Il Fatto 19.11.17
Massimiliano Bruno“Il mio mondo è ancora dei radical chic con il loro champagne e le tartine”
Regista, sceneggiatore e scrittore: “I maestri sono finiti, comanda il pubblico”
di Alessandro Ferrucci
Roma.
Testaccio. Appuntamento in un bar. C’è un solo tavolino occupato da un
signore infagottato da un piumino scuro, barba leggermente incolta,
capelli rasati ai lati e una lunghezza improbabile (quasi imbarazzante)
sulla fronte. Dopo un minuto lo stesso signore alza la mano: “Sono io,
sono Massimiliano Bruno”. Eh? “Lo so, quasi mi vergogno, ma sto girando
un film: interpreto un fascistone paraplegico. Devo stare così fino al 4
dicembre. Meglio se metto il cappellino?”. Come preferisce. “Sì, lo
infilo”. Con la testa coperta torna (in parte) la fisionomia di uno dei
protagonisti della nuova commedia italiana, attore, sceneggiatore,
regista e ora scrittore con Non fate come me, uscito per Rizzoli, opera
prima “superiore pure ad alcuni film da me diretti”.
Addirittura.
È una delle esperienze più belle: ne sono orgoglioso.
Perché?
Qui
sono stato totalmente sincero, e c’è una grande differenza tra un
romanzo e una sceneggiatura: nei film hai un produttore, un
distributore, un mercato del quale tenere conto.
Ha scritto: “Odio essere qualunquista, mediocre e scontato. Odio essere come gli altri ma lo sono”.
Pensavo a me: credo di essere un bravo autore, ma non mi sono mai ritenuto un genio.
Il genio lo riconosce?
Sì e non lo invidio: piuttosto ammiro.
E non cerca di “rubare” qualcosa?
Siamo
proprio su altri piani: mi è capitato di pietrificarmi davanti a un
quadro di Rothko, braccato da una sorta di sindrome di Stendhal.
Nel cinema?
Penso a Godart.
Woody Allen?
Lo invidio perché dietro c’è un grande lavoro: ha alimentato il genio grazie alla cultura. Quello che dovrei fare io.
Al liceo come andava?
Ho
studiato il Classico e con buoni risultati, ero uno serio, giudizioso.
Ma se nel cinema vuoi dire di più, devi sapere di più, devi
approfondire, andare oltre, investire tempo e risorse; non è un caso se
fino a qualche anno fa i registi venivano chiamati maestri.
Mentre oggi…
Da
un trentennio, in Italia e in tutto il mondo occidentale, gli autori e i
produttori hanno iniziato a chiedersi ‘che cosa vuole il pubblico?’.
Nel momento in cui ti poni questa domanda non sei più un ‘maestro’:
comandano loro.
Per le sue commedie anche lei si sarà posto quella fatidica domanda…
Solo
in alcun progetti, soprattutto quando scrivo per la televisione: in
quel caso decide l’Auditel. Meno quando realizzo film come Gli ultimi
saranno ultimi, o Viva l’Italia.
Dal libro: “Devo saper dire di no…”.
Non
l’ho detto abbastanza e in troppe circostanze: delle volte il
tornaconto di un amico, di un parente o di una fidanzata è diverso dal
tuo, e tu pur non dire di no, per sentirti accettato, vai contro te
stesso.
E nel cinema?
Il discorso è differente: in quel caso
quando cedi al compromesso, hai anche la tua convenienza; magari prendi
un attore perché pensi possa dare più visibilità al film.
Vista la sua origine d’attore, quando è regista come tratta i colleghi?
Sono amoroso. Ho talmente sofferto per i provini, le urla, i modi irosi e assurdi…
L’hanno trattata male?
È
capitato. Magari vai lì e trovi un regista che non ha tempo da perdere,
nervoso, risoluto e basta sbagliare una battuta per scatenare
l’impossibile: ‘Che cazzo ci vieni a fare!’. Mentre tu balbettando provi
a spiegare che ti sei lasciato con la donna, stai male, magari hai la
febbre… a volte credo che gli attori siano dei supereroi.
In questo periodo si racconta di un altro tipo di provini…
Questa storia dello scandalo sessuale è terribile: se è vero, chi ha molestato deve pagare, ci mancherebbe…
Però?
Sono
dispiaciuto, non posso rinnegare l’amicizia con Fausto Brizzi: è lui
chi mi ha permesso di fare cinema e questo dramma non me lo aspettavo.
Zero assoluto.
I suoi provini da regista?
Sempre con la
telecamera, e nei miei film sono rare le scene di nudo: una volta Paola
Cortellesi mi ha chiesto la controfigura. Accontentata.
Torniamo ai supereroi…
Non
penso a tutti, ma a quelli bravi, quelli che insistono, si preparano,
soffrono con e per il loro personaggio. Un esempio? Mesi fa ho
realizzato la regia di Sogno di una notte di mezza estate e nel cast
c’era Stefano Fresi: durante le prove l’ho interrotto in continuazione,
lavorato sul particolare, sulla semplice variazione, magari su come
puntare un dito. Non ha mai mollato. Non si è mai lamentato. Mai. E
vedere la sua attenzione rispetto alle mie direttive, mi ha emozionato.
