domenica 26 novembre 2017

Il Fatto 26.11.17
Il nuovo fascismo artificiale
di Furio Colombo

Il fascismo è dividere il mondo in due, segnato dai nostri confini, che devono essere sempre chiusi. La fede nella frontiera evoca subito il suo sigillo, la morte. Di cui ti dicono spesso che sarà “bella”. È sempre il primo premio del grande concorso “amare la Patria”. Una volta chiusi dentro, non ci possono essere che patrioti e traditori. Patrioti sono i custodi delle frontiere e traditori sono coloro che non apprezzano la claustrofobia inevitabilmente generata dal fascismo. Per stare in casa il fascismo celebra continuamente il passato, vero e inventato, e sempre pagato in vite umane. Tenta di proibire parole e gesti che possano evocare altre lingue, culture, Paesi, insomma “lo straniero”. Non genera cultura.
Ma quando si manifesta, come è accaduto in Italia tra gli anni Venti e gli anni Quaranta, il fenomeno non è mai che il fascismo diventi cultura. Accade, al contrario, anche in grandi numeri e per valori apprezzabili, che la cultura diventi fascista. Ciò spiega perché la cultura italiana, quasi al completo, e con rarissime eccezioni, abbia accettato il razzismo (le leggi razziali contro i cittadini italiani ebrei, inclusi personaggi di grande notorietà e riconosciuto valore) o abbia scrupolosamente taciuto, come di fronte ad una opzione perfettamente normale. La chiave di brutale svolta del fascismo avvenuta con la durezza e la gravità delle leggi razziali, è stata spesso interpretata come una imitazione-sottomissione alle ossessioni hitleriane del potente alleato tedesco. La ragione invece è detta con chiarezza nel Manifesto italiano per la difesa della razza, firmato da figure mediocri (alcune celebri, a quel tempo) che ha portato un insulto non cancellabile al Paese Italia e alla sua storia, ma ci dà notizie chiare e corrette del fascismo. La prima notizia è nel punto che afferma: “Oggi possiamo dire che esiste una razza pura italiana”, nel punto che chiarisce che “in nessun modo si potrà permettere che si attenti alla purezza della razza italiana”.
E nell’articolo che precisa in modo fermo, come fondato, allo stesso tempo, su una verità scientifica provata e su una certificazione storica non discutibile, che gli ebrei che vivono in Italia in nessun modo possono essere definiti, considerati o accettati come italiani.
Qui l’esame post mortem del fascismo rivela il suo punto generatore: il nemico. È indispensabile, in una visione del mondo a confini chiusi, non solo il nemico pronto a invadere se non sei abbastanza rigido alle frontiere. Ma anche un nemico interno in grado di falsificare la razza, di alterare la stirpe, di intaccare la sacralità unica della religione, di creare pericolose condizioni di meticciato. Tutto ciò purtroppo ci porta ai giorni nostri e li spiega. Spiega anche ciò che sta accadendo in Italia e in Europa. Chiamiamo “populismo” le svolte brutali, avvenute in molti Paesi dove, lavorando con persistente pazienza e diffusione di notizie false, sulla paura della immigrazione, si è riusciti a trasformare la paura in panico e poi il panico in chiusura e difesa dei confini, e vero razzismo, fino all’agghiacciante spettacolo delle centinaia di migliaia di polacchi che si esibiscono, rosario in mano, in una paurosa e minacciosa dichiarazione di guerra agli “stranieri” che invadono (non uno in Polonia, che del resto rimane antisemita anche senza ebrei). Ricordiamo che il fenomeno aveva già dato notizie di sé con la foresta di croci che aveva cominciato a moltiplicarsi intorno ai campi di Auschwitz e Birkenau, come per esorcizzare tutto quel sangue ebreo in quella terra polacca. Ci è voluto un papa polacco (Giovanni Paolo Secondo) per porre fine allo spettacolo premonitore. Adesso tocca a noi il coraggio di riconoscere che, nonostante il nazismo ungherese e il fascismo polacco, la drammatica rivelazione di un brutale cambio di regime culturale sul dramma dell’immigrazione, è avvenuto in Italia. È avvenuto quando improvvisamente le navi del volontariato (Ong) che hanno salvato fino a poco fa decine di migliaia di profughi dalla morte in mare, sono state accusate, indagate e allontanate. La tecnica che dovrebbe aprire gli occhi alla civiltà è stata ottenuta con modalità dello spionaggio bellico. Vi mostrano le immagini in cui qualcuno (dalla parte dei trasporti dei profughi) fa segnali a qualcuno (navi Ong) di accostarsi in un punto favorevole, per evitare che tanti cadano in mare e tanti anneghino. Con questa prova di accordi con la malavita (che è ciò che le croci rosse del mondo fanno tutto il tempo) si è sgombrato il mare e si sono riempiti i lager libici descritti come centri di morte dall’Onu. Ecco, si è formato un fascismo artificiale. I pezzi di disumanità sono gli stessi, anche se ognuno assicura che continua la democrazia.

il manifesto 26.11.17
Fine vita, i dem contano i voti al senato. Avanza l’ipotesi fiducia
Testamento biologico. La maggioranza è assicurata ma il problema è Ap. Lupi: «La legge apre all’eutanasia»
di Eleonora Martini

