giovedì 2 novembre 2017

Il Fatto 2.11.17
“Gastronomia un’arma dei poveri, non dell’élite”
Carlin Petrini - 30 anni fa: il 3 novembre 1987 inizia l’avventura con “il manifesto di slow-food”
di Stefano Caselli

il modo di pensare al cibo, ma c’è un nuovo cambio di paradigma epocale: i prossimi anni saranno caratterizzati da una pubblicità tendente all’informazione più che alla fantasia. Il consumatore ha imparato a fare domande, non puoi più raccontargli balle sulle materie prime e sui processi produttivi”. Carlo “Carlin” Petrini – da poco rientrato da un viaggio in Cina – risponde dal Perù in attesa di partire per il Brasile.
Insomma, in trent’anni la sua chiocciolina di strada ne ha fatta molta.
Era infatti il 3 novembre 1987, quando il Manifesto pubblicava “Il manifesto dello slow-food”.
Fu esordio assoluto di un marchio destinato a resistere, che così si esprimeva: “Contro coloro, e sono i più, che confondono l’efficienza con la frenesia, proponiamo il vaccino di una adeguata porzione di piaceri sensuali assicurati, da praticarsi in lento e prolungato godimento. Da oggi i fast-food vengono evitati e sostituiti dagli slow-food, cioè da centri di goduto piacere. In altri termini, si riconsegni la tavola al gusto, al piacere della gola”.
Petrini, chi scrisse materialmente quelle parole?
Fu, poeticamente, Folco Portinari, che intercettò non solo la contrapposizione gastronomica con il “fast food” allora dominante, ma qualcosa in più: la lentezza come filosofia. Erano gli Anni 80 degli yuppies, la frenesia veniva contrabbandata come modernità… Noi la pigliavamo con più calma…
Oggi però il mondo va enormemente più veloce di allora. Si può ancora essere “slow”?
Forse esserlo è ancora più rivoluzionario, ma c’è anche un paradosso: trent’anni fa non esisteva il Web, oggi la Rete è linfa vitale per realtà come la nostra. Senza questo tipo di “velocità” non avremmo mai raggiunto orizzonti che 30 anni fa sembravano completamente inaccessibili, come la Cina. Là si gioca buona parte del nostro futuro, il disastro ambientale del loro enorme sviluppo è evidente. L’unica cosa che può fermare il disastro è una nuova ruralità. Noi ci stiamo provando, con il nostro progetto di mille villaggi Slow Food.
Come – e in cosa – è cambiata Slow Food dal 1987 a oggi?
La data di svolta è il 2004, l’anno della prima Terra Madre a Torino. Da quel momento abbiamo capito che la gastronomia avrebbe potuto diventare uno strumento di riscatto anche in paesi dove si soffre la fame. Fino al 2004 eravamo solo in paesi con la pancia piena, il movimento Slow poteva essere associato a un’élite riservata e benestante. Nella logica gastronomica di trent’anni fa i concetti di biodiversità e giustizia erano ancora impensabili. Oggi, invece, la nostra non è più una battaglia per il cibo d’élite, ma per il cibo quotidiano. È finito il tempo della vecchia gourmandise che pensava solo al suo piatto, anche in Italia. Le nostre sfide oggi sono la difesa dell’ambiente, la lotta alla cementificazione, la promozione di un nuovo patto tra agricoltura e territorio che ponga rimedio al dissesto idrogeologico ormai evidente, anche perché le conseguenze del cambiamento climatico sono inimmaginabili se non invertiamo rotta.
Trent’anni di pensiero “slow” hanno inciso nelle abitudini degli italiani?
Molto è cambiato, c’è sicuramente più sensibilità. Le giovani generazioni, soprattutto, sono quelle più ricettive, quelle di mezzo, come sempre, quelle meno. C’è in generale meno ideologia e più pragmatismo, è cambiato il quadro di riferimento del concetto di cibo: la richiesta di rispetto per l’ambiente, di informazioni sulla filiera produttiva e sulla salubrità è molto più forte di 30 anni fa. Oggi non è possibile rendere piacevole un piatto senza pensare all’economia e al benessere di chi produce le materie prime. Si chiama alleanza tra chef e contadini. Che a livello mondiale i contadini siano sempre l’ultima ruota del carro è una cosa insostenibile. Servono le buone pratiche, i Farmer’s market, gli orti nelle scuole, l’educazione alla stagionalità, il recupero e la confisca dei terreni agricoli in mano alla criminalità.
Su cosa è necessario concentrarsi nel prossimo futuro?
Sulla vergogna della malnutrizione, obesità nei Paesi ricchi e fame nei Paesi poveri sono due facce della stessa medaglia, con la differenza che l’ipernutrizione la cerchiamo noi, la malnutrizione loro la subiscono. In Occidente lo spreco alimentare supera il 35% della produzione. E poi dobbiamo continuare a ridare dignità al mondo rurale o l’urbanizzazione ci soffocherà. Ma se un chilo di carote te lo pagano 7 centesimi, chi può desiderare ancora di lavorare la terra?