Al suo posto sarei andato in paranoia.
Non avrebbe retto?
No. Infatti la mia attività d’attore è passata al terzo gradino.
Gli altri due?
Sceneggiatore e regista.
Soffre proprio davanti alla macchina da presa…
Per
questo i miei amici registi, come i Manetti Bros, mi utilizzano da
modello ‘pronto soccorso’: sono il perfetto sostituto degli attori che
saltano. Accade pure nei miei film.
Nella pallacanestro avrebbe il ruolo di sesto uomo…
In
Viva l’Italia all’ultimo momento abbiamo perso uno dei protagonisti,
così ho vestito i panni dell’anchorman; stessa storia per Confusi e
felici: Lillo (di Lillo e Greg) ha dato buca, Stefano Fresi non era
disponibile, il personaggio era in sovrappeso, quindi eccomi. Però mi
devono coinvolgere con uno spirito particolare.
Quale?
In
amicizia. Allora va bene. Perché metto sempre le mani avanti, e
dichiaro: ‘Oh, lo sapete, non mi ricordo mai un cazzo, quindi non mi
potete rimproverare, in fin dei conti mi avete cercato voi…’.
Memoria zero.
Pochissima. Quando ho girato Boris mi hanno lasciato libero.
Francesco Pannofino ha raccontato che per anni i fan di Boris vi hanno fermato per ripetervi le battute della serie…
Sempre.
A Carlo De Ruggieri non so quante volte gli hanno urlato ‘a mmerda!’;
mentre io sentivo ovunque ‘bucio de culo’. Però Boris è il massimo.
Pannofino ha annunciato il possibile ritorno…
Quanto
mi piacerebbe! Ogni tanto sogno di ricevere una telefonata dagli
autori, tre amici talentuosissimi, che mi dicono: ‘Dai, si torna sul
set’. Lo farei gratis. Mi sono divertito tanto, e lo considero un pezzo
di televisione italiana, un microcosmo del nostro Paese.
Qualcuno l’ha mai chiamata “maestro”?
A
me? Ma se non capita neanche a Sorrentino. E comunque con questo clima
che c’è sul cinema, la possibilità mi sembra proprio lontana.
Nel frattempo i francesi realizzano le loro commedie, ispirandosi alla nostra storia del cinema. Mentre gli italiani…
La
commedia all’italiana è irripetibile, non ci sono più i fasci e i
compagni, non c’è più il Dopoguerra, non si va neanche più allo stadio: è
morto quell’humus che ci ha accompagnato dalla fine del Secondo
conflitto fino agli anni Ottanta.
E ora?
Pare anacronistico
realizzare una pellicola su un operaio, si vive poco la fabbrica; oggi i
film di Elio Petri sono quasi dei documentari storici.
È più difficile far ridere che piangere…
È
così. Scatenare meccanismi di divertimento è un’arte, la commozione va a
toccare delle corde personali presenti dentro qualsiasi persona:
solitudine, lutto, vessazione.
Però il “dolore” è più considerato della commedia…
Perché
nella commedia uno si domanda: ‘Come posso piacere anche alle persone
più semplici?’ e le persone semplici non interessano a chi ha la puzza
sotto il naso… tanto c’è sempre un radical pronto a scocciare.
I celebri radical chic…
Sono cresciuto tra loro: quando ti occupi di cinema, teatro, cultura in generale, li trovi ovunque.
Sono ancora quelli rappresentati da Virzì in Ferie d’agosto?
No,
quella tipologia non esiste più; Paolo ha raccontato i borghesi dentro
la sede del Pci; ora invece ci sono gli atticisti, come li disegna
Stefano Disegni, gli stessi rappresentati da Sorrentino ne La grande
bellezza: bevono champagne, mangiano tartine e parlano di fascismi.
In molti suoi film c’è Rocco Papaleo.
Con lui ho condiviso pure pane e cipolla; ci siamo esibiti in teatri piccoli, dove guadagnavamo veramente poco.
Quanto poco?
Cinquantamila lire; a volte andavamo lisci, niente paga.
Come sopravvivevate?
In
ogni modo, in un periodo incrociavo non so quante situazioni: dal
doppiaggio di personaggi ultra-secondari, tipo il tizio di passaggio
dentro un supermercato, alla voce narrante in quei cd-rom in vendita
all’edicola: spiegavo i programmi nel computer (e improvvisa: “Bene, ora
premete il tasto control-alt. Ora andate avanti…”); quindi la mattina
al teatro, e di corsa a un altro spettacolo serale.
E Papaleo?
Era
anche un grande fomentatore delle serate romane; con lui ho passato dei
momenti storici dentro a Il Locale di Roma (storico disco-pub vicino
piazza Navona, nato nei primi anni Novanta).
