Il Fatto 23.11.17
Caccia alle fonti dei cronisti. Libertà di stampa in pericolo
La carica delle Procure - Redazioni e case private perquisite, l’ultimo caso è Nicola Borzi del Sole24Ore: autore di un’inchiesta sui soldi dei Servizi segreti
di Giorgio Meletti
Una serie di decisioni illegittime di diverse procure della Repubblica stanno di fatto abrogando il segreto professionale dei giornalisti. Basta il semplice sospetto di una minima violazione di segreto d’ufficio e scatta la perquisizione per scoprire le fonti del giornalista. È una pratica più volte censurata dalla Cassazione e ancor più energicamente condannata da norme e sentenze europee. Eppure accade sempre più spesso.
Il fenomeno si traduce, al di là della buona fede dei singoli magistrati, in una pressione per tutti i giornalisti. Il messaggio è chiaro: se scrivi una parola di troppo puoi trovarti gente in divisa che fruga tra i giocattoli dei tuoi bambini o che si prende il tuo telefonino e cartografa comodamente tutte le tue relazioni e tutte le tue fonti. Anche chi si affida al segreto professionale del giornalista, imposto dalla legge e tutelato anche dal codice di procedura penale, è avvertito: se vai a raccontare qualcosa anche senza commettere niente di illecito, sappi che prima o poi potrebbe esserci un carabiniere, un poliziotto o un magistrato che potrà ricostruire tutti i tuoi contatti con il giornalista.
L’ultimo caso risale alla sera di venerdì 17 novembre. Gli uomini della Guardia di Finanza, su ordine del procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone, si sono presentati nella redazione del Sole 24 Ore a Milano, con un decreto di acquisizione di documenti per il giornalista Nicola Borzi. Quella mattina il giornale aveva pubblicato il secondo di due articoli di Borzi sui movimenti dei conti correnti dei Servizi segreti presso la Banca Popolare di Vicenza. Secondo Pignatone chi ha fornito i documenti al giornalista (che non è indagato ma solo testimone) ha violato il segreto di Stato, un grave reato che può costare fino a dieci anni di carcere. Borzi ha consegnato i documenti richiesti in una chiavetta, ma i finanzieri per maggior sicurezza hanno smontato il disco rigido del suo computer sequestrandogli tutto il suo archivio, le sue email, insomma tutti gli strumenti di lavoro.
La stessa sera del 17 novembre, a Roma, trattamento simile ha ricevuto Francesco Bonazzi, giornalista de La Verità, che aveva scritto sullo stesso argomento il giorno prima di Borzi. Bonazzi però se l’è cavata consegnando una chiavetta con i documenti richiesti e sottoponendosi a un lungo interrogatorio da testimone non indagato. Per entrambi i giornalisti il solito trattamento, la richiesta in nome della Legge di violare la legge che vieta di rivelare le fonti.
Colpisce il silenzio che ha circondato anche l’ultimo di una lunga serie di episodi. Neppure il direttore del Sole 24 Ore Guido Gentili ha fatto alcun commento. Borzi è una delle principali fonti d’accusa nell’inchiesta sul falso in bilancio del Sole 24 Ore, per la quale ha presentato numerosi esposti.
Eppure, l’Ordine nazionale dei giornalisti non ha speso una parola, limitandosi a riprendere sul suo sito la protesta dell’Ordine della Lombardia, come se fosse una vicenda di interesse regionale. Salvo poi indicare come focus di principale interesse nazionale la libertà di Stampa a Ostia. Il racconto confezionato da giornali e telegiornali considera il lavoro giornalistico messo a repentaglio più che altro dalla testata al giornalista precario della Rai Daniele Piervincenzi, dalle minacce mafiose a Paolo Borrometi dell’Agenzia Italia o dal disprezzo di Beppe Grillo per i “giornalisti da 10 euro al pezzo”. Fatti gravissimi. Tuttavia essi non sono causa ma effetto di un fatto molto più grave: se la libertà di stampa è messa in discussione dalla magistratura a chi potremo rivolgerci per difenderla?
Purtroppo una politica capace di evocare a vanvera la “emergenza democratica” si gira dall’altra parte. Purtroppo molti credono che la libertà di Stampa, il cui principale baluardo è la segretezza delle fonti, sia un privilegio dei giornalisti e non una garanzia per tutti.
Peggio ancora, molti giornalisti, quando viene perquisita una redazione concorrente, pensano che la cosa non li riguardi. E ci sono quelli che non reagiscono neppure quando viene perquisita la scrivania accanto alla loro. Così, quando il 30 giugno scorso la Procura di Napoli ha ordinato illegittimamente la perquisizione a tappeto di tutta la famiglia del vicedirettore del Fatto Marco Lillo, molti, soprattutto i garantisti a 24 carati, hanno pensato che gli stava bene. Blande reazioni anche il 21 luglio, quando la Guardia di Finanza si è presentata a casa di Gianluca Paolucci de La Stampa.
Il suo racconto: “Restano in casa per due ore frugando dappertutto, tra i giocattoli dei bambini, nella culla, negli effetti personali della mia compagna (…) Sequestrano cd, chiavette Usb, vecchi telefonini in disuso”. Due settimane dopo, il procuratore capo di Torino Armando Spataro scrive una lettera di scuse a La Stampa: la denuncia dell’Unipol da cui era scaturito il blitz era sbagliata, le intercettazioni erano state rese pubbliche non da un reato del giornalista ma dall’errore di un magistrato.
Anche le intercettazioni tra Matteo Renzi e il generale della Gdf Michele Adinolfi, due anni fa, costarono a Vincenzo Iurillo del Fatto l’acquisizione da parte degli inquirenti di tutto il contenuto del suo computer, salvo poi scoprire che l’unico atto illegittimo era stato l’attacco alla memoria informatica del giornalista.
il manifesto 23.11.17
Eutanasia e rifiuto delle cure: il vecchio corso di Bergoglio
di Mario Riccio
Papa Francesco con le sue ultime dichiarazioni ha ormai abbattuto l’ultimo diaframma che separava il solo mondo cattolico (le chiese protestanti – ad esempio i Valdesi – oggi ormai ragionano sulla liceità morale dell’eutanasia ) dal diritto all’autodeterminazione in materia sanitaria? Ha affermato il diritto del paziente a non iniziare o interrompere terapie anche qualora questo comporti la morte? È in atto pertanto un cambio di paradigma con la ovvia conseguenza di rivedere il giudizio sui casi Welby, Englaro, Piludu, ovviamente senza voler includere i casi di suicidio assistito come Lucio Magri, Dj Fabo, Loris Bertocco ed altri? Il dubbio rimane – almeno per questo modesto osservatore – analizzando con maggior attenzione le sue parole.
L’attuale Papa ribadisce un ormai vecchio concetto del catechismo della Chiesa, «non procurare la morte, ma accettare di non poterla impedire», che risale addirittura a Pio XII per giustificare l’uso della morfina anche quando questa accelera la morte del paziente terminale. È vero che sottolinea l’importanza della volontà del paziente ma sempre embricata con la figura del medico per valutare assieme la proporzionalità delle cure. Solo se queste infatti risultano «non proporzionate» o – come talora definite – «non appropriate alla condizione clinica» allora sarà lecito interromperle.
Ora, anche se il termine proporzionalità non è di natura tecnico-sanitario ma di provenienza etico-morale, è chiaro che una terapia non appropriata non dovrebbe neanche essere proposta né quantomeno già iniziata dal buon medico. Si scadrebbe nella cosiddetta «futility» – concetto assai concreto ma differente dall’indefinibile e pertanto indefinito accanimento terapeutico – che non necessita di particolari valutazioni morali per risultare ovvio che non sia da praticare.
Mentre rimane il dubbio interpretativo se trattamenti sanitari pur assolutamente appropriati o, per dirla con termine teologico «proporzionati», possano essere rifiutati dal paziente. Il respiratore meccanico per Welby o la nutrizione artificiale per Eluana Englaro erano assolutamente indicati clinicamente, ancorché dagli stessi rifiutati. La loro vita poteva continuare per un tempo indefinito se fossero stati mantenuti.
È stato pertanto moralmente lecito – secondo il supposto “nuovo corso” bergogliano – interrompere di fatto attivamente la loro esistenza? L’attuale Papa infatti sottolinea che la sospensione delle cure è da riservarsi a «casi ben determinati» e non certo una regola – nuova – applicabile indistintamente. E poi perché allora l’eutanasia rimarrebbe «sempre completamente illecita in quanto si propone di interrompere la vita, procurando la morte», datosi che non è ravvisabile alcuna sostanziale differenza etico-deontologica – diversamente da quella giuridica che appare evidente – tra l’interrompere una vita che potrebbe comunque proseguire con la sospensione di una terapia invece che con la somministrazione di una sostanza letale, sempre se con il consenso della persona malata ? Forse c’è ancora qualcuno disposto a credere all’esistenza del concetto di morte naturale? Ormai attribuibile solo ad una ipotetica volontà trascendente a prescindere dall’azione della medicina che è invece il risultato di una applicazione dell’intelletto dell’uomo.
A complicare oggettivamente l’interpretazione delle parole papali – ma a confermare i dubbi di questo modesto cultore della materia – intervengono quelle perentorie di Monsignor Paglia, Presidente della Pontificia Accademia della Vita: «È rilevante che spetti al medico decidere ma sempre in stretta relazione con il paziente… Insomma, possono terminare le cure ma mai la cura. Questo ha detto Papa Francesco».
* medico, Consulta di Bioetica
il manifesto 23.11.17
«Subito la legge sul fine vita». L’Associazione Coscioni si appella a Grasso
Biotestamento. I radicali scrivono al presidente del Senato affinché venga calendarizzato la discussione in Aula del testo approvato dalla Camera ad aprile
di E. Ma.
Con una seconda lettera inviata al presidente del Senato, Pietro Grasso, l’Associazione Luca Coscioni torna a chiedere «subito la legge per il testamento biologico» che è ancora in attesa di essere calendarizzata per la discussione in Aula dopo essere stata approvata con ampia maggioranza in aprile dalla Camera.
L’associazione radicale, che quattro anni fa ha depositato una pdl per la legalizzazione dell’eutanasia, chiede ancora a Grasso un «incontro al fine di consegnarle le oltre 26mila sottoscrizioni di cittadini all’appello “Insieme a Dj Fabo”» e rinnova «la richiesta di affermare diritti fondamentali sanciti dalla nostra Costituzione ma troppo spesso lasciati alla sola affermazione nei tribunali».
Rimasti inascoltati gli appelli di quattro senatori a vita e quello degli oltre 70 sindaci (tra cui Roma, Milano, Napoli, Torino e Palermo), sembrano essere cadute nel vuoto perfino le parole di Papa Francesco che tante reazioni avevano suscitato. «La legge sul biotestamento l’abbiamo scritta noi, spero si possa chiudere in questa legislatura», aveva detto Matteo Renzi a Porta a Porta martedì sera.
La parola ora spetta alla prossima riunione dei capigruppo.
