Il Fatto 23.11.17
Caccia alle fonti dei cronisti. Libertà di stampa in pericolo
La
carica delle Procure - Redazioni e case private perquisite, l’ultimo
caso è Nicola Borzi del Sole24Ore: autore di un’inchiesta sui soldi dei
Servizi segreti
di Giorgio Meletti
Una serie di
decisioni illegittime di diverse procure della Repubblica stanno di
fatto abrogando il segreto professionale dei giornalisti. Basta il
semplice sospetto di una minima violazione di segreto d’ufficio e scatta
la perquisizione per scoprire le fonti del giornalista. È una pratica
più volte censurata dalla Cassazione e ancor più energicamente
condannata da norme e sentenze europee. Eppure accade sempre più spesso.
Il
fenomeno si traduce, al di là della buona fede dei singoli magistrati,
in una pressione per tutti i giornalisti. Il messaggio è chiaro: se
scrivi una parola di troppo puoi trovarti gente in divisa che fruga tra i
giocattoli dei tuoi bambini o che si prende il tuo telefonino e
cartografa comodamente tutte le tue relazioni e tutte le tue fonti.
Anche chi si affida al segreto professionale del giornalista, imposto
dalla legge e tutelato anche dal codice di procedura penale, è
avvertito: se vai a raccontare qualcosa anche senza commettere niente di
illecito, sappi che prima o poi potrebbe esserci un carabiniere, un
poliziotto o un magistrato che potrà ricostruire tutti i tuoi contatti
con il giornalista.
L’ultimo caso risale alla sera di venerdì 17
novembre. Gli uomini della Guardia di Finanza, su ordine del procuratore
capo di Roma Giuseppe Pignatone, si sono presentati nella redazione del
Sole 24 Ore a Milano, con un decreto di acquisizione di documenti per
il giornalista Nicola Borzi. Quella mattina il giornale aveva pubblicato
il secondo di due articoli di Borzi sui movimenti dei conti correnti
dei Servizi segreti presso la Banca Popolare di Vicenza. Secondo
Pignatone chi ha fornito i documenti al giornalista (che non è indagato
ma solo testimone) ha violato il segreto di Stato, un grave reato che
può costare fino a dieci anni di carcere. Borzi ha consegnato i
documenti richiesti in una chiavetta, ma i finanzieri per maggior
sicurezza hanno smontato il disco rigido del suo computer
sequestrandogli tutto il suo archivio, le sue email, insomma tutti gli
strumenti di lavoro.
La stessa sera del 17 novembre, a Roma,
trattamento simile ha ricevuto Francesco Bonazzi, giornalista de La
Verità, che aveva scritto sullo stesso argomento il giorno prima di
Borzi. Bonazzi però se l’è cavata consegnando una chiavetta con i
documenti richiesti e sottoponendosi a un lungo interrogatorio da
testimone non indagato. Per entrambi i giornalisti il solito
trattamento, la richiesta in nome della Legge di violare la legge che
vieta di rivelare le fonti.
Colpisce il silenzio che ha circondato
anche l’ultimo di una lunga serie di episodi. Neppure il direttore del
Sole 24 Ore Guido Gentili ha fatto alcun commento. Borzi è una delle
principali fonti d’accusa nell’inchiesta sul falso in bilancio del Sole
24 Ore, per la quale ha presentato numerosi esposti.
Eppure,
l’Ordine nazionale dei giornalisti non ha speso una parola, limitandosi a
riprendere sul suo sito la protesta dell’Ordine della Lombardia, come
se fosse una vicenda di interesse regionale. Salvo poi indicare come
focus di principale interesse nazionale la libertà di Stampa a Ostia. Il
racconto confezionato da giornali e telegiornali considera il lavoro
giornalistico messo a repentaglio più che altro dalla testata al
giornalista precario della Rai Daniele Piervincenzi, dalle minacce
mafiose a Paolo Borrometi dell’Agenzia Italia o dal disprezzo di Beppe
Grillo per i “giornalisti da 10 euro al pezzo”. Fatti gravissimi.
Tuttavia essi non sono causa ma effetto di un fatto molto più grave: se
la libertà di stampa è messa in discussione dalla magistratura a chi
potremo rivolgerci per difenderla?
Purtroppo una politica capace
di evocare a vanvera la “emergenza democratica” si gira dall’altra
parte. Purtroppo molti credono che la libertà di Stampa, il cui
principale baluardo è la segretezza delle fonti, sia un privilegio dei
giornalisti e non una garanzia per tutti.
Peggio ancora, molti
giornalisti, quando viene perquisita una redazione concorrente, pensano
che la cosa non li riguardi. E ci sono quelli che non reagiscono neppure
quando viene perquisita la scrivania accanto alla loro. Così, quando il
30 giugno scorso la Procura di Napoli ha ordinato illegittimamente la
perquisizione a tappeto di tutta la famiglia del vicedirettore del Fatto
Marco Lillo, molti, soprattutto i garantisti a 24 carati, hanno pensato
che gli stava bene. Blande reazioni anche il 21 luglio, quando la
Guardia di Finanza si è presentata a casa di Gianluca Paolucci de La
Stampa.
Il suo racconto: “Restano in casa per due ore frugando
dappertutto, tra i giocattoli dei bambini, nella culla, negli effetti
personali della mia compagna (…) Sequestrano cd, chiavette Usb, vecchi
telefonini in disuso”. Due settimane dopo, il procuratore capo di Torino
Armando Spataro scrive una lettera di scuse a La Stampa: la denuncia
dell’Unipol da cui era scaturito il blitz era sbagliata, le
intercettazioni erano state rese pubbliche non da un reato del
giornalista ma dall’errore di un magistrato.
Anche le
intercettazioni tra Matteo Renzi e il generale della Gdf Michele
Adinolfi, due anni fa, costarono a Vincenzo Iurillo del Fatto
l’acquisizione da parte degli inquirenti di tutto il contenuto del suo
computer, salvo poi scoprire che l’unico atto illegittimo era stato
l’attacco alla memoria informatica del giornalista.