Matteo Renzi ha avviato la computa, al Senato, per verificare su quanti voti può contare la legge sul testamento biologico che ha deciso di incassare entro la fine della legislatura, sacrificando invece quella sullo ius soli, ben meno adatta alla campagna elettorale che è più congeniale al segretario del Pd. Alla peggio, sarebbe disposto a ricorrere pure al voto di fiducia, anche se la questione che più importa, allo stato dell’arte, è quella della tenuta delle alleanze.
Lo aveva precisato martedì sera, lanciando un appello dal treno «Destinazione Italia» dopo aver incontrato nei pressi di Arezzo una scrittrice, Paola Nepi, malata di Sla, che lo ha esortato ad ascoltare le parole del Papa sul fine vita: «Io credo – ha detto Renzi – che sul fine vita ci siano i numeri in Parlamento e che la maggioranza del mondo cattolico sia d’accordo. Una legge del genere nelle ultime battute della legislatura – ha aggiunto – passa se si batte l’ostruzionismo. L’impressione, dall’esterno, è che l’ostruzionismo lo si batta solo apponendo la fiducia, che però pone dei problemi critici, sia da parte di chi ne contesta l’eccesso di ricorso, sia da parte di chi ne contesta l’apposizione su temi etici. Io l’ho apposta sulle unioni civili, quindi astrattamente sono favorevole. Poi bisogna trovare i numeri in Parlamento». Poche ore dopo, aprendo la kermesse della Leopolda, lo ha ripetuto: «La battaglia sui diritti la facciamo felici e a viso aperto. Non trasformiamo i diritti in scontro tra partiti o in presupposto di coalizione tra partiti – ha poi puntualizzato mettendo il dito nella piaga – Il Fine vita è doveroso e faremo di tutto per approvarlo».
Così ieri, sono arrivate le prime dichiarazioni di voto. «C’è la piena disponibilità a votare la nostra legge, altrimenti saremmo dei pazzi», ha risposto Luigi Di Maio, rimarcando la paternità dell’innocuo testo che attende di essere calendarizzato in Aula al Senato con un dispendio di tempo tutto sommato contenuto, una volta superato, con le dimissioni della relatrice Di Biase, lo scoglio della valanga di emendamenti ostruzionistici presentati in commissione. «Spero – ha aggiunto il candidato premier M5S – che si possa fare presto».
Dunque la maggioranza c’è. Il problema invece, sta proprio nei vincoli di coalizione. E Ap non ci sta: «Sulle dichiarazioni anticipate, caro Renzi, noi ci siamo – è la replica del sottosegretario all’istruzione Gabriele Toccafondi – Ma leggiti la legge e ti renderai conto che due punti sono più vicini all’eutanasia che all’attenzione alla persona». Concetto ribadito da Maurizio Lupi che rispolvera il vecchio argomento, superato perfino da Papa Francesco, della nutrizione e idratazione artificiali che non sarebbero trattamenti sanitari e dunque non rifiutabili. «Non accetteremo la fiducia», aveva già avvisato il coordinatore nazionale di Ap che ripete: «Noi non ci stiamo».

Il Fatto 26.11.17
Pd, i collegi fanno paura. E il Giglio corre a blindarsi
Contromisure - Renzi e Lotti ripiegano su Firenze, la Boschi potrebbe presentarsi al Sud (forse in Campania): listini bloccati per Moretti e Rotta
Pd, i collegi fanno paura. E il Giglio corre a blindarsi
di Wanda Marra

“Adesso il disegno dei collegi lo vedranno tutti. E ognuno avrà da ridire sul suo”. Ettore Rosato, capogruppo dem a Montecitorio, ha l’aria rassegnata alla battaglia interna che lo aspetta. Anche se prova a minimizzare: “Qualche intervento, se è effettivamente giusto, cercheremo di farlo. Ma non più di questo”. Durante il secondo giorno della Leopolda numero 8, la parola che echeggia più spesso tra i tavoli e nel pomeriggio, tra un intervento e l’altro, è proprio “collegi”. Per essere una manifestazione pre – elettorale, il dato che salta agli occhi è che di gente ce n’è tanta, ma la presenza di peones parlamentari è scarsa. E anche quella, in generale, dei politici di professione. Sarà che il Pd di Renzi, in odore di sconfitta, non è in grado di garantire troppi seggi. E con il nuovo disegno dei collegi plurinominali, i margini di incertezza collettivi sono aumentati.
A dirlo chiaro e tondo è stato Matteo Renzi – al solito in battuta – venerdì pomeriggio: “Vi rendete conto che il collegio di Rignano è nel collegio plurinominale di Livorno? Se mi candido a Rignano, sono capolista a Livorno, è meraviglioso. L’Istat ha attaccato Rignano a Livorno anziché a Firenze”. E poi, ha ammesso di non sapere dove candidarsi adesso. E in effetti, aveva sempre detto di voler scegliere il collegio uninominale del Senato di Arezzo. Adesso, pensa a Firenze. Per l’uninominale: lui userà anche le 5 pluricandidature permesse dal Rosatellum nei listini. Nel Giglio magico si fanno conti e strategie. Anche Luca Lotti dovrebbe candidarsi a Firenze. Come un’altra senatrice renzianissima, Rosa Maria de Giorgi. Il collegio di Empoli è per il segretario regionale, Dario Parrini. Francesco Bonifazi e Maria Elena Boschi, invece, andranno fuori. Peraltro, non è detto che alla fine loro corrano dall’inizio solo nei listini bloccati, più garantiti. Per la sottosegretaria si parla del sud, probabilmente a Ercolano, per il tesoriere dem del Nord. L’ultima volta, fu il Piemonte. E ancora, ad Andrea Marcucci dovrebbe toccare Massa e Lucca.
La minaccia del segretario ai big ostili era stata proprio quella di candidarli nell’uninominale per sfidarli a prendersi i voti. Adesso, la trattativa in corso è anche su quanti e quali paracaduti – ovvero posti nelle liste bloccate – avrà ognuno.
E poi, è partito affannosamente lo studio nei singoli territori. In Lombardia e Veneto, i dem si vedono già perdenti: per renziani doc, come Roger De Menech, Alessia Rotta e Alessandra Moretti si pensa ai listini bloccati. Lorenzo Guerini avrà un collegio. Un collegio al Senato in Friuli anche per Deborah Serracchiani, governatrice uscente.
Ma sotto al palco e tra le arcate in molti raccontano di problematiche specifiche dovute al nuovo disegno. Per dire, il territorio di Bari rischia di perdere un eletto a favore di quello di Brindisi, sulla Calabria i dubbi aumentano. E poi c’è l’Umbria: “Sembra fatta apposta per favorire la destra”, sbotta un renziano della prima ora.
Perché nei capannelli c’è un’altra parola che ricorre ed è proprio “errore”. A lavorare sul disegno dei collegi, oltre alla commissione presieduta da Giorgio Alleva, presidente dell’Istat, insieme allo staff della Boschi è stato anche un gruppo di studio della Camera, creato con un ordine del giorno di Montecitorio. L’accusa che sta montando adesso è che abbiano sbagliato calcoli e previsioni.
Come già accaduto mentre si elaborava il Rosatellum, sistema che alla fine svaforirà il Pd, così sarebbe stato nel tracciare confini e linee dei nuovi collegi. Un paradosso. A questo punto quasi irreparabile: ogni eventuale variazione deve essere suggerita dalle Commissioni Affari costituzionali di Camera e Senato, entro il 9 dicembre. Sempre che poi il governo approvi.

