lunedì 13 novembre 2017

Il Fatto 13.11.17
Dario Argento: “Ora Asia teme il Mossad”

“Asia non esce più di casa per paura di agenti israeliani perché questa è gente che spara, è gente che minaccia, sono persone pericolosissime. ATeme per la propria vita e per quella dei suoi figli, teme i ricatti”. Il regista Dario Argento parla cosi a Domenica In, intervistato da Cristina Parodi sul caso Weinstein dopo la denuncia di sua figlia Asia. E sul presunto ingaggio di agenti segreti israeliani afferma “Sono degli agenti segreti, sono del Mossad che poi è uno dei più crudeli servizi segreti del mondo”.


Il Fatto 13.11.17
La lezione del Papa ai politici: lo stile soft per sedurre in tv
La visione del nuovo programma di Tv2000 “Padre Nostro” sarebbe utile per la classe dirigente che potrebbe finalmente apprendere la sua strategia: le decisioni importanti le prende il nipote cattivo, in tv ci va il nonno buono
di Marco Marzano

Consiglio caldamente ai politici italiani la visione del nuovo programma di Tv2000 Padre Nostro, in particolare dei primi minuti di ogni puntata, dedicati all’intervista che il conduttore, il prete Marco Pozza, ha di volta in volta realizzato con papa Francesco. La visione sarebbe utile per i politici, perché potrebbero finalmente apprendere gli enormi vantaggi strategici che derivano dallo “stile tenero” che papa Francesco diffonde da anni e che è stato, da subito, la ragione principale della sua immensa popolarità. L’intervista è un capolavoro di strategia comunicativa: innanzitutto, i due dialogano in una stanza spoglia, con un bel tappeto, ma quasi senza arredi, a suggerire la semplicità e la frugalità della vita di chi la occupa in quel momento. Don Marco e il pontefice sono poi molto vicini e posti uno dinanzi all’altro, allo stesso livello e senza nessun oggetto che li separi. L’unica differenza sta nella forma della sedia, perché quella di Francesco ha i braccioli, mentre quella di don Marco ne è priva. Il giovane sacerdote non è vestito da prete, ma da trentenne “figo”: jeans, giacca bianca con toppe, scarpetta da ginnastica elegante. E soprattutto dà del tu al papa. Come se fossero in famiglia, come se quell’uomo anziano vestito di bianco seduto di fronte a lui fosse un suo familiare, diciamo un nonno autorevole, con tante cose da raccontare al nipotino che lo guarda incantato e sedotto dalla sua saggezza.
Nel merito, in quei dieci minuti inaugurali di ogni puntata di Padre Nostro, Francesco pronuncia delle frasi di una sconcertante banalità, puro buon senso, un predicozzo che starebbe bene in bocca a un parroco di campagna: nessuna rivelazione teologica sconvolgente, nessun pensiero filosofico profondo, niente che faccia davvero mettere in moto il cervello. Solo parole semplici, concetti poveri e stringati, perfetti per la comunicazione in tv. E con l’aggiunta di un elemento che un parroco di campagna non userebbe mai, ma che nella comunicazione di un divo mediatico quale è il papa argentino non può e non deve mai mancare: il racconto autobiografico, la narcisistica narrazione di qualche episodio edificante della propria vita. Il ritorno a casa con il papà dopo l’operazione alle tonsille da bambino, l’addormentarsi durante la preghiera o l’incontro con una fedele in Argentina.
Tutti eventi insignificanti e ordinari se non fossero parte della vita di una star. E se non fossero narrati con quel tono dolcissimo, da quella voce così calda, da un uomo che, a vederlo, è l’incarnazione della mitezza e della bonomia latina, allegro ed ottimista, ma al tempo stesso determinato e avveduto. È il nonno che tutti vorremmo avere, da cui vorremmo farci abbracciare, coccolare, ascoltare. Il nonnino che, forse pensando a se stesso più che a Dio, ci parla dell’importanza di avere un padre che ti ama e che ti accoglie sempre, un anziano signore dalle cui parole ci faremmo trasportare in mondi lontani nel tempo e nello spazio.
Bergoglio è un genio della comunicazione politica. Perché nella realtà, molto diversa dalla fiction televisiva, non fa il nonno, ma il capo di Stato e il monarca assoluto di un’organizzazione con centinaia di migliaia di funzionari e una pletora di gerarchi, interessi economici e politici giganteschi, rapporti diplomatici quotidiani con capi di stato e di governo.
Poco prima di indossare i panni del nonno innocente, Francesco avrà casomai espresso il suo sostegno ad una delle tante dittature africane delle quali la sua organizzazione è sostenitrice e complice o dialogato con gli amici di Putin sul modo migliore con il quale proteggere i cristiani del Medioriente. Tutte attività ordinarie per un capo politico e che però, nel caso di Bergoglio, non oscurano la straordinaria efficacia della sua comunicazione tanto affettuosa e tenera.
I politici dovrebbero apprendere la lezione perché la sua popolarità è assai più consistente e stabile di quella di tutti i leader “muscolari”, di tutti gli imitatori dell’italico e virilissimo distruttore di reni, dei rottamatori, degli asfaltatori, degli elogiatori del “vaffa”, insomma di tutti quelli che in politica fanno ricorso ad una retorica violenta e metaforicamente sanguinaria. L’unico che, almeno in una fase della sua infinita vicenda politica, sembrava aver compreso il valore comunicativo della mitezza e della bontà, è stato il Berlusconi filosofo dell’amore.
Certo, per un uomo politico è più difficile tener nascosti i contenuti reali del suo lavoro ed è quindi più complicato, per fare un esempio, precarizzare il lavoro dei giovani e un minuto dopo andare in tv a recitare la parte del nonno buono. E la giovin età non aiuta di certo. Una soluzione potrebbe essere quella di dividersi i ruoli: le cose vere, le decisioni strategiche le prende il nipote cattivo, ma al riparo da sguardi indiscreti, mentre in tv ci va il nonno buono, che i voti sa come raccoglierli. Pensateci.