Ne “Il Locale” non c’era solo Papaleo…
No,
da lì è nata e cresciuta un’intera generazione di artisti: Daniele
Silvestri, Niccolò Fabi, Max Gazzè, Frankie Hi-Nrg, Riccardo Sinigallia,
Sergio Cammariere…
Anche attori.
Eccome: Valerio
Mastandrea, Edoardo Leo, Angelo Orando, Rolando Ravello, Raul Bova,
Marco Giallini… Ah, per dare una misura: Francesco Favino era il
buttafuori. Stavamo tutti lì, solo che non ci conosceva nessuno.
Poi, un giorno…
Valerio
iniziò ad andare al Costanzo show, per Daniele il suo primo Sanremo,
per me un contratto per scrivere le fiction su Canela 5 e Paola
Cortellesi a Mai dire gol.
Quindi la Cortellesi la conosce da molto…
Nei
primi anni Novanta sento bussare al camerino: ‘Sei bravissimo, ti posso
invitare al mio spettacolo?’. Ci innamorammo artisticamente, e nel 1996
eravamo sullo stesso palco con Cose che capitano: tre anni di tournée.
Dei tempi de “Il locale”, chi era il più talentuoso?
Daniele
Silvestri era già un capobranco, uno figo: ha sempre avuto coraggio e
cultura, poi Frankie, uno veramente ribelle. Quando ha scritto Quelli
che benpensano ci siamo sentiti pervasi da un senso di orgoglio
generale, come se fosse anche un po’ nostra… Come attori il nostro punto
di riferimento era Angelo Orlando, lo reputavamo un genio, ma in Italia
non è stato capito. Ora vive a Barcellona.
Di chi è il maggiore salto di qualità?
Valerio.
Lui è cresciuto in maniera straordinaria: se me lo avessero detto
vent’anni fa, forse non ci avrei creduto, e ha imparato il cinema
attraverso il cinema. Gli voglio bene. Negli anni Novanta abbiamo
scritto il soggetto di un film, si chiama Suerte.
Dov’è finito?
Mai
trovato i soldi. Era la storia di due fratelli, il suggello della
nostra amicizia nonostante io sia juventino, aspetto da lui non
tollerato (Mastandrea è romanista).
Di cosa trattava il film?
Del
subcomandante Marcos, eravamo fissati, ci piaceva la sua rivoluzione.
Poi in quel periodo era morto il mio più caro amico, dovevo fuggire,
così chiamai Valerio: ‘Non possiamo scrivere una sceneggiatura senza un
sopralluogo: partiamo per il Messico!’. E lui: ‘Ciccio, ma che sei
scemo? Io sono andato solo una volta a Madrid e già con due ore di aereo
mi sono venuti gli attacchi di panico!’. Insomma, mi sono imbarcato da
solo e via per tre mesi… non avevo i soldi di oggi.
La sfrutta questa maggiore disponibilità economica?
Macché. Una volta viaggiavo senza una lira, ora non viaggio nonostante il conto in banca.
Lei ha un nucleo di attori feticcio…
Sono
un gruppo di amici. Come attrice ho Paola (Cortellesi), tra gli uomini
c’è Rocco (Papaleo) perché lo stimo, mi fa ridere e mi tratta veramente
da fratellino; poi Alessandro Gassmann: mi commuove il suo percorso, non
è facile essere il figlio del più grande attore italiano di sempre,
eppure è diventato proprio bravo.
Si percepisce il suo percorso?
Oggi
è molto più libero, si butta. È forte. Autonomo. Ligio. Uno sul quale
puoi contare sulla scena: nel giro di tre ciak ti dà quello che serve.
Ah, pure Marco Giallini.
Lui perché?
È estroso, folle, se ti
deve mandare a quel paese non ci pensa un secondo; è come se stesse
sempre con indosso il giubbotto di pelle e seduto per strada sulla sella
della moto. Però le sue critiche non sono mai pretestuose, ma
costruttive, ha un cuore d’oro, lui c’è sempre.
Un suo maestro.
In
quanto a sceneggiatura penso a Ugo Pirro. Mi ammoniva sempre: ‘Occhio,
ci metti un attimo a cadere, basta sbagliare un film e sei finito:
l’anno dopo hai la metà del budget’. Per questo non sottovaluto nulla,
sto attento a ogni aspetto, esattamente come ai tempi in cui con Paola
ci montavamo il palco da soli e per i chiodi ci dava una mano Libero De
Rienzo.
Lei oggi com’è rispetto a quando era ragazzo?
Mi
sono trasformato. Ero molto narcisista, volevo diventare chissà chi,
cercavo l’affermazione personale. Ero più battagliero. Ora no. Mi sono
anche commosso quando Paolo Genovese ha conquistato il David con
Perfetti sconosciuti; ho pensato: ‘Bravo, hai catturato l’occasione
della vita, hai piazzato il tuo calcio di rigore decisivo’.
E il suo di rigore?
Non è ancora arrivato. Ma io non so quanto valgo.
(Come canta Francesco De Gregori: “Nino non aver paura…”).