nostra costituzione. I primi quattro sono già in libreria, gli altri otto saranno disponibili entro febbraio.
GLI AUTORI DEI VOLUMI sono storici, teorici, giuristi di diversa formazione. Di conseguenza sono indotti ad esaminare ciascuno in base al proprio specifico approccio disciplinare i diversi principi contenuti nei singoli articoli separatamente indagati, eppure alla fine emerge un disegno fortemente unitario. È la forza attrattiva e unificante della costituzione che finisce per prevalere. Anzi propri la diversità d’analisi mostra con ancor maggiore evidenza come ciascun articolo, anche se considerato isolatamente, finisca per rappresentare il microcosmo del sistema complessivo e si collega senza soluzioni di continuità con gli altri, in un susseguirsi di principi che vanno a disegnare un modello di «democrazia sociale» coerente e da tutti accolta.
COSÌ, HA RAGIONE Nadia Urbinati quando rileva che nelle ventiquattro parole del primo articolo della costituzione «sono contenute le premesse di tutti gli articoli che seguono». Ciò, peraltro, non contrasta con la diversa affermazione di Maurizio Fioravanti, il quale, commentando il secondo articolo afferma che esso contiene «in forma sintetica la costituzione intera». Neppure si oppone all’affermazione di Mario Dogliani e Chiara Giorgi, i quali rilevano come il principio d’eguaglianza contenuto nel terzo articolo della nostra costituzione abbia «un valore eccedente» che vale a definire un progetto politico che trova il suo svolgimento in tutte le disposizioni del testo costituzionale.
Infine, è Mariuccia Salvati a rilevare come la «direzione di senso» cui è chiamata a seguire la nostra democrazia costituzionale per sviluppare coerentemente il proprio modello normativo non può che partire dalla figura complessa del lavoratore-cittadino-essere umano, in un intreccio di principi costituzionali.
Proprio questa omogeneità del disegno rappresenta il primo dato che dovrebbe far riflettere tutti coloro che immaginano di poter «fare a fette» la nostra costituzione, cambiandone disinvoltamente parti intere, sostenendo che non per questo si rischia di trasformare nel profondo l’assetto della nostra democrazia. Quanti vuoti argomenti sono stati utilizzati per cercare di rassicurare sulla permanente fedeltà ai principi, anche nei casi in cui venivano travolti decine di articoli del testo costituzionale.
La costituzione è un insieme unitario. Il che non vuol dire impossibilità del mutamento (l’articolo 138 lo prevede espressamente), ma impone ogni volta di valutare l’impatto complessivo del cambiamento preteso. Correggere una costituzione non è impresa meno impegnativa che scriverla per la prima volta, spiegava Aristotele. Il revisionismo italiano si è caratterizzato, invece, per la sua improvvisazione. Nessun disegno di civiltà, solo ragioni di breve momento hanno giustificato le «grandi riforme costituzionali».
Se volessimo allora riportare con i piedi per terra la riflessione sul mutamento costituzionale dovremmo tornare a ragionare sui principi, chiarendo anzitutto quali essi siano.
Scriveva Costantino Mortati che per identificare l’ideologia accolta dalla nostra costituzione nei suoi elementi essenziali, per giungere all’esatta comprensione di quella particolare forma di democrazia («sociale») che in essa si riflette, basta prendere in considerazione i primi cinque articoli della costituzione. Noi – in base alla serie di volumi che qui si presenta – saremmo più indulgenti e ricomprendiamo tutti i dodici principi fondamentali indicati in Costituzione; persino quello dedicato alla bandiera, che sottende una certa visione della nazione intesa come «patriottismo costituzionale» che ha un suo significato tutt’altro che banale. Si conferma comunque che è in questi pochi ma fondamentali articoli che si definiscono i principi che devono condizionare ogni interprete, ed è ad essi che bisogna risalire per superare le incertezze o colmare le lacune che dovessero riscontrarsi nelle leggi. Tra coloro che sono assoggettati a quest’obbligo, specificava Mortati, in primo luogo vi sono le forze politiche.
INSEGNAMENTO PREZIOSO, quanto mai disatteso. Se solo provassimo a ragionar per principi, anziché per convenienze, potremmo sperare in una Repubblica democratica (art. 1) che ritorni a garantire i diritti inviolabili (art. 2), assicurando in tal modo la dignità sociale nonché l’eguaglianza delle persone (art. 3), promuovendo inoltre le condizioni per rendere effettivo il diritto al lavoro (art. 4). Basta leggere questi primi quattro articoli per comprendere quanto impegno ci vorrebbe per attuare la nostra democrazia costituzionale. Risuonano ancora forti le parole di Pietro Calamandrei sulla costituzione come «rivoluzione promessa» che è ancora tutta davanti a noi. Dopo settant’anni chi vuole cambiare radicalmente lo stato di cose presenti sa dove guardare.
La Stampa 3.11.17
Il “secolo del comunismo” l’altra faccia della modernità
L’esperienza sovietica ha segnato il ’900 Un modello di totalitarismo che la accomuna ai regimi fascisti di Italia e Germania
di Giovanni De Luna
Nel 1960 oltre un terzo dell’umanità viveva sotto regimi ispirati al principi della rivoluzione bolscevica del 1917. Sembrò allora che il Novecento dovere essere davvero il «secolo del comunismo». E, invece, agli inizi degli Anni Novanta, solo quattro Stati (Cuba, Cina, Corea del Nord e Vietnam) si proclamavano ancora comunisti. Fu un terremoto geopolitico, culminato nella dissoluzione dell’Urss. Ne seguì, immediata, una drastica condanna storiografica: Il libro nero del comunismo (1998), curato da Stéphane Courtois, era esplicitamente concentrato su «crimini, terrore e repressione», proponendone una storia «criminale» che allineava Stalin al fianco dei dittatori più sanguinari del XX secolo. Molti dei giudizi che affioravano nel libro erano fondati; altri risentivano di una esplicita strumentalità politica: un groviglio tipico di un «uso pubblico della storia» che, in quel momento, rimbalzava dalle ricerche di archivio alle polemiche giornalistiche.
Forse oggi è possibile tentare invece un complessivo bilancio storiografico dell’esperienza sovietica. Il punto di partenza può essere la tesi di Eric Hobsbawm, lo storico del «Secolo breve»: il comunismo - con la pianificazione centralizzata dell’economia - si è rivelato una formula efficace soltanto quando si è trattato di costruire rapidamente le industrie di base e le infrastrutture essenziali, agevolando l’evoluzione di nazioni arretrate (come nel caso dei Paesi ex coloniali).
Per industrializzare la sua economia e per modernizzare la sua società, l’Unione Sovietica aveva infatti seguito un percorso del tutto diverso da quello dei Paesi dell’Europa occidentale. Una specificità dovuta all’assenza, in Russia, delle grandi rivoluzioni liberali della fine del XVIII secolo, quelle che portarono al definitivo annientamento dell’Ancien Régime, ponendo le basi di un modello di sviluppo fondato sul capitalismo in economia e sulla democrazia in politica. In Unione Sovietica, invece, il fatto che l’«antico regime» fosse stato messo in discussione ben più di un secolo dopo e che, con lo stesso ritardo, si fosse posto il problema dello sviluppo industriale, aveva imposto tempi più rapidi per la necessaria accumulazione del capitale, che il mercato e una borghesia numericamente e culturalmente debole non sarebbero stati in grado di garantire.
Con Hobsbawn si può dire quindi che il comunismo sia stata la risposta alle esigenze di una modernizzazione che, in assenza di una rivoluzione liberal-democratica, la borghesia russa non era in grado di proporre e di gestire. Un dato per tutti: nel 1913 l’impero zarista aveva il 3,6% della produzione industriale mondiale; con l’Urss, nel 1986, la percentuale era salita al 14,6%.
Su questi risultati incombono però i milioni di vittime della repressione; le «conquiste» del comunismo hanno avuto un costo spaventoso in termini di libertà e di vite umane. Senza contare che il modello economico sovietico è stato comunque incapace di reggere la sfida capitalistica sul piano delle innovazioni tecnologiche, rimanendo troppo a lungo ancorato a un sistema industriale superato, affollato di industrie pesanti di base e reso di colpo obsoleto dallo sviluppo del mondo globalizzato.
Oltre alla drammatica realtà del comunismo in Russia, ci sono stati però altri aspetti di quell’esperienza rilevanti sul piano mondiale. È indubbio, ad esempio, che sia stata una delle matrici dei movimenti di liberazione nazionale e dell’ondata di lotte contro il colonialismo che hanno attraversato il pianeta nel secondo dopoguerra, dalla Cina al Vietnam, dall’Africa all’America Latina. Come ci ha ricordato Enzo Traverso, è stato in quel contesto che ha preso forma una sintesi originale tra marxismo, nazionalismo e anticolonialismo. Ma neppure questi movimenti sono sfuggiti alla fatale simbiosi con la dittatura. La tragica vicenda della Cambogia dei khmer rossi, e di uno spietato dittatore come Pol Pot, ebbe, tra le sue molteplici radici, indubbiamente anche lo stalinismo.
Sul piano dell’efficacia interpretativa, però, la categoria del totalitarismo è ancora oggi quella che ci restituisce con più nettezza i lineamenti del regime nato nel 1917, sradicandolo dalla sua specificità russa per consegnarlo a una dimensione compiutamente europea. I totalitarismi che si affermarono in Italia, Germania, Unione Sovietica condivisero questi elementi: l’uso della violenza per conquistare il potere; il controllo dell’economia da parte dello Stato; il monopolio di un partito unico; l’azzeramento della società civile. Sotto questi aspetti, il comunismo riveste i tratti di una esperienza specifica del Novecento e irripetibile al di fuori di quel contesto cronologico: fu a suo tempo Hannah Arendt a sottolineare tali caratteristiche, indicando i punti (il culto di un capo assoluto, l’utilizzazione dei nuovi mezzi di comunicazione, un’organizzazione poliziesca sempre più capillare e efficiente) che legano il totalitarismo alla modernità e a una società di massa inconcepibile prima del Novecento.
La Stampa 3.11.17
Michael Walzer, 82 anni
“La grande disillusione Il bolscevismo ha corrotto la sinistra”
Il filosofo liberal americano: “Ha costretto le menti migliori a difendere l’indifendibile”
di Francesca Paci
Minuto, la voce bassa quasi afona, Michael Walzer non ha l’aria del provocatore. Eppure questo ottantaduenne a braccetto con la moglie per il mercato di Forlì, dopo la relazione sull’eredità del 1917 al «900fest», è il grillo parlante che da più di mezzo secolo sfida la sinistra americana a rimettersi in gioco. Dal lancio della ormai storica rivista Dissent alla teoria della guerra giusta, dalla sovrapposizione tra socialismo democratico e liberalismo al radicalismo politico-religioso, il filosofo di Princeton, tra i massimi politologi statunitensi, non ha mai smesso di cercare la sintesi tra giustizia sociale e libertà.
La Rivoluzione russa fu raccontata in Occidente da John Reed, comunista americano. Che presa ha avuto il comunismo sulle due sponde dell’Atlantico?
«L’eurocomunismo flirtava con l’Urss ma non era stalinista. Neppure quello italiano lo fu, e questo ha agevolato la sua trasformazione democratica. Negli Stati Uniti invece il comunismo è stato sempre minoritario ma è rimasto stalinista e settario a lungo. L’anno del cambio di passo è il ’68, quando la sinistra americana, me compreso, si concentra sui diritti civili e le campagne no war e va allo scontro con la sua componente sovietica che aveva altre priorità».
Nel ’68, a 33 anni, militava con la sinistra anti-stalinista. E prima di allora?
«Sono cresciuto in una famiglia ebrea liberal. A 10 anni scrissi una storiella della Seconda guerra mondiale in cui dicevo che la Russia non combatteva per l’ultima conquista ma per l’ultima delle conquiste. Tre anni dopo, davanti al blocco di Berlino, annunciai a casa il mio endorsement per Truman contro Wallace: avevo già preso le distanze da Mosca».
Pochi oggi rimpiangono i bolscevichi. Il marxismo sta invece tornando di moda?
«Sul piano intellettuale abbiamo grande bisogno di quello studio della classe lavoratrice, ci aiuterebbe a capire gli elettori di Trump. Ma politicamente l’eredità della dittatura del proletariato è stata negata dalla storia».
E la Rivoluzione d’Ottobre?
«L’eco del bolscevismo non si sente più se non in alcune regioni dell’Asia. Resiste poi negli intellettuali di estrema sinistra alla Zizek, che lo associano alle avanguardie e alla liberazione sessuale dimenticando che furono represse dai soviet. Quella rivoluzione è sopravvissuta più a lungo in Occidente che altrove. Per quanto venga dal Kgb, Putin ricorda più lo zar che Lenin. L’Ungheria e la Polonia, invece, non vivono una deriva neocomunista ma neofascista, pagano il fallimento del dissenso che sostenni negli Anni 70».
E nella Cina del presidente Xi, l’ultimo a regnare sotto l’icona della falce e del martello?
«C’e Pechino, certo. Ma simboli a parte, quello cinese è ormai un regime capitalista».
La rivista Dissentnasce nel 1954, quando l’Urss seppellisce Stalin e in America infuria il maccartismo. Che anni erano?
«Studiavo all’Università di Pennsylvania. Dissent fu fondata da un gruppo di ex trockisti tra cui il mio professore, Irving Howe, che mi invitò a collaborare. In quel momento la sinistra radicale americana era ancora accecata dall’Urss e Dissent nasceva per contestare sia lo stalinismo sia il maccartismo».
Che secolo sarebbe stato il ’900 se Lenin avesse fallito?
«Se avessero vinto i menscevichi invece dei bolscevichi avremmo forse avuto una rivoluzione socialdemocratica. Tutto precipitò proprio quando i bolscevichi identificarono nei socialdemocratici il nemico spianando la strada al nazismo, perché i comunisti tedeschi si fecero persuadere dal “tanto peggio tanto meglio”».
Quanto abbiamo perso inseguendo l’utopia?
«Il comunismo ha corrotto la sinistra costringendo le sue menti migliori a difendere l’indifendibile. Alcune rivoluzioni hanno in sé il germe della tirannia. Quella americana non lo aveva ma nel Dna del leninismo c’era qualcosa. Allora, a sinistra, l’argomento difensivo era che la struttura gerarchica della diseguaglianza fosse così profonda da poter essere rovesciata solo con la dittatura. In parte è vero, ma è pericoloso. Ne siamo usciti con le ossa rotte, disillusi».
Nel 1988 scriveL’intellettuale militante. È pensabile oggi una figura così?
«I migliori sono stati emarginati dalle dittature. Penso a Gramsci ma anche a Silone, il mio maestro assieme a Camus. Sono troppo vecchio per i social media ma non mi paiono la risposta. Orwell sarebbe capito? C’è spazio per uno come Willy Brandt? Ci sono troppe voci e mancano quelle critiche, non solo a sinistra. In America avremmo bisogno di un dissenso di destra».
Nel saggio La rivoluzione dei santi associa puritani, giacobini e bolscevichi correlando la religione al radicalismo politico. È il caso dell’islam estremista?
«Ci sono paralleli con l’Isis. Nel mondo musulmano l’islam radicale compensa il fallimento delle forze secolari. Negli Anni 60 la sinistra americana aveva accanto molti preti. Oggi quelli di loro che sono ancora in politica osteggiano i diritti delle donne e dei gay: furono attenti ai diritti civili ma non lo sono sul gender. Credo che il risveglio religioso sia anche una risposta alla liberazione delle donne e dei gay».
Il crollo dell’Urss ha risolto la contraddizione tra libertà e giustizia sociale?
«Ahimè no. In Urss la giustizia sociale ha prodotto una società ingiusta, ma in America il frutto della libertà economica è stato una non libertà politica».
La Stampa 3.11.17
Stalin, un borghese piccolo piccolo
di Bruno Vespa
I grandi rivoluzionari sovietici erano tutti piuttosto benestanti. Esponenti della piccola e media borghesia russa, spesso di origine ebraica, avevano studiato e viaggiato. D’altra parte, il loro mentore Karl Marx non era figlio di un’esponente della borghesia industriale tedesca e di un raffinato avvocato ebreo? Non si era trastullato con la domestica fino a riceverne un figlio? Come ricorda Sergio Romano nel suo I confini della storia, Stalin era il solo popolano della compagnia, l’unico né russo né ebreo, figlio di un ciabattino georgiano, ammesso che la madre Ekaterina - giovane e bella, arrotondava il bilancio familiare lavorando a casa dei ricchi - non l’abbia avuto da un facoltoso mercante locale. [...] Poiché, una volta andato al potere, Iosif avrebbe massacrato gli artigiani, nelle agiografie di regime il padre legittimo venne retrocesso (o meglio, promosso) al rango di operaio in un calzaturificio. Sta di fatto che questi era un incallito ubriacone e picchiava il ragazzo, che finì con l’odiarlo; mentre la madre lo proteggeva e ne fu amatissima.
Nato nella cittadina di Gori nel 1878 (undici anni prima di Hitler e cinque prima di Mussolini), Soso (così lo chiamavano tutti da ragazzo) fu un buon allievo della scuola ecclesiastica locale. La statura si fermò a un metro e 60 e dovette rappresentare per lui un piccolo complesso, visto che avrebbe chiesto al capo della sua scorta di trovargli scarpe con la suola alta. A differenza di Berlusconi, che si sarebbe limitato a questo piccolo vezzo, Stalin avrebbe assistito alle parate su una pedana, in modo che la folla lo vedesse qualche centimetro sopra gli altri gerarchi.
Il Sole 3.11.17
Per la prima volta da un secolo, in una questione così delicata, manca l’azione di Washington
Una crisi europea senza gli Stati Uniti
di Carlo Bastasin
È ormai un riflesso convenzionale dire che la crisi catalana abbia messo in luce la carenza di assertività europea. Ma qualcosa di ancor più inedito dovrebbe saltare agli occhi: la completa assenza degli Stati Uniti, per la prima volta da un secolo, in una questione di tali dimensioni sul quadrante europeo. È un vuoto che cambierà l'ideologia europea e che modificherà il linguaggio politico. L'Europa deve ancora attrezzarsi per una responsabilità solitaria che non ha mai avuto.
Può aiutare un episodio 15 anni fa. L’11 luglio 2002, otto soldati marocchini issarono la bandiera nazionale sull’isola disabitata di Pereji, territorio spagnolo benché a soli 250 metri dalla costa africana. La Commissione Ue parlò di inaccettabile aggressione. I giornali di prima invasione militare in Occidente dalla fine della guerra mondiale. Meno di una settimana dopo, il premier spagnolo Aznar inviò 28 unità speciali, cinque elicotteri, cinque navi da guerra e due sottomarini per riconquistare lo scoglio. Ma nessuno avrebbe sparato un colpo senza il consenso di Washington. Il generale Colin Powell, allora Segretario di Stato, controvoglia, dovette deviare da un viaggio in Asia per sedersi con i due governi e ristabilire l'ordine. Powell descrisse la contesa nelle sue memorie come riguardante «una stupida isoletta» che gli ricordava la parodia di Peter Sellers sul «topo che ruggiva». Nell’attuale crisi tra Madrid e Barcellona, ben più significativa di quella del 2002, gli Stati Uniti non sono mai apparsi nel radar diplomatico.
