il manifesto 19.11.17
Plutarco, perché questo erudito moderato ci attrae
Classici
antichi. Infinita varietà dei temi trattati, argomentazione pacata,
stile gradevole, testi ricchi di aneddoti e citazioni colte: «Tutti i
Moralia» tradotti per Bompiani da un’équipe guidata da Lelli e Pisani
di Carlo Franco
Si
racconta che Arnaldo Momigliano fosse preoccupato di dover scrivere per
la «Treccani» la voce su Plutarco, senza averne potuto leggere per
intero l’opera. Il testo comparve nel volume XXVII pubblicato nel 1935, e
contiene oltre all’informazione di base meditati giudizi, che meritano
ancora interesse (però chi cerca oggi la voce fidando nella rete, e non
nella carta, trova come autore Attilio Momigliano, l’italianista. Errore
non isolato nei materiali Treccani on-line…).
Momigliano per
altro aveva ragione. Conoscere per intero l’opera di Plutarco pervenuta
sino a noi è impegno non da poco: le quasi cinquanta biografie delle
Vite parallele sono più note, assai meno lo sono i saggi riuniti sotto
il titolo di Opere morali (Moralia). Dei circa ottanta trattati, talora
di poche pagine, talora più ampi, non tutti erano finora disponibili e
reperibili in traduzione italiana annotata. Di qui l’iniziativa
coordinata da Emanuele Lelli e Giuliano Pisani, che ha condotto studiosi
di varia età ed esperienza a mettere insieme in un volume piuttosto
corposo tutte le Operette, con testo greco a fronte e note, insieme alle
opere non autentiche e ai frammenti (Plutarco, Tutti i Moralia,
Bompiani «Il pensiero occidentale», pp. 3192, € 70,00).
L’epoca di Jacques Amyot
Come
d’uso nella collana, si sottolinea orgogliosamente come si tratti della
«prima traduzione italiana completa» che in età moderna abbia riunito
il materiale in un solo volume (il concetto è ribadito nell’introduzione
dove si fa la storia delle traduzioni moderne della cospicua raccolta).
Certo, non è più l’epoca di Jacques Amyot (1513-’93) che da solo
tradusse le Vite e poi le Opere. Né quella di Marcello Adriani
(1553-1604) che donò eleganza toscana alle moralità di Plutarco così che
i suoi scritti «acquistarono quell’uniformità e quella leggerezza di
stile che troppo spesso non ebbero dal loro autore», come scrive
l’Ambrosoli, tardivo editore di quella traduzione, integrata con qualche
aggiunta (Milano, 1825). Il volume Bompiani è redatto a più mani, come è
inevitabile e forse giusto, vaste essendo le competenze richieste. Gli
scritti di Plutarco coprono molti ambiti diversi della cultura,
dall’etica alla filosofia, dalla critica letteraria alla politica, dalla
scienza alla retorica, dalla religione all’erudizione, dalla zoologia
alla cultura popolare. Non disturba che le traduzioni, le annotazioni e
il commento presentino talora un passo differente, tanto più che nel
volume sono ripresi e rifusi anche materiali già pubblicati per altre
edizioni parziali. Opportuna è la selezione dei materiali adibiti al
commento, dove la completezza sarebbe impossibile e renderebbe il tutto
poco utilizzabile: l’introduzione generale alle Opere morali premessa a
una celebre collezione francese conta oltre duecento pagine.
Lo
scrupolo dei commentatori emerge dalla imponente bibliografia
scrutinata, esito dall’intenso lavoro svolto sull’autore negli ultimi
decenni. C’è stato infatti un «ritorno a Plutarco»: ne scriveva Carlo
Diano nel 1965, e giustamente lo ricorda Pisani. Fino al principio
dell’Ottocento era durata una ammirazione altissima per il Plutarco
biografo, ispiratore di «egregie cose», e scrittore di temi morali.
Invece nell’Ottocento storici e studiosi del positivismo mostrarono una
forte delusione, irritati dagli elementi compilativi dell’opera di
Plutarco, giudicata poco utile come fonte storica e anche poco originale
(ma dire che questo fu esito di una «ottusa filologia», come qui si
legge, è eccessivo). Oggi si è tornati a leggere lo scrittore antico con
migliore consonanza, accettandolo come è, cercando di trattarlo anche
unitariamente, con le Vite a illuminare le Opere morali, e viceversa.
Eppure la nostra epoca è molto lontana dal modello degli uomini grandi, è
molto allergica alle esigenze di una estesa minuziosa cultura, e molto
indifferente al «bello stile». Che cosa dunque attrae verso Plutarco?
Non certo la prosa lenta e talora sovraccarica, spesso migliorata dalle
traduzioni che attenuano certe ridondanze (basta guardare il testo greco
a fronte, derivato da edizioni critiche correnti, per notarlo). A
interessare invece è la varietà dei temi che Plutarco seppe affrontare,
la sua pacata argomentazione, l’efficace gradevolezza del suo
ragionamento. I suoi scritti, soprattutto morali, sono abilmente
disseminati di efficaci aneddoti, dotte citazioni, pensose massime.