Repubblica 13.11.17
Polonia nera
Secondo il ministro dell’Interno, la manifestazione per la festa della patria è stata “un bello spettacolo”. Ma nelle strade di Varsavia si gridava: “Un Paese puro”
Ue in allarme per la marcia dei nazionalisti Israele: puniteli
In piazza c’erano molti rappresentanti dei movimenti radicali: anche l’italiano Roberto Fiore Il governo Netanyahu: la Storia insegna che i fenomeni di odio razziale vanno affrontati subito
“Tutta la gioventù polacca”, così recita lo striscione portato in piazza dai nazionalisti a Varsavia, nella marcia annuale che celebra la giornata dell’indipendenza

IL GOVERNO nazionalconservatore polacco elogia i sessantamila dimostranti nazionalisti in piazza sabato sera a Varsavia per la festa dell’indipendenza, i media pubblici come la tv parlano di «grande marcia di patrioti». Il governo israeliano chiede la punizione degli organizzatori della marcia. L´Europa occidentale è in allarme.
«Si tratta di una marcia pericolosa, organizzata da elementi estremisti e razzisti », ha detto ieri sera il ministero degli Esteri israeliano, aggiungendo: «Esprimiamo fiducia che le autorità polacche operino contro gli organizzatori; la Storia insegna che questi fenomeni di odio razziale vanno affrontati rapidamente e in maniera determinata».
C’erano anche rappresentanti di movimenti radicali di molti altri Paesi europei, alla grande manifestazione nazionalista. Roberto Fiore, afferma il
Guardian,
è venuto dall’Italia, Stephen Lennon della “English defence league” dal Regno Unito. Rilanciati dai media mondiali, slogan e striscioni ben espliciti. «Polonia pura, Polonia bianca, Europa bianca», «fuori i rifugiati», hanno scandito sabato sera i dimostranti. Uno striscione appeso a un ponte nella capitale diceva “Pregate per un Olocausto dei musulmani”. Un giovane manifestante, intervistato sabato sera in diretta dalla Tvp, la televisione pubblica, ha affermato: «È opportuno cacciare l´ebraismo dalle stanze del potere». Tra i simboli sventolati dai manifestanti c´era anche la falanga, che era un emblema dell’estrema destra antisemita polacca negli anni Trenta. Tra i dimostranti c’erano famiglie con le carrozzine, molti giovani, e numerosi hooligans-tifosi dell’estremismo legato al mondo del calcio.
Il governo non mostra preoccupazione, e fino a ieri sera non ha espresso nessuna critica e non ha fatto alcun gesto di presa di distanza della maggioranza liberamente eletta da quegli slogan e dai simboli sventolati. Secondo il ministro dell’Interno, Mariusz Blaszczak, citato dai media internazionali, «è stato un bello spettacolo, siamo fieri che tanti polacchi abbiano partecipato a un’iniziativa collegata con la festa nazionale». Non si sa se e come Varsavia risponderà alla presa di posizione israeliana. Il corteo, dicono esperti del tema ultradestra come l´inglese Nick Lowles di Hope Not Hate, è un potenziale magnete per gli estremisti di tutto il mondo.
Poche ore prima, alla celebrazione ufficiale governativa del 99mo anniversario dell’indipendenza, il leader storico della maggioranza di governo Jaroslaw Kaczynski ha rilanciato con parole dure e particolari la richiesta di ulteriori riparazioni di guerra alla Germania (nonostante l´accordo in merito concluso decenni fa tra i due Paesi) per l’occupazione nazista. «I francesi sono stati indennizzati, gli ebrei sono stati indennizzati, i polacchi no», ha detto il leader polacco, auspicando «una Polonia indipendente che sia veramente forte».
(a. t.)