Per 70 anni, gli Usa hanno garantito non solo l’ordine internazionale, il pivot delle alleanze, la crescita economica attraverso la cooperazione multilaterale, ma anche la certezza che, nel caso la politica e la diplomazia avessero fallito, ci sarebbe stata una minaccia di ordine militare. Oggi in Europa è come se fosse scomparso non solo il monopolio della forza, ma l’argine alle parole.
Non abbiamo vere risposte su come sia potuta accadere Brexit, come cioè una élite di Oxbridge, classista o superficiale, abbia potuto creare un proprio linguaggio popolare trascinando un intero paese verso l’autolesionismo. O come un sentimento di diversità imprecisata stia lacerando la Spagna. O ancora come le regioni più aiutate d’Europa, Polonia, Ungheria e Germania orientale, si siano rivoltate ai loro benefattori. Paesi tra i più sviluppati del mondo esprimono un'aggressività autolesiva che appare irrazionale.
Ricorriamo ad astrazioni anch’esse imprecisate - identità, populismo, svantaggio, distanza o altro - calate in due diverse forme di risposta alle pene dell’adattamento alla globalizzazione. Una polarizzazione tra vincitori e perdenti della trasformazione economica, reciprocamente ostili, in cui per esempio la Catalonia o il lombardo-veneto sono centro, mentre Madrid o Roma sono periferia, così come lo sono diventati il Kentucky e l’Ohio. Ma nemmeno questa dialettica spiega la radicalizzazione dei toni. Forse non vediamo ciò che è evidente ed inedito al tempo stesso: che le parole, i progetti e le promesse nel discorso pubblico corrono senza freni, perché da pochi anni il maggiore tra gli inibitori è caduto insieme all'attenuarsi del mondo unipolare americano: la guerra come argomento centrale della politica.
La guerra come minaccia terribile il cui timore aveva reso gravi e responsabili le scelte politiche nei decenni successivi al '45. Oggi questa ponderazione storica è evaporata, forse anche in Germania, il paese che ne aveva preservato la memoria, ma temuto la responsabilità. L'irrazionalità assume così le vesti di un situazionismo privo di sanzioni, o di un nazionalismo senza spargimenti di sangue. Boris Johnson uno degli artefici di Brexit ha evocato la guerra proprio alla Spagna nell'eventualità di questioni su Gibilterra, salvo poi negarne la volontà. Che si tratti di pura goliardia è una pericolosa illusione. Così come con l’irreale Brexit, le parole prendono vita propria. La storia è essa stessa il racconto della storia. Le ultime elezioni americane sono in gran parte definite da due fattori culturali storici, specifici a ogni distretto elettorale: la presenza di schiavi afro-americani 150 anni fa e il livello attuale di istruzione. Nel vuoto di responsabilità, si radica un linguaggio che vellica l'istinto di discriminazione.
La guerra senza la guerra non è solo prerogativa dei populisti. Quando si è trattato di gestire la crisi europea, si è ricorsi al principio di autarchia – ogni paese viva entro i propri limiti – come nelle condizioni belliche. La richiesta ai paesi in difficoltà era di azzerare i debiti interni ed esterni, in modo da non aver bisogno di aiuti e di non produrre contagi. Una comunità di paesi isolati l'uno dall'altro, in una vecchia visione di rapporti di forza tra diplomazie in conflitto.
La pace, come è noto, non coincide con l'assenza di guerra. Anni fa Samuel Huntington sottolineava gli effetti collaterali della “non-guerra”: i debiti degli Stati non vengono mai ripudiati, né ci sono profonde revisioni delle carte costituzionali. Le istituzioni quindi non si aggiustano alla realtà e custodiscono i vecchi assetti di interesse, come è tanto evidente se si osserva la composizione del Congresso degli Stati Uniti, fino a erodere il senso di democrazia rappresentativa. L'immobile democrazia degli interessi estrania e irrita gli elettori. L'assenza di informazione sulle conseguenze di Brexit e il deserto del voto giovanile, hanno coinciso con lo spostamento del discorso democratico sul piano delle emozioni. E queste ultime in assenza di principi e valori, che per amaro paradosso le guerre rendono evidenti, si costruiscono un antagonista e quindi un nemico alle porte. È così l'identità tra guerra e territorio a dominare la definizione del potere che, incessante, batte il ritmo del news-cycle. Significativamente, anche Russia e Cina sono oggi molto più collaborative sui grandi temi globali – la non proliferazione, la lotta al terrorismo e l’economia globale – di quanto non lo siano sui temi regionali, a cominciare dall’Ucraina e dai mari meridionali della Cina. E in Europa la rivendicazione delle autonomie locali è riemersa con la caduta dell’impero sovietico e ora si rafforza con il disimpegno americano.
Il Trattato di Lisbona ha declinato un’unione sempre più stretta tra i popoli d'Europa, con l’obiettivo di sviluppare la pace, i valori e il benessere dei popoli. Ma i popoli, è la contraddizione degli eventi spagnoli, si possono esprimere solo nelle condizioni delle democrazie e quindi entro le istituzioni degli Stati. Se si vuole rispettare la diversità dei popoli, paradossalmente bisogna adottare la visione di un unico popolo europeo anziché di molti Stati. Sarà d'altronde la strada ovvia per un continente che in questi giorni sta scoprendo di non vivere più all'ombra della potenza americana.
Il Sole 3.11.17
Ritratto di Xi, il leader cinese più potente dai tempi di Mao
Figlio dell’aristocrazia rivoluzionaria dei «principi rossi»
Esce oggi il nuovo libro di Bruno Vespa, “Soli al comando. Da Stalin a Renzi, da Mussolini a Berlusconi, da Hitler a Grillo. Storia, amori, errori”. Mondadori - Rai Eri, 516 pagine, 20 euro. Pubblichiamo una parte del capitolo dedicato a Xi Jinping.
L’estate del 2017 non ha fatto eccezione. Come ogni anno, da molti decenni, gli uomini che dirigono la Cina si riuniscono nelle prime due settimane di agosto a Beidaihe, una località marittima a meno di 300 chilometri da Pechino, per mettersi d'accordo sul futuro del paese. Qui, nel 1958, Mao Tse-tung ha lanciato il Grande balzo in avanti (un disastro economico con 40 milioni di morti per fame). Qui, trent’anni dopo, Deng Xiaoping criticò le politiche riformiste del premier Zhao Ziyang che portarono poi alla repressione di piazza Tienanmen.
Nel 2017, ricorda Cecilia Attanasio Ghezzi nell'articolo Xi Jinping pronto al secondo mandato: un uomo solo al comando («Lettera43», 26 agosto 2017), il clima era piuttosto teso perché in luglio, pochi giorni prima delle vacanze, era stato arrestato Sun Zhengcai, il segretario del partito a Chongqing, la cui provincia conta da sola la metà degli abitanti dell'Italia. Sun era uno dei 25 membri del Politburo, l'ufficio di vertice del Pcc, ed era considerato il più accreditato successore di Xi Jinping alla guida del partito e dello Stato nel 2022. Nello stesso mese, Xi è stato il solo leader a sfilare nella grande parata commemorativa dei 90 anni dell'Esercito popolare di liberazione, che ebbe in Mao il suo primo condottiero. Non c'è voluto molto a capire che il successore di Xi sarebbe stato Xi.
Il nuovo Mao
Il XIX congresso del partito, svoltosi tra il 18 e il 25 ottobre 2017, ha deciso con voto unanime che «il pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era» fa parte della Costituzione del Partito comunista cinese dal giorno conclusivo del congresso stesso. I soli nomi presenti in Costituzione sono quelli di Marx, Mao e Deng Xiaoping, peraltro aggiunto dopo la morte. La decisione di quest’ultimo di porre fine alla guida monocratica del partito, per non far nascere nuovi Mao, è dunque fallita. E nel nuovo Politburo, Xi ha inserito solo persone non giovani e quindi non in grado di sostituirlo nel 2022. Si annuncia, pertanto, una presidenza potenzialmente a vita. Come quella di Mao, appunto.
C’era un tempo in cui a noi occidentali i cinesi sembravano tutti uguali. Non solo perché insaccati nell’uniforme alla Mao, che non capivi mai se fosse civile o militare. Ma ci sembravano uguali anche in viso. Xi Jinping, con i suoi abiti di buon taglio occidentale e la sua espressione simpatica, aperta, gioviale, è il ritratto della nuova Cina postcomunista, pur essendo rigidissimamente comunista.
È nato a Pechino nel 1953 ed è nato bene, anzi benissimo, per gli standard del suo paese. Fa parte, infatti, dei «principi rossi», l’aristocrazia rivoluzionaria, che discendono da chi, come suo padre Xi Zhongxun, ha combattuto la guerra civile accanto a Mao e ha vissuto con lui la liberazione del 1949.
Nel 1969 Xi, appena sedicenne, incappò nella Rivoluzione culturale. Suo padre finì in prigione, lui fu mandato a rieducarsi nello Shanxi, in un gruppo di produzione. «Un ragazzo istruito», gli dissero, «ha bisogno di rieducazione da parte dei contadini più poveri.» Furono anni di forti privazioni, ma lui ne ha fatto un punto di forza della sua carriera.
«Mi ritrovai ogni giorno a fare diversi chilometri a piedi in montagna, trasportando sulle spalle 50 chili di peso in equilibrio sul bastone dei portatori».
Quando, a metà degli anni Settanta, la Rivoluzione culturale finì, Xi si laureò in ingegneria chimica e divenne funzionario di partito. Nel 2002, alla vigilia dei 50 anni, la prima svolta: diventò membro del comitato centrale del partito e, come governatore, fece dello Zhejiang una delle province più avanzate. Fu allora che iniziò la lotta alla corruzione, che ha sempre caratterizzato la sua politica.
La lotta alla corruzione
Da quindici anni era sposato con Peng Liyuan, una militante comunista (è stata anche membro dell’Esercito popolare di liberazione) che era, soprattutto, una cantante di successo. Nel 1983 era diventata popolarissima perché era stata la star della notte del Capodanno lunare, ruolo che avrebbe svolto anche negli anni successivi. Nei primi anni di matrimonio, insomma, Xi veniva chiamato «il marito di Peng Liyuan». La coppia ha avuto una figlia, Xi Mingze, che ha studiato a Harvard sotto pseudonimo per evidenti ragioni di sicurezza e di privacy.
Nel 2007 i ruoli si ribaltarono, quando lui diventò segretario del partito di Shanghai, fu eletto membro dell’ufficio politico del Pcc e segretario del comitato centrale: una posizione di potere strategica. Uomo di fiducia del presidente Hu Jintao, diventò suo vice nel 2008, viaggiando spesso all’estero e facendosi conoscere da molti statisti stranieri. Diede le prime dimostrazioni del suo celebrato pragmatismo durante un viaggio in Messico nel 2009, nel pieno della crisi finanziaria internazionale. Difendendo l’impegno del suo paese per combatterla, Xi andò per le spicce con un gruppo di garbati contestatori: «Primo, la Cina non esporta la rivoluzione. Secondo, la Cina non esporta fame e povertà. Terzo, la Cina non esporta seccature. Che altro c’è da dire?». (...)
il manifesto 3.11.17
«Dichiarazione Balfour, un documento di matrice coloniale»
Israele/Palestina. Intervista al docente Roberto Mazza dell'università di Limerick. «Per alcuni quella dichiarazione britannica è stata un gesto umanitario ma accademici e commentatori convergono che fu parte di una politica coloniale»
di Michele Giorgio
GERUSALEMME I motivi e il contesto che portarono, il 2 novembre di cento anni fa, alla Dichiarazione Balfour da parte della Gran Bretagna sono al centro di un inteso dibattito in questi giorni. Ne abbiamo parlato con il professor Roberto Mazza, docente di storia all’università irlandese di Limerick. Mazza, autore di numerose pubblicazioni sulla genesi di Israele e sulla Palestina, ha partecipato ieri alla conferenza a Gerusalemme “100 years after- Balfour and beyond”, assieme agli storici Avi Shlaim e Salim Tamari.
I palestinesi condannano con forza la Dichiarazione Balfour. Israele al contrario festeggia quel documento fondamentale per la sua nascita nel 1948.
La Dichiarazione Balfour non ha avuto dei risultati immediati dopo il suo annuncio. Ha avuto un grande effetto dopo che fu inserita, nel 1920, nel contesto legale del Mandato Britannico in Palestina. Soprattutto a livello di propaganda e anche psicologico. Chaim Weizman (tra i principali leader sionisti e primo presidente di Israele, ndr) riuscì attraverso la promessa (della creazione di uno Stato ebraico in Palestina) a mettere insieme i pezzi del movimento sionista spaccato al suo interno. Con l’inclusione della Dichiarazione nel Mandato britannico parliamo di un sionismo più unito, coloniale e di occupazione.
Quanto i palestinesi furono consapevoli della portata della Dichiarazione Balfour.
Sebbene l’élite palestinese fosse a conoscenza della Dichiarazione, per un paio d’anni non riuscì a comprenderne il senso e quanto fosse importante ed effettiva. Solo dopo la sua inclusione nel Mandato britannico i palestinesi si sono resi conto che la promessa (di Balfour) era diventata qualcosa di più tangibile. I britannici non solo avevano promesso ma anche aiutavano il movimento sionista.
La Dichiarazione Balfour fu, come ancora oggi sostiene la storiografia tradizionale, un gesto umanitario a favore degli ebrei vittime delle persecuzioni e dell’antisemitismo, oppure rappresentava un tassello nel disegno britannico di ridefinizione del Medio Oriente dopo la fine dell’impero Ottomano.
Per alcuni è stato un gesto umanitario ma la grande maggioranza degli accademici e dei commentatori convergono che fu parte di una politica coloniale. Magari da un punto di vista personale qualcuno aveva l’idea di supportare gli ebrei di fronte ai progrom che accadevano nell’Europa dell’est. Ciò nonostante la Dichiarazione Balfour fu un documento di matrice coloniale.
Uno storico arabo, Bashir Nafi, sostiene che i britannici non hanno mai fatto riferimento a uno “Stato” in Palestina ma solo una “national home” per gli ebrei.
Vero, il genio dei britannici ha creato una parola senza nessun vero significato. In italiano “national home” fu tradotto come “focolare nazionale”. Di questo i sionisti hanno fatto un punto. Per loro significava un “focolare” che sarebbe diventato uno Stato, per i britannici era semplicemente una parola per non usare “Stato”. Per gli arabi era un grande punto di domanda: cos’è? E sotto gli occhi degli arabi la situazione si è evoluta: prima il Mandato britannico, poi la formazione di uno Stato e oggi siamo all’occupazione anche di Cisgiordania e Gaza.
Dopo la Grande rivolta araba del 1936-39, che pure avevano represso brutalmente, i britannici cominciano ad avvicinarsi ai palestinesi. Il famoso “Libro Bianco” del 1939 ne offre una dimostrazione visto che non prevede più la creazione di uno Stato ebraico, punto che scatenò la reazione, anche armata, dei militanti sionisti, specialmente quelli di destra.
C’erano sempre tante domande sulla possibilità di trovare un ponte tra due tendenze, tra lo stabilire una colonia ebraica in Palestina e le rivendicazioni dei palestinese. Con gli anni Trenta però i britannici, ai quali la Palestina comincia a costare molto sotto ogni punto di vista, si rendono conto che le loro politiche in Palestina sono in conflitto. Pensano perciò a un solo Stato, preconizzando una soluzione di cui oggi si comincia a discutere.
Poi arriva la Seconda guerra mondiale e a questo punto riemerge un interrogativo al centro del dibattito tra gli storici. Quanto l’orrore suscitato in Europa e nel mondo dall’Olocausto, dallo sterminio di milioni di ebrei compiuto dai nazisti, spinse i britannici, a cominciare dai laburisti, e i leader mondiali a realizzare la promessa di Balfour, procedendo alla partizione della Palestina nel 1947 e alla creazione dello Stato di Israele l’anno successivo.
Sul terreno i sionisti apparivano già vincenti, tuttavia l’Olocausto diventa importante nel momento in cui si deve giustificare la nascita di Israele. E l’Olocausto resta centrale per la sopravvivenza di Israele anche nel post 1948. Per motivi politici, con le potenze europee che chiudono un occhio sulla guerra e sui massacri che avvengono in Palestina. Per la sinistra europea (in quel periodo) sostenere lo Stato ebraico è ovvio, anche per la sua natura socialista. Cosa facciamo con gli arabi? Questa domanda non ha mai avuto una risposta. Gli arabi, i palestinesi, non erano responsabili dell’Olocausto però ne hanno pagato il prezzo.
il manifesto 3.11.17
Lo «smemorato» Netanyahu da Balfour a Rabin
di Zvi Schuldiner
Nelle strade di Beer Sheva (sud di Israele), in questi giorni hanno sfilato australiani, neozelandesi e alcuni inglesi. Il premier Netanyahu ha partecipato a una curiosa celebrazione: 100 anni fa, le truppe inglesi entravano in Palestina cacciando i turchi dall’area.
Era in corso la prima guerra mondiale. Gli inglesi cercavano alleati e valutarono il fatto che gli ebrei avrebbero potuto essere un fattore di potere sia nella nascente rivoluzione russa sia negli Stati uniti. Mentre membri del governo lanciavano avvertimenti su una possibile, incombente tragedia, lord Balfour dichiarò che l’allora potenza coloniale avrebbe contribuito a creare una patria per il popolo ebraico.
Gli oppositori a quest’idea non erano precursori dei diritti nazionali dei popoli o dei palestinesi; semplicemente ritenevano che la Dichiarazione avrebbe potuto pregiudicare la posizione inglese verso gli alleati arabi nella regione.
Ahad Haam – un ebreo che nel movimento sionista poneva sempre l’accento sul sionismo spirituale e sulle sue esigenze morali, un sionismo con radici storiche nel passato della Palestina ma che doveva aderire ai valori umani fondamentali – sottolineò che il giusto riconoscimento dei diritti degli ebrei non avrebbe dovuto andare a scapito delle popolazioni locali e chiese di non trascurare la questione. I suoi testi ebbero notevole influenza sui fondatori di Brit Shalom, piccolo ma influente gruppo di intellettuali e accademici ebrei, che anni dopo avrebbero militato per uno Stato bi-nazionale.
Il leader palestinese Abu Mazen si rivolge agli inglesi dicendo che devono chiedere scusa ai palestinesi. Ma così miglioreranno forse i libri di storia dopo cento anni?! Forse è più «realistico» Netanyahu, il quale pretende di capitalizzare la Dichiarazione Balfour per riaffermare le esigenze israeliane.