Il Fatto 26.11.17
“Apro ad Alfano, anzi no”. L’ultima gaffe di Pisapia

Giuliano Pisapia ripete la stessa formula da mesi: “Noi vogliamo costruire un campo aperto, largo e progressista”. Il problema dell’ex sindaco di Milano è che nemmeno lui ha ancora capito dove sia, questo fantomatico campo largo. Ieri è stato il giorno dell’ennesimo equivoco della sua recente carriera politica. Pisapia parlava a margine di un convegno organizzato all’Istituto Sturzo dai cattolici democratici. Gli è stato chiesto se Alternativa Popolare, il partito del ministro degli esteri Angelino Alfano, avrebbe fatto parte della coalizione di cui stava parlando. Ha risposto così: “Vengo dalla sinistra e bisogna essere comunque capaci di mettere insieme centro e sinistra per costruire un nuovo centrosinistra”. La frase, ovviamente, è stata interpretata come un’apertura ad Alfano e i suoi. Qualche minuto dopo Pisapia si è dovuto spiegare: “Mi dicono che circola la notizia secondo la quale io avrei detto sì ad Alfano. È del tutto inventata. Non confondiamo il centro con il centrodestra, o con la destra”. Nel frattempo però il suo endorsement agli alfaniani era stato salutato con soddisfazione dal partito renziano Ettore Rosato: “È la linea giusta, lavoriamo a una coalizione insieme”.

il manifesto 26.11.17
L’indipendentismo vacilla, la Catalogna torna quasi normale
Verso le elezioni. Esquerra republicana, in testa nei sondaggi, e PdCat cambiano strategia sulla dichiarazione unilaterale. Solo la Cup non retrocede: la lotta è nelle piazze. Ma forse stavolta senza istituzioni. Gli ex ministri e i «due Jordi» potrebbero uscire dal carcere, il caso passa al Tribunal Supremo
di Luca Tancredi Barone

BARCELLONA Dopo i continui colpi di scena delle settimane precedenti all’intervento del governo spagnolo sulla Catalogna attraverso l’articolo 155, sembra che le puntate della serie catalana siano diventate più previsibili.
La novità di un certo rilievo che si prospetta nelle prossime ore è che la situazione carceraria degli ex membri del governo catalano e dei «due Jordi», Sànchez y Cuixart, i presidenti delle associazioni indipendentiste, potrebbe cambiare. Il caso è infatti passato nelle mani del Tribunale Supremo, che già stava indagando sui membri della presidenza del Parlament. È opinione unanime che gli atti del Supremo siano stati molto più garantisti e proporzionati di quelli della giudice dell’Audiencia nacional che finora ha indagato sul caso. Per esempio non è finita in carcere la presidente del Parlament, responsabile ultima della decisione più grave agli occhi dei magistrati, quella di votare la pseudo-dichiarazione d’indipendenza e di disobbedire agli ordini del tribunale costituzionale. Le difese dei ministri catalani incarcerati sono già pronte a chiederne la scarcerazione. Se il Tribunal Supremo dovesse liberarli, pur con l’anomalia di un ex presidente all’estero (vedremo se il nuovo magistrato manterrà l’ordine di cattura europeo), la campagna elettorale tornerebbe in un alveo di quasi normalità. Una normalità comunque marcata da più di cinque anni di procés indipendentista e dall’inedito intervento del governo centrale su un’autonomia: precedente molto pericoloso per altri tipi di dissidenza istituzionale.
Il panorama elettorale così «normalizzato» si caratterizza per lo strepitoso passo indietro dei protagonisti della battaglia indipendentista che peraltro, senza che nessuno ne abbia spiegato i motivi, stavolta concorrono autonomamente. Fino a pochi giorni fa erano nella stessa lista e nello stesso governo di cui nessuno ha rinnegato esplicitamente le azioni. Ma la strategia politica sia di Esquerra republicana, sia del PdCat ha virato di 180º senza colpo ferire, e senza apparenti ripercussioni sul loro elettorato. Ora è tutto un assicurare che la via unilaterale non è quella da percorrere, che in realtà la dichiarazione d’indipendenza era solo uno statement politico, che chi mai può credere di poter costruire una repubblica in quattro giorni, ma dopo il 21 dicembre magari si potrebbero formare altre maggioranze, e se mai si farà un referendum, ça va sense dir, deve essere negoziato con Madrid. Fino a poche settimane fa, chi l’avesse detto sarebbe stato tacciato di traditore unionista e sommerso dagli insulti sulle reti sociali, oggi è il nuovo credo. Sorprendente la volubilità del blocco indipendentista.
Sull’altro fronte, invece, sono rimasti granitici sia Ciudadanos che Pp: dicono che bisogna recuperare la legalità, archiviare il procés, ristabilire la convivenza. I socialisti sono gli unici che cercano di svincolarsi dall’abbraccio mortale in cui li vorrebbero stringere gli altri due partiti sedicenti «costituzionalisti», e aggiungono qualche abbozzo di proposta catalanista al discorso centralista, ma tutti e tre puntano a lasciare in minoranza gli indipendentisti. I Comuni e Podemos, gli unici che hanno mantenuto, sommersi dalle critiche di tutti gli altri, la stessa posizione (priorità ai temi sociali, diritto all’autodeterminazione ma negoziato e a lungo termine, difesa delle istituzioni catalane ma non delle politiche del governo Puigdemont), ancora una volta sono relegati mediaticamente in secondo piano.
Anche la Cup, che fatica a difendere l’inutile appoggio dato fin qui al Govern, nonché la scelta di partecipare a elezioni autonomiche (e non della nuova repubblica), e che critica gli ex alleati per aver abbandonato il discorso più combattivo, è in difficoltà. Ricordano che la lotta è nelle piazze, forse stavolta senza tanto peso nelle istituzioni.
Difficile prevedere cosa accadrà nelle urne. Si profila una vittoria di Esquerra, quotata intorno al 25%, che lotterà contro Ciudadanos per il primo posto. Forse terzi i Comuni (che avevano vinto entrambe le ultime elezioni politiche), seguiti dai socialisti. PdCat, Cup e Pp sotto il 10%. La partecipazione nel 2015 era stata la più alta della storia: 77%. Alcuni sperano di far pendere la bilancia superandola. Ma le alleanze saranno complicate, anche se Podemos, Esquerra e socialisti più o meno segretamente sperano di costruire ponti.