Repubblica 13.11.17
Bernard Guetta.
L’ex corrispondente da Varsavia: “Poco da sorprendersi, in Polonia il nazionalismo non è mai morto”
“Al di là della retorica c’è un conflitto culturale con le nostre democrazie”
di Anais Ginori

PARIGI. «Pessimista? Non direi, la situazione è più complessa di quel che lasciano pensare le foto scioccanti dell’altro giorno». Bernard Guetta vuole restare lucido. È presto per dire che si sta creando, come alcuni cominciano a pensare, una nuova cortina di ferro tra l’Europa occidentale e alcune democrazie illiberali a Est. Il commentatore francese, esperto di geopolitica, conosce bene la Polonia. Ha vissuto dall’interno la rivoluzione di Solidarnosc. Corrispondente di Le Monde raccontò quell’epopea di libertà e la rievoca in
Intima convinzione, saggio dove spiega le ragioni del suo ostinato europeismo.
Sorpreso dall’adunata di ultrà della destra nazionalista?
«Non è una sorpresa. In Polonia esistono da tempo una destra conservatrice e un’estrema destra. C’erano prima della guerra, sono sopravvissute sotto il comunismo, e sono tornate alla ribalta con il ritorno alla democrazia. Non bisogna inoltre dimenticare che una parte dell’episcopato cattolico è restato in una concezione preconciliare del cristianesimo, compreso nella dimensione antisemita».
Vedere gruppi razzisti e antisemiti manifestare liberamente è un segnale allarmante?
«Sono immagini scioccanti ma non cambiano la realtà. La destra nazionalista, Diritto e Giustizia, ha vinto nel 2015 con una quota intorno al 40%. Secondo i sondaggi il partito di Jaroslaw Kaczynski è rimasto a quel livello. Kaczynski non è di estrema destra né antisemita. Ma è vero che fomentando il nazionalismo apre la porta a discorsi ancora più a destra ».
Perché in Polonia, come in altri Paesi a Est, cresce il rigetto dell’Europa?
«La maggioranza dei cittadini polacchi non sostiene la retorica di Kaczynski. L’opposizione però è divisa, invisibile. Detto questo, dietro la retorica della destra nazionalista non c’è una vera volontà di uscire dall’Ue. C’è un conflitto culturale con l’Europa occidentale, accusata di ‘decadenza’ su temi come famiglia, diritti civili. Nella difesa di un’Europa bianca e cristiana la destra polacca nazionalista, anti-sovietica e anti-comunista, trova molti punti comuni con Vladimir Putin. E’ un paradosso sorprendente».
E anche con Donald Trump?
«Il ritorno a una destra nazionalista, xenofoba, puritana, o ipocritamente puritana, sta avvenendo su scala planetaria».
Un ritorno agli anni Trenta, come dicono alcuni?
«Marx diceva che quando la Storia si ripete, si ripete in farsa. Certo, esistono dei movimenti di estrema destra, nazionalisti, razzisti e talvolta antisemiti, ma non hanno preso il potere. Per paradosso Trump ha vaccinato gli europei dicendo che non c’è più l’ombrello di protezione americano. Per la difesa dobbiamo ormai organizzarci da soli. Alla fine, potrebbe essere uno dei padri rifondatori della Ue».
Pensavamo che la spaccatura in Europa fosse soprattutto tra Nord e Sud, e invece il conflitto più forte è tra Est e Ovest?
«Andiamo verso un’Europa differenziata, nella quale alcuni paesi andranno più veloce nell’integrazione, e altri invece resteranno nell’attuale situazione. Polonia, Ungheria e altri a Est non seguiranno il processo di integrazione rafforzata».
Il gruppo di Visegrad guidato da Polonia e Ungheria può essere un vero contro-potere dentro la Ue?
«Hanno perso il loro alleato naturale, il Regno Unito. Anche unendo le economie di questi paesi non avrebbero il peso sufficiente per opporsi all’asse franco-tedesco. E poi hanno un bisogno vitale della sovvenzioni europee, della libera circolazione delle merci».
La comparsa del populista Andrej Babiš in Repubblica Ceca può rafforzare il blocco a Est?
«Babis è un uomo d’affari, non è detto che abbia l’atteggiamento euroscettico di Kaczynski o Orbán. Non dimentichiamoci che i polacchi disprezzano i cechi che non rispettano gli ungheresi. Storicamente c’è poca coerenza in questo blocco, è un’unione artificiale».