Repubblica 23.11.17
L’Italia dell’astensione
Il vestito buono della politica
Si dice che il nostro tempo è quello del populismo ma i populismi sono i regimi della mobilitazione di massa, mentre il non voto è smobilitazione
di Gustavo Zagrebelsky
Nei primi anni della democrazia, le giornate elettorali erano giorni di festa. Chi ha una certa età e un minimo di memoria, ricorda che ai seggi c’era chi si recava con il “vestito buono” e non solo perché era domenica. Si festeggiava la riconquistata libertà. Un’abissale distanza dai rassegnati rituali dei giorni nostri, quando due elettori su tre hanno disertato, non trovando valide ragioni nemmeno per quel piccolo atto di impegno politico che è la scheda depositata nell’urna. Ora finalmente, l’astensione di massa è entrata nella discussione politica. Ma di che cosa si discute? Soprattutto di come attirare o recuperare alla propria parte i voti perduti; di come pescare qualcosa in quel grande bacino di astenentisi che è diventato il più grande partito italiano, più grande di tutti gli altri messi insieme. Insomma, i partiti pensano ai propri interessi facendo promesse sempre meno credute, per sedurre gli elettori e intercettarne i voti. In prossimità delle elezioni, cioè, fanno esattamente ciò che è la causa della frustrazione della democrazia. In Italia c’è il suffragio universale: vero e falso. Vero, perché il diritto di voto è riconosciuto a tutti; falso, perché solo una minoranza lo esercita. È la differenza tra ciò che è in potenza (il diritto) e ciò che è in atto (l’esercizio del diritto). Il voto è diritto di tutti e molti non lo usano. Così la democrazia, che dovrebbe essere il sistema politico della larga partecipazione, diventa “olicrazia”, il regime in cui il governo è nelle mani di minoranze. Senza che si cambino le leggi, cambia la forma di governo.
C’è, innanzitutto, una questione quantitativa. Un tempo, “l’astenuto” era l’eccezione. Nelle prime elezioni repubblicane, nel 1948, i cittadini che andarono al voto furono il 92,23 per cento: cioè, tolti coloro che erano impediti dagli acciacchi, dalla malattia o dall’assenza dall’Italia, tutti. A partire dagli anni ’80, si scese sotto l’80 per cento e si incominciò a riflettere. Oggi possiamo dire che non è l’astenuto l’eccezione, ma è il votante, soprattutto in certe fasce d’età e in certe categorie sociali. Una volta ci si chiedeva quali fossero le ragioni del non- voto; oggi, quali le ragioni del voto: un vero e proprio ribaltamento. Il diritto c’è, ma la maggioranza non ne fa uso. Se è vero che l’esercizio dei diritti è ciò che forma l’ossatura morale d’una società (una volta si diceva che bisogna tenere sempre strette le mani sui propri diritti), allora dobbiamo concludere che siamo diventati un popolo straordinariamente malleabile, arrendevole. I politologi si consolano troppo facilmente osservando che l’astensionismo è diffuso dappertutto, talora in misura anche maggiore che in Italia. Parlando solo dell’Europa, le statistiche provano che siamo comunque nella media dei maggiori Paesi dei quali non si potrebbe contestare il carattere democratico (Regno Unito, Francia, Germania, Svizzera, ecc.). Si dice anzi che sarebbe il sintomo di “democrazie mature”, consolidate: ci si fida a tal punto gli uni degli altri che non si considera necessario agire in proprio. In un certo senso, gli astenuti si fanno rappresentare dai votanti. Il sintomo, tuttavia, è ambiguo. Non dappertutto e sempre esso significa la stessa cosa. Occorrerebbe andare a fondo nelle motivazioni: molta fiducia e molta sfiducia possono produrre lo stesso effetto. La fiducia è il pilastro della democrazia, ma la sfiducia ne è il tarlo. Non c’è bisogno di sondaggi, statistiche, analisi per capire che in Italia siamo di fronte al rinascente fenomeno di massa del rifiuto della politica, e per sapere di quale mescolanza di delusione, frustrazione, rassegnazione, rabbia e disprezzo esso si alimenta. Basta un po’ di ordinarie, quotidiane frequentazioni e conversazioni.
C’è, poi anche, una questione qualitativa. Si dice che il nostro tempo è quello del populismo e dell’antipolitica, e il dilagante astensionismo è spesso indicato come un effetto dell’uno e dell’altra. Chissà perché? I populismi, comunque li si concepisca, sono sempre regimi della mobilitazione di massa (mobilitazione, non partecipazione), mentre l’astensione è una smobilitazione. L’anti- politica, poi, è un sentimento attivo che si rivolge “ contro”: contro le istituzioni, i politici, lo Stato, e può sfociare in ribellismo e in anarchismo. L’astensionismo, forse, più precisamente potrebbe definirsi non- politica, “ impolitica”: cioè l’atteggiamento rassegnato di chi dice “ lasciatemi in pace” oppure, drammaticamente, “ ho perso ogni speranza” perché non so chi votare, a chi votarmi. C’è poi, invece, il popolo dei votanti, il popolo composto da coloro che sanno chi votare — perché mantengono viva una fedeltà, una speranza e una fiducia — e da coloro che sanno a chi votarsi — perché hanno ricevuto promesse di favori o minacce di ritorsioni. Il voto dei primi è libero; quello dei secondi, è forzato. Coloro che appartengono al mondo di chi sa a chi votarsi di certo non si astengono. Così, tanto maggiore è il loro numero, tanto maggiore è l’incidenza del voto corrotto su quello libero. Se — supponiamo — votano in cento e i voti corrotti sono venti, i venti rappresentano un quinto del totale; se votano in sessanta e i voti corrotti sono sempre venti, i venti rappresentano un terzo del totale. Ciò significa, in breve, che l’astensionismo attribuisce un plusvalore al voto di scambio e, in genere, all’influenza delle varie forme di criminalità organizzata che operano nel nostro Paese. La crescita dell’astensione le favorisce. Si ha un bel dire che, astenendosi, i cittadini reagiscono in quel modo al degrado della politica “lanciando segnali”: nel frattempo, però, non fanno altro che dare maggiore potere a coloro contro i quali vorrebbero dirigere la loro protesta.
C’è, infine, la questione politica. Tra gli astenuti, moltissimi sono coloro che dicono: voterei certamente, se solo sapessi per chi. E molti lo dicono con amarezza, perché sanno quanto è costata in lacrime e sangue la conquista del diritto di voto, per ogni spirito democratico il più sacro di tutti. Ma, per non fare vuota retorica (“ occorre”, “ serve”, “ bisogna”), non basta ( più) invocare il “ dovere civico” di cui parla la Costituzione. Deve riattivarsi il circuito della domanda (degli elettori) e dell’offerta (di chi si candida a essere eletto). C’è stato un tempo in cui si chiedeva: tu che ti astieni, che motivo hai per non votare. Oggi, spesso, si vuole sapere da chi non si astiene che motivo ha per votare. Qui c’è la questione politica. Il voto è un mercato. La parola può sembrare odiosa e lo è se il “bene” offerto è il favoritismo, il patronage d’interessi particolari a danno di quelli comuni, il clientelismo, la promessa d’illegalità, la corruzione, la partecipazione in opache strutture d’interessi. Non siamo (ancora) a questo punto ma, se i “ giri del potere” si stringeranno ancora e l’astensione di coloro che ne sono estranei crescerà, verrà il momento in cui l’elettore che fa uso del diritto di voto sarà sospettato di collusione. La merce offerta sul mercato elettorale può, tuttavia, essere altra: onestà, esperienza, competenza, idee e ideali concreti di vita comune. Questa è la merce che manca al popolo di chi si astiene. Se qualcuno volesse farsene un’idea approfondita, potrebbe leggere il famoso saggio di Max Weber La politica come professione. I partiti che si candidano alle elezioni, così come sono, sono all’altezza del bisogno? Oppure il tempo per correre ai ripari è passato irrimediabilmente? È difficile l’innamoramento di ritorno, ma è ancor più difficile il ritorno alla politica di chi ne è stato prima illuso e poi disgustato.
Di fronte a questo compito, tanto vasto e urgente quanto essenziale per la democrazia, gli slogan, le promesse, le alchimie, le furbizie elettorali, le incoerenze, le menzogne e le recriminazioni reciproche sono contorcimenti nel vuoto che, se possibile, danno ragioni crescenti al popolo degli astenuti che osserva. C’è nell’aria un desiderio di ricominciamento; c’è un sentimento ambiguo di “piazza pulita”. Può essere il preludio a una catastrofe o a una rigenerazione. Se sarà la prima, gli storici daranno tutta la colpa alle inadeguatezze dei partiti e dei loro dirigenti, all’arroccamento nei posti e sulle posizioni acquisite e all’incapacità di cogliere il momento, comprendendo quando i vecchi tempi sono al tramonto e occorre promuoverne di nuovi.
Repubblica 23.11.17
Terza pagina
Le idee
Cosa rimane se togli la parola sinistra
di Michele Serra
In venticinque anni di “Amaca” l’ho scritta 1321 volte. La seconda in classifica è “politica”, la terza è “Berlusconi” Abbiamo permesso che una sola persona si contrapponesse a due concetti fondamentali
Il libro La sinistra e altre parole strane di Michele Serra (Feltrinelli pagg. 96, euro 9) Ne anticipiamo un brano
Il text mining è in pratica un carotaggio. Un lavoro di scavo.
Si prende la montagna di parole giacenti, ripescate con implacabile minuzia dai maledetti archivi che tutto conservano, ci si affondano dentro alcune sonde ben calibrate e si scopre di che materia è fatto, il tuo lavoro. Che cosa ci hai messo dentro. Come si è stratificato nel tempo. Quali elementi prevalgono, e danno sostanza all’insieme. Se c’è dell’oro, o del metallo prezioso, e quanto fango.
Quanti detriti, quanta materia nobile. E alla fine me l’hanno fatto avere, il mio text mining. Qualcosa a mezzo tra un’ecografia della mia anima e la cronaca spicciola, spesso molto spicciola, di un quarto di secolo di storia italiana (e no), snocciolata giorno dopo giorno, corsivo dopo corsivo, goccia dopo goccia. Sostiene il text mining che io in questi venticinque anni abbia usato ben 55.000 parole diverse, inclusi i nomi propri, che sono tantissimi, e le voci verbali nelle loro svariate declinazioni, compresi molti congiuntivi perché ho fatto il classico; poi qualche parola di mia invenzione – come se non bastassero quelle che già ci sono.
La parola più utilizzata, nella somma dei miei corsivi aggiornata all’estate del 2017, è sinistra, 1321 volte. La seconda parola più usata è politica, 1166 volte. Vedete come già questo mi inchioda e mi definisce: sinistra e politica. Sono le due password per poter scrivere sulla Repubblica. E prima della Repubblica, sull’Unità. Sinistra e politica. Un campo, la politica, una squadra, la sinistra: la mia squadra. Se l’ho scritta ben 1321 volte, la parola “sinistra”, è sicuramente perché stavo cercando di spiegare prima di tutto a me stesso che cosa volevo dire esattamente, dicendo sinistra. La prima grande lezione che il mio text mining ci fornisce, dunque, è che lo stimolo fondamentale della scrittura, direi non solo della mia, è l’ignoto. Ho scritto, come tutti o quasi, per cercare di dare una forma e un ordine all’ignoto, a partire dall’ignoto per eccellenza, che è appunto la sinistra. Non è vero che si scrive per narcisismo. Cioè: anche per narcisismo. Si scrive soprattutto per cercare di mettere un poco di ordine nella propria testa, e se si è socievoli anche in quella degli altri. L’uomo delle caverne cominciò a parlare nel tentativo disperato di mettere ordine nel mondo provando a definirlo, ed è esattamente quello che facciamo ancora adesso.