il manifesto 26.11.17
L’indipendentismo vacilla, la Catalogna torna quasi normale
Verso le elezioni. Esquerra republicana, in testa nei sondaggi, e PdCat cambiano strategia sulla dichiarazione unilaterale. Solo la Cup non retrocede: la lotta è nelle piazze. Ma forse stavolta senza istituzioni. Gli ex ministri e i «due Jordi» potrebbero uscire dal carcere, il caso passa al Tribunal Supremo
di Luca Tancredi Barone

BARCELLONA Dopo i continui colpi di scena delle settimane precedenti all’intervento del governo spagnolo sulla Catalogna attraverso l’articolo 155, sembra che le puntate della serie catalana siano diventate più previsibili.
La novità di un certo rilievo che si prospetta nelle prossime ore è che la situazione carceraria degli ex membri del governo catalano e dei «due Jordi», Sànchez y Cuixart, i presidenti delle associazioni indipendentiste, potrebbe cambiare. Il caso è infatti passato nelle mani del Tribunale Supremo, che già stava indagando sui membri della presidenza del Parlament. È opinione unanime che gli atti del Supremo siano stati molto più garantisti e proporzionati di quelli della giudice dell’Audiencia nacional che finora ha indagato sul caso. Per esempio non è finita in carcere la presidente del Parlament, responsabile ultima della decisione più grave agli occhi dei magistrati, quella di votare la pseudo-dichiarazione d’indipendenza e di disobbedire agli ordini del tribunale costituzionale. Le difese dei ministri catalani incarcerati sono già pronte a chiederne la scarcerazione. Se il Tribunal Supremo dovesse liberarli, pur con l’anomalia di un ex presidente all’estero (vedremo se il nuovo magistrato manterrà l’ordine di cattura europeo), la campagna elettorale tornerebbe in un alveo di quasi normalità. Una normalità comunque marcata da più di cinque anni di procés indipendentista e dall’inedito intervento del governo centrale su un’autonomia: precedente molto pericoloso per altri tipi di dissidenza istituzionale.
Il panorama elettorale così «normalizzato» si caratterizza per lo strepitoso passo indietro dei protagonisti della battaglia indipendentista che peraltro, senza che nessuno ne abbia spiegato i motivi, stavolta concorrono autonomamente. Fino a pochi giorni fa erano nella stessa lista e nello stesso governo di cui nessuno ha rinnegato esplicitamente le azioni. Ma la strategia politica sia di Esquerra republicana, sia del PdCat ha virato di 180º senza colpo ferire, e senza apparenti ripercussioni sul loro elettorato. Ora è tutto un assicurare che la via unilaterale non è quella da percorrere, che in realtà la dichiarazione d’indipendenza era solo uno statement politico, che chi mai può credere di poter costruire una repubblica in quattro giorni, ma dopo il 21 dicembre magari si potrebbero formare altre maggioranze, e se mai si farà un referendum, ça va sense dir, deve essere negoziato con Madrid. Fino a poche settimane fa, chi l’avesse detto sarebbe stato tacciato di traditore unionista e sommerso dagli insulti sulle reti sociali, oggi è il nuovo credo. Sorprendente la volubilità del blocco indipendentista.
Sull’altro fronte, invece, sono rimasti granitici sia Ciudadanos che Pp: dicono che bisogna recuperare la legalità, archiviare il procés, ristabilire la convivenza. I socialisti sono gli unici che cercano di svincolarsi dall’abbraccio mortale in cui li vorrebbero stringere gli altri due partiti sedicenti «costituzionalisti», e aggiungono qualche abbozzo di proposta catalanista al discorso centralista, ma tutti e tre puntano a lasciare in minoranza gli indipendentisti. I Comuni e Podemos, gli unici che hanno mantenuto, sommersi dalle critiche di tutti gli altri, la stessa posizione (priorità ai temi sociali, diritto all’autodeterminazione ma negoziato e a lungo termine, difesa delle istituzioni catalane ma non delle politiche del governo Puigdemont), ancora una volta sono relegati mediaticamente in secondo piano.
Anche la Cup, che fatica a difendere l’inutile appoggio dato fin qui al Govern, nonché la scelta di partecipare a elezioni autonomiche (e non della nuova repubblica), e che critica gli ex alleati per aver abbandonato il discorso più combattivo, è in difficoltà. Ricordano che la lotta è nelle piazze, forse stavolta senza tanto peso nelle istituzioni.
Difficile prevedere cosa accadrà nelle urne. Si profila una vittoria di Esquerra, quotata intorno al 25%, che lotterà contro Ciudadanos per il primo posto. Forse terzi i Comuni (che avevano vinto entrambe le ultime elezioni politiche), seguiti dai socialisti. PdCat, Cup e Pp sotto il 10%. La partecipazione nel 2015 era stata la più alta della storia: 77%. Alcuni sperano di far pendere la bilancia superandola. Ma le alleanze saranno complicate, anche se Podemos, Esquerra e socialisti più o meno segretamente sperano di costruire ponti.