Repubblica 13.11.17
Ágnes Heller.
Per la studiosa ungherese l’imponente corteo di sabato rappresenta un segnale importante. E molto negativo
“Questa Europa malata dove il passato torna a cercare vendetta”
di Andrea Tarquini

«IL PASSATO torna tra noi, col volto della vendetta». Ágnes Heller, grande voce dell’intelligentsia centroesteuropea, commenta così a caldo.
Sessantamila nazionalisti in piazza a Varsavia, che cosa ne dice?
«Sessantamila persone in piazza gridando quegli slogan sono tante. Il patriottismo diventa nazionalismo. Lo sfondo è un’Europa che appare malata ovunque o quasi, e i partiti storici democratici sono in crisi».
Qual è stata la sua prima reazione ?
«Situazione brutta, davvero. La Storia passata, ripeto, torna tra noi, irrompe nel presente come vendetta. Insisto, sessantamila nazionalisti in piazza con quegli slogan nel più grande paese del gruppo di Viségrad sono un segnale grosso. E la contro dimostrazione era molto piccola. Stiamo andando giù tutti, l’Europa appare malata».
Il dissenso nel Centro-est era multiculturale, oggi è una somma di nazionalismi. Perché?
«I movimenti per la libertà, come molti decenni prima fu l’Austria-Ungheria, erano uniti da momenti di passato comune. Il Centro- est ha un passato diverso dal resto d’Europa: l’occupazione sovietica. Il nazionalismo del gruppo di Viségrad viene da quel passato ».
Perché questo feeling comune di voglia di nazionalismo?
«Il passato ha creato posizioni politiche diverse, interessi diversi, terreno fertile per i populismi. Tutte le nazioni europee divennero nazionaliste dopo la prima guerra mondiale, ma nell’Est non ci fu il dopoguerra democratico. Abbiamo sottovalutato il pericolo: i trend attuali nel gruppo di Viségrad possono essere per la Ue pericolosi come fu per l’Ungheria il Trattato di Trianon che portò alla perdita di vastissimi territori e a sviluppi nazionalisti ».
Sarà possibile tenere i paesi di Viségrad nella Ue?
«Dipende, se la Ue saprà fare chiarezza sul concetto di valori europei. Furono valori europei anche i totalitarismi, che non nacquero né in Africa né in Asia. E occorre saper affrontare i conflitti tra centro e periferia dell’Europa ».
Come far avanzare l´integrazione politica europea?
«L’integrazione è importante, ma richiede coraggio come fecero Francia e Germania superando secoli di ostilità. Dobbiamo affrontare le realtà storiche: l’integrazione deve prendere in considerazione le ferite del passato in quella parte d’Europa se vogliamo riconquistarla. Invece la Ue ha commesso diversi errori verso quei paesi».
Perché la voglia d´identità nazionale assume simili volti?
«L’identità nazionale conta per tutti i paesi europei, la questione è quale tipo di identità nazionale emerge: è ben diverso se è sciovinista e fondata su odii verso gli altri. Ecco il problema dei paesi di Viségrad: hanno reagito così all’occupazione sovietica, ritengono ancora tutti potenziali occupanti e ciò apre spazi a populismo e a piccoli despoti. Dopo l´89 purtroppo le forze democratiche nel centro est non tennero conto del peso del passato. Pensarono alla politica solo in termini parlamentari, non nella sua dimensione di umori e interessi e bisogni sociali e Memoria, ed ecco il risultato».
Perché nei paesi di Viségrad si respirano paure e odii verso i migranti anche quando i migranti sul posto non esistono?
«Gli autocrati sono da tempo antioccidentali e vittimisti, da prima dell’ondata di migranti. Basta evocare la paura di essere occupati da altri, di vedere distrutta la nazione. Basta l’immagine del pericolo, anche senza pericolo reale, con una propaganda efficace. Il terreno fertile sono traumi e delusioni post- 1989. E un passato che aveva distrutto la cultura borghese ed ebraica. Alcuni definiscono i migranti pericolosi anche perché arrivano con molti bambini, è quasi da Notte dei cristalli ».
La Ue può salvarsi dalla minaccia?
«L’Europa fa pensare a un malato di polmonite che può morire o guarire e rafforzarsi».