Siamo diventati leggermente meno gutturali, abbiamo molto migliorato l’alimentazione e l’igiene dentale (non il sistema elettorale), ma siamo ugualmente alle prese con lo stesso identico nemico: l’ingovernabile, inesplicabile confusione che ci circonda, e il tentativo, se non di dominarla, almeno di nominarla.
Scriviamo, leggiamo per non farci sovrastare dalla confusione.
Ora però teniamoci forte, perché la terza parola più usata, in venticinque anni di scrittura quotidiana, dopo sinistra e dopo politica, è quella che ci inchioda (non solo io: anche voi) al nostro destino nazionale, che in epoca recente è stato prevalentemente un destino imbelle, da spettatori accasciati nella loro poltroncina, così accasciati da non avere neanche più le forze per abbandonare il teatro. La terza parola più usata è: Berlusconi. È lui che completa il podio. Prima: sinistra. Seconda: politica. Terza: Berlusconi. Osserviamolo meglio, questo trio. Si tratta di due concetti e di una persona.
Abbiamo dunque consentito che una persona sola (e solo quella persona) affiancasse, sul podio della nostra discussione pubblica, al centro dell’agorà, due concetti, sinistra e politica, per noi così rilevanti da averci fatto credere, sbagliando, che proprio quei due concetti bastassero da soli, o con pochissimi ritocchi, a indicare l’agorà stessa nella sua completezza. Non avevamo fatto i conti con l’intruso per eccellenza, talmente intruso che non è ad antagonisti in carne e ossa che contende il podio (altri leader, altre persone) ma a una comunità intera: la sinistra e la politica. Sul podio ci siamo lui e noi, con la differenza, non trascurabile, che lui è uno, noi un sacco di gente.
Per chiudere l’argomento, e perché il terzo classificato non si dia troppe arie, è importante aggiungere che avrei potuto cavarmela benissimo – dico come corsivista, e tanto più come italiano – anche senza di lui.
Alle spalle di Berlusconi il text mining riporta alla luce un esercito sterminato di nomi e cognomi. Quanti ne sono bastati per scrivere migliaia di corsivi e quanti ne basterebbero per scriverne altri milioni.
La Stampa 23.11.17
Nessun accordo col Pd
Mdp rompe sull’art.18 e schiera Grasso leader
Ma Civati non esclude accordi nei collegi per aiutare i Dem “Ad esempio: non candidare D’Alema dove corre la Boschi”
di Carlo Bertini
«Questa legge elettorale è stato un autodafé del Pd», sorride beffardo Nicola Fratoianni mentre esce dalla Camera accendendosi l’ennesima sigaretta. «Volevano costringerci ad allearci facendo quella legge lì e invece...». Invece la sinistra radicale ha resistito testarda, convinta che andando col Pd avrebbe perso solo voti. «Se andiamo con loro che possiamo portare alla causa?», chiede polemico Pippo Civati che si accompagna al segretario di Si. Dunque l’unica cosa che a questo punto si può fare, «se non continuano a darci addosso...», è la premessa dell’inventore di Possibile, «è un qualche accordo per non fargli troppo male nei collegi...». Ovvero? «Beh, che per esempio si può evitare di candidare Massimo D’Alema proprio dove si candida la Boschi... e via dicendo», butta lì Civati. Nel giorno della lacerazione plastica dei due fronti in aula alla Camera sull’articolo 18, dunque non si captano solo gli strali come quello di Speranza sulle «finte aperture del Pd che getta la maschera».
«Desistenze» mascherate
All’ora di pranzo la rottura viene certificata con il niet sillabato a favore di telecamere dagli emissari di Bersani e compagni dopo l’incontro con Fassino. E forse per gli strascichi che avrà questa rottura, per il senso di colpa che aleggia da ambo le parti verso il popolo della sinistra, non sono solo i tamburi di guerra a rimbombare, ma anche le sirene di una tregua da rincorrere con qualche stratagemma. Ecco perché la tentazione che attrae alcuni dei compagni somiglia ad una sorta di «desistenza» mascherata: un accordo per non confliggere troppo, piazzando dove serve al Pd avversari incolori. Se il Pd potrà far correre i suoi big senza un nemico a sinistra di peso, la gara sarà meno dura: e questo può valere per un Delrio o un Richetti che si dovessero trovare di fronte Vasco Errani nel loro collegio, e così via. Non che la sinistra ambisca a conquistare svariate poltrone nell’uninominale, dove difficilmente potrà spuntarla da sola.
La rivincita dei rottamati
Si vedrà, anche perché non è detto che tutti la pensino come Civati, tanto che i più pugnaci già si vedono ad insidiare i generali renziani sul loro terreno. La sfida dei vecchi contro i giovani leoni è quella evocata da un ex big dei Ds come Fabio Mussi domenica scorsa all’assemblea di Si: candidarsi nei collegi per drenare più consensi dove si può.
Ecco, così oscilla il pendolo nel giorno della doppia rottura: in aula sull’art.18 e in un’oretta di profferte di Fassino ai compagni di Si e Mdp. Con la storiella raccontata alla fine con perfidia, secondo cui ogni volta che stavano per alzarsi, Fassino tirava fuori dalla borsa un’altro testo di legge, un’altra carta delle buone intenzioni. Il mediatore mette sul piatto misure sul Jobs Act per rendere più conveniente il contratto a tempo indeterminato, più tutele in caso di licenziamento, raddoppio dei fondi per il reddito di inclusione. L’avvio del superamento del superticket. Niente da fare, copione già scritto: Mdp è lanciata verso l’assemblea del 3 dicembre, dove Piero Grasso sarà incoronato leader della lista unitaria con Sinistra italiana e Possibile.
Grasso leader del listone
Una lista che stando ai sondaggi che circolano anche nel Pd può ambire ad un 10% grazie alla guida della seconda carica dello Stato. Il quale pare non avere alcuna intenzione di scivolare verso Pisapia e verso il Pd. «È un uomo che le scelte le matura e raramente le cambia», tagliano corto i suoi.
Fassino oggi vedrà Tabacci, Luigi Manconi e Ciccio Ferrara di Campo progressista, ma non Pisapia. Il clima non è sereno dopo che Renzi da Vespa ha ironizzato sui piccoli, «a sinistra ci sono 29 sigle...». L’intesa deve ancora maturare, serve prima il riconoscimento di «pari dignità», che allo stato non c’è, ad opera di Renzi. Il Pd conta di andare in coalizione con Pisapia, la Bonino - che oggi lancia Più Europa - e con i centristi. «Invece di sbeffeggiarci, Renzi dovrebbe pregare Pisapia di candidarsi...» avvertono i futuri alleati.
Repubblica 23.11.17
Le due sinistre
Mdp rompe e sfida il Pd al voto Bersani: senza noi c’è CasaPound
di Giovanna Casadio,
Di che cosa stiamo parlando
Nel tentativo di varare una coalizione di centrosinistra più ampia possibile il Pd ha nei giorni scorsi incaricato Piero Fassino di sondare tutti i potenziali alleati. Dopo molti incontri l’ex segretario dei Ds ha visto anche la delegazione di Mdp e Sinistra italiana, ricevendo dai capigruppo la conferma del no a qualsiasi forma di intesa prima del voto. A questo punto, a meno di ripensamenti, è ufficiale che la sinistra andrà al voto del 2018 divisa in due tronconi.
Roma «Ragioniamo su quello che abbiamo davanti, il passato s passato…». Piero Fassino ha compulsato gli appunti sul computer, ha elencato il nuovo programma e ceduto la parola agli altri due “ ambasciatori” del Pd, il vice segretario Maurizio Martina e Cesare Damiano. Per cercare di convincere la Sinistra a un’alleanza. Ma la risposta di Mdp e Sinistra Italiana s stata chiara e categorica: «Voi avete un programma politico vivente, che s quello di cui ogni giorno parla Renzi. Il tempo s scaduto. Alcune delle vostre scelte sono semplicemente di destra ». Game over.
Il divorzio tra il Pd e la Sinistra (Mdp-Si-Possibile) si consuma così, durante una riunione ieri lunga un’ora e mezza nella saletta dei “vendoliani” alla Camera, tra qualche bicchiere d’acqua, ts e caffs, senza mai chiamarsi “compagni”. I capigruppo Cecilia Guerra dei demoprogressisti e Giulio Marcon di Si salutano con una stretta di mano e vanno via per primi. Dichiarano ai cronisti: «É rottura, sono strade divergenti le nostre, ma non per il passato. Basta vedere come si sta comportando il Pd in queste ore rifiutando la nostra proposta di ripristinare l’articolo 18 senza neppure discutere». La pazienza di Fassino, il “tessitore” per conto di Renzi, nasconde una forte irritazione su come Pierluigi Bersani e Roberto Speranza hanno snobbato l’incontro. « Ma con chi mi fate parlare, quali saranno i miei interlocutori? » , si era lamentato l’ex segretario dei Ds.
La Sinistra va avanti. Marcon nell’euforia del momento fa una gaffe: « Il 3 dicembre lanceremo la nostra lista unitaria per l’alternativa: ci sarà Pietro Grasso, il nostro candidato, sarà il nostro leader». Il presidente del Senato, alle prese con il difficile arbitraggio sulla legge di Bilancio, si innervosisce: il patto era quello di non tirarlo per la giacca – ricorda in una telefonata a Speranza – e in una nota fa sapere: « Non ho sciolto alcuna riserva sul mio futuro». In pratica, le dichiarazioni sono solo “auspici” dei singoli. Marcon chiede scusa: «Mi s uscito dal cuore, s solo il mio auspicio » . Non si sbilancia neppure Laura Boldrini, la presidente della Camera, anche lei in pista come leader del centrosinistra. Ma chi l’ha sentita in queste ore conferma che non ha cambiato idea dall’ultima assemblea di Campo progressista, nella quale aveva preso le distanze dai Dem sostenendo: «Non ci sono le condizioni per un’alleanza con il Pd». Oggi il movimento di Giuliano Pisapia incontra Fassino e, riunendosi ieri sera, alza il prezzo della trattativa che dovrebbe portarlo a riunire il centrosinistra con Renzi, chiedendo di decidere anche su chi saranno gli altri alleati perché « una coalizione non può tenere tutto e il contrario di tutto». Insomma s un veto ad Alfano.