La Stampa 26.11.17
India, in servizio le poliziotte anti-stupro armate di kalashnikov
A Delhi, capitale mondiale degli abusi squadra d’intervento di 600 motocicliste
di Carlo Pizzati

Hanno in dotazione un mitragliatore Ak-47, una pistola 9 mm, web-cam integrata all’uniforme, spray al peperoncino, elmetto con microfono e auricolare. Ed escono in pattuglia a cavallo di potenti moto da corsa gialle.
Sono 600 le agenti della Squadra Veloce che da dicembre combatterà le minacce che deve affrontare una donna nella capitale dell’India: stupri, rapimenti, omicidi per tenersi la dote o per risposarsi, attacchi con l’acido, matrimoni di spose-bambine.
Sono ben addestrate, pronte e forti, le 600 agenti donna della polizia di Delhi che tenteranno di demolire un primato di cui davvero vale la pena di vergognarsi. Quest’anno, infatti, la Fondazione Thompson Reuters ha decretato che Delhi, a triste pari merito con San Paolo del Brasile, è la capitale mondiale dello stupro.
Da quando, cinque anni fa, una ragazza di 23 anni morì dopo esser stata violentata da una gang a bordo di un autobus, le cose sono cambiate in questa megalopoli di 18 milioni di abitanti.
Sono aumentate le violenze, ma anche le denunce di stupri e assalti contro le donne: più 67 per cento. Grazie alle pressioni delle proteste di massa, i legislatori hanno garantito pene più severe e processi-lampo, oltre a una helpline telefonica aperta 24 ore al giorno. Ma non basta.
Non basta nemmeno che nelle stazioni di polizia della capitale ci sia un Reparto Donne dove presentare denuncia in maniera più discreta. E non basta che i funzionari di polizia vengano iscritti a corsi di sensibilizzazione al gender. Non bastano nemmeno le pattuglie più numerose e frequenti, l’aumento di sorveglianza e i posti di blocco.
No, perché, come denuncia l’associazione per i diritti umani Human Rights Watch, in fondo in fondo il sistema giuridico indiano non tutela ancora a sufficienza le vittime, che spesso si sentono ancora umiliate nelle centrali di polizia e negli ospedali dove vanno a curare le loro ferite.
Sono sempre troppi i poliziotti che si rifiutano di registrare le denunce perché si identificano con i fidanzati, i mariti, i fratelli violenti che usano sberle, coltelli, fiamme, acido e bastoni per prevaricare, ferire, sfigurare e uccidere.
Di recente, le donne indiane erano arrivate a un punto di disperazione tale che alcune si erano fatte fotografare in atteggiamenti di vita comune, ma indossando una grande testa di vacca di cartapesta. Il messaggio era: se considerate così sacre le vacche per l’induismo, perché non potete considerare sacre anche noi, le vostre donne?
Adesso la Squadra Veloce delle 600 motocicliste che viaggeranno in coppia agiranno come arma a doppio uso. Dure e taglienti per gli aggressori, morbide e comprensive per le vittime.
Da un lato, saranno un po’ meno pericolosi i mille vicoli oscuri di Delhi, brulicanti di maschi repressi e lubrichi che allungano le mani e cercano di trascinare negli angolini le ragazze sorprese da sole, mentre rientrano a casa. Mentre furgoni della polizia non riuscivano ad addentrarsi in quelle stradine strettissime, dove accadono sempre più violenze, le moto gialle fiammanti delle agenti della Squadra Veloce, che ricordano quelle dei Falchi anti-rapina nei vicoli di Napoli, arriveranno rapidamente dappertutto, facendo un po’ di luce con i loro fanali, facendosi rispettare a suon di Ak-47 e pistole.
Le vittime troveranno ad ascoltarle delle donne, agenti addestrate a persuadere a non aver paura, poliziotte in uniforme, simbolo esse stesse di una forza al femminile che non ha timori nell’affrontare le durezze della violenza.
Non basterà neanche questo, perché il problema è profondo e per sradicarlo ci vorrà molto di più. La pensa così anche Meenakshi Ganguly, direttrice per l’Asia del Sud della Human Rights Watch: «Anche se è molto importante avere più agenti donna, metterle di pattuglia non risolverà necessariamente il problema, che va affrontato fin dall’inizio nelle scuole di addestramento delle reclute di polizia per insegnare a trattare con rispetto e dignità le sopravvissute alla violenza, e per fare sì che le inchieste vengano condotte in maniera corretta e precisa così da arrivare a condanne basate sulla raccolta delle prove».
No, è vero, non basta. Ma la Squadra Veloce fa pensare che, anche in India, per le donne stia arrivando il momento di farsi più coraggio.

Il Sole Domenica 26.11.17
A colloquio con Bina Agarwal
Il coraggio delle donne indiane
di Eliana Di Caro

