giovedì 30 novembre 2017

Il Fatto 30.11.17
L’Europa parla, la Cina compra tutta l’Africa rapita dagli yuan
Il regime comunista scambia infrastrutture per materie prime: e silenzio sui diritti umani
di Andrea Valdambrini

Nel giorno del vertice Europa-Africa di Abidjan, con la promessa dei capi di Stato e di governo europei di rimettere l’Africa al centro degli interessi del Vecchio continente, risulta ancora più evidente che negli ultimi anni solo la Cina ha avuto una visione per questo continente, mentre anche gli Usa sembrano essere in ritirata.
Nella sua espansione globale, Pechino non agisce certo da benefattore: il continente rappresenta per la Cina una fonte ricchissima di materie prime (petrolio in Nigeria, Angola e Sudan; rame in Congo e Zambia; uranio in Tanzania e Namibia), un enorme mercato, dalla demografia in crescita, verso cui esportare e anche una sorta di laboratorio di idee per “sperimentare differenti soluzioni in un ambiente a basso rischio”, come ha indicato il giornalista americano Howard French nel suo libro China’s Second Continent (2014), in cui descrive la costruzione del nuovo impero africano da parte di un milione di imprenditori cinesi. Inoltre, alle infrastrutture – porti, ferrovie, dighe – già realizzate o progettate, segue l’influenza geopolitica lungo le linee della strategia lanciato dal presidente Xi Jinping: la Nuova via della Seta, ovvero la strada cinese verso l’Occidente.
Cifre degli investimenti Dal 2000 al 2015, gli investimenti di Pechino verso il continente africano sono passati da meno di 10 miliardi a oltre 220 miliardi di dollari, anche se negli ultimi anni hanno subito un calo dovuto alla diminuzione dei prezzi delle materie prime. (Fonte: China Africa Research Initiative della John Hopkins University, Washington). Le principali destinazioni dell’istituto di credito pubblico cinese (Eximbank) a sostegno degli investimenti sono: Etiopia e Angola (oltre 10 mld), Kenya (10 mld), seguiti da Sudan, Camerun e Congo, anche se le somme maggiori vanno verso Egitto (24 mld) e Nigeria (6 mld).
Al 2015 le miniere o industria estrattiva e le costruzioni sono in testa con oltre 25 miliardi di dollari, la manifattura e la finanza seguono con rispettivamente 15 e 10 miliardi, ricerca scientifica e servizi tecnologici a poco meno di 5 miliardi (dati elaborati da Financial Times). Secondo stime del Fondo Monetario Internazionale (Fmi) il totale del commercio con gli Stati africani è stato nel 2017 tre volte maggiore di quello con gli Usa.
In Kenya Pechino ha finanziato quasi per intero la ferrovia Mombasa-Nairobi, costata 4 miliardi di dollari, in funzione dal 2018. Aprirà il prossimo anno anche la ferrovia Lagos-Kalabar (1400 km), in Nigeria, opera da 11 miliardi. La diga Gran Ethiopia Reinassance, costata da 4,8 miliardi di dollari provvederà energia elettrica a Etiopia e paesi vicini, così come il porto commerciale di Bagamoyo, in Tanzania, che diventerà il più grande del continente entro il 2045, grazie a 11 miliardi di investimenti cinesi.
Ruolo geopolitico Anche il soft power si espande. Si contano oggi 52 missioni diplomatiche di Pechino (su 54 Paesi del continente) contro le 49 di Washington, mentre l’esercito cinese impiega circa 8.000 Caschi blu in 5 Paesi (Sudan, Sud Sudan, Mali, Congo, Liberia), risultando il primo per presenza militare tra i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza Onu (fonte: US Institute of Peace). La scorsa estate, come ha riportato la Cnn, una serie di fotografie satellitari hanno rivelato la costruzione di una imponente struttura di supporto logistico militare nel porto di Gibuti: il primo di questo genere per la Cina. Collocato sul Golfo di Aden, all’ingresso meridionale del Mar Rosso, Gibuti è uno snodo chiave di controllo della rotta tra Oriente e Mediterraneo. All’estremità settentrionale, il Canale di Suez, sul cui raddoppio Pechino sta lavorando con massicci investimenti in Egitto.
Fra storia e politica Tradizionalmente, la Cina mantiene un basso profilo in politica estera, seguendo un principio di non interferenza nelle vicende interne degli Stati, preferendo l’espansione commerciale. Oltretutto senza mai porre questioni di diritti civili o umani ai regimi – spesso poco democratici – in cui le sue imprese sono presenti.
Esistono però legami politici sottotraccia. Risalgono agli anni della decolonizzazione (1960-70) i rapporti tra Cina dell’era Mao e movimenti di liberazione africani. In tempi recenti tali legami sembrano però rinnovarsi. Il colpo di Stato militare in Zimbabwe, che ha estromesso Robert Mugabe dopo 37 anni al potere avrebbe avuto via libera da parte di Pechino. “Se così fosse, il mondo avrebbe assistito al primo caso di golpe non favorito da Cia o dai servizi segreti britannici (MI6), ma concepito e attuato con il tacito supporto della nuova superpotenza globale del 21esimo secolo”, ha scritto il quotidiano britannico Guardian.
Soci o colonizzatori? I soldi cinesi, uniti alla presenza massiccia ma silenziosa, fanno dunque la felicità degli africani: il 70% in Africa ha una visione positiva della presenza di Pechino (fonte: Afrobarometer 2014-15). C’è però all’orizzonte la spada di Damocle del deficit commerciale, unita a quella del debito. Il continente esporta verso la Cina molto meno di quanto importa e uno sbilanciamento simile riguarda anche i prestiti cinesi a sostegno di infrastrutture e progetti nel continente. In questo modo, sostengono alcuni osservatori, il rischio sarà quello di ritrovarsi indebitati fino al collo. Esposti non solo economicamente, ma anche politicamente verso Pechino.