È arrivato a Londra inventandosi una nuova vacanza di quattro giorni. Gli inglesi non ricevono volentieri Netanyahu, ma intanto può sottrarsi al clima pesante di questi giorni: due giorni fa sono cominciate le commemorazioni per l’assassinio del premier Isaac Rabin e questo gli crea alcuni grattacapi.
Durante la commemorazione ufficiale, il figlio di Rabin ha detto che la situazione agitata e l’aggressione antidemocratica non sono finite. Con chiara allusione a iniziative ufficiali e all’appoggio governativo a diversi progetti di legge antidemocratici mentre si accentua un clima di aggressione e persecuzione contro ogni dissidenza.
Anche il presidente Rivlin si è riferito alla necessità di rispettare le regole della democrazia e il povero premier ha potuto rispondere solo che il suo ruolo consisterà nel consolidare il clima di unità e democrazia.
Senza esagerare. È pur sempre Benjamin Netanyahu.
Nei giorni di Oslo, fu l’artefice principale delle proteste contro Rabin. Rabbini e leader della destra accusarono con grande fervore i traditori: questi ultimi volevano «consegnare al nemico le terre sacre dateci da Dio».
Netanyahu e l’ultradestra attribuirono a Rabin la colpa delle vittime uccise in attentati terroristici. Il terrore e la debolezza. Il tradimento. Rabin vestito con l’uniforme nazista. Netanyahu che sfila con i suoi compari e «non vede» il sarcofago simbolico retto dai suoi accoliti a pochi metri di distanza.
Netanyahu e Sharon «non vedono» i cartelli e gli appelli a «espellere Rabin con il sangue e il fuoco» nella famosa manifestazione fascista a Gerusalemme, poco tempo prima del suo assassinio. I rabbini gridano al tradimento e forniscono le basi ideologiche per la liquidazione di Rabin che stava compiendo il crimine di consegnare al nemico le sacre terre.
Sabato ci sarà una grande celebrazione a Tel Aviv. Senza politica, dicono gli organizzatori. Saranno presenti anche esponenti della destra…per sottolineare l’appello all’unità del popolo.
Intanto il deputato israelo-palestinese Baalul, dello schieramento laburista, sostiene che non andrà all’evento per la dichiarazione Balfour e il nuovo leader del partito sostiene che non c’è posto per gli estremisti nel partito.
Gabay, il nuovo grande leader, è impegnato ad attrarre ebrei di destra… in effetti il laburismo a poco a poco è diventato una sbiadita versione «moderata» del Likud di Netanyahu.
Il primo ministro a Londra parla agli inglesi del grande Balfour e dei diritti di Israele. I suoi viaggi all’estero sono un’invenzione geniale sia per riaffermare l’intransigente politica coloniale israeliana sia come scappatoia: le forze di polizia gli chiedono di dedicare tempo a gravi indagini per corruzione ed egli non ha tempo.
In più, non è tanto gradevole essere presente in Israele mentre si parla talmente di Rabin, e alcuni screanzati osano ricordare il ruolo di Netanyahu negli eventi criminali di quel periodo.
il manifesto 3.11.17
Balfour. Netanyahu e May festeggiano, Abu Mazen condanna
Israele/Palestina. A Londra si sono svolte le celebrazioni per la Dichiarazione che cento anni fa promise un "focolare nazionale ebraico" in Palestina. Dura la protesta del presidente palestinese. Manifestazioni e scontri in Cisgiordania
di Michele Giorgio
GERUSALEMME La premier inglese Theresa May e il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu ieri a Londra hanno celebrato prima a Downing Street e poi con una cena il centenario della Dichiarazione Balfour che promise un “focolare nazionale ebraico” in Palestina. Forte la soddisfazione di Netanyahu. «Mentre lo Stato di Israele non sarebbe sorto senza accordo, sacrificio e volontà di combattere per esso, l’impulso internazionale è stato rappresentato senza dubbio dalla Dichiarazione Balfour», ha fatto sapere attraverso il suo ufficio. Il premier israeliano ha quindi accusato i palestinesi di non puntare alla pace e di non voler ancora riconoscere l’esistenza di Israele. Da parte sua May ha parlato della Dichiarazione Balfour come di «uno dei documenti più importanti della storia». La Gran Bretagna, ha aggiunto, deve essere «fiera del suo ruolo da pioniera nella creazione dello Stato d’Israele». Alle celebrazioni non ha preso parte il leader laburista Jeremy Corbyn che si è fatto sostituire da un membro del suo governo-ombra.
La premier britannica ha concesso ai palestinesi soltanto un richiamo alla necessità di rilanciare i negoziati di pace con Israele e una blanda critica alla colonizzazione ebraica della Cisgiordania. Da Ramallah è giunta la replica di Abu Mazen. Il governo britannico deve «scusarsi pubblicamente» con il popolo palestinese e risarcirlo «politicamente, materialmente e moralmente, riconoscendo lo Stato della Palestina». Il presidente palestinese ha ricordato che la nascita dello Stato d’Israele nel 1948 provocò circa 750mila profughi palestinesi e «milioni di loro discendenti» sono costretti a vivere ancora come rifugiati.
Migliaia di palestinesi ieri hanno manifestato contro le celebrazioni a Londra. A Betlemme le forze di occupazione israeliane hanno sparato candelotti lacrimogeni e proiettili di gomma per disperdere i dimostranti che poco prima avevano bruciato una copia della Dichiarazione e lanciato scarpe contro un manichino somigliante ad Arthur Balfour. Nelle scuole sono risuonate le sirene per rimarcare la giornata di “lutto” e migliaia di lettere di protesta, scritte dagli studenti palestinesi, sono state inviate alle sedi diplomatiche e alle rappresentanze britanniche in Israele e in Cisgiordania.
La Stampa 3.11.17
Insulti e minacce a Parigi
Ebrei in fuga dalla banlieue
Scritte inneggianti a Hitler sui muri e lettere con i proiettili È antisemita un atto razzista su tre. E la comunità ha paura
di Leonardo Martinelli
La prima di quelle lettere arrivò in aprile: all’interno minacce di morte, qualche «Allah u Akbar» e una pallottola calibro 9 mm. Paul (non è il suo vero nome) abitava in questa villetta di periferia da diciassette anni, a Noisy-le-Grand, a Est della capitale francese: lui e la moglie ebrei, con quattro figli. Rimasero interdetti, sospesi tra paura e delusione. Già il giorno dopo una nuova missiva: «Siete proprio voi il nostro obiettivo, siete già morti». E un bossolo di kalashnikov.
Paul avvertì la polizia e una videocamera fu installata davanti a casa. Ma poi tolta in luglio. E subito sgradevoli scritte cominciarono a comparire sul muro di cinta: «Viva Isis», «Vi elimineremo», «Ebrei, vi fotteremo». E ancora pallottole nella cassetta delle lettere: non finiva mai. Finché lo scorso 5 ottobre qualcuno ha tentato di sfondare la porta del garage. «In quella casa, al minimo rumore, non si dormiva più – ha ammesso Paul -. Siamo andati via». A vivere altrove, almeno per il momento. Lui ha raccontato la sua esperienza ai giornalisti di Le Monde: è un antisemitismo quotidiano e ordinario, in crescita a Parigi, soprattutto nelle banlieues più popolari.
In Francia vive la più grossa comunità ebraica d’Europa, circa 550 mila persone. E l’antisemitismo non è una novità di oggi. In un sondaggio che era stato realizzato da Fondapol tra gli ebrei di diversi Paesi alla fine del 2013, già emergeva che la situazione era peggiore che altrove: ad esempio, il 60% temeva di essere aggredito fisicamente perché ebreo nell’anno a venire contro il 17% nel Regno Unito, il 18% in Svezia e il 34% in Germania. Quanto agli atti antisemiti ufficiali e denunciati, «hanno rappresentato uno sue tre di quelli globalmente razzisti registrati in Francia nel 2016, nonostante gli ebrei siano meno dell’1% della popolazione», si legge nell’ultimo rapporto del Servizio di protezione della comunità ebraica (Spcj).
A dire il vero nel 2014 era andata ancora peggio, uno su due. Ma quest’apparente miglioramento è compensato in misura negativa proprio dal lievitare di un subdolo antisemitismo ordinario, che spesso non viene fuori dalle statistiche. «Sono ormai numerose le vittime di aggressioni verbali per strada o di violenze leggere che non le denunciano più alla polizia», si legge ancora nel rapporto del Spcj. È quanto conferma Alain Bensimon, presidente della sinagoga di Garges-lès-Gonesse, a Nord di Parigi. «Gli ebrei non denunciano questi soprusi – dice -, perché hanno l’impressione che non serva a niente». Lo scorso 17 settembre, in occasione di una festa ebraica, un gruppo di ragazzini tra i 15 e i 18 anni sono entrati nel cortile della sinagoga e hanno gridato «sporchi ebrei». Si sono presi a botte con alcuni giovani della comunità. Sono quei fatti che non finiscono neanche sui giornali. «Ma negli ultimi anni almeno sette famiglie ebraiche hanno lasciato Garges», ammette Bensimon. Fuggono dalla zona di Parigi oppure, all’interno dell’agglomerato, si concentrano in alcune aree, dove si sentono più protetti, come Le Raincy, Comune più ricco in mezzo alla periferia Nord più problematica.
Questo nuovo antisemitismo, forte soprattutto fra i giovani e giovanissimi, è nato intorno al 2000, con la seconda intifada in Palestina e i suoi riflessi sulle popolazioni di origini arabe delle banlieues. Da allora si segnalano anche fatti particolarmente efferati. Nel gennaio 2006, a Bagneux, a Sud di Parigi, quella che poi fu soprannominata «la gang dei barbari» sequestrò Ilan Halimi, un giovane ebreo: lo tennero prigioniero per 24 giorni, torturandolo fino alla morte, sperando che la famiglia (per forza ricca nella loro testa, perché ebraica) pagasse un generoso riscatto. Proprio due giorni fa, una lapide che ricordava l’eccidio di Ilan in un parco di Bagneux è stata divelta e imbrattata con scritte inneggianti a Hitler. Ieri, invece, la Corte d’Assise di Parigi ha condannato a 20 anni di reclusione Abdelkader Merah, considerato istigatore del fratello Mohamed, che nel 2012 fece una strage presso una scuola ebraica a Tolosa, uccidendo anche tre bambini. Le scuole confessionali della comunità, però, hanno registrato negli ultimi anni un aumento degli iscritti. Oppure gli studenti ebrei vanno comunque in quelle private, considerate più al riparo rispetto alle pubbliche da questo nuovo e insidioso male della società francese. Che è l’antisemitismo di ogni giorno.
Corriere 3.11.17
In mostra a Bonn e Berna le opere rubate agli ebrei dal «ladro di Hitler»
Esposti 450 quadri ritrovati 5 anni fa in una cavità segreta
di Luigi Offeddu
L’artista fallito di nome Adolf, che respinto dall’accademia incendiò un giorno il mondo, era assai fiero dei «suoi» quadri e delle «sue» sculture: centinaia, migliaia di capolavori rubati dagli esperti-ladri di Hitler, in tutta l’Europa occupata, o «confiscati» ad istituzioni pubbliche in Germania come «arte degenerata».
Da ieri, e per la prima volta, sono in parte visibili a tutti, testimonianza di una cultura depredata dalla violenza di un regime, e dell’ingiustizia patita dalle vittime del grande saccheggio: sono infatti in mostra circa 450 di oltre 1.400 opere, valore complessivo sul miliardo di euro, ritrovate 5 anni fa in una cavità segreta dietro la parete di un appartamento, e ora suddivise in due esposizioni fra il Museo d’arte di Berna in Svizzera e la Galleria federale di Bonn, in Germania. Fra loro ci sono meraviglie come «Lussuria», la donna accovacciata scolpita da Auguste Rodin, o «Il ponte di Waterloo» di Monet, e poi opere firmate da Picasso, Matisse, Chagall, Lucas Cranach, Dürer, e così via. La cavità segreta era nell’appartamento di Cornelius Gurlitt, figlio del gallerista nazista Hildebrand, «Il ladro di Hitler» (uno dei 4 esperti più fidati del Führer), a Monaco di Baviera, e altri quadri erano in un altro suo appartamento a Salisburgo in Austria.
Secondo quanto dichiarato da Cornelius fino alla sua morte nel 2014, lui non aveva mai pensato che quei quadri fossero frutto di rapina. Ora, le due esposizioni si propongono anche di «ricordare con rispetto le vittime degli espropri e dei furti oltre che gli artisti, collezionisti e mercanti d’arte perseguitati dal regime», tutti o quasi ebrei. Ma solo pochissimi fra loro sarebbero stati rintracciati, e per sole 5 opere: l’ultimo caso, di appena un mese fa, riguarda il «Ritratto di una giovane donna seduta» di Thomas Couture, appartenuto a Georges Mandel, politico ebreo francese assassinato nel 1944. Cornelius Gurlitt aveva lasciato per testamento 150 delle opere accumulate dal padre al museo di Berna, che le ha esposte ora sotto il titolo «Arte degenerata confiscata e venduta». E spiega: «Sappiamo da quali musei provengono. Abbiamo preso solo opere di cui eravamo sicuri al 100% che non fossero state rubate a privati». Invece all’esposizione di Bonn — «Il furto d’arte nazista e le sue conseguenze» — si ammette che di almeno metà dei quadri si ignora del tutto l’origine. Una fondazione appoggiata dal governo tedesco «lavora per garantire che ogni opera rubata a proprietari ebrei sia restituita ai loro eredi». Ma finora, appunto, ha rintracciato solo 5 persone: «Ci sono musei e collezioni — ha dichiarato al giornale Die Zeit Ronald Lauder, presidente del Congresso ebraico mondiale — che non fanno ricerche sulla provenienza delle opere, e purtroppo gli archivi non sono ancora accessibili come dovrebbero. Alcune istituzioni preferiscono nascondersi dietro i regolamenti sulla protezione dei dati».
La Stampa 3.11.17
Russia in prima fila in Medio Oriente
Putin-Khamenei, intesa da 30 miliardi
di Giuseppe Agliastro
La Russia rafforza i già stretti legami politici ed economici con l’Iran. Mentre Trump minaccia l’intesa sul nucleare iraniano fra Teheran e le potenze del 5+1, Putin vola nella capitale iraniana e sigla contratti per 30 miliardi di dollari nel settore degli idrocarburi.
Sono sei gli accordi di massima firmati mercoledì da Mosca e Teheran nell’ambito della visita del leader del Cremlino nella Repubblica islamica e - secondo il capo del colosso russo Rosneft, Igor Sechin - porteranno a una produzione di 55 milioni di tonnellate di petrolio l’anno. Una cooperazione che giova a entrambe le parti. L’Iran, dopo anni di sanzioni, ha infatti bisogno di investimenti nel settore energia. La Russia - che già collabora con Teheran per lo sviluppo della centrale atomica di Bushehr - vuole invece rinforzare il suo peso geopolitico in Medio Oriente. Per raggiungere il suo obiettivo Mosca non usa solo le armi - come fa in Siria, dove ha ribaltato le sorti del conflitto a favore di Assad - ma anche il petrolio, come dimostrano gli investimenti negli oleodotti del Kurdistan iracheno e gli accordi per 3 miliardi di dollari firmati un mese fa con l’Arabia Saudita, partner chiave per il taglio della produzione di oro nero deciso dai paesi produttori, membri Opec e non, per far risalire i prezzi.
A Teheran, Putin ha incontrato sia il presidente iraniano Hassan Rohani sia la Guida suprema Ali Khamenei. Con loro ha discusso del conflitto in Siria alla luce dei recenti colloqui di Astana promossi proprio da Russia e Iran, oltre che dalla Turchia. Mentre Ankara sostiene alcuni gruppi ribelli, Mosca e Teheran stanno dalla parte di Damasco. Il momento di fare i conti si avvicina, e i tre Paesi hanno promosso la creazione di quattro zone di de-escalation che di fatto serviranno anche a creare delle sfere di influenza.
Al centro dei colloqui c’è stato ovviamente anche l’accordo sul nucleare iraniano del 2015 preso di mira dalla Casa Bianca. «L’inadempienza degli impegni internazionali non è accettabile», ha affermato Putin confermando il suo appoggio all’Iran e bacchettando Washington. «La nostra cooperazione può isolare l’America» e «ripristinare la stabilità in Medio Oriente», gli ha detto da parte sua l’ayatollah Khamenei lanciando un avvertimento agli Usa.
Il Fatto 3.11.17
Berlusconi ignora la mafia e difende gli impresentabili
Il leader riforma il codice penale: “L’arresto cautelare solo per i fatti di sangue, per il resto si versa una cauzione”
di Fabrizio d’Esposito
Il Politeama è un gigantesco vasa vasa. Bacia bacia, in lingua sicula. Cuffaro e il cuffarismo passano, forse, ma i baci restano. È un accostare continuo di guance. Tutti baciano tutti. Il potere si riconosce così.
Il più fecondo di smack, da vicino o da lontano, lanciandoli con le mani, è Gianfranco Micciché. Il ritrovato viceré azzurro della Sicilia è ridente e felice. Precede ballonzolante Silvio Berlusconi sul palco e lo presenta con un messaggio che sembra quasi un pizzino d’altra natura, non solo politica: “Presidente questa è la Forza Italia che non tradirà mai. La Forza Italia che la adora e le vuole bene. Nessuno mai la accoglierà come noi”.
Peccato solo che l’ex Cavaliere faccia a Palermo lo stesso discorso sentito a Fiuggi o più recentemente a Ischia. Con il solito incipit sulla paura del futuro e di una guerra nucleare. Berlusconi arriva al Politeama, il teatro nel centro più centro del capoluogo siciliano, alle cinque e mezzo del pomeriggio. È un giorno particolare. È il giorno dopo la notizia trapelata da Firenze: lui e Marcello Dell’Utri di nuovo indagati per le stragi mafiose del fatidico Novantatré.
Ma il Condannato ignora la questione. Fa finta di nulla. Qualcuno dei suoi fedelissimi lo aveva previsto in mattinata: “Ha preparato un discorso in cui non c’è nulla sui magistrati e le nuove accuse, però lo sapete il Presidente a volte non si trattiene”. E invece, stavolta, si trattiene: “Mi hanno consigliato di non parlarne in campagna elettorale”. Non solo. Per evitare equivoci con alcuni dei presenti, B. tratteggia la sua riforma del codice penale: “La custodia cautelare deve esserci solo per i fatti di sangue, per il resto si versa una cauzione”.
Viva l’omertà. E viva anche la prudenza virtù dei moderati: Berlusconi aspetta fiducioso la sentenza novembrina di Strasburgo sulla sua riabilitazione e tenta di mantenere un profilo bassissimo per far contenti gli alleati del Ppe, Merkel in testa. In materia si scuote solo quando difende gli impresentabili delle liste di Forza Italia: “Dov’è il problema? Non li votate e basta”. Ovazione. In prima fila c’è anche Nello Musumeci, che l’altra sera s’è beccato un cazziatone dall’ex premier: “Ma devi per forza parlare di impresentabili?”.