L’economista offre una fotografia della condizione femminile del suo Paese: ci sono stati progressi dall’indipendenza, ma restano forti disuguaglianze, il pericolo delle violenze e un netto divario Nord-Sud
«Avevo 15 anni quando ho fatto il mio primo discorso sui diritti delle donne. Nel villaggio di mia nonna, nel cuore del Rajasthan, avevo notato che le ragazze erano trattate in modo diverso dai ragazzi (io no, perché ero un’ospite speciale...). E così tornata a Delhi, un giorno a scuola, dove dovevamo fare un intervento, mentre le altre studentesse parlarono di musica o di come preparare la tavola, io sottolineai l’importanza del voto femminile»: sorride Bina Agarwal, che oggi ha 66 anni, ricordando quel momento della sua adolescenza. Economista dello sviluppo e dell’ambiente all’università di Manchester, in precedenza docente sin dal 1988 all’ateneo della sua città, è stata appena premiata dalla Fondazione Balzan per gli studi di genere nelle comunità rurali povere dell’India e del Sud del mondo. Le sue ricerche condotte a partire dagli anni 70 offrono una fotografia della condizione delle donne indiane.
L’interesse per questo tema è nato anche grazie agli stimoli della figura paterna, ingegnere delle telecomunicazioni: «A 30 anni inventò la tastiera in hindi per la macchina da scrivere e organizzò i primi Giochi per l’India indipendente - ricorda con fierezza - ma soprattutto ha incoraggiato le figlie, le nipoti e le donne della famiglia allargata a studiare. Il Rajasthan (nel Nord Ovest del Paese, ndr) è un’area molto chiusa e conservatrice, non tutte le ragazze andavano a scuola o lavoravano. Mia madre, per esempio, avrebbe voluto fare il medico ma non era permesso».
Bina invece studia, le interessa l’economia come scienza sociale che punta a ridurre le disuguaglianze strutturali e a temperare la povertà; si sofferma sull’influenza della tecnologia sull’agricoltura e analizza il contributo delle donne al lavoro agricolo (in Asia il 40% dei contadini è donna), il loro diritto alla terra e alla proprietà. L’attività femminile nei campi è sottostimata, denuncia la studiosa, non si tiene conto di tutto quel che si fa in casa - la cura del bestiame, la raccolta del legno - che rimane invisibile, non remunerato e quasi del tutto escluso dalle statistiche. Infatti se si dovessero indicare le lavoratrici strettamente sulla base di una busta paga, la partecipazione al lavoro rurale si fermerebbe al 17,4%, ma considerando altri fattori come la produzione domestica e quella di coloro che si dichiarano disoccupate si arriva al 64,8 per cento.
Ampliando la visuale, ci sono stati dei progressi nel Paese, negli ultimi anni, e Agarwal li descrive con impeto: «Da quando l’India è indipendente, cioè dal 1947, le cose sono molto cambiate. Oggi le ragazze possono andare a scuola, al pari dei ragazzi, non importa se vengono da famiglie ricche o povere, conservatrici o meno: quasi tutti i genitori fanno studiare i figli. Molte donne non solo lavorano, ma possono scegliere il tipo di lavoro. Quando mi sono laureata le possibilità erano limitate: insegnante, economista, medico che per la classe media era un buon approdo. Oggi ci sono giornaliste, esponenti di organizzazioni non-governative, imprenditrici, avvocatesse, politiche: nel 1993 è stata approvata una legge secondo cui un terzo dell’amministrazione dei villaggi doveva essere costituito da donne».
Allo stesso modo, l’economista racconta l’altra faccia della medaglia, i passi ancora da compiere in un Paese in cui l’eco degli episodi di violenza contro le donne spesso varca i confini nazionali per la loro efferatezza. «Prima di tutto è ancora forte l’ineguaglianza tra donne e uomini: sono di più le prime a lasciare la scuola superiore; c’è un’alta percentuale di ragazze che si sposano senza aver compiuto 18 anni, e un’altrettanto alta percentuale di giovani che muoiono di parto. Ancora oggi, nell’India del nord, è molto diffuso l’aborto selettivo ai danni delle bambine. Tante studentesse, alla fine delle scuole superiori, vorrebbero andare all’università, ma questo comporterebbe percorrere lunghe distanze o frequentare un ateneo misto e non tutte le comunità o i genitori lo consentono. Poi ci sono i problemi legati alla “modernità”e alla urbanizzazione, come le molestie sessuali sul luogo di lavoro o la mancanza di sicurezza per strada o alla guida di notte. Paradossalmente 20 anni fa potevo tornare a casa in auto molto tardi di sera a Delhi senza patemi: oggi non lo farei. È un fenomeno esploso negli ultimi 10-12 anni».
L’India, non è mai banale ricordarlo, è un Paese di 1 miliardo e oltre 300 milioni di abitanti, le regioni sono tante e le differenze tra l’una e l’altra anche. Nel Sud gli indicatori sociali disegnano una macro area più avanzata: «Nel Kerala, ad esempio, il 100% delle persone sa leggere; tutte le donne hanno finito le scuole, molte vanno all’università e lavorano. Non c’è paragone con il Nord-Ovest. Le molestie sessuali e la sicurezza, invece, accomunano tutta l’India».
Sul tema, cruciale, della rappresentanza politica e di come le donne potrebbero incidere in termini legislativi, la risposta di Agarwal è articolata. Le quote, si è già detto, a livello locale ci sono e simbolicamente è importante, ma per l’economista il punto è «se le elette fanno la differenza per mettere in atto politiche che portino benefici: sostengono o no gli interessi delle donne? Non è così ovvio. Per esempio le madri, anche nel Punjab (una regione ricca), tuttora cucinano con combustibile tossico, usando stufe altamente inquinanti, eppure chi era stata eletta nei vari villaggi non si era occupata di questo problema, così come non aveva fatto del diritto alla terra un tema di discussione. È importante dunque che le azioni delle candidate siano collegate alle priorità delle donne. In Parlamento le quote rosa servono perché senza di esse non ci saranno protagoniste che dimostrano che le donne possono essere delle leader migliori degli uomini».
Vuol dire che siamo ancora lontani dal raggiungimento dell’uguaglianza, anche economica e professionale? È un sogno? «Non è un sogno. È una possibilità. Si deve puntare a un concetto più ampio di uguaglianza, quella razziale e di classe, problemi che stanno crescendo a livello globale, è necessaria un’azione che contrasti questo fenomeno. Ma penso che la direzione del cambiamento per le donne sia giusta, sono ottimista».