Repubblica 13.11.17
Oltre la piazza un altro popolo che non si sente oscurantista
di Wlodek Goldkorn

PRIMA di trovare la morte nell’incidente areo su Smolensk nell’aprile 2010, Lech Kaczynski, l’allora presidente di Polonia e fratello gemello di Jaroslaw, l’uomo che governa il Paese pur essendo ufficialmente solo un semplice deputato, prima insomma di perire sui cieli della Russia, Lech Kaczynski aveva impostato la sua campagna per la rielezione alla carica del capo dello Stato cercando di assomigliare a Michal Wolodyjowski. Wolodyjowski è il protagonista dell’omonimo romanzo di Henryk Sienkiewicz (l’autore di Quo vadis); cavaliere senza macchia, patriota e vero cattolico, combatte contro i turchi musulmani. Disgustato per il caos che regna a Varsavia (causato dal predominio degli stranieri e dalla troppa tolleranza nei confronti degli eretici e degli ebrei) si fa saltare per aria nella Rocca di Podolia, assediata dalle truppe ottomane, nell’anno del Signore 1672. Polonia antemurale della cristianità, un cliché tanto amato fin dai tempi di papa Wojtyla e di Solidarnosc, nasce assieme ai romanzi di Sienkiewicz e all’epopea della guerra di confine con la Turchia. E anche l’immagine del musulmano subdolo, traditore, stupratore feroce, non nasce con la crisi degli immigrati oggi, ma ha le sue origini in quella letteratura che ogni bambino sulle rive del Vistola studia a scuola.
Qui in Occidente e in Italia siamo abituati a considerare la parola cattolico, sinonimo di polacco. E pensiamo a un Paese devoto alla Madonna di Czestochowa che il giorno dopo Natale del 1655 aiutò a sconfiggere gli invasori svedesi protestanti e così fu proclamata Regina di Polonia. Questa convinzione si rafforza quando vediamo fascisti marciare per le strade di Varsavia e delle altre città, inneggiando a un Patria tutta bianca, senza eretici né ebrei e (Dio ce ne guardi) neri e islamici. Ma la Polonia non è mai stata tutta cattolica. Anzi, fino dalla fine del Settecento era spaccata tra due tradizioni politiche e culturali opposte, non senza spargimenti di sangue. Ancora un esempio; vero e non frutto di letteratura. Il primo capo di Stato eletto nel 1922 quattro anni dopo la rinascita della Polonia indipendente, Gabriel Narutowicz, venne assassinato da un nazionalista cattolico fanatico, pochi giorni dopo aver prestato il giuramento. La storia del Paese è quindi una storia di guerra civile vera e simulata. La colpa di Narutowicz? Fu eletto con voti determinanti dei deputati dei partiti delle minoranze nazionali: ebrei, tedeschi, ucraini. Non era, insomma, un “presidente dei polacchi”.
Come allora, anche oggi, alla gretta ideologia dell’identità etnico religiosa, appoggiata da gran parte della Chiesa (con lodevoli e significative eccezioni) si oppone una visione di nazione formatasi con la partecipazione di diverse culture, pluriconfessionale, socialisteggiante, tesa verso l’Europa e il Mediterraneo. C’è una gran parte del Paese che non condivide il culto di Giovanni Paolo II; che considera Walesa un bravo nonno della Patria ma non si riconosce nell’immagine della Madonna nel bavero della sua giacca; una generazione nata e cresciuta in libertà e che la vecchia retorica di Solidarnosc non la riconosce come sua. Una generazione per cui Kaczynski non è traditore degli ideali di Solidarnosc, appunto, ma il degno continuatore della peggior tradizione oscurantista vecchia di duecento anni e tornata in superficie. È una Polonia in questi giorni spaventata, ma che molto presto rialzerà la testa, perché ha un’altra, altrettanto antica e radicate tradizione: laica e multiculturale a disposizione. Altro che Polonia antemurale della cristianità.

