Corriere 30.11.17
Socrate non c’entra
Quando il veleno è la via di fuga degli sconfitti
di Emanuele Trevi
Il
veleno letale evoca ricordi e immaginazioni tra i più disparati, tra
memoria storica e immaginazione letteraria, fiaba e cronaca giudiziaria.
È una minaccia, ma anche la più rapida ed efficace via di fuga. È
un’ipotesi storica che si affaccia quando si riaprono i dossier di tante
morti illustri, archiviate con fretta eccessiva. È uno degli accessori
tipici del corredo delle spie, negli anni d’oro della Guerra Fredda: un
finto dente pieno di cianuro, da ingoiare quando tutto è perduto,
evitando così i rischi di un interrogatorio. In teatro, l’impiego più
geniale di una boccetta di veleno è probabilmente quella del giovane
Shakespeare, in quella commedia che all’improvviso si trasforma in
tragedia che è Romeo e Giulietta. Perché un finto veleno, quando la
sventura interviene nei fatti umani, può essere più micidiale di uno
vero.
Tra le morti per veleno della storia del romanzo, la più
straziante la scrisse Flaubert, nelle ultime pagine di Madame Bovary:
una fine lenta e dolorosa, sproporzionata alle colpe dell’eroina. Negli
stessi anni, in una delle poesie erotiche più celebri dei Fiori del
male, Baudelaire trovava il veleno più letale nella «saliva che morde»
dell’amata, più potente del vino e dell’oppio. Metafora o realtà, il
veleno è un compagno costante delle vicende umane.
Non stupisce se
quello del generale croato Slobodan Praljak è un gesto che ci turba per
il suo sapore antico, da repertorio tragico, capace di evocare tutto
ciò che, nell’esperienza umana del male e del dolore, è imperituro, come
certe malattie fulminanti, o le catastrofi naturali. A metà degli anni
Novanta fu proprio la guerra civile nella ex Jugoslavia a ricordarci,
con la sua oscena brutalità, che gran parte dei progressi del genere
umano, a esaminarli bene, non sono che leggere mutazioni del costume,
smottamenti di superficie. Tutto ciò che di atroce e indicibile accadde
in Bosnia, era ancora più atroce e indicibile perché sembrava uscire
direttamente da un capitolo di un libro di storia o da un romanzo del
passato. L’assedio di Sarajevo polverizzava, per la sua lunghezza, il
terribile record di Leningrado. La gente moriva di fame e di freddo come
durante la Guerra dei Trent’Anni. L’inverno stesso diventava un
importante fattore strategico, come durante le campagne napoleoniche.
Ma
il tragico andava a braccetto col pacchiano. I discorsi dei criminali
di guerra, i vessilli, i giuramenti, i miracoli: era un massacro che
assomigliava in maniera disgustosa all’involontaria parodia di un
massacro. Mai la retorica del suolo e della stirpe aveva rivelato il suo
volto criminale in maniera così evidente. I signori della guerra,
anticipando i fasti medievali del Califfato, nutrivano un culto, insieme
osceno e ridicolo, per tutti quegli atteggiamenti da sagra di paese che
potessero richiamare le virtù del passato. È su questo sfondo che la
boccetta di veleno ingerita da Praljak di fronte alla corte dell’Aia
acquista una sua terribile coerenza. Praljak era un uomo notevole: un
ingegnere, ma anche un regista, diplomato all’Accademia d’Arte
Drammatica di Zagabria. Ed ha scelto di morire evocando un archetipo
memorabile. Ma gli archetipi sono complessi, e pericolosi da maneggiare.
Significano sempre qualcosa di più di quello che, in una data
occasione, vorremmo che significassero.
In ogni imitazione di un
archetipo, si afferma qualcosa e spunta l’ombra del suo contrario.
Ebbene, il mondo antico ci ha consegnato i fantasmi di due grandi
avvelenati: Socrate e Cleopatra. La storia del primo è quella di chi
accetta di bere la cicuta potendo sempre farne a meno, percorrendo
lietamente il sentiero della sua sorte proprio perché fino all’ultimo
esiste una via di scampo. Nella fine di Cleopatra, così come ce la
racconta Plutarco, il veleno ha tutt’altro significato. Il celebre
aspide è una via di scampo, una sfida, l’estrema affermazione di una
volontà che non intende essere giudicata da altri che da se stessa. Non
spetta a me giudicare come e quanto il generale Praljak abbia meditato
su questa spinosa contraddizione. Sono portato a vedere un barlume di
dignità in ogni atto di coraggio, per quanto disperato. Ma non posso
evitare di pensare che il filosofo ateniese e la regina egiziana
rappresentino due possibilità opposte e inconciliabili dell’agire umano.
Il veleno di Socrate si è trasformato nella linfa di un’intera civiltà.
Possiamo dire che ha cambiato il mondo. Proprio il contrario di quello
di Cleopatra, che col mondo ha regolato solo una questione privata, un
rapporto di forze .