Il Sole Domenica 26.11.17
alle origini della politica
Poteri ispirati dal peccato
I teologi del Medioevo si interrogarono a lungo
su Adamo ed Eva, e sulla necessità di leggi e strutture sociali dopo la cacciata dall’Eden
di Massimo Firpo

Narrata all’inizio del Genesi, la disobbedienza di Adamo ed Eva nel mangiare il frutto proibito assunse un significato cruciale nel cristianesimo, che individuò in essa il peccato originale, evento fondante del percorso di redenzione del genere umano dalla perfezione edenica alla caduta, dal vecchio al nuovo Testamento. Ma per secoli i teologi ne sottolinearono anche il ruolo decisivo nella storia terrena dell’umanità, perché proprio dalla corruzione provocata dalla caduta avrebbero avuto origine la proprietà, il diritto, l’esigenza di norme, poteri, istituzioni, strutture sociali chiamate a mettere un freno alla violenza, a regolare i conflitti, a reprimere i delitti, a mantenere la pace: ebbe cioè origine la storia, e con essa la politica.
Fu su questo presupposto che sant’Agostino costruì il grandioso disegno del De civitate Dei, fondato sulla dicotomia tra città divina e città terrena, affrontando specificamente la questione del peccato originale nei commenti al Genesi, in cui spiegava come esso avesse reso «inevitabile la jacquerie di tutte le debolezze, le passioni, le violenze e le sopraffazioni che assediano la natura umana e che fanno di ogni individuo al tempo stesso uno schiavo e un tiranno», uno schiavo del suo brutale egoismo e un tiranno nell’imporlo agli altri. Oltre a esporlo alla fame, alla fatica, alla malattia, alla morte, il suo disordine ontologico lo rende incapace «di perseguire il bene, che pure in certa misura vorrebbe». Per questo egli ha bisogno di un potere che freni le forze distruttive del male che è in lui e imponga le norme di una convivenza civile, che nascono quindi da quel male ma al tempo stesso ne costituiscono un rimedio. Ha bisogno per esempio di governare quella concupiscenza che secondo Agostino ha trascinato la riproduzione nel gorgo di una sessualità aggressiva e viziosa, della quale la famiglia rappresenta un pur precario strumento di controllo e regolamentazione.
Molte del resto erano le inquietanti domande che si collegavano a quella primigenia rottura. Perché Adamo ed Eva, pur creati a immagine e somiglianza di Dio, avevano peccato? Perché ai loro figli e discendenti era stata addebitata una colpa di cui non erano responsabili? Tale corruzione ereditaria era totale e assoluta o qualcosa di buono era restato, consentendo quindi agli uomini l’esercizio del libero arbitrio e le scelte morali che ne conseguivano, oppure le loro possibilità di salvarsi dipendevano solo dagli insondabili decreti della predestinazione? E quale sarebbe stata la società umana se i primi progenitori non avessero mangiato il frutto proibito? «Quando Adamo zappava e Eva filava dov’erano i nobili?», si chiedevano i contadini inglesi in rivolta nel ’300. Quando e perché era nata la servitù? Ed era lecito combatterla e liberarsene? Quale era il fondamento del diritto di coercizione? Quesiti tutt’altro che oziosi, tali da suggerire una ricostruzione alternativa – “controfattuale” – della storia umana, volta a recuperare una razionalità perduta e a indicare una strada da seguire, una meta cui tendere, un obiettivo da raggiungere.
Su tali quesiti, spesso frammisti alle più varie leggende, si interrogarono grandi teologi e canonisti del Medioevo, consapevoli «del nesso produttivo tra immaginazione e ragione» che essi generavano. Di essi, e dell’implicito realismo politico che ne conseguiva, la ricerca di Briguglia ricostruisce con analisi sottili i percorsi tutt’altro che univoci, inoltrandosi con dotta perizia in una selva oscura di Summae e trattati che affrontavano quel garbuglio di problemi. Dalla lucida «fenomenologia del potere» di Agostino si passa alle distinzioni scolastiche nel definire le origini, gli ambiti di legittimità, le forme di esercizio del potere, e alla raffinata riflessione di san Tommaso, secondo il quale già nell’Eden esistevano differenze tra le creature: tra uomo e donna anzitutto, tra complessioni fisiche diverse, tra gradi disomogenei di bellezza, santità, attitudini, capacità. Differenze che non inficiavano la libertà di ciascuno (anzi, nascevano proprio da essa), ma creavano distinzioni e con ciò davano vita a spazi di azione politica tali da smentire che quest’ultima fosse solo una conseguenza del peccato originale. Anche il mondo edenico, insomma, sarebbe stato un mondo da governare e governato, e pertanto «la politica non è frutto del peccato», ma scaturisce da un ordine divino delle cose. Il fatto che ogni autorità, ogni istituzione e forma di governo, ogni diritto di punire, ogni dovere di obbedienza derivi dalla corruzione e dal disordine prodotti dal peccato originale, non significa legittimare la tirannia, poiché nella tutela dell’ordine sociale il potere politico deve pur sempre rispettare criteri di razionalità. Anch’esso nasce da Dio, insegna san Paolo (Rom. XIII, 1). Per questo gli uomini devono accettarlo non solo per paura o mancanza di libertà, ma «con un’adesione interiore», cui solo in rari casi di iniqua tirannia è lecito sottrarsi.
Ci si poteva quindi chiedere se fosse possibile restaurare la politica che aveva retto gli uomini prima della caduta, abbandonare il diritto positivo per ristabilire nella sua pienezza il diritto naturale. Secondo i teologi francescani, per esempio, la vocazione alla povertà del loro ordine era un modo per tornare al primitivo stato di innocenza di cui anche Cristo e gli apostoli erano stati un esempio. «Idee incendiarie», a ben vedere, dal momento che davano vita a una contestazione radicale della Chiesa come corpo giuridico e struttura di potere quale si era venuta costituendo in Occidente. E ancor più incendiarie furono quelle espresse a metà Trecento da John Wyclif, che dalla restaurazione della grazia per tramite della fede giungeva alla definizione della vera Chiesa come comunità dei predestinati, dalla quale anche il papa poteva essere escluso. Idee poi riprese dalla Riforma protestante, mentre le grandi scoperte geografiche imponevano di interrogarsi sulle misteriose origini dei nuovi popoli al di là degli oceani, che sembravano mandare in pezzi la monogenesi biblica. E infine Robert Filmer che nel suo trattato Patriarca, o del potere naturale dei re, apparso postumo nel 1680, affermava contro Francisco Suarez e la seconda scolastica l’idea di un Adamo che non era stato solo padre ma anche re della sua discendenza, e quindi archetipo dell’intangibile diritto divino dei sovrani. Fu contro di lui che John Locke scrisse il primo dei Due trattati sul governo, con i quali – sviluppando il contrattualismo hobbesiano – avrebbe costruito le fondamenta di un potere assoluto che scaturiva dal basso e non proveniva più da Dio. L’era di Adamo ed Eva era ormai finita per sempre.
Gianluca Briguglia, Stato d’innocenza. Adamo, Eva e la filosofia politica medievale , Carocci, Roma, pagg. 158, € 17