Questo è il frutto non di una mente originale e speculativa, ma di un
grande ingegno, capace di decantare con mano sapientissima una
lunghissima tradizione culturale.
Scoprire pagine inattese
Tra
le tante pagine di questo erudito, moralista, filosofo, teologo e
letterato, ciascun lettore può costruire la propria antologia. In
effetti, il volume che riunisce tutti i suoi scritti invita a scoprire
pagine inattese: una discussione su come leggere la poesia, una
riflessione sugli usi alimentari, un dibattito sulla crisi degli
oracoli, la descrizione di un rito esotico, un’indagine antiquaria su
strani usi romani, i consigli a un assennato uomo politico, una polemica
su Erodoto e i Beoti, una declamazione su Alessandro Magno, un saggio
di critica letteraria, attacchi contro scuole filosofiche rivali, e
altro ancora. Difficile non trovare qualcosa che non attragga, fosse
solo per curiosità.
Moderato in ogni atteggiamento
Plutarco è
per noi uno dei «frutti più maturi della civiltà ellenica», e il
testimone di un ellenismo in versione greco-romana: egli per certi
aspetti profittava della pace imperiale, per altri si volgeva al
passato, come se il presente non esistesse. Ecco allora, proprio nelle
Opere morali, un blandissimo messaggio politico: accettare la supremazia
romana, ma non identificarsi con l’impero, che greco non era. Ecco
anche lo sguardo al passato: la coscienza di una grande eredità
culturale, e il piacere di una erudizione antiquaria. Il panorama
culturale di Plutarco è politicamente sicuro, del tutto alieno da
tendenze ribellistiche. Moderato egli appare in ogni suo atteggiamento:
profondamente pio ma avverso alla superstizione; dotto filosofo ma
opportunamente vòlto alla filosofia pratica verificata nei comportamenti
di ogni giorno; preoccupato della salute dell’anima ma anche di quella
del corpo; teorico della politica ma soprattutto amico dei romani
potenti; custode d’identità greca ma, ripeto, intento a discutere
soprattutto la Grecia del passato. Plutarco è capace di scrivere
discussioni ispirate sulla «democrazia», riferite a Clistene, Solone o
Pericle, ossia a situazioni remote di mezzo millennio, e di farlo in un
tempo in cui le città greche erano rette dalla élite dei notabili, e
l’impero era guidato dal governo di uno solo. Non è divisivo Plutarco,
non suscita conflitti: come certi saggisti che portano grisaglie di
buona fattura, senza tempo, persone che esibiscono un eloquio forbito e
buone letture di tradizione. Perciò li si legge o li si ascolta con
piacere: hanno un rassicurante sapore di cultura, che con buona volontà
si può anche trovare attuale. Sono gradevoli perché non impegnativi: non
ambiscono aprire nuovi mondi, ma insegnano a abitare con stile e
dignità d’altri tempi nei mondi che già ci sono.
Le priorità di
Plutarco non sono sempre le nostre: nelle simpatiche Questioni
conviviali si leggono temi talora bislacchi (l’innesto nei pini, la
maniera di dividere le porzioni a tavola, la posizione dell’alfa nella
sequenza delle lettere, e così via). C’è un saggio sul problema della
scarsa produzione di oracoli in versi da parte della Pizia: tema
marginale già al tempo dell’autore. Il quale fu personalmente molto
devoto, e ebbe grande interesse per il divino, in ogni forma. Dedicò la
sua dotta attenzione ai culti di Iside e Osiride, ellenizzandoli e
platonizzandoli secondo la sua maniera, e seppe qualcosa anche sul «dio
dei Giudei»; ma non pare aver registrato la comparsa del cristianesimo, a
differenza dai più accorti intellettuali del suo tempo. Certo, in
compenso Plutarco sapeva stendere pagine ricche di common sense sui
rischi derivanti dalla cerimoniosità che impedisce di dire di no; poteva
disquisire sul controllo dell’ira senza esibire le nervose agudezas di
un Seneca; aveva meditato bene il suo amatissimo Platone; poteva
comporre ampie dossografie sulle dottrine più importanti delle scuole
filosofiche greche (utili oggi, dopo la perdita degli originali); aveva
certe sue idee sulla ‘buona’ politica, e arrivava persino a scrivere
frasi forti come questa: «il regime politico che sistematicamente
scarica i vecchi, finisce inevitabilmente per riempirsi di giovani
assetati di fama e di potere, ma digiuni d’intelligenza politica: e dove
l’acquisiranno del resto, se non potranno farsi discepoli o spettatori
d’un vecchio che governa?». Tranquilli. Parlava in astratto. Non
alludeva ai Renzi-boys.