A difendere la rottura consumata s Bersani. L’ex segretario dem spiega: «Stiamo dando un contributo al centrosinistra, se non ci fossi io che vado nelle periferie, quelli non s che votano Renzi, ma Casapound. Senza di noi ci sarebbe gente che si mette in testa strani pensieri e così arriva la robaccia » . E poi: «Con il Pd se ne riparla dopo il voto, dipende dai rapporti di forza. Per ora il loro atteggiamento sull’articolo 18 ha messo una pietra tombale e l’incontro di oggi s il suggello a tutte le cose da noi proposte
Repubblica 23.11.17
La Cosa rosé degli ex Dc: “Noi a sinistra”
Carra raduna a Roma i “cattolici senza partito” che guardano a Mdp: “Dopo il Papa viene Bersani”
di Alessandra Longo,
Roma «Papa Bergoglio potrebbe essere il nostro leader. Subito dopo, per me, viene Bersani!». Quando si dice la fascinazione del cattolicesimo sociale e popolare nei confronti dei compagni di Mdp. Chiamato a raduno da Enzo Carra, un drappello di credenti senza partito (o disorientati) si materializza all’hotel Quirinale. Non una cosa carbonara, proprio davanti a Montecitorio e con un titolo chiaro frutto dell’esperienza mediatica di Carra: «Noi e l’Ulivo ». È la signora Anita Di Giuseppe, già sindaco di Campomarino, dirigente scolastica e presidente dell’Associazione Visioni Contemporanee di ispirazione cattolica, a confessare il suo entusiasmo per le politiche del Papa e la sua fascinazione per il laico Bersani (ieri in gran forma dopo il no definitivo alle offerte Pd).
Prove di dialogo interessanti su tutte e due le sponde. Mdp dichiara di essere « aperto e straperto a tutte le culture» (dice Bersani che non vuol essere leader solo di una Cosa Rossa) e i cattolici senza casa, ex Dc allergici al leaderismo imperante, rispondono. Carra li va rintracciando sul territorio ( « Entrerò nelle liste di Mdp? Per il momento mi limito a rispondere alle chiamate degli amici...»).
Mix di effetto nella piccola sala. Volti noti: Marco Follini, ( « Caro Pier non ti farò il torto di votarti ma fai un lavoro di ricostruzione dell’identità prezioso») David Sassoli ( osservatore e pontiere Pd in particolari buoni rapporti con il capo degli scissionisti ( « Sono allergico agli appelli; non si supera la crisi con i modelli macroniani » ); Miguel Gotor ( « Da qualche parte, direi la nostra, il centrosinistra rifiorirà » ) e poi Giorgio Merlo, deputato Pd ( ma non troppo), autore di Cattolici senza partito ( « L’articolo 18 non è un ferrovecchio del’ 900 ma il caposaldo dei diritti sociali sui cui si basa il pensiero social- cristiano » ). Tra i volti meno noti, ma molto interessati, anche il parrucchiere della signora Carra.
Non essendo Bergoglio disponibile, ecco che da queste parti si guarda a Bersani, a « come ricostruire un progetto politico democratico, riformista e socialmente avanzato » . Ci son qua io, sembra dire Bersani che mette subito « i piedi nel piatto » : « Non può venire niente di buono senza l’apporto di parte della cultura cattolico popolare e cattolico democratica».
Platea canuta. Spicca il sindaco trentenne di Cerveteri, al secondo mandato, in scarpe da ginnastica. Si chiama Alessio Pascucci ed è sponsor di un movimento network di sindaci in bolletta e con voglia di fare. Il suo motto alle elezioni: «Esserci 2.0». Bersani prende appunti e ha l’aria di fare scouting in vista delle future scadenze. Federico Martucci, 32 anni, è sul palchetto con il moderatore Paolo Franchi che lo presenta: imprenditore, docente della Luiss. Lui si schermisce ma picchia duro contro « la società frenetica e liquida, contro il popolo del Carpe Diem». Porte aperte per entrambe le culture presenti.
Il bene comune, il pluralismo non formale ma sostanziale, e la Costituzione « santa e benedetta » . Su questi punti nasce un rinnovato idillio. Finisce con strette di mano, sorrisi, e forse qualche benedizione.
il manifesto 23.11.17
Fassino incassa il no della lista di sinistra, Pisapia già in affanno
Alleanze. Fassino: alla nostra disponibilità è stato risposto che oggi non sussistono le condizioni per un’intesa. Nel pomeriggio alla camera il Pd affossa il ripristino dell’art.18. Oggi l’incontro con Campo progressista, ma è incognita Bonino Appello del Prc a Fratoianni: uniti, serve il coraggio di una svolta.
di Daniela Preziosi, Massimo Franchi
L’esito è scontato ma Piero Fassino si è preparato con efficienza sabauda, quando alle 11 di mattina i cinque si siedono nella stanza di Sinistra italiana a Montecitorio – da una parte con lui il vicesegretario Pd Martina e Cesare Damiano, dall’altra il capogruppo alla camera di Si-Possibile Giulio Marcon e la capogruppo di Mdp al senato Maria Cecilia Guerra – squaderna il suo ipad come se ci fosse davvero una possibilità di trattare. E comincia a leggere una lista di proposte: sull’art.18 l’allungamento a 36 mesi dell’indennità, sul welfare il 19 per cento di detrazione per le badanti, il servizio civile universale, alcuni provvedimenti sul fisco.
Quanto al renzismo passato e recente, «il passato è passato, serve una coalizione per battere le destre, vi rendete conto che possono vincere?».
CECILIA GUERRA, CHE È un’economista, entra nel dettaglio, smonta le «proposte», una a una. Non c’è solo il passato, c’è anche il presente. «Fra poco in aula il Pd si prepara a affossare per sempre la modifica dell’art.18», dice lei. E oltre al passato c’è anche il futuro: «Saresti in grado di garantire che la campagna di Renzi non sarà al grido sbagliato ’meno tasse per tutti’?». «Ma quello è solo uno slogan», si spazientisce Martina. Fassino spiega che fosse per lui «le tasse servono a pagare i servizi per tutti», ma è chiaro che a Renzi lo slogan piace.
All’uscita, dopo un ora e mezza di non-dialogo, Giulio Marcon riepiloga: «Non ci sono margini di intesa con chi in questi anni ha fatto politiche sbagliate». Poi dà appuntamento all’assemblea di lancio della lista, a Roma il 3 dicembre: «Grasso sarà il nostro leader».
Ormai è sicuro, ma il presidente del senato, ancora per due settimane nelle sue vesti istituzionali, deve dettare una smentita: «Il presidente non ha sciolto alcuna riserva», il resto sono auspici.
A MONTECITORIO nel pomeriggio va in scena l’ennesima rottura sinistra-Pd. Ci vuole la chiamata alle armi estesa a tutta la maggioranza per riportare in commissione la proposta di legge che ripristina l’articolo 18. Con l’aiuto anche di qualche voto a destra, la richiesta della relatrice Pd Titti Di Salvo che sotterra il provvedimento viene approvata con soli 26 voti di scarto.
Se tre giorni fa la discussione era avvenuta in un’aula deserta, stavolta c’è il pienone fra i banchi del Pd e dei centristi. Si rivede perfino il falco di Confindustria Piero Bombassei, parlamentare della fu Scelta Civica montiana che alla camera hanno faticato a riconoscere, anche per i baffi tagliati. A chiudere il quadretto confindustriale pensa l’ex capo ufficio stampa – diventato editorialista della fu Unità – Ernesto Auci, anch’esso parlamentare centrista.
È il capogruppo dem Ettore Rosato a spiegare «che il ritorno in commissione è una porta tenuta faticosamente aperta sul dialogo a sinistra». La scusa non è cambiata: in cambio della reintegra in caso di licenziamenti illegittimi il Pd offre un semplice aumento della tassa sui licenziamenti, prevista in forma blanda in legge di bilancio.
«Qualche mesata in più è offensiva rispetto al diritto dei lavoratori di vedersi riconoscere il posto di lavoro in caso di licenziamenti illegittimi», replica Giorgio Airaudo, relatore di minoranza. «Si è persa un’occasione molto più importante di qualche appello all’unità dei cosiddetti padri nobili della sinistra», chiosa Francesco Laforgia, capogruppo Mdp e primo firmatario della proposta.
OGGI ALLA CAMERA FASSINO incontra la delegazione di Pisapia, Bruno Tabacci, Luigi Manconi e Ciccio Ferrara. L’accordo è nelle cose, ma il diavolo si nasconde nei dettagli.
La lista arancione accoglie meglio le proposte di Fassino, ma deve essere calibrata fra arancioni, verdi, socialisti e radicali (italiani, che oggi presentano la loro idea di una lista «+Europa») per non rischiare di non acciuffare il 3 per cento. I «big» Pisapia e Bonino però non avrebbero intenzione di candidarsi.
E c’è il problema delle firme: se non si useranno i nomi dei partiti già presenti in parlamento, dovranno essere raccolte. E c’è il problema di Alfano: venerdì alla riunione di Ap si prevede una spaccatura, ma il ministro degli esteri è fra quelli che vogliono l’alleanza con il Pd.
ANCHE A SINISTRA della sinistra i giochi non sono chiusi. Rifondazione comunista invia una lettera aperta a Sinistra italiana per chiedere «il coraggio di una svolta nel segno della ricerca dell’unità con chi le politiche neoliberiste le ha contrastate», (leggasi non gli ex Pd), e di riaprire il dialogo anche con i civici del Brancaccio.
Il Fatto 23.11.17
Renzi-sinistra: morte di un’alleanza mai nata
La minoranza dem tradisce i bersaniani e vota per l’omicidio del ddl sull’articolo 18
di Wanda Marra
“Quelli della minoranza del Pd vogliono talmente tanto il centrosinistra che lo uccidono ogni volta che possono”. La sintesi la fa Pippo Civati, leader di Possibile, a sera. La Camera ha appena votato per il rinvio in Commissione della proposta di legge di Mdp per modificare l’articolo 18 e il tabellone fotografa il voto unanime praticamente di tutto il Pd. Sono solo 26 i voti di scarto. “Se i coraggiosi si fossero manifestati per una volta (l’ultima volta) avremmo discusso”, commenta ancora Civati.
Finisce così, con una rappresentazione plastica della situazione, una giornata che era iniziata con l’incontro tra Piero Fassino – accompagnato da Maurizio Martina e Cesare Damiano – e Giulio Marcon e Cecilia Guerra, rispettivamente capogruppo di Camera e Senato di Sinistra italiana-Mdp-Possibile. Un incontro al quale tutti erano arrivati con le premesse per una rottura, più che per un accordo. “Finte aperture”, twitta Roberto Speranza, “creando” un hashtag secondo l’abitudine di Renzi. Di “confronto programmatico vero” parla, invece, Piero Fassino. Al netto delle parole usate, le parti non si spostano di un millimetro dalle posizioni di partenza.
Fassino mette sul piatto le offerte. Tra le altre cose: misure “integrative” al Jobs act finalizzate a rendere “più conveniente” il contratto a tempo indeterminato e misure di maggiore tutela in caso di licenziamento, prima di tutto. E poi: “Avvio del superamento del superticket”, oltre alla “volontà” di arrivare all’adozione delle legge sullo Ius soli e sul testamento biologico. Per i suoi interlocutori, l’offerta non è sufficiente: “Siamo fuori tempo massimo, non c’è possibilità di raggiungere un’intesa”, commenta Marcon.
Ma l’analisi è quella di Speranza: “Renzi rivendica le politiche del suo governo, che sono quelle che ci hanno portato a uscire dal Pd. Quindi non c’è la discontinuità necessaria per noi. D’altra parte è naturale che Renzi lo faccia”. Insomma, l’incompatibilità è assoluta e i rimpianti sembrano pochi. La sinistra anti-Pd si prepara alla kermesse fondativa del 3 dicembre e lavora al simbolo. Aspettando Pietro Grasso: il presidente del Senato non può ancora formalizzare la sua discesa in campo per motivi istituzionali. Deve aspettare che Palazzo Madama approvi la legge di Bilancio. Ma l’operazione va avanti. La sinistra è convinta di poter prendere più voti se corre da sola. E pensa di potersi garantire più seggi.