Al Politeama ce ne sono un po’. Di ieri e di oggi. Uno striscione enorme, con foto e saluti al Presidente, è quello di Marianna Caronia, indagata per corruzione e candidata al consiglio regionale. Il cognome eccellente è quello di Genovese, emblema di una dinastia democristiana e poi trasversale di Messina. Una scena magnifica. Papà Francantonio, già deputato del Pd e con una pesante condanna in primo grado per i corsi d’oro della formazione regionale, ben undici anni, papà Francantonio, dicevamo, fa da apripista nella folla del Politeama per il figlio ventunenne Luigi. Lui davanti e l’esile Genovese junior dietro. Vasa vasa, ancora. Luigi Genovese è candidato in Forza Italia e il papà premuroso promette: “A Messina avremo il risultato migliore di tutta la Sicilia”. Per loro, Musumeci è già oltre il muro del 40 per cento. Sarà.
I Genovese sono in primissima fila. Con loro, in ordine sparso: Saverio Romano, Stefania Prestigiacomo, Gabriella Giammanco, Renato Schifani.
In un palchetto, invece, è appollaiato l’eterno Domenico Scilipoti detto Mimmo, re dei Responsabili del 2011, quando passò da Di Pietro al centrodestra. Anche qui la scena è strepitosa. Berlusconi fa lo stanco elenco del suo programma di governo, in pratica togliere tutte le tasse esistenti, e annuncia una riforma costituzionale sul vincolo di mandato per impedire il trasformismo. Scilipoti non applaude e poi si sporge verso il vicino e gli chiede: “Ma che ha detto?”. Una comica. Così com’è irresistibile la coincidenza tra il B. pro-vincolo e le motivazioni di martedì scorso sul processo di Napoli sulla compravendita anti-Prodi: “Berlusconi è un corruttore”.
Il Politeama non è pieno come ci si aspettava. Truppe di anziani e donne, un po’ di ceto burocratico della regione, anche di matrice pidina, pronta al salto della quaglia. L’ex Cavaliere contiene il suo comizietto in un’ora. Una vera fortuna per chi lo ascolta. Sulla mafia, la sua è un’omertà da larghe intese. Matteo Renzi e il Pd sono infatti un avversario finto e invisibile, mai citato. Al contrario dei Cinquestelle “pauperisti e giustizialisti”. Gli alleati di Lega e Fratelli d’Italia sono invece retrocessi al grado di “signor Salvini” e “signora Meloni”. Vaneggia, B., di aver deciso pure i ministri con loro, dopo le Politiche: “Tre a Forza Italia, tre alla Lega, due a Fratelli d’Italia”. Ma Salvini gli versa addosso solo un glaciale distacco: “Mai parlato di questo”. Oggi, Salvini, B.. e Meloni saranno a Catania. Si vedranno “privatamente” senza fare foto insieme.
B. finisce alle sei e mezzo e fuori piove. Va in pasticceria con Francesca Pascale. Un bambino lo ferma e gli dà la mano. Per la gioia, il bimbo ringrazia così: “Non la laverò più”.
Repubblica 3.11.17
L’eterno inganno di Berlusconi
di Tommaso Cerno
NON è l’eterno ritorno, è l’eterno inganno. Contro ogni legge di gravità politica, Silvio Berlusconi sta di nuovo in piedi. Si è ripreso il campo, quel campo dove è andato in scena, nell’ultimo quarto di secolo, uno dei più grandi e macabri spettacoli politici del dopoguerra. C’è da chiedersi come faccia quel signore che viene dalla fine del tempo democratico a essersi rialzato dopo quel che gli è successo. Non basta a spiegarlo la sua straordinaria capacità di campaign, le tre elezioni vinte. Non basta perché più di quello pesa il triplice fallimento da uomo di governo, che lo portò a lasciare Palazzo Chigi firmando le sue dimissioni sotto i colpi dello spread.
NO, LA SPIEGAZIONE va cercata altrove. Non sta dentro quel corpo mutato e indurito dal trucco. Sta nel deserto del campo avverso, sugli spalti vuoti della sinistra. Un deserto che il Pd pagherà per anni, dopo avere retto governi, propri e impropri, da Mario Monti in avanti, sotto l’insegna retorica della responsabilità, agitando l’amor di Stato come ragione della propria azione politica. Invece le debolezze della sinistra, le fratture interne, la banalità del gergo incapace di capire le sfide della crisi globale hanno prevalso. E la sinistra non ha incassato alcun dividendo elettorale dall’azione di governo. Per questo è tornato Berlusconi, semplicemente parlando all’istinto di destra che c’è in Italia — perché c’è ed è pure tanto — e che c’è nel mondo.
L’alchimista Silvio è capace di tradurre quelle formule oscure che spaventano America ed Europa qui da noi, collocandosi in un luogo politico indefinito, che veleggia in barba alle onde fra populismo e Trump. Eppure lui, con la solita faccia tosta del gaffeur, illude il Paese. Si spaccia per ciò che non è, il padre dei moderati che s’è fatto ormai nonno. Una bugia che Berlusconi, con il tocco permanente del finto dilettante, fa credere alla gente, quando invece se c’è una cosa che non ha voluto né saputo fare in questi anni è stato fondare una destra conservatrice in Italia. Qualcosa di cui ci sarebbe stato bisogno.
Ora che il guaio è fatto, la sinistra fa a Berlusconi un attraente regalo di bentornato: il Rosatellum. Sarà lui a beneficiarne, lui e il suo equivoco politico permanente. Quello che gli consentì nel 1994 di tenere insieme il nazionalismo di Fini e il secessionismo di Bossi e che oggi mostra ancora quegli stessi limiti, da una parte si erge a presunto argine dei populismi, dall’altra fa l’imitatore dei sovranismi alla Le Pen e alla Salvini. Perderanno invece voti gli altri: Grillo che si vuole solo e che respinge le alleanze, perché si nutre di castità partitica; il Pd che, a parole, apre alle coalizioni allargate ma poi non le sa fare, finendo per frantumarsi in mille pezzi.
Questi nodi non sono sciolti e sono forse l’unica chiave per cercare un pertugio, un passaggio per fermare la destra. Perché se Berlusconi, finora, è sempre stato capace di nascondere questo difetto di fabbrica durante le campagne elettorali, celare cioè le contraddizioni salvo poi ritrovarsele tutte riproposte una volta che sedeva al governo, stavolta è a un bivio: non sa con chi governerà perché le alleanze si chiuderanno formalmente dopo il voto. La domanda da farsi, dunque, è: che carte ha davvero in mano? Può fare due scelte: governare con Salvini, che significa mutare la natura del segretario leghista da animale anti-governo tutto ruspe e distintivo in diligente e addomesticato ministro di un esecutivo targato Forza Italia. Oppure rovesciare il tavolo e guardare verso Renzi. Ma non è così facile, nemmeno per un mago dell’equivoco come lui, far digerire all’ex rottamatore della sinistra quel caravanserraglio di rottamati della destra che fu. Ecco il limite di questo ritorno di Berlusconi. Con lui ritorna anche il suo deficit politico e culturale, torna il passato, l’eredità dei suoi conflitti. Tornano i nodi pratici del berlusconismo d’antan. Primo fra tutti la giustizia, tema irrisolto. Non è affatto a orologeria, è dovuto a questioni mai chiarite come il ruolo di personaggi chiave della sua ascesa negli anni Novanta, quel Marcello Dell’Utri in carcere per concorso esterno alla mafia e quel Cesare Previti condannato per reati pesantissimi. Un peccato originale, che inquina il pozzo della destra, sul quale Berlusconi non ha la coscienza a posto e non ha mai rendicontato al Paese. Fino all’estrema contraddizione: essere incandidabile in virtù di una legge votata dal suo stesso partito, la legge Severino, e fare finta che non esista. Anzi, usarla per fare la vittima, per dirsi oggetto di una campagna politica e giudiziaria ordita ai suoi danni da non si sa bene chi, la cui origine sta invece tutta nelle azioni e nelle omissioni del Berlusconi Silvio. In veste prima di imprenditore legato alla politica, poi di politico legato alla sua stessa impresa.
Lo spazio per fermarlo è lì. Se la sinistra non passerà da questo pertugio, la campana che sentiamo suonare rischia di suonare a morto per Renzi e per il Pd. Perché il Cavaliere sa evocare il campo. Ed è tornato a stare in piedi da solo, come Voldemort di Harry Potter riprende carne e forma, pronto a giocare per l’ultima volta su quel campo. Mentre quelli che vediamo a sinistra non sono campi democratici, ma sono orti e orticelli. Dove ognuno semina la sua pianta. Ignaro che sta per venire il grande freddo del Nord. E tutto gelerà.
Corriere 3.11.17
Le città, le scelte le nostre periferie degradate
di Ernesto Galli della Loggia
Per una ragione insignificante — aspettavo la riconsegna dell’auto portata in un’officina per una revisione — la settimana scorsa mi sono trovato a passare alcune ore in una periferia di Roma. Neppure così lontana — prima del Grande Raccordo Anulare per intenderci — ma a me totalmente sconosciuta.
Rispetto a Torino, a Milano o anche a Napoli, Roma, come si sa, ha questa caratteristica: è sorta nel vuoto della «Campagna» e di una zona costiera scarsamente abitata. Storicamente non sono mai esistiti intorno Roma quegli agglomerati tipo Settimo Torinese, Sesto San Giovanni, Portici, che con il tempo sono venuti formando un tutt’uno con la città quasi senza soluzione di continuità. A Roma no. A Roma ancora oggi quasi sempre la periferia della città amministrativa non finisce in un altro centro. Finisce e basta. Nei prati, nei campi delle discariche e di qualche baracca, nei terrains vagues . Dopo le case c’è il nulla: proprio come nella periferia dove io mi sono trovato in una luminosa mattina di ottobre.
Era con ogni evidenza un quartiere di piccola borghesia, giovani coppie, comunque gente di redditi modesti. I marciapiedi dissestati, le sterpaglie un po’ dappertutto, qualche alberello stento, i cassonetti dell’immondizia sbilenchi e mezzo bruciati; e naturalmente ogni muro imbrattato dalle solite scritte smisurate. Il silenzio e la solitudine era ciò che più colpiva.
N elle vie abbastanza grandi, tra i palazzi di nuova costruzione — neppur troppo brutti e opprimenti per la verità, spesso con dei grandi spazi interni — a metà mattinata non c’era nessuno, letteralmente non anima viva. E del resto perché avrebbe dovuto esserci qualcuno? A fare che cosa? A perdita d’occhio, infatti, non si vedeva un ufficio, un’insegna, un negozio, niente. A provvedere alle necessità d’ogni giorno bastavano evidentemente i due o tre supermercati che s’incontravano un paio di chilometri prima sullo stradone che portava da quelle parti. Dove i locali commerciali non mancavano, ma tutti irrimediabilmente vuoti: alcuni ancora con le scritte stinte e i resti degli arredi, testimonianza di altrettanti tentativi andati a vuoto. Facevano eccezione una farmacia e poco più in là uno strano posto — forse il magazzino di un grossista — attraverso le cui vetrine si vedeva un numero incredibile di sedie a rotelle, girelli, stampelle canadesi e attrezzi simili. Solo molto lontano, sotto una specie di porticato, un bar addossato a una fermata d’autobus con due tavolini di plastica davanti. Insieme il bar e la fermata sembravano quasi come l’unico avamposto rimasto della civiltà, il solo tramite sopravvissuto verso il mondo remoto della città. La tabella della fermata indicava l’ultima corsa per le 21. Dopo quell’ora la solitudine di quelle strade, di quei palazzi, si tramutava evidentemente in un isolamento simile alla prigionia. Da lì per chi non possedeva un’auto o un motorino era impossibile muoversi, andar via. Ma che cosa diventavano quei luoghi — era impossibile non chiedersi — quando calava la notte? Quali sensazioni provava l’ultimo passeggero che scendeva dall’ultima corsa? Che cosa poteva fare lì la sera chi aveva vent’anni? Una risposta la suggerivano i distributori di preservativi e di sigarette rispettivamente fuori dalla farmacia e dal bar: entrambi blindati, saldati al muro con delle spesse sbarre d’acciaio.
Quanti uomini politici, mi sono chiesto, hanno mai messo piede da queste parti, da soli e magari di notte? Ma anche quanti di noi che abitiamo da sempre in una città ne conosciamo soltanto una parte, sempre e solo quella più comoda, più rassicurante? Forse il primo compito di un sindaco dovrebbe essere proprio quello di far conoscere ai cittadini la loro città per intero. Anche perché le cose che in essa non vanno non sono equamente distribuite tra le sue parti, e non basta leggerle sui giornali. Vista da una periferia, sia pure per poche ore ma in prima persona, ogni questione appare con contorni più netti, ogni problema acquista un’altra misura.
Diventa innanzi tutto più netta e tangibile la questione — dobbiamo ancora oggi adoperare questa parola — dell’ineguaglianza. Che, superata una certa soglia, produce una rottura violenta di quel sentimento di giustizia che vive entro noi e ci serve a mantenere il rispetto di noi stessi. Allorché per l’appunto l’ineguaglianza diventa ingiustizia. Determinare la soglia di cui sopra non è facile, certo. Ma è anche vero che forse abbiamo abbandonato con troppa disinvoltura l’idea di «giusta società» senza la quale una democrazia appassisce e probabilmente muore.
È stato positivo, ad esempio, aver tolto ai Comuni la risorsa dell’imposta sulla proprietà della prima casa, l’Imu, favorendo così il degrado dei centri urbani? E dunque condannando centinaia di migliaia di nostri concittadini a vivere ancor più non dico nella miseria, ma nello stato di deprivazione sociale e culturale, di solitudine esistenziale, di assenza di servizi e di stimoli, quale è quello che caratterizza (di certo non sempre per colpa degli amministratori) quasi tutte le nostre periferie urbane? E ancora: è giusto che dall’abbandono di tali periferie risulti poi una drammatica disparità di occasioni per quei giovani italiani che essendovi nati troveranno mille ostacoli in più per costruirsi un futuro simile a coloro che invece hanno avuto la fortuna di nascere e crescere altrove?
Non si tratta solo di giustizia a favore di una parte, ma del futuro di tutti noi. Si tratta di decidere, infatti, se vogliamo che le nostre città restino schiacciate nella morsa micidiale del degrado delle periferie da un lato e della distruzione dei centri storici a opera della barbarie turistica dall’altro. Se vogliamo intristire sullo sfondo di una scena urbana irriconoscibile e incarognita o se invece vogliamo continuare a vivere nei luoghi che hanno assistito alla nostra storia fino alla giovinezza di molti di noi, se vogliamo che ne continui lo spirito, l’atmosfera, la profonda sostanza umana, e in mille luoghi la bellezza suprema.
Di deciderlo eventualmente anche contro il nostro interesse immediato. Proprio a questo, del resto, dovrebbe servire la politica democratica. A correggere il naturale (e in certa misura opportuno) egoismo individuale concentrato sull’oggi, per favorire l’interesse generale, sia quello presente che quello più lontano nel tempo. Dunque guardando più oltre, pensando in grande, e, poiché è necessario, magari obbligando tutti, ma proprio tutti, a pagare le tasse.
Repubblica 3.11.17
Intercettazioni
Un velo d’invisibilità
di Massimo Giannini
LA NUOVA disciplina delle intercettazioni telefoniche fa tornare in mente un’antica lezione di Norberto Bobbio, che definiva la democrazia come “regime del potere visibile”: totale controllo da parte degli elettori, piena pubblicità da parte degli eletti. Dunque, il decreto legislativo appena varato dal governo risponde alla formula del “potere visibile”, che il grande filosofo del diritto coniò già nel lontano 1980, o invece contribuisce a nascondere la nostra democrazia dietro un pur sottile “velo di invisibilità”?
Tra le due ipotesi, purtroppo, è vera la seconda. Nonostante i proclami solenni del presidente del Consiglio, il provvedimento uscito da Palazzo Chigi non è il “gran bavaglio” berlusconiano, ma è pur sempre un “bavaglino” gentiloniano. Allacciato intorno al collo delle Procure (e di riflesso della stampa, della tv e del web) a poco più di quattro mesi dalle elezioni del 2018. Rispetto alla versione originaria circolata due mesi fa abbiamo fatto passi da gigante sulla via delle garanzie. Il vecchio testo pareva uscito direttamente dal Comintern sovietico o dal Gran Consiglio del Fascismo: mirava a garantire il diritto alla “riservatezza assoluta delle comunicazioni”, a danno del diritto dei media a informare e dei cittadini ad essere informati. Vietava la trascrizione integrale delle intercettazioni negli atti da parte dei magistrati e la pubblicazione da parte dei giornalisti, imponendo agli uni e agli altri solo l’utilizzo delle “sintesi”. Uno sproposito, giuridico e politico, che neanche il Cavaliere aveva mai azzardato ai tempi d’oro delle leggi ad personam.
Il nuovo testo del Guardasigilli Orlando, almeno, è più attento al bilanciamento dei diritti “in conflitto”: la privacy da una parte, la trasparenza dall’altra. Ma nelle richieste dei pm e nelle ordinanze dei giudici potranno essere trascritti solo i “brani essenziali” delle conversazioni telefoniche considerate “rilevanti” ai fini delle costruzioni probatorie e delle ipotesi accusatorie. Tutte le altre finiranno in un “archivio riservato” custodito dal pubblico ministero. Il governo conta così di mettere al riparo il diritto alla riservatezza dei “terzi” citati nelle intercettazioni ma estranei ai fatti, oppure degli indagati coinvolti ma per fatti che non hanno nulla a che vedere con i reati.
Oltre alle ulteriori complicazioni pratiche sull’uso dei “captatori informatici” nei pc e negli smartphone per le inchieste sulla corruzione, qui si pone un nodo cruciale che il decreto Orlando non scioglie (come ha scritto nei giorni scorsi Liana Milella). È giusto che la polizia che indaga e il magistrato che coordina le indagini possano e debbano decidere insieme cosa sia “rilevante” ai fini dell’accertamento dell’illecito. Ma in quasi tutte le inchieste più sensibili c’è sempre una zona grigia, nella quale l’interesse giudiziario e l’interesse pubblico si intrecciano e si sovrappongono. In questi casi la scelta su quale intercettazione sia davvero “irrilevante” si complica parecchio. E rischia di diventare scivolosa per chi la compie (la pubblica accusa) e per chi la subisce (la pubblica opinione). Gli esempi concreti sono noti.