Corriere 26.11.17
Chi sono gli hikikomori Gli adolescenti autoreclusi sempre attaccati a Internet
Il termine è nato in Giappone ma il fenomeno è in costante crescita anche nel nostro Paese
di Cristina Marrone

Si chiamano hikikomori , sono gli adolescenti che rifiutano il mondo e si chiudono in camera senza più volerne uscire per mesi o addirittura anni.
Ma è soltanto il nome a essere giapponese, perché il fenomeno, esploso nel Paese del Sol Levante negli anni Ottanta, è da tempo in crescita anche nel nostro Paese.
«I ragazzi vittime del ritiro sociale non vanno a scuola, stanno sempre al computer, non partecipano a nessuna attività sociale» spiega Davide Comazzi, psicoterapeuta, coordinatore del consultorio gratuito del centro milanese “Il Minotauro”, che si occupa da molto tempo di disagio adolescenziale.
I primi casi da noi sono stati diagnosticati nel 2007 e da allora i numeri aumentano anno dopo anno.
«Non sappiamo con precisione quanti siano i giovani italiani che si sono “ritirati”, le stime parlano di 100 mila casi. La maggior parte sono maschi, hanno 15-16 anni, ma l’età di esordio si è ultimamente abbassata e sono coinvolti anche ragazzi delle scuole medie» precisa l’esperto, autore insieme ad Antonio Piotti e Roberta Spiniello del libro “Il corpo in una stanza” (Franco Angeli, 2015), indagine sugli hikikomori italiani.
È facile confondere il dramma del ritiro sociale con la dipendenza o la depressione, perché molti aspetti sono comuni. Ma questi ragazzi in realtà, se sono privati di Internet, fanno altro, sempre nella loro stanza.
«Di solito chi è depresso si sente triste, piange, non riesce a relazionarsi. Invece negli hikikomori — chiarisce Comazzi — il sentimento prevalente è la vergogna, l’incapacità di reggere il peso dello sguardo dei coetanei. Questi ragazzi possono sembrare lazzaroni o incapaci di affrontare la frustrazione delle scuole superiori, in realtà si sentono sempre in pericolo. Le regole sono cambiate e improvvisamente non devono più fare i “bravi bambini”. Si ritrovano con un corpo cresciuto e devono essere belli, forti, capaci di conquistare una ragazza. Ma non si sentono all’altezza e sperimentano un sentimento di mortificazione. Temono la competizione, il rifiuto. I primi sintomi del ritiro sociale sono fisici: soffrono di mal di pancia, cominciano a restare a casa e a un certo punto non escono più».
Ma chi sono gli adolescenti a rischio? Si può facilmente cadere nell’errore di credere che siano solo ex bambini viziati e non abituati alle frustrazioni. «Non è così — precisa l’esperto — non sempre alle spalle dei ritirati sociali ci sono genitori che le danno tutte vinte. Piuttosto, invece, questi ragazzi crescono spesso in un clima di alte aspettative, perché non di rado sono anche talentuosi. Tutti si attendono grandi cose da loro, che però non si sentono all’altezza. Così alcuni chiudono la partita molto presto: abituati ad andare bene si ritrovano a non funzionare e allora, per vergogna, si rifugiano in una stanza».
Posti di fronte alle comuni sfide della crescita scelgono di evitare il mondo esterno e si autorecludono nella propria camera, dove i contatti sono limitati all’universo virtuale, con i videogiochi e i social network.
Tagliati i ponti con il mondo che sta fuori, gli hikikomori si rifugiano in un universo parallelo attraverso la Rete, grazie alla quale è possibile costruire legami senza mettere in gioco la propria fisicità: su Internet è tutto virtuale, nessuno si aspetta nulla ed è facile crearsi una vita fuori dalla vita.
Ma la Rete, pur messa sotto accusa, può talvolta rappresentare anche la chiave che permette ai “ritirati” di tornare nel mondo, quello reale, di restare in contatto con i coetanei. «Tanto più questi ragazzi si vergognano da un punto di vista virile, tanto più si allenano online e diventano bravissimi nei videogiochi di competizione» sottolinea Comazzi. «Con l’allenamento in Rete inizia una sorta di riabilitazione. Iniziano in modalità offline poi, acquisendo sicurezza compaiono online e lì tornano a creare il gruppo dei maschi rigorosamente virtuale, dove riescono a farsi accettare e talvolta anche a diventare leader. Si addestrano ad assumere codici maschili, qualcuno si crea anche una mini palestra in casa. I partecipanti a questi gruppi decidono magari poi di incontrarsi all’esterno e inizia così la rinascita».
Naturalmente è sempre una questione di misura e gli adulti devono vigilare e accettare il ritiro come una fase transitoria, senza forzare mai i tempi. Il ragazzo non va costretto a uscire se non si sente pronto, perché vivrebbe un’esperienza di mortificazione troppo forte. In famiglia l’aiuto principale più che dai genitori arriva dai fratelli, che non vedono “l’isolato” come una persona male.
«Ricordo il caso di un adolescente ritirato — racconta Comazzi —. I genitori erano angosciati. Dopo un percorso terapeutico che ha coinvolto la famiglia, un giorno la sorella lo ha invitato ad uscire con lei e il fidanzato per mangiare una pizza. Evidentemente si sentiva pronto, ed ha lasciato la sua camera. E quel giorno ha ricominciato a vivere».