venerdì 17 novembre 2017

Il Fatto 17.11.17
Il Papa ai medici (e alla Chiesa): basta giochini su chi muore
Non è una svolta - ma una conferma di un filo che parte dal 1923 e da Pio XI Francesco parla a chi, nella destra clericale, ancora specula sul fine vita
di Filippo Di Giacomo

Negli anni30, durante il pontificato di Pio XI, venne posto ai teologi del Sant’Ufficio questo dubium: è lecito somministrare la morfina ai malati di blocco renale (infermità dolorosissima e, all’epoca, irrimediabile) pur sapendo che il farmaco ne avrebbe sì alleviato i dolori ma anche accelerato la morte? La risposta fu affirmative, cioè sì, si può. Allora la teologia morale funzionava così, proponendo dubia, cioè questioni spinose, al Sant’Ufficio il quale, dopo tanto segreti quanto approfonditi studi, rispondeva con un affirmative oppure negative, si oppure no, senza particolari spiegazioni. Erano poi i teologi a dover costruire percorsi esplicativi partendo da questo iniziale punto fermo, anzi fermissimo: chi lo contraddiceva, veniva scomunicato. Questo va premesso perché, tra le tante cose che la dottrina ha fatto evolvere verso cambiamenti radicali, questo iniziale sguardo sul dolore umano “confortato” dalla medicina è rimasto una delle stelle polari della teologia morale cattolica. Ed è costante nel magistero di tutti i Pontefici del XX secolo, da Pio XII a Giovanni Paolo II il quale, andrebbe ricordato, alla fine della sua corsa rifiutò il ricovero al Gemelli e si “accontentò” di essere aiutato a sopportare il dolore, nulla di più. Papa Francesco, ieri al World Medical Association sulle questioni del cosiddetto “fine-vita”, non ha innovato ma ha continuando (contrariamente a quanto dicono i “passatisti” del Web) a navigare tra i grandi testi del magistero della tradizione e del Concilio. Anzi, la frase “oggi è più insidiosa la tentazione di insistere con trattamenti che producono potenti effetti sul corpo, ma talora non giovano al bene integrale della persona” riecheggia, se non cita, quanto Paolo VI scriveva nell’Humane Vitae, l’enciclica meno letta e più odiata della storia della Chiesa. Questa, come tante altre “aperture” di Papa Francesco, sono riproposizioni di quanto la dottrina della Chiesa ha suggerito negli ultimi cinque decenni, tra l’indifferenza generale e la conseguente disistima di chi, per tanti motivi, si scontrava con la malmostosa ignoranza dei chierici. All’epoca della vicenda di Piergiorgio Welby, l’allora presidente del Pontificio consiglio della pastorale per gli operatori sanitari, il cardinale messicano Javier Lozano Barragán, tentò a più riprese di spiegare a coloro che nel Vicariato di Roma, e nei palazzi affiliati, speculavano sul dolore di Welby e dei suoi cari che quello non era un caso di eutanasia ma solo di fine “accanimento terapeutico”, del tutto lecito. Nei giornali dell’epoca, quasi nessuno raccolse la sua voce perché il gioco politico perverso ingaggiato da qualche altro ecclesiastico veniva considerato più importante.
Qualche mese dopo Giovanni Nuvoli, in Sardegna, iniziò lo sciopero della sete e della fame che lo condusse alla morte, al fianco del suo letto di dolore, e della sua compagna, la presenza del suo parroco e del suo vescovo è stata sempre costante. E nessuno ha pensato e neppure immaginato di privarlo dei funerali religiosi. Con le parole “restituire umanità all’accompagnamento del morire, senza aprire giustificazioni alla soppressione del vivere” Papa Francesco si è certamente rivolto ai medici: la scienza moderna deve ritrovare le categorie di quell’Umanesimo da cui è nata. Ma si è rivolto anche ai suoi, quando la sorte li mette di fronte a chi sceglie di lasciarsi morire: non è più tempo di danzare intorno al dolore di nessuno