Parliamo di politica. Erano davvero solo “gossip” le intercettazioni di Berlusconi con Tarantini e le “olgettine” sulle famose “cene eleganti” ad Arcore, o era invece in gioco la sicurezza nazionale a causa di un primo ministro ricattato e ricattabile? O quelle dell’allora ministro Cancellieri, che manifestava tutta la sua “vicinanza” al fratello e alla compagna di don Salvatore Ligresti, appena arrestato a Torino? Ed erano solo beghe familiari quelle dell’allora ministro Lupi, costretto a dimettersi per una telefonata in cui chiedeva a Ercole Incalza di incontrare suo figlio e per un Rolex regalato a quest’ultimo da un imprenditore? O quelle di Matteo Renzi che intimava a papà Tiziano, sotto inchiesta a Roma per traffico di influenze, “io non voglio essere preso in giro e tu devi dire la verità in quanto in passato non l’hai detta a Luca…” (cioè a Lotti)?
Parliamo di economia. Era giusto che gli italiani sapessero che subito dopo il terremoto all’Aquila due imprenditori al telefono brindavano a champagne dicendo “io stamattina alle tre e mezzo ridevo dentro al letto…”? O che nell’estate dei furbetti del quartierino il “banchiere controllato” Fiorani (in attesa del via libera all’Opa su Antonveneta) dicesse al “banchiere controllore” Fazio (che aveva appena firmato l’autorizzazione) “Tonino, ti darei un bacio in fronte…”? O che alla vigilia delle retate di Mafia Capitale il cecato Carminati confessasse a Salvatore Buzzi “tu c’hai idea de quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico de droga rende meno…”?
Qui in ballo non ci sono necessariamente reati. Ma ci sono fatti, forse non meno gravi. Sostiene Gentiloni: con questo decreto eviteremo gli abusi, perché in questi anni “sono stati frequenti”. È un mantra che si sente ripetere spesso da governi e maggioranze. Ma piuttosto che parlarne in modo generico, il premier farebbe bene a denunciare in modo esplicito quali siano stati, questi “abusi”. Così capiamo di cosa stiamo parlando, una volta per tutte. In caso contrario c’è il sospetto che la politica, inquinata dal malaffare e delegittimata dalle piazze, chiuda non solo buchi della serratura, ma anche porte e finestre del Palazzo. E provi a nascondersi ancora una volta in quel “cono d’ombra sottratto allo sguardo pubblico” di cui parlava Bobbio. È lì che maturano non solo le “trame occulte dei corpi separati dallo Stato”, ma anche quelle apparentemente più ordinarie come “la corruzione, il peculato, la malversazione, la concussione, l’interesse privato in atti d’ufficio…”. Sono proprio quelle che logorano lentamente, ma inesorabilmente, la fiducia dei popoli.
Repubblica 3.11.17
Intercettazioni
Di Matteo: “Svolta pericolosa per chi indaga e per le difese”
Il pm anti-mafia: “Ci sono già le condizioni per punire gli abusi, il provvedimento rischia di far perdere elementi di prova e di favorire solo chi può permettersi i migliori avvocati”
Per privilegiare il diritto alla riservatezza si indebolisce quello all’informazione
di Liana Milella
UN imbuto. Molte intercettazioni saranno registrate, ma assai poche, solo quelle «essenziali e necessarie», finiranno in bottiglia. Cioè nei provvedimenti dei giudici. Tantissime, probabilmente la maggior parte, non saranno neppure trascritte. Niente bottiglia, neppure per loro. Con un’immagine si può sintetizzare così la riforma di Andrea Orlando sulle intercettazioni. Agognata da vent’anni. Ora realizzata.
La riforma delle intercettazioni? «Rischia di far perdere importanti elementi di prova e di compromettere anche il diritto alla difesa». Solo i brani “essenziali” nelle misure dei giudici? «Una regola inutile, e alla fine potenzialmente pericolosa». Parla Nino Di Matteo, il pm antimafia per anni a Palermo e adesso alla procura nazionale Antimafia.
Ha letto il decreto? Che ne pensa?
«Sì, ho letto il testo che mi ha suscitato alcune perplessità. Si è detto che la riforma doveva contemperare esigenze di natura diverse. A mio parere, nel tentativo di privilegiare il diritto alla riservatezza, si rischia di compromettere valori in gioco altrettanto, se non più importanti. Mi riferisco non solo al diritto all’informazione, ma ancora più concretamente alle esigenze investigative da una parte, e alla concreta e immediata efficacia del diritto di difesa dall’altra».
Un momento, Gentiloni e Orlando assicurano che non sono stati introdotti limiti alla possibilità di intercettare dei pm.
Lei che limiti vede?
«Ritengo che la riforma possa comportare un depotenziamento investigativo notevole con la dispersione definitiva di elementi di prova, anche decisivi. È stata vietata la trascrizione, anche sommaria, delle conversazioni che nell’immediatezza dell’ascolto appaiono irrilevanti. È una norma che non tiene in nessun conto un dato di esperienza assolutamente comune per tutti gli operatori del diritto, la rilevanza di una conversazione, sia in senso accusatorio che difensivo, può manifestarsi anche a distanza di molto tempo dalla registrazione ».
Per esempio?
«Potrei fare decine di esempi noti. Ne faccio uno solo: a Palermo, nel processo per l’omicidio dell’avvocato Fragalà, ucciso a colpi di bastone dai suoi aggressori, gli inquirenti a distanza di molti mesi dal delitto, monitorarono tutte le conversazioni che, in altre indagini e da forze di polizia diverse, erano state registrate il giorno dell’aggressione. Da una di queste, apparentemente del tutto irrilevante in quel momento, venne fuori il riferimento a un soggetto che doveva consegnare a un altro “un coso di legno”. Quella intercettazione venne considerata decisiva per individuare gli autori dell’omicidio».
La materia è tecnica ed è complessa. Il decreto vuole eliminare le registrazioni non rilevanti ai fini della prova. Ma dà la possibilità di recuperarle in seguito. Perché è comunque critico?
«Quella intercettazione, con le nuove regole, non sarebbe mai stata trascritta, neppure per estrema sintesi, poiché il decreto vieta anche la trascrizione sommaria, precludendo di fatto l’efficacia di qualsiasi controllo successivo del pm e con il rischio concreto di dispersione definitiva di una prova acquisita legittimamente, ma di fatto scomparsa».
Oggi con i brogliacci della polizia giudiziaria, le trascrizioni sintetiche dei contenuti delle conversazioni, la ricerca è possibile. Domani come si farà a trovare un testo come quello che lei ha descritto?
«Diventerebbe concretamente impossibile perché le nuove norme precisano che la polizia giudiziaria debba indicare nel verbale delle operazioni soltanto la data, l’ora e il dispositivo di registrazione, quindi senza nessun minimo accenno ai contenuti della conversazione».
Da tempo la politica chiedeva una stretta sulle intercettazioni per via delle conversazioni finite sui giornali. Gentiloni parla di «abusi». La riforma impone nei provvedimenti solo conversazioni «necessarie» a fini di prova.
«Personalmente trovo sbagliato inserire in un testo di legge un concetto così ovvio che la normale professionalità di ogni magistrato già garantisce. Temo che l’aggettivo “essenziale” finirà col creare disorientamento e diversità di interpretazioni, che potrebbero perfino indurre il giudice, in un’ottica di eccessiva prudenza, a non inserire parti apparentemente non essenziali, ma concretamente utili a comprendere il contesto nel quale determinate espressioni vengono utilizzate».
Ritiene che ci siano stati abusi? Come le telefonate dei politici pubblicate, ma non rilevanti ai fini di prova?
«Non so se il premier si riferisse ad abusi dei magistrati o dei giornalisti, ma rimango convinto che, in ogni caso, già le regole in vigore sarebbero sufficienti a individuare e punire entrambe le ipotesi».
Orlando dice che la libertà di stampa è intatta, ma il risultato è che di intercettazioni ce ne saranno di meno. Vantaggio o svantaggio?
«Non credo che ci saranno meno intercettazioni, ma temo che lo strumento di indagine venga di fatto depotenziato, che la polizia giudiziaria che ascolta diventi sostanzialmente il vero dominus nello stabilire quali conversazioni debbano essere trascritte e quali “di fatto” nascoste e che venga compresso il sacrosanto diritto di difesa di indagati e imputati. Penso, ad esempio, alla nuova norma che stabilisce che il difensore può solo esaminare e non ottenere copia dei verbali delle conversazioni intercettate. È vero che può chiedere l’audio, ma già immagino la difficoltà di preparare con urgenza un ricorso al tribunale del riesame dovendo ascoltare ore e ore di intercettazione, senza poter usare la copia cartacea della trascrizione».
Un regalo per gli avvocati ricchi… «… e una possibile e ulteriore compressione del diritto di difesa per chi non ha adeguati mezzi economici per difendersi».
I Trojan horse, i software spia, si potranno utilizzare con dei paletti. Sono eccessivi?
«Giudico molto positivamente l’aver fissato regole per utilizzarli per i reati di mafia e terrorismo. Personalmente avrei esteso in toto quella disciplina anche ai reati di corruzione e a quelli più gravi contro la pubblica amministrazione, senza i distinguo che invece il decreto prevede».
«Personalmente» dice lei. Ma che farebbe se, come raccontano le indiscrezioni, dovesse diventare il candidato di M5S per dirigere il ministero della Giustizia?
«Io non rispondo. Fin qui ho parlato da tecnico, preoccupato di possibili conseguenze negative sull’efficacia dello strumento più importante in mano a magistrati e avvocati per scoprire la verità».
La Stampa 3.11.17
Anche in Italia possibile un governo “Giamaica”
di Marcello Sorgi
L’altra faccia delle elezioni siciliane di domenica è il voto di Ostia, X Municipio di Roma capitale, sciolto due anni fa per corruzione e legami mafiosi dell’amministrazione allora guidata dal Pd Tassone, arrestato e scaricato dal suo partito. Adesso, a giocarcela, stando alle previsioni dell’ultima ora, dovrebbero essere il centrodestra e il Movimento 5 Stelle, né più né meno come dovrebbe avvenire in Sicilia, ma con la differenza che nell’isola lunedì sera si saprà se a prevalere sarà stato il «fascista per bene» Musumeci o il grillino Cancelleri, mentre nella cittadina affacciata sulla più popolare spiaggia romana bisognerà aspettare il ballottaggio tra due settimane.
Con due conseguenze: una nazionale e una locale, ma poi non tanto, legata al mini test che tanto mini non sarà, visti gli effetti che rischia di provocare. Quella nazionale è che se davvero la partita sarà tra destra e 5 Stelle, se cioè, come ha detto e ripetuto Berlusconi, solo il suo schieramento sarà in grado di porre un argine all’avanzata dei populisti, il centrosinistra e Renzi, oltre che su una nuova sconfitta, dovranno riflettere sul venir meno dell’argomento numero uno usato fin qui dal leader del Pd, per cercare di mobilitare il proprio elettorato sulla trincea del «voto utile» e in alternativa all’«odio» pentastellato. Quella locale sarà legata al modo in cui si schiereranno al secondo turno gli elettori di Ostia di CasaPound, il movimento di estrema destra che qui si presenta con un volto da «destra sociale», alternando durezze contro gli immigrati con assistenza ai poveri sotto forma di volontariato, ed è accreditato di poter raccogliere più del dieci per cento dei voti.
Se sceglieranno di seguire le loro tradizionali radici di destra, agevolando la vittoria della candidata Picca, porranno una seria ipoteca sulle prossime elezioni del sindaco di Roma, che potrebbero arrivare anche prima della scadenza naturale del 2021, se la vicenda giudiziaria della Raggi dovesse precipitare nel 2018 con una condanna al processo per falso in cui è imputata: a contenderle la poltrona in Campidoglio la candidata naturale per il centrodestra sarebbe la leader di Fratelli d’Italia Meloni. Se invece, come dicono le voci che arrivano dall’entourage di uno dei capi di CasaPound, Masella, i voti dei neofascisti dovessero andare alla candidata 5 Stelle Di Pillo, sarebbe stata posata un’altra pietra nella costruzione dell’alleanza tra Lega, Fratelli d’Italia e M5S, che potrebbe perfino portare a un governo «Giamaica» all’italiana, dopo le prossime elezioni politiche.
il manifesto 3.11.17
Effetto Weinstein a Westminster. E il governo May resta senza Difesa
Scandalo molestie sessuali a Londra. Dopo le dimissioni del ministro Fallon tremano in tanti. Il Daily Mail mette alla gogna una quarantina di esponenti conservatori
di Leonardo Clausi
LONDRA Lo scandalo delle molestie a membri dello staff di Westminster – donne e uomini – da parte di svariati deputati conservatori, ha reclamato la testa ministeriale di Michael Fallon che, alla Difesa, era uno degli alleati più affidabili di Theresa May. È l’ennesima martellata su un già fin troppo sgangherato governicchio steso sull’incudine Brexit.
Fallon ha dato le dimissioni mercoledì, alla notizia che la sua mano si era misteriosamente posata sulle ginocchia di una commentatrice politica tory durante una cena, molti anni fa. Conscio che questa non fosse altro che la prima di una ridda di accuse simili, si è onorevolmente immolato. La premier perde un sostenitore fervido: un mastino thatcheriano della prima ora – ha 65 anni – specializzato nell’azzannare gli avversari davanti a microfoni e telecamere.
Gavin Williamson, neo ministro della Difesa britannico (PA/LaPresse)
Nel frattempo, May ha nominato al suo posto Gavin Williamson, ex-capogruppo parlamentare: un altro che, come lo stesso Fallon, con l’esercito ha poco a che fare, ma che le è alleato fedele. Nomina che non ha fatto altro che rafforzare l’immagine di una prima ministra che stenta a controllare il suo governo. Ha anche annunciato un’inchiesta e chiesto la collaborazione bipartisan del Labour, alle prese a sua volta con le proprie grane: Bex Bailey, un’attivista del partito, ha rivelato di aver subito una violenza anni fa, che le era stato detto di non denunciare.
Come già nel 2009 per lo scandalo dei rimborsi spese, Westminster si ritrova nel putiferio. È da qualche giorno che le denunce fioccano, per un prevedibile, transoceanico effetto Weinstein. Una lista di una quarantina di nomi, tutti deputati/ministri conservatori, che avrebbero compiuto atti lubrici, consensuali o meno, sotto le solenni volte parlamentari è stata pubblicata dal Daily Mail, che in queste cose sguazza felice. Solo alcuni di loro sono noti, ma si prevede che altri lo diventeranno nei prossimi giorni. La lista è tutta da verificare e mescola la doverosa reprensibilità di avances pesanti a sacrosanti fatti privati. Ha anche toni omofobici, riferendosi a «fornicazioni» fra persone dello stesso sesso.
Adesso si teme un’escalation annunciata, con altre cadreghe pronte a saltare: su tutte, quella del numero 2 di May, Damian Green (accusato di persecuzione via messaggi di testo da una simpatizzante del partito), e quella del ministro della giustizia Dominic Raab. Entrambi minacciano querele.
Si sapeva da sempre, ma non si è saputo finché una vittima non ha avuto, alla fine, il coraggio di dirlo. La cultura delle molestie, naturalmente endemica ovunque – in tutti i luoghi di lavoro e di svago, qui e in altre avanzatissime democrazie liberali, le stesse che sono solite bacchettare l’Islam per la mancanza di rispetto nei confronti delle donne –, è stata ufficialmente “scoperta”. E lo è stata seguendo la consueta dinamica della special relationship, con la Gran Bretagna che irradia in Europa le novità americane: e bisogna una volta tanto ringraziare lo spettacolo hollywoodiano per aver finalmente denunciato una pratica odiosa e ancestrale.
il manifesto 3.11.17
Le omissioni di Cambridge e gli interessi di Roma: su Giulio zero verità
Egitto/Italia/Gb. L'ex premier Renzi e inchieste giornalistiche chiedono conto all'ateneo britannico delle reticenze sul caso Regeni. L'università risponde: «Pronti a collaborare». La Procura manda la terza rogatoria, ma a preoccupare sono i tentativi di sviare l'attenzione da al Sisi, con cui la Farnesina continua a fare affari
di Chiara Cruciati
Mentre in Italia l’ex primo ministro Renzi chiedeva conto delle «bugie» dell’università britannica di Cambridge e le agenzie rilanciavano l’inchiesta di Repubblica sul ruolo della tutor di Giulio Regeni, Maha Abdelrahman, al Cairo l’ambasciatore Cantini passava dall’incontro con il ministro della Cooperazione internazionale Nars a quello con il ministro dell’ambiente Fahmy.
Il rappresentante della Farnesina ha discusso di investimenti comuni sul piano della cooperazione (con un progetto di due milioni di euro a favore di studenti svantaggiati) e sul piano dell’ambiente (con il via alla terza fase del programma di cooperazione ambientale, 3 milioni di euro), parlando del «contributo che le imprese italiane possono dare nell’ambito» di agroindustria e demografia,
Il governo italiano, dunque, prosegue spedito nel miglioramento dei rapporti diplomatici e economici con l’Egitto del presidente-golpista al Sisi. Non ha avuto dubbi sulla necessità di rinviare l’ambasciatore al Cairo il 14 agosto scorso.
Ma ne ha con le reticenze di Cambridge. Che ci sono e sono innegabili, come però è innegabile che Giulio sia stato ucciso al Cairo, dalla macchina repressiva del regime, e non in un ateneo inglese.
Di certo la superficialità con cui il giovane ricercatore è stato inviato in Egitto ha impedito una sua maggiore protezione. La ricerca, scriveva ieri Repubblica citando conversazioni di Giulio con i genitori (che dimostrano le sue preoccupazioni), era stata suggerita alla tutor Abdelrahman, egiziana e oppositrice del regime.
Viene da pensare che le indagini sul terreno di Giulio le fossero utili per lavori propri. Era dunque consapevole del pericolo che una figura come Regeni potesse correre, esposto com’era dalle domande e le interviste che conduceva.
Le ombre ci sono e il silenzio di ferro finora adottato sembra volto a evitare problemi legali all’ateneo: non caso la Procura di Roma ha chiesto con una terza rogatoria alle autorità giudiziarie della Gran Bretagna non solo l’audizione della professoressa, ma anche quelle degli studenti dell’ateneo transitati per la stessa tutor e per Il Cairo dal 2012 al 2015. Il team investigativo guidato dai pm Pignatone e Colaiocco ha chiesto inoltre i tabulati telefonici, mobili e fissi, della professoressa tra il gennaio 2015 e il 28 febbraio 2016.
Quanto Abdelrahman ha condizionato la ricerca di Giulio, diretta a indagare il più generale tema economico, per poi focalizzarsi sui sindacati indipendenti, tema caldissimo nell’Egitto post-golpe? Ha definito lei le domande da porre agli intervistati? Giulio le consegnò i risultati della ricerca quando la vide al Cairo il 7 gennaio 2016, fatto che Abdelrahman continua a negare ma che emerge dalle mail di Regeni ai genitori? Questo la Procura vuole sapere.
Ieri un portavoce di Cambridge ha detto che Abdelrahman «ha ripetutamente espresso la sua volontà di collaborare appieno con i procuratori italiani» e di non aver ancora «ricevuto una richiesta formale per la testimonianza». Eppure questa è la terza rogatoria.