Dal canto suo, Matteo Renzi va avanti nel suo progetto: che è quello di una coalizione light, senza un programma troppo serrato, che permetta al Pd non di vincere le elezioni, ma di essere il primo gruppo parlamentare e casomai di fare le larghe intese dopo le elezioni. Ieri il segretario sul punto si è astenuto dai commenti: “Noi facciamo questo viaggio per discutere dei temi che riguardano gli italiani. Le questioni di natura politica le sta seguendo a Roma per me Piero Fassino e rimetto a lui ogni dichiarazione”.
Stamattina verrà presentata la lista Forza Europa, capeggiata da Benedetto Della Vedova e benedetta da Emma Bonino. Quanto a Fassino, invece, rivedrà Pisapia: il sì di Campo Progressista è dato per scontato a tal punto che Renzi sta pensando a un incontro con l’ex sindaco di Milano lunedì, dopo la Leopolda. Resta il nodo Alfano: nessuna delle liste potenzialmente alleate lo vuole, ma il Pd non pare intenzionato a scaricarlo. Rientrerà nella lista centrista la cui organizzazione Renzi ha affidato a Pier Ferdinando Casini.
Renzi, poi, continua a pensare che una parte di Mdp potrà essere recuperata. Ma la coalizione larga, con tanto di progetto e programma, per la quale si sono espressi negli scorsi giorni pure i padri nobili, Romano Prodi e Walter Veltroni, sembra definitivamente tramontata.
il manifesto 23.11.17
A nome dei tanti elettori che non sanno per chi votare
Sinistra. Il comportamento di certi aspiranti federatori, all’opera negli ultimi mesi, ci sono costruttori che si sono rivelati sabotatori (periamo inconsapevoli)
di Tana de Zulueta
Sono una dei tanti elettori italiani che guardano con vera preoccupazione all’appuntamento delle prossime elezioni perché, semplicemente, non sappiamo per chi votare.
Siamo elettori orfani, persone alla ricerca di un partito o una lista credibili, con candidati pronti ad affrontare un’elezione nazionale proponendo risposte di sinistra alle sfide del tempo: in primo luogo quelle del lavoro e delle disuguaglianze. Ma anche la sfida del clima e dell’ambiente, dell’istruzione e della sanità, del diritto e soprattutto dei diritti. Quello che cerchiamo è una proposta politica che possa guardare al mondo in cui ci troviamo, a cominciare dallo stesso mare Mediterraneo che ci circonda.
PROBABILMENTE ABBIAMO votato in modi anche diversi alle ultime elezioni, ma di una cosa siamo convinti: riteniamo che alla luce dei fatti, delle alleanze che ha stretto e delle leggi approvate dagli ultimi due governi (e di quelle passate nel dimenticatoio), l’attuale Partito Democratico non può o non vuole formulare le risposte che rivendichiamo. Per questo motivo ci appassionano ben poco le ultime manovre in atto per cercare una pezza che sia a sinistra. Vogliamo andare avanti.
E siccome la speranza sarà pur sempre l’ultima a morire, continuiamo a guardare con interesse alla discussione in corso a sinistra per la formazione di una lista comune. Siamo realisti, l’obiettivo non è semplice, trattandosi, almeno in parte, di una ricomposizione tra soggetti che hanno preso strade diverse. Ma avremmo salutato con piacere delle voci nuove nel panorama un po’ polveroso della sinistra italiana. E’ stata un’attesa lunga e frustrante.
Guardando infatti il comportamento di certi aspiranti federatori durante gli ultimi mesi, ci sono costruttori che si sono rivelati – speriamo inconsapevoli – sabotatori, facendo deragliare più di un tentativo avviato per mettere in piede un vero contendete di sinistra. In questo modo al Pd è stato lasciato campo libero per continuare a rivendicare uno spazio politico e la rappresentanza degli interessi di molti elettori che ha, nei fatti, abbandonato da tempo.
È STATO PERSO MOLTO, troppo tempo prezioso, e la delusione in giro a questo punto è tanta. Questo renderà ancora più difficile il compito dei giocatori rimasti in campo, e in particolare dei promotori dell’assemblea nazionale per la costituzione di una nuova proposta politica di sinistra del 2 dicembre, fin qui Roberto Speranza, Pippo Civati e Nicola Fratoianni, a nome dei rispettivi movimenti.
Forse se ne aggiungeranno altri, speriamo di si, perché con la rinuncia a partecipare dei due principali promotori di ’Alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza’, meglio noti come quelli del Brancaccio’, dopo un percorso di ben 98 assemblee in giro per il paese con l’obiettivo specifico della costituzione di una lista comune, la futura aggregazione ha perso la sua unica componente ‘civica’, guidata da due promettenti new entry sulla scena politica nazionale: Anna Falcone e Tomaso Montanari.
Senza di loro l’appuntamento del 2 dicembre rischia di perdere , la freschezza del nuovo, ma soprattutto respiro: l’eco del movimento di opinione, in particolare di giovani, che contribuirono in modo decisivo a fare vincere il ‘No’ nel referendum costituzionale dell’anno scorso.
MA C’È UN ALTRO MOTIVO che ci fa rimpiangere la loro assenza. Ai due portavoce del Brancaccio va dato atto che sono stati gli unici a porre con forza la questione delle regole per la selezione dei candidati della futura lista comune. Non è una questione da poco.
Il decollo finale della nuova proposta politica deve molto alla protervia con la quale il Pd di Matteo Renzi ha imposto una indifendibile legge elettorale. Questa forzatura politica ed istituzionale ha pubblicamente sancito la tacita alleanza parlamentare del Pd con la destra dell’impresentabile Verdini, e provocato la rottura motivata del presidente del Senato Pietro Grasso, regalando alla nuova formazione di sinistra la possibilità di un leader di peso (o almeno di rango) e tutto meno che divisivo.
LA DRAMMATICA DECISIONE di Grasso ha portato i gravi difetti della legge elettorale all’attenzione di tutti. Un marchingegno cinicamente congegnato per mantenere il potere nelle mani dei capi partito, privando gli elettori non solo del potere di scelta, ma anche di una effettiva rappresentanza. Agli alti principi e alla sovranità del popolo non badava proprio nessuno.
È per questo motivo che il modo in cui si formeranno le liste elettorali del futuro soggetto politico è una questione tutto meno che secondaria, e sicuramente di pari importanza al suo programma elettorale. E questo è il secondo punto che mi preme di sottolineare.
IL PERCORSO DA AVVIARE dopo il 2 dicembre dovrà costituire la rappresentazione concreta del rigetto dei principi guida del cosiddetto Rosatellum: è una legge fatta per consegnare il potere di scelta dei candidati ai segretari dei partiti? Scegliamoli invece «con metodo democratico», come recita la Costituzione. E’ stata abbandonata la parità di genere? Assicuriamola davvero per i componenti della nuova lista. E’ consentito l’obbrobrio delle pluricandidature, permettendo ai capilista di esercitare un potere feudale di prima scelta? La nuova lista le bandirà.
Solo così si potranno smentire le rabbiose accuse lanciate nel giorno della rinuncia da un Montanari più che deluso, che, di fatto, sfida i proponenti dell’assemblea del 2 dicembre a dimostrare che quell’appuntamento non sarà, come ha detto, «un teatro che copre l’obiettivo reale: rieleggere la fetta più grande possibile degli attuali gruppi parlamentari». Se, come me lo auguro, Montanari ha torto, bisognerà dimostrarglielo, e, ciò facendo, sperare di recuperare un bel po’ di delusi come lui nel paese.
Ma se per disgrazia quel gruppo di parlamentari uscenti che si sono ritrovati intorno alla nuova proposta per un futuro soggetto politico di sinistra pensano davvero di allestire una zatterella di salvataggio personale, temo che potrebbero fare la stessa triste fine dei 147 passeggeri della famosa zattera della Medusa (di cui si salvarono solo in 15), con buona pace delle speranze nostre e loro.
Il Fatto 23.11.17
Ora Scalfari vota Berlusconi: “Populista sì, ma di sostanza”
Conversioni - Il fondatore di “Repubblica” va in tv e si rimangia 20 anni di “guerra al puzzone”: “Preferisco lui a Di Maio”. È la scelta dell’establishment per il 2018
L’outing – Scalfari a “DiMartedì” condotto da Floris su La7
Con De Benedetti e Caracciolo
di Daniela Ranieri
Nelle ore in cui si scaldano le rotative che sforneranno la nuova Repubblica, interamente scritta col carattere tipografico sobriamente ribattezzato “Eugenio”, Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica e autorità morale, è a La7, ospite di Giovanni Floris.
Esordisce dicendo che se il Pd “sta esaurendo il suo ruolo”, nondimeno Renzi è il suo “nipotino” e non si sente “il nonno di nessun altro”. La frecciata è per quelli di Mdp (in particolare per Bersani che, macchiandosi d’ignominia, “fece la corte ai 5Stelle”), colpevoli di aver abbandonato il tontolone neoliberista al suo destino invece di farsi carico della sua prossima, ennesima sconfitta.
I diseredati per Scalfari prenderanno tra l’8 e il 10%, che “è niente” rispetto a quanto prenderà Renzi, peraltro alleandosi con tutte le frattaglie della Repubblica. “Io sono perché si rinnovi il Pd”, dice Scalfari ieraticamente: in questo senso gli pare “notevole il colloquio che Renzi ha avuto con Macron”, due “pilastri dell’europeismo” (Scalfari pensa che Renzi sia Bismarck, ogni tanto lo critica e lo indirizza ma come Machiavelli farebbe col Valentino). Il Fondatore sa bene che Renzi è europeista solo quando gli fa comodo, che in lui convivono lo statista kitsch della portaerei al largo di Ventotene e il bamboccione capriccioso delle bandiere europee tolte dal set di Palazzo Chigi per fare una delle sue gradassate; ciò nondimeno, del figaccio in Scervino apprezza il cinismo, e la tempra per fondare l’unica cosa che per Scalfari conta più della democrazia: l’oligarchia.
A questo punto viene fatto entrare Bruno Vespa, che come tutti sanno è venuto a promuovere il nuovo libro che ancora deve uscire ma è già in classifica (è come la Apple, ogni anno sforna un aggiornamento): si intitola Soli al comando. Da Stalin a Renzi, da Mussolini a Berlusconi, da Hitler a Grillo; titolo che farebbe sorridere se non venisse dallo stesso autore di Donne d’Italia. Da Cleopatra a Maria Elena Boschi (come se uno storico del cinema scrivesse Latin lover. Da Rodolfo Valentino a Er Mutanda).
La serata prosegue con geriatrica lentezza, rassicurante come un documentario di Geo & Geo: l’incontro con B. “quando lui non si occupava di politica ma di televisioni” (“era una delizia”), il giardino con le tombe, il materasso a cuore… Ma l’aneddotica sui mausolei e i bordelli di B. (che peraltro dopo la sfilata delle ragazze a Un giorno in pretura non può più emozionarci) è destinata a interrompersi. La bomba è grossa e Floris sa come innescarla: accertato il decesso del Pd, “tra B. e Di Maio, chi sceglierebbe?”. Scalfari incide su pietra: “Sono tutti populisti tranne il Pd, però il populismo di B. ha una sua sostanza”. Basti pensare alle dentiere e alle am-lire. Soprattutto, “B. è europeista, non sfegatato; mentre Salvini no” (riecco B. argine contro i populisti), ergo “in caso di estrema necessità può allearsi col Pd”, senza Salvini. Senza dimenticare che B. “è un attore-autore, sceglie il tema e lo interpreta, recita il suo testo”. E quindi? Qui Scalfari confessa: “Sceglierei B.”
Ma come? E i 20 anni di antiberlusconismo di Repubblica? E la distanza antropologica? E le 10 domande? E le Se non ora quando?
A noi disillusi, la confessione di Scalfari pare coerente. Logicamente: se non può vincere Renzi, che ha distrutto il Pd e in tre anni di governo ha attuato un programma neoliberista di destra, perché non votare B., che può allearsi con Renzi facendo argine contro gli odiati populisti?
Storicamente: fu lo stesso Scalfari, in occasione degli 80 anni di Berlusconi, a rivelare un retroscena “divertente” della “guerra di Segrate” tra il gruppo Espresso di De Benedetti e il magnate della Tv. Il quale, sconfitto, si rifiutò di pagare le spese legali (si sa come sono fatti questi ricchi quando c’è da pagare). Scalfari: “Dopo molti suoi rifiuti riuscii a persuaderlo promettendogli e dandogli la mia parola d’onore che se lui accettava di pagare le spese legali io l’avrei trattato d’ora in avanti come un socio cioè eventuali notizie che lo riguardassero sarebbero state anzitutto rese note a lui che ne dava la sua interpretazione dopodiché l’inchiesta sarebbe andata avanti”.
Non stupisce che oggi Scalfari difenda l’establishment, rassicurato solo da un’alleanza tra i due migliori, si fa per dire, lazzaroni su piazza. E tutto nel giorno del varo del nuovo font Eugenio! (che a questo punto poteva pure chiamarsi Silvio).
Il Fatto 23.11.17
Giannini si smarca dal fondatore, Calabresi dalla domanda
Ai vertici di Repubblica la scelta del fondatore di riabilitare Berlusconi in funzione anti-grillina semina lo scompiglio. Nella sua rubrica su Radio Capital, Circo Massimo, l’ex vicedirettore del quotidiano, Massimo Giannini, non si trattiene e parte all’attacco. “Bella botta, quando l’ha detto, io ero lì ed è calato un po’ di gelo, mi ha colpito”, esordisce l’editorialista e poi spiega: “Il fondatore è come la magica Roma, non si discute, si ama, dopo di che su questa cosa sono in dissenso da lui perché se ricordiamo quello che è stato Berlusconi e il berlusconismo nella lunghissima avventura di Repubblica onestamente prima di dire scelgo Berlusconi ho qualche difficoltà, sarei prudente”. “Non dobbiamo scegliere per forza tra l’uno e l’altro e possiamo anche insistere nell’accanimento terapeutico di chi vorrebbe una sinistra diversa” auspica Giannini. In serata, a Otto e mezzo su La7 arriva anche il commento del direttore del quotidiano Mario Calabresi, che alla domanda di Lilli Gruber si sfila prudentemente: “Per fortuna hanno fatto una legge proporzionale e non sono obbligato a scegliere l’uno o l’altro”. E alle elezioni a Ostia che avrebbe fatto? Incalza la conduttrice. “Là c’era un problema serio di alleanze, avrei votato Cinque stelle” risponde Calabresi.
Il Fatto 23.11.17
Carattere Eugenio: è B. il male minore
di Antonio Padellaro
Noi del Fatto Quotidiano dobbiamo essere sinceramente grati a Eugenio Scalfari perché pronunciando una sola parola, anzi un solo cognome è riuscito a rendere palese, lampante, solare, assodato, indiscutibile ciò di cui eravamo straconvinti, ma che non riuscivamo a dimostrare fatti alla mano. Un po’ come quell’io so ma non ho le prove di pasoliniana memoria, fatte s’intende le debite proporzioni, poiché l’altra sera a DiMartedì non si parlava fortunatamente di trame golpiste, ma più modestamente delle prossime elezioni politiche.
Tema già abbondantemente trito e ritrito, benché manchi ancora parecchio, finché Giovanni Floris ci ha scossi dal sonno incipiente con un colpo d’ala e un colpo basso che il Fondatore ha incassato da par suo. Cosicché, messo dal bravo conduttore dinanzi a un angosciante rovello, scegliere dio ci salvi tra Berlusconi e Di Maio, il venerando e venerato ospite non ha frapposto indugio e ha esclamato con un sol fiato: “Berlusconi”.
Lo sventurato rispose, avranno pensato nella redazione di largo Fochetti, proprio mentre si stava per mandare in stampa, dopo “un cantiere di ascolto e di riflessione aperto da 18 mesi” (il direttore Mario Calabresi), il marmoreo restyling di Repubblica, atteso pensate da almeno “6 anni”. E che in un nanosecondo il Sommo ha rischiato di mandare, come diciamo dalle parti di Porta Metronia, in vacca. Insieme a quell’antiberlusconismo che, egli ha svelato, non è più nel Dna del giornale: sì lo stesso che un tempo ossessionava il Cavaliere con le dieci domande per mandarlo in galera e che oggi lo blandisce per riportarlo al governo.
Chapeau, abbiamo invece pensato noi attenti studiosi del Tavecchio, e per due motivi almeno. In difesa della libertà di coscienza sulla quale nella chiusa del suo editoriale Calabresi invitava virilmente (per non dire altro) autori e lettori a non fare i furbi: “La parola d’ordine è una sola: scegliere” (e Scalfari infatti ha scelto Berlusconi). Ma soprattutto in onore del carattere di Eugenio, non quello tipografico della nuova Rep, ma del grande giornalista che più passa il tempo e più si concede il raro privilegio della sincerità. A Floris ha evitato di rispondere con gli stucchevoli giochini politichesi del né di qua né di là. E ha invece interpretato con nettezza il nuovo spirito del tempo che impregna Repubblica e il suo mondo di riferimento: meglio Berlusconi dei Cinque Stelle. Che per Scalfari sono il vero problema per non dire una vera jattura.
Ci risiamo con il male minore che però in questo caso non è come il patriottismo, estremo rifugio dei furfanti secondo Samuel Johnson. Sembra piuttosto l’autodifesa da un pericoloso corpo estraneo che non si può controllare. Ai tempi d’oro di Repubblica giornale partito, l’allora padre padrone metteva in vivavoce le telefonate deferenti dei maggiori leader di partito in modo che si sapesse chi era a dettare la linea.
Oggi, se pure quel fulgore si è spento, continua a sopravvivere il giornalismo di relazione che fa sistema con il capitalismo di relazione e con la politica di relazione. Con Berlusconi “populista europeista” (boh) si può parlare, fa capire Scalfari, ci si può mettere d’accordo. E infatti racconta che loro insieme, ai bei tempi, si facevano grandi risate (e magari l’uno strimpellava Douce France e l’altro accennava qualche passo di danza). Onestamente, ce li vedete Grillo o Di Maio che si consultano con Calabresi?
Resta un problemino: secondo tutti i sondaggi, i Cinque Stelle restano il primo partito, con circa tre punti di vantaggio sul Pd e con almeno il doppio dei voti di Forza Italia. Come può Scalfari auspicare un governo tra le due minoranze Renzi-Berlusconi senza con ciò negare il principio di maggioranza fulcro della democrazia rappresentativa? Di questo passo, con un estremo sforzo di sincerità, egli potrebbe anche mettere in discussione il suffragio universale. In fondo cos’è questa storia che un voto vale l’altro? O che ogni testa è un voto, se poi non si guarda cosa c’è dentro quella testa? Del resto, sbagliamo o nei suoi scritti domenicali Scalfari si è dichiarato a favore di un potere oligarchico concentrato nelle mani dei cosiddetti “migliori” e di pochi (non) eletti?
E se quelli che vanno a votare sono sempre di meno, è proprio un male? Soprattutto se poi scelgono i partiti sbagliati?
Il Fatto 23.11.17
Affari e grandi guerre, il triangolo fra Silvio, il fondatore e l’editore
Dalla battaglia per la Mondadori con le sentenze comprate dal Cavaliere agli ultimi tentavi di fare impresa assieme
Affari e grandi guerre, il triangolo fra Silvio, il fondatore e l’editore
di Gianni Barbacetto
Il triangolo no, Berlusconi non l’aveva considerato. Eppure Eugenio Scalfari è riuscito a fare in tv l’elogio dell’ex Cavaliere. “Il populismo di Berlusconi ha una sua sostanza”, ha detto il Fondatore. E alla domanda di Giovanni Floris, “se dovesse scegliere tra Di Maio e Berlusconi, chi sceglierebbe?”, ha risposto senza esitazioni: “Berlusconi”. Il terzo del triangolo è l’Editore, Carlo De Benedetti, che completa un ménage à trois burrascoso ma intenso, che si dipana in quarant’anni di scontri e incontri e scontri. Grandi guerre e improvvise alleanze. In cui, più che il giornalismo, pesano gli affari.
All’inizio – era il 1979 – ci fu un incarico commerciale affidato a Scalfari dalla famiglia Mondadori: vendere a Berlusconi Rete 4, che stava trascinando nel baratro la casa editrice di Segrate. “Berlusconi ci invitò a cena ad Arcore”, raccontò poi il Fondatore, “e fu quello l’inizio non dico di un’amicizia ma di una conoscenza che col passare dei giorni e dei mesi diventò molto cordiale”.
L’agente commerciale Scalfari portò a compimento il suo mandato: “I contatti durarono a lungo, l’affare Rete 4 fu concluso. Ci vedevamo spesso finché lui cominciò ad occuparsi di politica. Per metà diventò socialista (craxiano ovviamente)… Per l’altra metà diventò democratico cristiano, vicino ad Andreotti e a Forlani”. E allora la quasi-amicizia si interruppe, perché Eugenio preferiva De Mita. Scalfari sparò contro Silvio – era il 1990 – articoli in cui lo paragonò a Mackie Messer, il bandito inventato da Bertolt Brecht.
Anche De Benedetti, intanto, aveva incrociato Silvio sulla sua strada. Nel 1985 aveva cercato di portare a casa a buon prezzo la Sme, industria alimentare di Stato. Bettino Craxi chiese a Berlusconi di bloccare a ogni costo l’operazione. Silvio eseguì: gli preparò una cordata concorrente (Barilla, Ferrero, Fininvest) e l’affare sfumò. I due si ritrovarono a fare i duellanti nella “guerra di Segrate”. La Mondadori era diventata di De Benedetti e Repubblica si era integrata nel gruppo. Ma Silvio si era mangiato tutto, anche comprandosi giudici e sentenza. Poi però aveva accettato di spartire il bottino, lasciando Repubblica e L’Espresso a Scalfari e De Benedetti. Ci fu uno strascico: 50 milioni di lire di spese legali.