Ad emergere è il comportamento privo di prudenza, dettato dall’approssimazione dell’ateneo e dall’interesse accademico personale della tutor. Ma a far paura è il modo in cui le omissioni – gravi – di Cambridge vengano usate per spostare l’attenzione dal vero responsabile politico della morte di Giulio.
Anche sminuendo, come fa Repubblica, la figura della tutor che non vanterebbe «esperienze accademiche né di lungo corso né di particolare spessore». Gli autori citano un suo pamphlet pubblicato con la «piccola» casa editrice Routledge. Che però è il primo editore al mondo per articoli accademici nelle scienze sociali e umanistiche. Un’altra superficialità.
Repubblica 3.11.17
L’intervista.
Ex socialista, guida la France Insoumise e sembra l’unico oppositore forte a Macron
Mélenchon il tribuno “Tagliano i servizi e i ricchi non pagano Serve una lotta di classe”
“Gli italiani devono esprimere una alternativa netta alla Ue. Se non lo fanno, saranno appesi al guinzaglio del Pd
“La società francese resterà sempre contraria alle zuppe neoliberiste. L’idea socialista è come la poesia: immortale”
di Anais Ginori
PARIGI. «La Francia è un vulcano pronto a esplodere». Jean-Luc Mélenchon è un attore consumato. Come lui, pochi altri nella politica francese. Lo incontriamo nei nuovi uffici del gruppo parlamentare della France Insoumise. Con il suo chavismo alla francese, un populismo di sinistra solo più raffinato, l’ex socialista ha conquistato 17 seggi all’Assemblée Nationale e 10 milioni di voti al primo turno delle presidenziali. Il migliore nei dibattiti tv fra i candidati all’Eliseo. Unico oppositore nel disastrato panorama politico, in cui domina incontrastato una sorta di partito unico di Emmanuel Macron. A destra e a sinistra solo macerie. Il Front National balbetta. «È allo sbando, forse l’unica buona notizia di questo periodo». Di negativo per Mélenchon c’è che non si vedono segnali di risveglio del «vulcano francese ». L’opposizione parlamentare non ha margini di azione in un regime presidenziale, non sono previste altre elezioni fino alle Europee del 2019 e la piazza non si solleva contro il cosiddetto «Presidente dei ricchi». L’autunno caldo è piuttosto tiepido. “Méluche” aveva promesso milioni di manifestanti sui Campi Elisi.
Dove sono finiti?
«È vero, non si è prodotta la valanga sociale nonostante monsieur Macron abbia fatto di tutto: ha moltiplicato le provocazioni e le leggi di regressione sociale».
Ha riconosciuto che il giovane presidente «ha segnato dei punti». Si è già rassegnato?
«Ho 66 anni, faccio politica da 50. Monsieur Macron non riuscirà certo a farmi cadere in depressione. Ma bisogna ammettere che lavora bene per compattare la destra del paese».
Forse la ragione è che i francesi hanno accettato le riforme?
«Non credo. La società francese resterà sempre contraria alle zuppe neoliberiste che ci propinano. Ma è vero che questo tipo di politica è avvolta in un contesto culturale, psicologico, mettendo in competizione gli uni con gli altri, facendo credere che se non si riesce la colpa è di se stessi».
Vuole continuare a fare solo l’oppositore numero uno o ha anche qualche proposta?
«I giornalisti si concentrano sulla forma, raccontano aneddoti, senza badare ai contenuti. Abbiamo presentato una contro-Finanziaria, ci sono proposte sulle aliquote fiscali, su una tassa universale. Perché questo disprezzo da parte della stampa?».
Lei è il primo a prediligere la forma, con uno stile plateale.
«Continuiamo a fare proposte all’Assemblée Nationale, siamo nelle strade e in ogni teatro di lotta. Che cosa dovremmo fare di più? La Francia è una democrazia e noi siamo repubblicani. Non possiamo prendere le armi. Rappresentiamo il campo dell’ecologia, dei poveri e dei lavoratori. In passato, abbiamo avuto molte sconfitte».
È in corso una nuova lotta di classe?
«Non direi nuova. Ha il pregio di essere diventata limpida e rivendicata. Per colmare le tasse che i ricchi non pagheranno il governo taglia i fondi per i servizi pubblici. Più classista di così...».
Che significa essere di sinistra oggi?
«Se è quel che resta del partito socialista e dei Verdi non fa per me. Non vogliamo rinchiuderci nelle etichette».
E’ stato a lungo socialista, rinnega la sua militanza?
«L’idea socialista è come la poesia: immortale. Ma che cosa resta di socialista nel partito di Hollande? Niente. È per questo che me ne sono andato dieci anni fa. Noi stiamo reinventando la politica. Il nostro movimento non è un partito. La nuova contrapposizione non è più tra destra e sinistra ma tra oligarchia e popolo».
La leadership di Macron ha rimesso la Francia al centro dell’Europa?
«È un trompe l’oeil, un’illusione ottica. Nel discorso alla Sorbona Macron non ha proposto niente di nuovo. E non ha parlato del debito. Bisogna dire la verità ai cittadini. Il debito pubblico non si potrà mai rimborsare. Facciamo una conferenza per stabilire una moratoria come nel 1953 per il debito della Germania».
La sinistra radicale è in difficoltà in gran parte d’Europa, mentre l’estrema destra aumenta ovunque. Perché?
«È vero, siamo ridotti ai minimi in tanti paesi. In Germania, Die Linke è al 9%. In Grecia, Tsipras ci ha tradito firmando l’accordo europeo. In Italia siamo stati praticamente distrutti perché Beppe Grillo ha occupato la scena tribunizia».
Si considera un modello di successo?
«Al momento siamo i più forti e creativi nella nostra famiglia politica. Possiamo essere d’ispirazione per altri. Cercherò di costruire delle liste transnazionali alle prossime elezioni europee».
In Italia, gli elettori di sinistra dovranno scegliere se dare un voto al Pd di Matteo Renzi o scegliere una delle formazioni alternative rischiando di far vincere la destra… «È un ritornello che conosco bene. Se si entra nella logica del voto utile si è condannati alla morte politica».
E quindi si rinuncia anche a prendere il potere?
«La vittoria di monsieur Renzi sarebbe una conquista del potere da parte del popolo? Cosa cambierebbe rispetto alla destra? È sempre la stessa minestra».
È in contatto con Mdp, Si e le altre formazioni di sinistra? Pensa di venire in Italia?
«Se posso dare una mano, volentieri. Ci sono contatti. Gli amici italiani devono esprimere un’alternativa netta all’Ue e alla road map della Commissione. Se non lo faranno, continueranno a girare a vuoto appesi al guinzaglio del partito democratico».
Corriere 3.11.17
Resistenza Un saggio di Matteo Incerti (Imprimatur) rievoca un episodio della lotta di Liberazione avvenuto nel 1945 ad Albinea (Reggio Emilia)
E la cornamusa beffò i nazisti
Un’azione partigiana camuffata da attacco alleato per evitare rappresaglie
di Gian Antonio Stella
«“Ci hanno assaltato all’improvviso, stavamo dormendo. Uomini da tutte le parti: erano invasati, ispirati da un folle che suonava nel bosco” riferì il soldato, leggermente ferito a un braccio. “Suonava nel bosco? Chi diavolo suonava nel bosco?” chiese sbalordito Hauck. “Sì, con una cornamusa”».
Compare così, nel libro I l suonatore matto di Matteo Incerti (Imprimatur), il leggendario David Kirkpatrick, detto appunto mad piper , il «cornamusiere folle» che, paracadutato il 24 marzo 1945 con il kilt a quadrettoni e lo strumento musicale scozzese sull’Appennino reggiano, partecipò tre giorni dopo alla cosiddetta «Operazione Tombola». Cioè l’assalto a Villa Rossi e Villa Calvi, due antiche e nobili ville di Albinea occupate dalla Wehrmacht per ospitare la V Sezione del Comando generale tedesco in Italia e il quartier generale del Corpo alpino tedesco sulla Linea Gotica occidentale.
Aveva già avuto degli eroi, Albinea. Ragazzi che avevano dato la vita nella guerra ai nazisti. Su tutti cinque tedeschi: Erwin Bucher, Martin Koch, Erwin Schlunder, Karl-Heinz Schreyer e Hans Schmidt, un giovane socialista berlinese arrestato e incarcerato nel 1935 perché ostile al Führer, arruolato a forza verso la fine della guerra e inviato alla compagnia trasmissioni della Luftwaffe lì, nella cittadina reggiana. Dove appena possibile aveva preso contatto coi partigiani.
«Voleva consegnarci il centro trasmissioni, con le armi, le radio e tutto il materiale che per noi sarebbe stato prezioso», avrebbe raccontato Oddino Cattini, della 37ª brigata Gap. «Lui, e altri soldati d’accordo con lui, sarebbero venuti in montagna, come nucleo iniziale di una formazione che raccogliesse altri disertori tedeschi». All’ultimo momento erano stato traditi, catturati, torturati, giustiziati, buttati in una fossa comune. «Prima di ritirarmi dal cimitero mi avvicinai al comandante chiedendo se potevo avere i nomi. Mi rispose seccamente di no», avrebbe ricordato il parroco, don Alberto Ugoletti. «Uscendo un soldato mi si avvicinò e mi disse: domattina ritorni sulla tomba e sotto le zolle troverà dei biglietti col nome. Sono figli di un dio ignoto, prete».
Era la fine di agosto del 1944. L’anno delle stragi naziste sull’Appennino tosco-emiliano. Delle mattanze a Sant’Anna di Stazzema, a Marzabotto, a La Bettola di Vezzano sul Crostolo… Carneficine decise per rabbiosa rappresaglia contro la guerriglia dei partigiani che dalle montagne scendevano a colpire a sorpresa le truppe tedesche. E proprio per evitare l’ennesimo eccidio, alla fine di marzo del 1945, un mese prima del 25 aprile che avrebbe visto l’insurrezione in tutti i territori ancora occupati dai nazifascisti, David mad piper Kirkpatrick fu paracadutato sull’Appennino… Occorreva dimostrare assolutamente, per evitare l’ennesima ritorsione nazista sulla popolazione civile, che l’attacco dei parà alleati alle ville occupate dai comandi tedeschi era un attacco condotto da militari in divisa.
Tra i partigiani che tra quelle montagne facevano i basisti della «Tombola operation» c’era un uomo che se ne è andato a novant’anni proprio in questi giorni. Si chiamava Bruno Gimpel e dopo la guerra sarebbe diventato un celebre revisore dei conti e stretto collaboratore di Enrico Cuccia. Figlio di reggiani, nato e cresciuto a Londra, era stato costretto a venire in Italia dopo lo scoppio delle ostilità, quando Churchill aveva lanciato contro i nostri emigrati un ordine scellerato: «Acciuffateli tutti». Senza eccezioni. Un ordine che aveva colpito perfino ebrei rifugiati a Londra dopo le leggi razziali ed era costato la vita a 446 nostri connazionali prigionieri, col filo spinato alle porte, sulla nave Arandora Star, affondata da un siluro tedesco.
«Il primo giorno di scuola, arrivato a Reggio Emilia, mi chiesero di commentare una frase di Mussolini: “È l’aratro che traccia il solco ma è la spada che lo difende”», avrebbe raccontato Gimpel a Matteo Incerti, «Lasciai il tema in bianco. Non capivo né il senso né lo scopo di un esercitazione su un tema del genere. Lo ritenevo uno slogan senza senso e idiota per me che venivo dalle scuole inglesi ed ero cresciuto con la democrazia nel sangue».
Quando don Pasquino Borghi, un prete che aveva fatto il seminario ad Albinea e conosceva la sua famiglia, venne fucilato per aver dato ospitalità a partigiani in fuga, Bruno e il fratello Franco si decisero. Entrarono in contatto prima con la Resistenza e poi, grazie all’inglese fluente che parlavano, con il Soe, il servizio segreto di guerra britannico, per il quale il sedicenne Bruno, bravissimo in matematica, traduceva i codici segreti. Sbocco finale: l’ingresso nella squadra speciale «Gufo Nero» di Glauco «Gordon» Monducci, il partigiano che insieme coi militari britannici portò a termine l’«Operazione Tombola».
L’idea di portarsi dietro uno «zampognaro» scozzese, tra i paracadutisti che dovevano sorprendere i tedeschi dando l’assalto alle due ville, racconta Incerti nel libro, venne al maggiore Roy Farran: «Facciamoci paracadutare un suonatore di cornamusa, e che porti con sé anche il kilt. Sarà il nostro sigillo sull’azione, la nostra arma segreta». E spiegò ai perplessi: «Sarà di fondamentale importanza. Chi penserà mai che cento pazzi, per lo più irregolari, scenderanno per miglia e miglia a valle per attaccare il quartier generale tedesco alle porte della città di Reggio Emilia e che chi avrà salva la pelle da quell’inferno se ne ritornerà a gambe levate sui monti? Penseranno che gli Alleati abbiano sfondato le linee nemiche, li getteremo nel panico… Chi penserà che a questo attacco parteciperanno in massa anche partigiani italiani e russi? Vedranno i nostri baschi, quel suono si propagherà ovunque. Per noi le note della vittoria, per loro quelle del capitolazione. Sarà il nostro sigillo. Dovrà sembrare, anzi, essere un assalto militare britannico in piena regola. Suonerà Highland Laddie ». Un’antica ballata popolare.
E fu così che la notte dell’assalto alle due ville, tra i colpi delle granate e le raffiche delle mitragliatrici, tutti sentivano in lontananza, nel bosco, il suono della cornamusa dentro la quale David mad piper Kirkpatrick soffiava tutto il fiato che aveva nei polmoni. La mattina dopo un camion si fermò davanti alla chiesa di Albinea. Nel cassone c’erano i cadaveri di tre soldati in divisa. «Li lasceremo nella cappella mortuaria. Provveda lei alla sepoltura», disse un sergente della Wehrmacht. Il parroco, quel don Ugoletti che l’anno prima aveva sepolto Hans Schmidt e gli altri «figli di un dio ignoto» che avevano salvato un pezzetto dell’onore tedesco ribellandosi al nazismo, si sentì gelare: «Ci sarà un’altra rappresaglia?» No, rispose il sottufficiale. Era stata un’operazione di militari britannici. C’era perfino un matto che suonava la cornamusa…
Corriere 3.11.17
Etiopia
A casa di Lucy
Nella valle dell’Omo furono ritrovati i resti della prima donna, «la bellissima». Lì ancora vivono alcune tra le tribù più antiche del mondo: volo sulla storia dell’umanità con alcuni dubbi. Ma il turismo «responsabile» li protegge davvero?
di Antonella De Gregorio
Dici valle dell’Omo e immagini l’immensa voragine della storia. Perché sta nella Rift Valley, quella lacerazione della terra originata milioni d’anni fa, che si estende dal Medio Oriente al Mozambico, punteggiata di crateri di vulcani e laghi. Perché sono le viscere di questa terra che hanno restituito all’uomo moderno i resti della prima donna, Lucy – o Dinknesh , la «bellissima» – fossile umanoide di 3 milioni e mezzo d’anni. Atterri ed entri in una macchina del tempo, che ti consente di gettare uno sguardo sulla vita di millenni fa.
Dalla capitale, Addis Abeba, si esce in direzione sud. Passata l’estesa cinta di periferia, il cemento disordinato lascia spazio al verde brillante dei campi. Ovunque gruppi di bambini e donne che camminano per chilometri con gli immancabili contenitori di plastica gialla, per raggiungere le rare fonti d’acqua. Le capanne dipinte degli Oromo son visibili per gran parte della strada che porta ai confini con il Kenya. Casupole di sottili tronchi d’eucalipto e di un impasto d’erba e fango. I chioschi che vendono birra artigianale hanno come insegna un bastone conficcato nel terreno con sopra, in equilibrio, una tazza di metallo e una bottiglia di plastica vuota. In grossi sacchi di tela si vendono tozzi di carbone, per l’elaborato rito del caffè. Al tramonto, donne chine sui campi di teff , la cui farina è materia prima per il cibo nazionale, la ‘njera , una focaccia spugnosa con cui accompagnare le pietanze.
Man mano che si procede a sud, verso l’Equatore, l’altopiano cede il passo a basse pianure infestate dalla mosca tze tze; i campi verdissimi coltivati alle savane; il fresco all’umidità tropicale; le genti semitiche alle scure popolazioni nilotiche. Sullo sfondo di paesaggi ancora incontaminati, si apre il bacino dell’Omo, che sgorga a 2.500 metri d’altezza e corre per 800 chilometri, fino al lago Turkana. Sono i territori abitati da un mosaico di pop oli, un’umanità diversa e unica, sopravvissuta lontano e fuori dalle vicende del mondo, con un’economia di sussistenza, ancorata a tradizioni e stili di vita ancestrali.
Un itinerario circolare di un migliaio di chilometri, da percorrere in fuoristrada, che tocca le cittadine di Jinka, Konso, Turmi, Omorate e si spinge fino al deserto del Kenya settentrionale e a lambire i bordi del Sudan. Un’avventura da vivere con realismo e disincanto. Si soggiorna in lodge spartani o tende. Si cercano spazi di preistoria, ma con la consapevolezza di un rapporto delicato con culture primordiali e intense. Una ricchezza umana e culturale esposta al rischio di una modernizzazione che può rivelarsi pericolosa. Tribù cha hanno in comune la religione animista, la poligamia, le scarnificazioni corporali, la nudità, il p otere dei maschi e la subalternità delle donne. Ma alcune etnie vivono di agricoltura, altre di pastorizia, altre ancora di caccia e di pesca. Le acconciature sono la cifra distintiva di ciascuna tribù: una babele di treccine spalmate di burro, riccioli, crani rasati a linee geometriche, ciuffi scolpiti, tinti con impasti di terra. Grande l’attenzione al corpo, che viene disegnato, ornato, abbellito con polveri e monili d’osso, piume, cuoio, perline. E il piattello labiale delle donne Mursi: simbolo di appartenenza, forse di bellezza. Età, status sociale. Oggi, anche, fonte di reddito.
Già, i Mursi. Intanto devi raggiungerli. Arrivare a Jinka, che sta diventando, la città della perdizione, quella dove vanno a bersi i birr – la moneta locale - ricavati con le foto in costume tradizionale. Da lì, 60 chilometri di pista argillosa, un passo scenografico che scavalca una montagna e apre la vista alla vallata del parco del Mago. Savana aperta e foresta, e ranger armati, per evitare scontri tra gruppi e scongiurare aggressioni ai turisti. I Mursi occupano vaste aree del Mago. Coltivano e allevano bestiame, usato anche per pagare le doti delle spose. Forgiati da clima torrido e pratiche guerriere che li hanno preservati per molto tempo da qualsiasi contatto con la modernità, vivono liberi e ancorati a un passato che si sta assottigliando. Per entrare nei loro villaggi, isolati e miseri, si paga una tassa alla comunità, che servirà per costruire pozzi, scuole, presidi medici. Si contratta il prezzo di ogni fotografia. Con gli altri (pochi, pochissimi) turisti mediamente «responsabili» in circolazione, una costante sensazione di imbarazzo: aspettativa, illusione di un privilegio che tutti, un po’, temono si riveli un boomerang. Non ti lascia mai il dubbio: la nostra presenza qui, a loro, giova? Li aiuta a conservare tradizioni che altrimenti andrebbero smarrite o li spoglia della dignità, ne fa mendicanti in casa propria? Resta la meraviglia, la straordinarietà dell’incontro, ma anche la sensazione di sentirsi fuori posto.
Poi le altre tribù: i Sidamo che vivono nelle piantagioni di caffè, a sud del lago Awasa. I Borana, al confine con il Kenya: allevatori semi nomadi conosciuti per i «pozzi cantanti», un sistema di estrazione dell’acqua con spettacolari catene umane che si passano secchi ricolmi intonando canzoni per smorzare la fatica. Gli Hamer, le loro donne bellissime e orgogliose, che portano i capelli coperti di argilla e burro, indossano gonne di pelle di capra e portano pesanti collane di pelle e metallo, i busti segnati dalle cicatrici rituali, a dimostrare coraggio.I Karo, con i corpi dipinti di calce e polveri minerali. I Dassanech, installati sulle due rive del fiume, in un territorio reso fertile dalle inondazioni del delta dell’Omo, che qui si allarga fino a dissolversi nel lago Turkana. E i Konso, popolo di montagna: infaticabili coltivatori, hanno scolpito con terrazze e canali un paesaggio unico che l’Unesco ha dichiarato patrimonio dell’umanità.
Una varietà di culture e tradizioni, la cui sopravvivenza è legata al grande fiume, alla cadenza delle esondazioni che rendono fertile la terra polverosa, dissetano il bestiame. Un sistema delicato, minacciato non solo dal turismo, ma anche dalla gigantesca diga che il governo etiope ha commissionato nel 2006 a una ditta italiana, ora arrivata a compimento. Quella sopraelevata di pali e cavi dell’alta tensione riduce la portata dell’Omo, interrompendo il ciclo naturale delle piene. Incidendo in maniera dolorosa su realtà naturali e antropologiche, sopravvissute immutate per millenni.
il manifesto 3.11.17
Quando Pompei parlava in greco
Intervista. Carlo Rescigno, curatore insieme a Massimo Osanna della mostra presso la Palestra Grande degli scavi di Pompei, racconta come «la romanizzazione fu un modo per integrare in un nuovo sistema economico un patchwork di culture che componevano l’Italia di quel periodo»
di Valentina Porcheddu
«Quando gli scavi restituiscono un oggetto proveniente da un mondo lontano ci si interroga sempre sul suo significato, su come sia arrivato in quel contesto e se sia il frutto di un semplice scambio commerciale o non entri piuttosto in gioco il concetto di identità». Carlo Rescigno, docente di Archeologia classica presso l’università della Campania «Luigi Vanvitelli» è il curatore, insieme a Massimo Osanna, della mostra Pompei e i Greci (visitabile fino al 27 novembre presso gli Scavi di Pompei, Palestra Grande, con l’organizzazione di Electa).
È un percorso ideato dalla Soprintendenza archeologica della Campania allo scopo di esplorare il rapporto tra Pompei e gli organismi politici, sociali e culturali che la attraversavano. La rassegna esprime la volontà di spiegare al grande pubblico cosa significhi per un archeologo fare ricerca su temi che concernono gli incontri di culture. Il progetto espositivo porta la firma di Bernard Tschumi, l’architetto svizzero al quale si deve la realizzazione del nuovo Museo dell’Acropoli di Atene. Partecipa, inoltre, all’allestimento lo studio canadese Graphics eMotion mediante tre installazioni multimediali che intensificano l’esperienza del visitatore.
Il corposo catalogo (Electa) raccoglie saggi interdisciplinari, fra cui vale la pena segnalare i contributi dell’antropologo Francesco Remotti e dello storico Irad Malkin. Interessante anche la parte del volume intitolata Hellenika, con aggiornamenti puntuali su ogni aspetto degli studi pompeiani: Abitare, Consumare vino, Leggere, Viaggiare sono solo alcune delle sezioni che approfondiscono i contenuti dell’esposizione.
Se consideriamo il Mediterraneo antico come uno spazio dove si muovevano differenti gruppi etnici, possiamo affermare che quest’ultimi non fossero dei «monoliti» ma che condividessero linguaggi «franchi» e interagissero anche attraverso gli oggetti?
Oggi si parla del Mediterraneo come «reti di culture», fenomeni articolati ma permeabili in cui conoscenze e acquisizioni travalicano confini etnici. Ciò che in passato consentiva la diffusione delle informazioni era un sistema culturale aggregante, che non stabiliva cioè gerarchie come invece accadeva – e accade ancor oggi – nel caso di identità etniche chiuse, escludenti.
Marte, affresco nella Casa di Venere, Pompei
Come si traduce questo pensiero nell’esposizione pompeiana?
Abbiamo provato a riversare nella mostra cos’abbia significato, per Pompei, entrare in contatto con il mondo greco e affacciarsi sull’orizzonte mediterraneo. Seguendo l’evoluzione cronologica dalle origini della città fino alla distruzione del 79 d.C. emerge il rapporto tra culture diverse ma soprattutto la formazione di culture miste, ibride. Processo favorito, agli inizi, dalla circolazione degli artigiani.
La rassegna rivela come in una Campania ancora priva di città dal carattere univocamente riconoscibile, ci fosse un mondo fluido in cui le presenze etrusche, italiche, greche e magnogreche (Cuma da un lato, Poseidonia dall’altro) convivevano nel rispetto dei reciproci interessi economici. È proprio in questo quadro che – nel VII sec. a.C. – venne fondata, su spinta etrusca, Pompei.
Gli artigiani che lavorarono alla costruzione della città erano Greci o provenivano dalla Capua etrusca. Nel santuario di Apollo, furono maestri cumani a decorare l’edificio con modanature in pietra lavica e un tetto di tipologia campana composto da terrecotte architettoniche.
Quali reperti testimoniano al meglio il fermento culturale che ruotava attorno a Pompei?
Attraverso le iscrizioni sappiamo che in Campania si parlavano più lingue: il greco – alla maniera di Cuma e nel dialetto dorico di Poseidonia –, l’etrusco nelle varianti di Tarquinia e Cerveteri o Capua, senza tralasciare l’italico e, ovviamente, il latino. La lingua era soggetta a un uso sociale e non corrispondeva necessariamente all’identità etnica. Nel percorso espositivo c’è una vetrina con iscrizioni parietali risalenti all’ultima fase di vita di Pompei. Nel I sec. d.C. si insegnava ancora il greco ma è importante osservare come questa lingua venisse utilizzata solo quando si aveva a che fare con espressioni letterarie, l’amore e la cura del corpo femminile.
La fascinazione per il mondo greco ebbe il suo apice in epoca romana, seppur con differenze sostanziali rispetto al periodo arcaico…
Nella Pompei romana la Grecia sarà un modello meditato a cui ispirarsi e l’ellenismo una filosofia e una moda da seguire. Basti pensare al celebre mosaico che raffigura la battaglia di Alessandro Magno contro Dario III di Persia rinvenuto nella domus del Fauno. Duecento anni dopo quell’evento, l’opera diviene uno strumento di comunicazione del potere. Roma, insomma, si impossessa del modo di rappresentare il mito per dargli nuovi significati. Un altro oggetto indicativo esposto in mostra è un’hydria del V secolo a.C. – premio dei giochi Argivi – che, assieme ad altri vasi, costituiva il lussuoso corredo della casa di Giulio Polibio.
Pompei, soprattutto in conseguenza dell’eruzione che fermò per sempre il tempo al 79 d.C., è considerata la città romana per antonomasia. Questa mostra va controcorrente?
La romanizzazione fu un modo per integrare in un nuovo sistema economico un patchwork di culture che componevano l’Italia di quel periodo. Anche in questo caso si è trattato di un processo culturale e non etnico. Pompei è dunque a tutti gli effetti una città romana ma con una stratificazione complessa.
La Stampa 3.10.17
Nella piramide di Cheope c’è una stanza dei misteri. Forse è quella del tesoro
Scoperta di un team internazionale con uno “scanner” che individua le interazioni dei raggi cosmici con il granito
di Vittorio Sabadin
A 4500 anni dalla sua costruzione, la piramide di Cheope continua a sorprenderci. Un team internazionale di scienziati ha individuato al suo interno una grande e misteriosa camera segreta, lunga 30 metri e alta 15, che si trova poco sopra la Grande Galleria che conduce alla Camera del Re. Da ieri, quando Nature ha dato l’annuncio della scoperta, nella comunità degli egittologi non si parla d’altro e già si fanno mille congetture: conterrà il tesoro che da millenni si cerca nella piramide? Sarà la vera tomba di Cheope, la cui mummia non è stata mai trovata? Rivelerà finalmente i misteri della costruzione del più imponente edificio dell’antichità?
Mehdi Tayoubi, presidente dell’Heritage Innovation Preservation del Cairo che ha avviato la ricerca invita alla prudenza: «Ci sono molte teorie, alcune pazze e altre ragionevoli, ma è troppo presto per qualunque conclusione». Il professor Tayoubi ha fondato anni fa lo Scan Pyramids Project, un’iniziativa il sui scopo è compiere ricerche sulle tre piramidi della piana di Giza senza ricorrere a pratiche invasive. Scienziati giapponesi e francesi hanno unito le loro conoscenze per effettuare uno scanner della Grande Piramide intercettando i muoni, particelle subatomiche generate dal contatto dei raggi cosmici con gli atomi dell’alta atmosfera. Come i raggi X di una radiografia, i muoni sono disturbati dai solidi come i blocchi di granito, e si muovono in maggiore quantità negli spazi liberi.
Nel dicembre del 2015 il fisico Kunihiro Morishi ha piazzato un primo rilevatore di muoni nella Camera della Regina e scienziati giapponesi e francesi ne hanno collocati altri due, uno dei quali all’esterno della piramide. Dopo mesi di osservazioni, tutti e tre i rilevatori hanno indicato la presenza di una grande e sconosciuta cavità al di sopra della Grande Galleria, che è stato possibile per ora tracciare solo a grandi linee: per un disegno più accurato occorrerà altro tempo. Tayoubi pensa che «possa trattarsi di una seconda Grande Galleria» della quale però non si comprende lo scopo, a meno che non porti a una nuova camera sepolcrale. Ma questa ipotesi è scartata dall’egittologo britannico Aidan Doson: «Le probabilità di trovare una tomba sono pari a zero», ha subito commentato.
La scoperta, che era stata anticipata da La Stampa il 5 agosto scorso con i pochi dettagli allora disponibili, aiuterà sicuramente a comprendere meglio la storia della piramide. Cheope ha regnato dal 2509 al 2483 aC e il suo immenso monumento funebre ha affascinato per millenni chiunque lo abbia visto. Per i Romani era già antico come oggi lo sono i Romani per noi, ed è stato necessario attendere fino al 820 dC, quando l’arabo Al Mamoun vi aprì una galleria alla ricerca di tesori, per conoscerne la complessa struttura interna.
Nell’800 e nel ‘900, archeologi come Flinders Petrie, Giovanni Battista Caviglia e Richard Vyse ne hanno studiato a lungo i corridoi e le stanze, senza arrivare a dare una spiegazione ai molti misteri nei quali si imbattevano: la mancanza di qualunque geroglifico, il sarcofago privo di un cadavere e di un nome, la Camera della Regina completamente vuota, i canali che comunicano con l’esterno, il pozzo scavato in modo irregolare che conduce a una grotta sotterranea. E poi la Grande Galleria, un capolavoro di architettura del quale ancora oggi non si conosce lo scopo e di cui è stata ora forse trovata una copia segreta.
Richard Vyse, ai suoi tempi, se avesse individuato una camera nascosta si sarebbe fatto portare subito un po’ di dinamite per aprirsi un varco e raggiungerla, ma oggi per fortuna non si può più fare. «Per il momento non scaveremo – ha detto Hany Helal, vice presidente dell’Heritage Innovation – e continueremo la nostra ricerca con tecnologie non invasive per avere un quadro completo. Con l’edificio più famoso del mondo non si può andare avanti per tentativi ed errori». Presto, ha annunciato Mehdi Tayoubi, lo scanner dei muoni sarà replicato nella piramide di Chefren, grande e misteriosa quasi come quella di Cheope. Ci aveva già provato negli Anni 60 il Nobel della fisica Luis Alvarez senza trovare nulla. Ma la tecnologia è molto migliorata, e le sorprese di Chefren potrebbero essere persino superiori a quelle di Cheope.
La Stampa 3.11.17
“Tra mummie e dei un sogno millenario”
di Mario Baudino
C’era andato molto vicino, l’architetto francese Gilles Dormion, che con l’analisi delle strutture statiche e metodi elettromagnetici aveva ipotizzato con il collega Jean-Yves Verd’urt la presenza della camera segreta cercata e sognata da migliaia di anni.
I risultati erano stati affidati a un libro, pubblicato nel 2004, dal titolo La chambre de Chéops, ma ulteriori ricerche erano state stoppate dalle autorità archeologiche egiziane e le stesse conclusioni dei due ricercatori – architetti più che egittologhi – non avevano trovato d’accordo tutti gli studiosi. Ora si assisterebbe a una clamorosa conferma delle loro intuizioni. Ce lo ricorda i professor Paolo Gallo, docente a Torino e responsabile di campagne di scavi nel Delta e nel deserto libico. La scoperta, aggiunge, potrebbe avere una grande importanza e una ricaduta sugli studi notevolissima, se verrà confermata; e quando si saprà che cosa c’è nella stanza. «Se la camera fosse intatta, sarebbe la prima volta che si trova la tomba di un faraone dell’Antico Regno. Non è certo la prima stanza segreta individuata nelle piramidi, ma quella trovate fin’ora erano vuote».
Questa volta saremmo di fronte a un risultato, per così dire, epocale.
«Aspettiamo le verifiche, è un dovere di chi si pone in questo campo da un punto di vista scientifico. Certo, la piramide di Cheope rappresenta di per sé un grande mito, anche solo per il fatto di essere l’ultima arrivata fino a noi delle sette meraviglie del mondo antico. E la stanza o galleria segreta è un sogno antico».
Quanto antico?
«Ne parla già un papiro della dodicesima dinastia, quindi tra il 1950 e il 1850 circa a. C., mezzo millennio dopo la costruzione della piramide. E la descrive come un luogo dove sono riposti i libri del dio Thor. Da allora, ci si è periodicamente interrogati su di essa, senza risultati concreti».
Ma i due architetti francesi ci sono andati vicino.
«Sì, individuarono con precisione una camera nella cosiddetta piramide romboidale, anche questa già ipotizzata in precedenza, e aggiunsero che era molto probabile ne esistesse una nella piramide di Cheope, in base alle risposte del sonar».
Ora si sono usate tecniche molto più sofisticate
«Sostanzialmente i due non venero creduti dalle autorità egiziane, che qualche anno dopo affidarono le ricerche all’Università giapponese di Nagoia. Va da sé che i risultati sono anche motivo di orgoglio nazionale per l’Egitto».
Qual è l’importanza vera di una scoperta come questa?
«Non trascuriamo l’aggettivo “segreta”, che in questi casi è la chiave di tutto: assicura una grande visibilità sui mass media, e dunque finanziamenti. Ma se la camera fosse intatta…»
Sarebbe qualcosa di mai visto prima?
«La cautela è d’obbligo, ma nulla ci impedisce di sperare».
Corriere 3.11.17
Resistenza Un saggio di Matteo Incerti (Imprimatur) rievoca un episodio della lotta di Liberazione avvenuto nel 1945 ad Albinea (Reggio Emilia)
E la cornamusa beffò i nazisti
Un’azione partigiana camuffata da attacco alleato per evitare rappresaglie
di Gian Antonio Stella
«“Ci hanno assaltato all’improvviso, stavamo dormendo. Uomini da tutte le parti: erano invasati, ispirati da un folle che suonava nel bosco” riferì il soldato, leggermente ferito a un braccio. “Suonava nel bosco? Chi diavolo suonava nel bosco?” chiese sbalordito Hauck. “Sì, con una cornamusa”».
Compare così, nel libro I l suonatore matto di Matteo Incerti (Imprimatur), il leggendario David Kirkpatrick, detto appunto mad piper , il «cornamusiere folle» che, paracadutato il 24 marzo 1945 con il kilt a quadrettoni e lo strumento musicale scozzese sull’Appennino reggiano, partecipò tre giorni dopo alla cosiddetta «Operazione Tombola». Cioè l’assalto a Villa Rossi e Villa Calvi, due antiche e nobili ville di Albinea occupate dalla Wehrmacht per ospitare la V Sezione del Comando generale tedesco in Italia e il quartier generale del Corpo alpino tedesco sulla Linea Gotica occidentale.
Aveva già avuto degli eroi, Albinea. Ragazzi che avevano dato la vita nella guerra ai nazisti. Su tutti cinque tedeschi: Erwin Bucher, Martin Koch, Erwin Schlunder, Karl-Heinz Schreyer e Hans Schmidt, un giovane socialista berlinese arrestato e incarcerato nel 1935 perché ostile al Führer, arruolato a forza verso la fine della guerra e inviato alla compagnia trasmissioni della Luftwaffe lì, nella cittadina reggiana. Dove appena possibile aveva preso contatto coi partigiani.
«Voleva consegnarci il centro trasmissioni, con le armi, le radio e tutto il materiale che per noi sarebbe stato prezioso», avrebbe raccontato Oddino Cattini, della 37ª brigata Gap. «Lui, e altri soldati d’accordo con lui, sarebbero venuti in montagna, come nucleo iniziale di una formazione che raccogliesse altri disertori tedeschi». All’ultimo momento erano stato traditi, catturati, torturati, giustiziati, buttati in una fossa comune. «Prima di ritirarmi dal cimitero mi avvicinai al comandante chiedendo se potevo avere i nomi. Mi rispose seccamente di no», avrebbe ricordato il parroco, don Alberto Ugoletti. «Uscendo un soldato mi si avvicinò e mi disse: domattina ritorni sulla tomba e sotto le zolle troverà dei biglietti col nome. Sono figli di un dio ignoto, prete».