Non le voleva pagare nessuno, né Berlusconi, né De Benedetti, né Carlo Caracciolo, il principe editore del vecchio Espresso. “A quel punto dovetti intervenire io”, racconta Scalfari, che propose a Berlusconi un baratto. “Riuscii a persuaderlo promettendogli e dandogli la mia parola d’onore che se lui accettava di pagare le spese legali io l’avrei trattato d’ora in avanti come un socio cioè eventuali notizie che lo riguardassero sarebbero state anzitutto rese note a lui che ne dava la sua interpretazione dopodiché l’inchiesta sarebbe andata avanti come sempre accade in tutti i giornali… Il mio impegno durò fino a quando divenne presidente del Consiglio”. Allora sparò un’altra delle sue definizioni: non più Mackie Messer, ma “ragazzo coccodé”, prendendola a prestito da Renzo Arbore.
Nel bel mezzo del ventennio berlusconiano – e dunque anche antiberlusconiano – i duellanti della Sme e della “guerra di Segrate”, De Benedetti e Berlusconi, nemici accerrimi, anche antropologicamente inconciliabili, diventano improvvisamente soci. Nel 2005 De Benedetti fonda la società di investimenti M&C. Mission: salvare imprese in difficoltà. Si diffonde la notizia che vi entrerà, con una quota consistente, anche la Fininvest. La Borsa s’infiamma, il titolo s’impenna, la Consob s’insospettisce e De Benedetti, accusato di insider trading, paga una sanzione di 30 mila euro.
Ma la pubblica opinione, di cui i lettori di Repubblica sono parte, s’indigna: ma come, l’Editore, dopo guerre sanguinose per Sme e Mondadori, fa affari insieme al suo arcinemico? Alla fine Berlusconi si sfila: troppe polemiche, troppe insinuazioni (e forse pochi affari). I duellanti riprendono a duellare. Dopo che una sentenza definitiva stabilisce, nel 2007, che la Mondadori era andata a Berlusconi grazie a una sentenza comprata, De Benedetti avvia una causa civile, chiedendo che Fininvest risarcisca la sua Cir per avergli scippato la casa di Segrate. Porta a casa in primo grado, nel 2009, 745 milioni di euro come “danno patrimoniale da perdita di opportunità di un giudizio imparziale”: a scriverlo è il giudice Raimondo Mesiano, subito messo in ridicolo dalle tv di Berlusconi per via dei suoi imperdonabili calzini azzurri. Nel 2011 il risarcimento a De Benedetti è ridotto a 540 milioni, che diventano 560 con gli interessi. Nel 2013, nuovo ritocco: 494 milioni.
Quando il 29 settembre 2016 Silvio compie 80 anni, Eugenio unisce agli auguri un’autocritica: “Sbagliai, non era affatto il ragazzo coccodé e ce lo ritrovammo sul gobbo per vent’anni. E ancora non è finito”. E allora: “Oggi dovrei fargli gli auguri e infatti glieli faccio anche se non ci parliamo più dal 1994”. Del resto, “debbo dire che invecchiando è migliorato, l’età porta guai ma anche qualche prestigio”.
Sarà la comune senescenza a farli tornare più vicini? Ora Eugenio recupera Silvio come populista “di sostanza” contro il populismo senza qualità dei 5stelle. Si chiude il cerchio. Anzi il triangolo.
il manifesto 23.11.17
Ratko Mladic, quale futuro dopo la condanna?
Aja. La sentenza fa emergere i fallimenti della comunità internazionale. Il primo: la maggior parte dei 83 condannati sono serbi, mentre molti dei crimini di croati e musulmano-bosniaci sono stati tralasciati, così come quelli della Nato. Il secondo:il territorio jugoslavo è oggi diviso proprio sulle linee ottenute grazie a quei crimini
di Daniele Archibugi
Dopo Radovan Karadžic, anche Ratko Mladic è stato condannato dal Tribunale Onu per i crimini nell’ex Jugoslavia. Una condanna perentoria: accusato di genocidio e ritenuto colpevole per quasi tutti i capi di accusa, non poteva che ricevere l’ergastolo.
Il suo più efferato crimine, la strage di Srebrenica del luglio 1995, quando circa ottomila uomini e ragazzi musulmani furono sterminati a sangue freddo, è ben documentato da tanti video, foto e testimonianze, diligentemente raccolte dal Tribunale. Le vedove e le madri musulmano bosniache esultano perché è stato finalmente punito uno dei principali colpevoli. L’opinione pubblica mondiale si compiace perché un altro capo spietato è stato condannato a seguito di un regolare processo.
Una delle tante vittime riunite per ascoltare la sentenza a Sarajevo ha commentato: «È un messaggio mandato a tutti coloro che ritengono ancora che più grandi siano le atrocità commesse e più è probabile farla franca». C’è solo da sperare che il messaggio sia recapitato perché né ad Aleppo né a Raqqa, né tantomeno a Washington e Mosca, è stato finora percepito.
Dopo vent’anni dalla fine delle guerre di Bosnia, la sentenza non può che far emergere i tanti fallimenti raccolti dalla comunità internazionale e dai popoli dei Balcani. Il primo, strillato a gran voce dai serbo-bosniaci, riguarda la parzialità di cui è accusato il Tribunale dell’Onu.
La maggior parte dei 83 condannati dal Tribunale sono infatti serbi, mentre molti dei crimini commessi dai croati e dai musulmano-bosniaci sono stati tralasciati. I serbi sono stati la fazione militarmente più forte e quindi anche più spietata, ma il Tribunale ha anche avvalorato una narrazione secondo la quale i musulmani (e, in minor parte, i croati) fossero le vittime, mentre solo i serbi i carnefici.
Il fatto poi che il Tribunale non abbia indagato sui crimini di guerra commessi dalla Nato durante la guerra del 1999, rendendo vani i tentativi del Procuratore Carla Del Ponte, ha avvalorato la percezione dei serbi che si trattasse di uno strumento creato per punire solamente loro.
Il secondo è, invece, la capacità stessa dei procedimenti penali di facilitare la riconciliazione. Il fatto stesso che all’Aja e a Sarajevo ci siano oggi gruppi che gioiscono e altri che, invece, santificano Mladic come un martire, dimostra che né il Tribunale né tantomeno la cura più antica – l’inesorabile scorrere del tempo – abbiano rammendato le profonde ferite inferte dalla guerra civile.
Siamo così di fronte ad una situazione paradossale: da una parte Mladic, come Karadžic prima di lui, è fermamente condannato per i crimini di guerra commessi. Dall’altra, il territorio è oggi diviso proprio sulle linee ottenute grazie a quegli stessi crimini. Le sentenze del Tribunale sembrano dunque lacrime di coccodrillo versate da chi non ha avuto il coraggio di impegnare maggiori mezzi e risorse per evitare che la guerra civile divampasse fino a prendere quelle atroci dimensioni.
Si deve oggi invocare la riconciliazione dal basso, quella che fa presente che tutte le etnie hanno subito crimini disumani, tanto che dalla guerra civile non è scaturito alcun vincitore, ma solo vinti. Ma anche che capi sanguinari come Mladic sono stati possibili solamente perché ci sono stati migliaia di fanatici disposti a seguirlo. Oggi lo offrono come capro espiatorio di una follia collettiva, assolutamente necessario affinché i nuovi stati scaturiti dalla ex Jugoslavia possano partecipare al banchetto offerto dall’Unione Europea.
Anche in Ruanda ha operato un Tribunale ad hoc dell’Onu, che ha potuto condannare solo poche decine di colpevoli. Ma in Ruanda, anche grazie all’ispirazione proveniente dal Sudafrica di Nelson Mandela, i processi penali sono stati poi accompagnati da capillari azioni di condivisa riconciliazione, le cosiddette Corti Gacaca, che hanno raggiunto ogni villaggio. In tutti i territori della ex Jugoslavia, tentativi simili si sono infranti per la mancata disponibilità a riconoscere le sofferenze degli altri.
Ci vorrà ben altro di una sentenza per ricostruire una comune narrazione del passato e, ancor di più, per rendere possibile la coabitazione futura. Lo aveva forse intuito già nel 1994, prima di tanti altri, la figlia di Mladic, Ana. Dopo aver perso il proprio fidanzato al fronte, decise di spararsi con la pistola del padre a soli 23 anni. Oggi la sentenza che ha condannato suo padre ha reso giustizia anche a lei.
*Co-autore di Delitto e castigo nella società globale. Crimini e processi internazionali, Castelvecchi, 2017
Il Fatto 23.11.17
“Mladic i nostri vicini serbi continuano a osannarlo”
I sopravvissuti alla “pulizia etnica” felici, ma hanno ancora paura dell’ideologia anti-musulmana che è rimasta intatta
“Mladic i nostri vicini serbi continuano a osannarlo”
di Cecilia Ferrara
“È tutta una bugia! È tutta una bugia!” Ratko Mladic dà in escandescenze quando il giudice del Tribunale Penale Internazionale dell’Aia, Alfonso Orie, decide di andare avanti con la lettura della sentenza anche se l’imputato, aveva tentato di posporla per problemi di salute, ipertensione, aveva detto l’infermiera. Ma a 22 anni dalla prima incriminazione nemmeno i giudici di un tribunale così pachidermico e controverso come il Tribunale dell’Onu per i crimini di guerra in ex-Jugoslavia poteva più aspettare.
L’ex generale dell’esercito serbo-bosniaco è stato condannato all’ergastolo per 10 degli 11 capi di accusa che gli sono stati contestati, tra cui genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Mladic era un militare di carriera dell’esercito jugoslavo che allo scoppio della guerra in Bosnia-Erzegovina è diventato il generale del neonato esercito serbo-bosniaco. Assieme a Radovan Karadzic leader politico dei serbi di Bosnia è stato l’ideatore della “pulizia etnica” dei territori della Bosnia-Erzegovina che secondo loro erano terra serba. Dovevano quindi essere deportati o eliminati i bosniaci musulmani e i croati che vi risiedevano. È lui che comanda l’assedio di Sarajevo: “Bombardateli fino a che non diventano matti”, dice in una registrazione telefonica dell’epoca. È lui che conquista l’enclave protetta di Srebrenica, strapiena di profughi da tutta l’area, entra in città accarezzando i bambini dichiarando la città “liberata”.
Il resto è storia. La separazione delle donne e i bambini dagli uomini (dai 12 anni in su) e lo sterminio avvenuto in pochi giorni. La prima incriminazione di Mladic da parte del tribunale dell’Aja è del 24 luglio 1995 e lui verrà arrestato in Serbia dopo una lunga latitanza solo nel2011.
“Da una parte ci aspettavamo l’ergastolo, dall’altra avevamo paura che per pressioni politiche gli dessero 40 anni come a Karadzic, che è un messaggio molto diverso”. A parlare è Azra Ibrahimovic, originaria di Srebrenica che oggi lavora in Bosnia Erzegovina con l’Ong Cesvi. “Quello che mi preoccupa sono i messaggi che si sentono dall’altra parte, quella dei serbi di Bosnia, dove lui viene glorificato viene chiamato eroe, nonostante la sentenza di oggi. Milorad Dodik, presidente della Republica Srpska ha dichiarato ieri che è un generale che ha fatto il suo lavoro con professionalità e onore, che lavoro è quello di compiere un genocidio e di sparare su civili? Questi sono i politici che dovrebbero guidare processi di integrazione e pace. Difficile parlare di futuro se siamo prigionieri di persone che vivono nel passato”.