Era la fine di agosto del 1944. L’anno delle stragi naziste sull’Appennino tosco-emiliano. Delle mattanze a Sant’Anna di Stazzema, a Marzabotto, a La Bettola di Vezzano sul Crostolo… Carneficine decise per rabbiosa rappresaglia contro la guerriglia dei partigiani che dalle montagne scendevano a colpire a sorpresa le truppe tedesche. E proprio per evitare l’ennesimo eccidio, alla fine di marzo del 1945, un mese prima del 25 aprile che avrebbe visto l’insurrezione in tutti i territori ancora occupati dai nazifascisti, David mad piper Kirkpatrick fu paracadutato sull’Appennino… Occorreva dimostrare assolutamente, per evitare l’ennesima ritorsione nazista sulla popolazione civile, che l’attacco dei parà alleati alle ville occupate dai comandi tedeschi era un attacco condotto da militari in divisa.
Tra i partigiani che tra quelle montagne facevano i basisti della «Tombola operation» c’era un uomo che se ne è andato a novant’anni proprio in questi giorni. Si chiamava Bruno Gimpel e dopo la guerra sarebbe diventato un celebre revisore dei conti e stretto collaboratore di Enrico Cuccia. Figlio di reggiani, nato e cresciuto a Londra, era stato costretto a venire in Italia dopo lo scoppio delle ostilità, quando Churchill aveva lanciato contro i nostri emigrati un ordine scellerato: «Acciuffateli tutti». Senza eccezioni. Un ordine che aveva colpito perfino ebrei rifugiati a Londra dopo le leggi razziali ed era costato la vita a 446 nostri connazionali prigionieri, col filo spinato alle porte, sulla nave Arandora Star, affondata da un siluro tedesco.
«Il primo giorno di scuola, arrivato a Reggio Emilia, mi chiesero di commentare una frase di Mussolini: “È l’aratro che traccia il solco ma è la spada che lo difende”», avrebbe raccontato Gimpel a Matteo Incerti, «Lasciai il tema in bianco. Non capivo né il senso né lo scopo di un esercitazione su un tema del genere. Lo ritenevo uno slogan senza senso e idiota per me che venivo dalle scuole inglesi ed ero cresciuto con la democrazia nel sangue».
Quando don Pasquino Borghi, un prete che aveva fatto il seminario ad Albinea e conosceva la sua famiglia, venne fucilato per aver dato ospitalità a partigiani in fuga, Bruno e il fratello Franco si decisero. Entrarono in contatto prima con la Resistenza e poi, grazie all’inglese fluente che parlavano, con il Soe, il servizio segreto di guerra britannico, per il quale il sedicenne Bruno, bravissimo in matematica, traduceva i codici segreti. Sbocco finale: l’ingresso nella squadra speciale «Gufo Nero» di Glauco «Gordon» Monducci, il partigiano che insieme coi militari britannici portò a termine l’«Operazione Tombola».
L’idea di portarsi dietro uno «zampognaro» scozzese, tra i paracadutisti che dovevano sorprendere i tedeschi dando l’assalto alle due ville, racconta Incerti nel libro, venne al maggiore Roy Farran: «Facciamoci paracadutare un suonatore di cornamusa, e che porti con sé anche il kilt. Sarà il nostro sigillo sull’azione, la nostra arma segreta». E spiegò ai perplessi: «Sarà di fondamentale importanza. Chi penserà mai che cento pazzi, per lo più irregolari, scenderanno per miglia e miglia a valle per attaccare il quartier generale tedesco alle porte della città di Reggio Emilia e che chi avrà salva la pelle da quell’inferno se ne ritornerà a gambe levate sui monti? Penseranno che gli Alleati abbiano sfondato le linee nemiche, li getteremo nel panico… Chi penserà che a questo attacco parteciperanno in massa anche partigiani italiani e russi? Vedranno i nostri baschi, quel suono si propagherà ovunque. Per noi le note della vittoria, per loro quelle del capitolazione. Sarà il nostro sigillo. Dovrà sembrare, anzi, essere un assalto militare britannico in piena regola. Suonerà Highland Laddie ». Un’antica ballata popolare.
E fu così che la notte dell’assalto alle due ville, tra i colpi delle granate e le raffiche delle mitragliatrici, tutti sentivano in lontananza, nel bosco, il suono della cornamusa dentro la quale David mad piper Kirkpatrick soffiava tutto il fiato che aveva nei polmoni. La mattina dopo un camion si fermò davanti alla chiesa di Albinea. Nel cassone c’erano i cadaveri di tre soldati in divisa. «Li lasceremo nella cappella mortuaria. Provveda lei alla sepoltura», disse un sergente della Wehrmacht. Il parroco, quel don Ugoletti che l’anno prima aveva sepolto Hans Schmidt e gli altri «figli di un dio ignoto» che avevano salvato un pezzetto dell’onore tedesco ribellandosi al nazismo, si sentì gelare: «Ci sarà un’altra rappresaglia?» No, rispose il sottufficiale. Era stata un’operazione di militari britannici. C’era perfino un matto che suonava la cornamusa…
Corriere 3.11.17
«Le emozioni sono preziose Servono all’apprendimento»
Daniela Lucangeli: «Torniamo a insegnare con il sorriso»
di Caterina Ruggi d’Aragona
È il momento della torre, «alta alta». Ad ogni cubo uno sguardo e la domanda: «Va bene?». Ad ogni applauso un sorriso radioso, soddisfatto, e ancora un altro cubo. «È il principio dell’associazione comportamento-reazione. Un bambino di due anni circa – spiega Daniela Lucangeli, professoressa di Psicologia dello sviluppo presso l’Università degli Studi di Padova - apprende per imitazione differita: capisce se sta facendo bene o male attraverso la reazione di una figura significativa, come la mamma. È così che afferma la sua sicurezza». Ogni donna con figli di quell’età ha davanti agli occhi i primi segnali del legame emotivo-cognitivo affermato recentemente dalle neuroscienze, che invitano gli educatori a orientarsi verso un apprendimento caldo. Cosa significa «warm cognition»? La professoressa Lucangeli, esperta di psicolo gia dell’apprendimento e presidente nazionale dell’Associazione per il Coordinamento nazionale degli insegnanti specializzati, lo spiegherà a Rimini durante il Convegno Erickson «La Qualità dell’inclusione scolastica e sociale», stamattina (ore 9/13) con l’intervento dal titolo «Carezze dal cervello all’anima» e domani (ore 14.30/16.30) con il Q-Talk «A scuola di emozioni».
«Le neuroscienze hanno dimostrato che non c’è contraddizione tra i meccanismi emotivi e cognitivi del cervello. Se apprendo con paura – dice Daniela Lucangeli – creo un corto circuito: la paura mi suggerisce che quello che sto apprendendo è pericoloso; una parte di me vorrebbe ricordarlo, un’altra cancellarlo. Si crea quindi una condizione di grande fatica. Ecco perché è fondamentale non accompagnare l’insegnamento con emozioni dis-funzionali, che possono bloccare l’apprendimento». Paura, colpa e noia le emozioni più pericolose per lo sviluppo cognitivo. «La paura di sbagliare e la colpa, legata al principio di attribuzione, hanno effetto diretto sul corto circuito emotivo. Sul piano cognitivo, la noia determinata da prestazioni ripetitive innesca un allontanamento motivazionale. È un messaggio che stiamo dando con grande impegno agli insegnanti», riferisce la professoressa. Comprendere quanto sia importante l’associazione tra apprendimento e emozioni per poi cambiare gli atteggiamenti educativi basati su eccesso di richiesta ed emozioni stressanti sono i due imperativi (molto più che un invito). Anche perché gli indicatori del Ministero dell’Istruzione e del coordinamento nazionale psicologi parlano di un eccesso di carico, per quantità e qualità, sugli studenti italiani.
Chiariamo: l’insegnamento del sorriso non significa una scuola facile che renda tutti felici. «Ai genitori raccomando di iniziare subito ad accarezzare i loro bambini, sorridere, guardarli negli occhi, e capire come stanno. Poi arriva l’alleanza educativa: famiglie e scuola dalla parte dei ragazzi, alleati – suggerisce la psicologa - contro gli errori, per incoraggiarli a migliorare. L’insegnante-giudice diventa maestro che aiuta». Un insegnamento del sorriso, consapevole e rispettoso delle diversità, è il fondamento base per una scuola inclusiva.
Corriere 3.11.17
«Noi genitori troppo invadenti Così i ragazzi non maturano»
Matteo Bussola: la scuola non è un servizio dove il cliente ha sempre ragione
di Valentina Santarpia
Se qualcuno storce il naso quando si parla di inclusione, formandosi in testa il quadro complicato di ragazzini disturbati e insegnanti di sostegno difficilmente allineati, è sulla cattiva strada. Lo dimostrano premesse, appuntamenti e ospiti della tre giorni di Rimini, dove si confrontano i protagonisti del mondo della scuola, educatori, insegnanti, esperti, neuropsichiatri, pedagogisti e genitori. Perché, non sempre consapevolmente, sono loro che stanno contribuendo sempre più a determinare l’evoluzione dei percorsi formativi dei nostri figli.
«E non sempre con buoni risultati», esordisce Matteo Bussola, autore di Sono puri i loro sogni - Lettera a noi genitori sulla scuola , un testo decisamente critico sul ruolo dei padri e delle madri di oggi che, forti dei gruppi WhatsApp, invadono la vita dei propri figli. «Lo spunto è nato dal post su Facebook di una mia amica insegnante, sospesa dall’incarico perché accusata ingiustamente di aver picchiato un alunno. In realtà le cose erano andate diversamente, lei aveva rimproverato il bambino per un episodio di bullismo, ma tutti avevano creduto alla versione fantasiosa del bambino, e i genitori erano andati direttamente a parlarne col dirigente scolastico per protestare, senza neanche provare a interpellarla. Ho capito che noi genitori siamo cambiati moltissimo: se io prendevo un brutto voto, i miei mi davano il resto a casa, come si suol dire. Se succede adesso, si scatena un dibattito. La scuola è diventata un servizio dove il cliente ha sempre ragione, abbiamo dimenticato che le crisi, gli ostacoli, le difficoltà, fanno crescere e forgiano la personalità, fanno crescere individui autonomi e responsabili, mentre noi non accettiamo più il fallimento come parte integrante della nostra vita. Anzi, siamo autolesionisti: come degli automobilisti che vedono la luce rossa dell’olio ma invece di fermarsi a rabboccarlo, nascondono la spia allo sguardo».
E Bussola non parla dal pulpito, anzi: lui si «sporca» le mani tutti i giorni, con le sue tre figlie, di taglia s-m-l, come scherza lui, ovvero di 4, 6 e 10 anni, delle quali vive la quotidianità e che quindi gli hanno permesso di sbagliare ripetutamente, prima di «ravvedersi». «Confermo, ho fatto tutti gli errori che racconto nel mio libro perché insieme a mia moglie sono un papà molto presente. Ma il confine tra presenza e invadenza è sottilissimo. Ci facciamo carico delle cose dei nostri figli come se fosse la nostra vita, abbiamo la tentazione di metterci sempre davanti per proteggerli, quando invece dovremmo porci un passo indietro per sostenerli se cadono». Roba da ambienti medio-alti, che non riguarda le persone più umili? «No, è un discorso generale — dice Bussola —. Certo, i genitori istruiti hanno anche un po’ di presunzione in più. Ma un premio Nobel non sarà mai migliore di un insegnante, perché non è la cultura a fare un buon maestro, ma è la sua capacità di entrare in empatia con lo studente e tirargli fuori il meglio».
Parole sante per Carlo Scataglini, insegnante di sostegno da 30 anni all’Aquila, esperto in didattica inclusiva, autore di libri sull’argomento, come Il sostegno è un caos calmo - E io non cambio mestiere (Erickson, 2012): «C’è una partecipazione drogata delle famiglie alla scuola. Ho assistito a scene assurde come genitori che contestavano i compiti dei propri figli. Invece è fondamentale che ciascuno abbia le proprie responsabilità: il motivo per cui si vedono tanti ragazzi indolenti e passivi nelle aule è proprio questo, la tendenza a non attribuire a ciascuno il proprio ruolo. E la tendenza a delegare: all’esperto della dispersione scolastica, al referente sul bullismo, all’insegnante di sostegno, e così via. Invece dobbiamo ricordarci, di fronte ad una classe di 25 persone, che ciascuno è una diversità, e che solo con la collaborazione di tutti riusciamo a trarre il meglio dallo studente. Persino con ragazzi difficili, come uno a cui sono particolarmente affezionato: affetto da una sindrome genetica grave, con serie insufficienze mentali, è riuscito grazie a una serie di strategie didattiche a entrare in classe, collaborare con gli altri. Per me è stato un successo».
Repubblica 3.11.17
Il viaggio di uno scrittore nelle idee di società “giusta”. Dai classici a oggi
La democrazia dei nostri sogni tra Platone e lo Stregatto
di Alberto Manguel
Qualunque classico (qualunque dei libri che abbiamo deciso di chiamare classici) getta luce in un modo o nell’altro sulla domanda fondamentale di qualunque cittadino di qualunque società: come costruire una società ragionevolmente giusta e adeguatamente felice? Indicazioni in tal senso le troviamo in Omero, in Virgilio, nel “Don Chisciotte”, in “Cent’anni di solitudine”. Ma forse la guida più chiara, più generosa
per me è La Repubblica di Platone. Come tutti i dialoghi di Platone, è un insieme di idee, sprazzi, suggerimenti, invenzioni su una gran varietà di temi. È soprattutto, come il suo genere letterario indica, una conversazione. Quando lo lessi per la prima volta, da adolescente, rimasi deluso dalla sua mancanza di alterigia e prepotenza: mi aspettavo di trovarmi di fronte a un testo arido, declamatorio, perentorio. Si rivelò l’esatto contrario: un libro ameno, a tratti umoristico, amabile, appassionato, un andirivieni di osservazioni, idee lasciate a metà, giochi verbali degni più di una chiacchierata tra amici che dell’arte oratoria. E in effetti a questo assomigliava La Repubblica, a una di quelle interminabili nottate insonni in cui io e i miei amici, con l’energia intellettuale e fisica che si possiedono solo a sedici diciassette anni, discutevamo del significato del mondo, confessavamo le nostre paure e speranze e cercavamo di trovare soluzione ai grandi problemi politici e metafisici dell’universo, fino a quando il sonno aveva la meglio e ci addormentavamo sul tappeto.
Questo dialogo non ha nulla del rigore accademico che i nostri pregiudizi attribuiscono ai filosofi classici: invece di trovare nella Repubblica un precedente simile alle matematiche strutture retoriche di uno Spinoza o di un Kant, il lettore sorpreso (e riconoscente) trova un lontano antenato degli esilaranti dialoghi logici di Alice nel paese delle meraviglie. Il Socrate di Platone ha qualcosa del Bruco (che pretende che Alice risponda con precisione alla domanda «chi sei tu?») o allo Stregatto (che dice ad Alice, quando lei gli chiede di indicarle la strada, che dipende da dove vuole arrivare), mentre il lettore concorda con le parole di Alice di fronte al Cappellaio Matto: «Mi pare che potreste impiegar meglio il vostro tempo piuttosto che sprecarlo a fare indovinelli senza risposta». È noto che Platone appartiene alla storia della filosofia; tuttavia, per il lettore privo di pregiudizi, il suo vero posto è tra i grandi creatori di personaggi letterari, Shakespeare, Cervantes, Dostoevskij, Flaubert.
Il punto di partenza della conversazione centrale della Repubblica è questo: «Se assistessimo teoricamente», dice Socrate, «alla nascita di una città, vedremmo anche nascere la giustizia e l’ingiustizia?». Dalla primordiale volontà di condividere e aiutarsi gli uni con gli altri nasce la necessità di un governo composto dai cittadini più intelligenti e capaci: questa aristocrazia si converte nel governo di coloro che riscuotono rendite, a cui succede l’oligarchia, che a sua volta degenera in democrazia – sistema che Platone aborriva – e infine in tirannia, il peggiore di tutti i regimi. La conclusione, che non è veramente una conclusione, è infinitamente triste. «Ma quale delle costituzioni vigenti, secondo te, è appropriata alla filosofia? », domanda uno degli interlocutori. «Neanche una», risponde Socrate. Forse una delle ragioni per cui La Repubblica è uno dei testi che godono di immortalità intellettuale sta nel fatto che non offre risposte e non propone soluzioni, ma mette a nudo i nostri dubbi e le nostre angosce di fondo. Ogni lettore della Repubblica finisce per essere uno dei suoi interlocutori. Anch’io. Nell’arco di oltre cinquant’anni, ho vissuto in mezza dozzina di società. Prima in un’Atlantide inventata partendo da terre confiscate (Israele), poi in una sequela di dittature militari (l’Argentina), più tardi in un’aristocrazia che promuove la separazione delle classi (l’Inghilterra), dopo di che in una colonia mascherata da territorio di oltremare (Tahiti), più tardi ancora, negli anni ‘80, in una fugace democrazia (il Canada), e oggi di nuovo in Argentina, un Paese che ancora sta cercando se stesso. A queste potrei aggiungere numerose microsocietà di cui ho fatto parte, microcosmi in cui si stabiliscono regole di convivenza: club, cenacoli, campeggi, collettività etniche e filosofiche, circoli intellettuali e cenacoli artistici. Molte altre non le conosco: le tribù indigene della foresta, le società tribali del deserto, i popoli nomadi, le famiglie poligame (poliginiche, come i mormoni, o poliandriche, come i tibetani), i comunismi, gli ordini religiosi. Sospetto che, come le società che ho conosciuto, nessuna di queste ultime sia perfetta.
Di fronte alle domande aperte che La Repubblica lascia ai suoi lettori, quali abbozzi di risposte possiamo offrire? Se qualsiasi forma di governo è in qualche modo nefasta, se nessuna società può vantarsi di essere eticamente e moralmente sana, se la politica si rivela implacabilmente un’attività infame, se qualsiasi impresa collettiva si sbriciola in meschinità e viltà individuali, che speranza abbiamo di vivere più o meno pacificamente, vantaggiosamente, rispettandoci e prendendoci cura gli uni degli altri?
La cosa certa è che quasi tutti noi (compreso chi ha commesso le più atroci ingiustizie) sappiamo, come Socrate e i suoi interlocutori, cosa è giusto e cosa no. Quello che ovviamente non sappiamo è come agire con giustizia in ogni momento, collettivamente, come società, e ciascuno per parte sua, come cittadino. Qualcosa ci spinge verso il beneficio materiale e personale, senza tenere conto degli altri; qualcosa di opposto ci attrae verso i benefici più sottili del dono, della condivisione, di ciò che può essere utile non a noi bensì al prossimo. Qualcosa ci conduce a sapere che per quanto possa essere potente la spinta data dall’ambizione di ricchezze, potere e fama, l’esperienza, la nostra e quella del mondo, finirà per mostrarci che di per sé quell’ambizione non vale nulla.
Racconta Socrate che quando l’anima di Ulisse si trovò a scegliere una nuova vita, dopo la morte, «essendo ormai guarita dall’ambizione grazie al ricordo dei travagli passati», cercò la vita di «uno sfaccendato qualsiasi » e «tutta contenta se la prese ». Non è da escludere che questo sia stato il suo primo atto realmente giusto.
(Traduzione di Fabio Galimberti)