Ogni sentenza per Azra è comunque un dolore. Ha perso il padre e il fratello in guerra, solo i resti del fratello sono stati ritrovati nel 2007 in Serbia “Hanno buttato il suo corpo nella Drina il fiume che separa la Serbia dalla Bosnia-Erzegovina e qualcuno lo ha tirato su e buttato in una fossa comune”. È stata profuga in Serbia, Macedonia prima di tornare in Bosnia e entrare addirittura nella Sarajevo assediata per fare un anno di magistrale. “È stato per inat – racconta – per dispetto, volevo continuare a seguire i miei desideri nonostante la guerra”. Anche la vita del ‘dopo’ non è stata facile: “Per tanto tempo non ho voluto parlare con i compagni serbi che mi trovavo all’università, ho lavorato molto su queste paure tanto che oggi la mia migliore amica è serba”. Più che un giudice insomma poté l’amicizia.
Il Fatto 23.11.17
Dalla macelleria bosniaca alla figlia morta suicida
Mladic Karadzic
di Pierfrancesco Curzi
Eccoci nella Srebrenica serba, alla vigilia di una grande festa. Oggi regaliamo al popolo questa città. Dopo le violenze dei turchi del XIX secolo, è arrivato il momento di prenderci la rivincita contro i musulmani”. Così parlava il generale serbo-bosniaco Ratko Mladic l’11 luglio 1995 a Srebrenica in un video amatoriale, nel mezzo del genocidio passato alla storia come il più grave in Europa dopo la Shoah. Le milizie paramilitari serbe si lasciarono andare alla mattanza: uccisi oltre 10 mila uomini dagli 8 agli 80 anni. Ieri la Corte Penale Internazionale ha condannato Mladic all’ergastolo.
La carriera militare di Mladic è stata caratterizzata da violenza ed efferatezza sin dall’inizio. Il macellaio di Knin, il boia di Srebrenica, la belva di Žepa e perché no, il terrore di Sarajevo.
Già a 22 anni, all’epoca del primo incarico di rilievo in Macedonia, quando la Jugoslavia era tutta unita sotto Josip Broz ‘Tito’, l’allora tenente Mladic aveva mostrato doti fuori dal comune. Ma l’inizio della sua carriera di criminale in divisa risale agli albori dei conflitti balcanici, tra il 1990 e il 1991. Al tempo la vittima era la Croazia, rea di aver chiesto, e ottenuto, l’indipendenza da Belgrado. Con l’armistizio di Karageorgevo tra Slobodan Miloševic e Franjo Tudjman, leader di Serbia e Croazia, la Bosnia divenne la vittima sacrificale e fu qui che, Mladic assieme alle milizie nazionaliste serbe e croate, diedero vita alla ‘soluzione finale. Il generale Mladic lo ritroviamo in tutti gli scenari di violenza in Bosnia, compresi Foca, Goražde, Višegrad. L’11 luglio 1995 Mladic annunciava la conquista di Srebrenica, pedina di scambio con le autorità internazionali per porre fine al conflitto. Da lì la fuga (assieme al compare di una vita, l’ideologo Radovan Karadžic), e la latitanza, durata 16 anni, fino al maggio 2011.
Nato a Bozanovici, un paesino bosniaco etnicamente serbo, dove murales e slogan inneggiano al suo illustre cittadino, Mladic morirà quasi sicuramente in una cella dell’Aja. Come Miloševic. Prima di esalare l’ultimo respiro, magari ripenserà alla figlia Ana, suicida a 23 anni dopo aver scoperto il lato oscuro del padre.
La Stampa 23.11.13
Don Sturzo, l’economia libera trova il suo “santo” patrono
Domani si chiude la fase diocesana del processo di beatificazione del fondatore del Partito popolare che criticò aspramente lo statalismo
di Alberto Mingardi
Difendere la libertà economica come si difende la libertà politica, perché l’una non può esistere senza l’altra; fare per la libertà economica anche il sacrificio dei propri privilegi; non avere paura della libertà, se questa comporta rischi e obbliga ad assumere responsabilità». Don Luigi Sturzo divenne senatore a vita nel 1952. Quella nomina era un omaggio di Luigi Einaudi, Presidente della Repubblica e in sintonia col fondatore del Partito popolare. A molti non dispiaceva riporre Sturzo nella nicchia angusta dei padri della patria. Aveva trascorso il ventennio in esilio, prima in Inghilterra e poi negli Stati Uniti. Rientrato in patria, non si contentò di diventare un monumento. «Dal giorno che, dopo lunghi anni di attesa, potei baciare in terra italiana, mi sentii chiamare da amici e da estranei: maestro. Non posso esprimere il disturbo e il fastidio che mi ha dato questo appellativo inaspettato».
Partecipò al dibattito pubblico, scrisse, perse la solidarietà politica dei cattolici per rimanere fedele a se stesso. «Parlo, scrivo, combatto perché sono un uomo libero e perché ho difeso e difenderò, finché avrò fiato, la libertà».
Dagli scritti degli Anni Cinquanta, pubblicati alcuni anni fa per iniziativa di Guido Roberto Vitale in un bel volume curato da Giovanni Palladino e con prefazione di Massimo Cacciari (Il pensiero economico), emerge uno Sturzo che aveva capito ciò che i suoi concittadini vedranno chiaramente soltanto quarant’anni dopo, con Tangentopoli: che lo statalismo avrebbe diffuso la corruzione. Per questo egli criticò l’Eni di Enrico Mattei e più in generale l’economia «a mezzadria pubblico-privata».
Quest’ultima era un equilibrio precario: la componente statale, previde Sturzo, avrebbe ristretto gli spazi dell’economia libera e piegato anche le imprese propriamente dette ai suoi bisogni. In questo modo, «lo Stato di diritto va scomparendo: abbiamo al suo posto i piccoli e grandi Eni, i piccoli e grandi Iri e il ministero delle Partecipazioni».
Con lucidità, Sturzo aveva anche ben compreso come la nazionalizzazione delle banche avrebbe portato alla «politicizzazione» del credito, peggiorando l’efficienza del sistema economico. Le aziende avrebbero subito la tentazione di avvicinarsi al potere per godere di credito facile e, dal momento che la prossimità alla politica avrebbe assicurato una corsia preferenziale per realizzare i propri progetti, gli imprenditori si sarebbero adoperati per intercettare la benevolenza dei politici. Questo significava la paralisi dello spirito di iniziativa «per fare del cittadino un funzionario di grandi e piccoli enti, con la sola ambizione della promozione, del trasferimento, della gratifica». Il danno principale dello statalismo sarebbe stato «nel campo della formazione psicologica di un popolo».
Per questo, come ha ricordato Nicola Antonetti, «Sturzo pensò che il cortocircuito tra partiti e vita sociale andasse spezzato alla sua origine». Egli promosse un disegno di legge per evitare che i partiti fossero finanziati da aziende di Stato o da imprese che allo Stato dovevano una concessione (finanziamenti che «per la loro origine e per il loro carattere particolare» renderebbero i partiti «conniventi» con tali interesse). Le cose, com’è noto, sono andate diversamente.
Domani si chiude la fase diocesana del processo di beatificazione di don Sturzo. L’importanza del monumento non è in discussione. In pochi riescono a non ammirare l’uomo che ha immaginato per i cattolici un impegno politico trasparente, superando il «non expedit», e poi il nemico della dittatura. Ma la grandezza di Sturzo sta anche nella sua lucidità. A quasi sessant’anni dalla sua morte non abbiamo smesso di «enizzare e irizzare» l’economia italiana. Le sue polemiche serrate contro l’industria siderurgica che strepitava contro la Ceca, la comunità europea del carbone e dell’acciaio, sembrano fatte apposta per i discorsi di oggi, quando l’aggettivo «strategico» viene distribuito dalla politica con grande generosità a questo o quel settore imprenditoriale.
Va da sé che nel processo di beatificazione conta ben altro che il pensiero politico. Tuttavia la libertà economica può forse trovare, finalmente, il suo Santo Patrono. Dio solo sa, è il caso di dire, quanto ne abbia bisogno.
Corriere 23.11.17
Il penitente
Accuse e gogna giudiziaria per lo psichiatra Barbareschi
di Franco Cordelli
Di che parla Il penitente di David Mamet che Luca Barbareschi ci propone all’Eliseo di Roma con la sua regia? Cito Barbareschi: «Descrive l’inquietante panorama di una società così alterata nei propri equilibri che l’integrità del singolo, anziché guidare le sue fulgide azioni costituendo motivo di orgoglio, diviene l’aberrazione che devasta la sua vita e quella di chi gli vive accanto. La storia è quella di un medico che subisce una gogna mediatica e giudiziaria a seguito dell’atto omicida di un suo giovane paziente». Ci sono qui tre parole importanti: l’aggettivo fulgide, il sostantivo aberrazione e il sintagma gogna mediatica.
Tutti e tre mettono a fuoco o, al contrario, rischiano di fuorviare l’attenzione dal nodo (o conflitto) della vicenda. Fulgide è troppo: le azioni dello psichiatra Charles sono normali, quelle inerenti alla sua professione: essere fedele al giuramento di Ippocrate, mantenendo il riserbo riguardo ciò che il paziente poi divenuto assassino gli ha detto.
Aberrazione viene da un altro eccesso, quello compiuto dalla stampa nell’aver scritto che Charles dichiarò l’omosessualità un’aberrazione e non già, come davvero disse, un adattamento. Questo eccesso è ciò che produce la gogna mediatica, come la chiama il suo amico e avvocato Robert. Basterebbe una ritrattazione. Anzi, meglio: per sciogliere l’equivoco basterà consegnare al tribunale chiamato a giudicare le azioni del ragazzo assassino gli appunti presi nel colloquio con lui. La gogna mediatica non è che un normale procedimento del nostro mondo: spostare in un angolo il carnefice e mettere al suo posto la vittima (reale o potenziale), tramutare la vittima in un nuovo carnefice.
Torniamo a «fulgide». Sono davvero tali le scelte di Charles nel suo rifiuto di testimoniare per l’innocenza (relativa) o la colpa del ragazzo? Non ha sempre difeso i suoi pazienti? Non si è accorto che ha distrutto la vita sua e della moglie? Ella ora è in ospedale, si era rifugiata tra le braccia di Richard.
A un certo punto Charles dice che il suo nome ha un «valore inestimabile». Questo, pensiamo, è vero in genere. Ma quando alla fine egli parla del suo pentimento non sta ammettendo di aver compiuto un peccato di orgoglio, di aver troppo creduto negli aggettivi, fulgide o inestimabile? Egli è come Antigone, ha il suo stesso problema: il mio credo contro quello dello Stato. Ma Antigone non si pente, è greca; Charles si pente, è ebreo.
Il nocciolo della faccenda è questo. È ciò su cui Mamet e Barbareschi invitano a riflettere. Barbareschi per tutto il tempo ha sul capo la kippah così sottolineando che le azioni di Charles hanno un rapporto se non con una piena fede, almeno con la ricerca di Dio o, come la chiama lui, della saggezza. Si possono non condividere le scelte di Barbareschi come gestore di teatro, difficile discuterlo come interprete. Accanto al regista ci sono Lunetta Savino, Massimo Reale e Duccio Camerini. In scena solo un tavolo e due sedie: è spoglia, come in tutto il teatro (e il teatro-danza) contemporaneo