Repubblica 13.11.17
“Noi torturati nelle prigioni libiche” Ecco la foto del lager dei migranti
In sette sono riusciti a fuggire e ai magistrati di Palermo hanno raccontato l’incubo del Ghetto di Sabha. Nell’inchiesta è finita anche la prima immagine scattata lì dentro
Alessandra Ziniti Francesco Patane’

Il carcere è gestito dai feroci miliziani al comando del misterioso “generale Alì”
La foto della “stanza delle torture” nella prigione libica di Sabha, in Libia. È stata scattata da uno dei migranti superstiti e finita nell’inchiesta contro il “generale Alì”, ritenuto il capo dei trafficanti di uomini

PALERMO. «Era una grande stanza alla quale si accedeva attraverso un’unica porta, due finestre e un solo bagno per più di cinquecento persone. Ci alzavamo in piedi, poi ci sedevamo, uno con le spalle sulle gambe dell’altro, in fila, rannicchiati. Ogni giorno, a turno, chi veniva chiamato doveva alzarsi e veniva torturato davanti a tutti mentre uno dei carcerieri scattava foto e telefonava ai familiari e faceva sentire loro in diretta le urla strazianti per poi chiedere il riscatto per la liberazione ».
Eccola la foto che, per la prima volta, porta fuori dal Ghetto di Sabha, incubo e terrore di ogni migrante che entra in Libia, tutto l’orrore delle violenze che vengono inflitte dai feroci miliziani al comando del misterioso “generale Alì”. Il capo dei trafficanti al quale ora, grazie anche alle coraggiose testimonianze di sette delle vittime del campo di prigionia riuscite poi ad arrivare in Italia, la Dda di Palermo sta dando la caccia. «Riuscire anche solo ad individuare il generale Alì in Libia, è un’impresa — dicono i sostituti procuratori Geri Ferrara e Giorgia Spiri — contiamo molto sulla collaborazione dei nostri servizi di sicurezza».
La foto consegnata agli inquirenti da uno dei migranti sopravvissuti a mesi di detenzione è il punto di partenza della caccia all’uomo coordinata dal procuratore aggiunto Marzia Sabella. Hamed Bakayoko, uno dei migranti che nei mesi scorsi hanno riconosciuto in un centro di accoglienza in Italia due dei loro carcerieri ora arrestati e sotto processo — è fermo nel suo cammino di collaborazione con la giustizia italiana. «Nel mio paese ho studiato legge — dice — e una volta arrivato a Lampedusa, sapendo che la tortura è condannata universalmente, sono stato io a fare la prima denuncia alla polizia ».
Impossibile, per chi era in quello stanzone, dimenticare la scena ritratta in quella foto. «Quando volevano picchiarci ci riunivano tutti quanti, poi prendevano la persona che volevano torturare e iniziavano il pestaggio. Questo ragazzo, disperato con le mani tra i capelli, aveva cercato di scappare, è stato ripreso ed è stato picchiato violentemente e poi è morto».
Il dominus incontrastato del ghetto degli orrori è dunque il generale Alì che adesso ha finalmente anche un volto. Isaac Yallai, nigeriano, lo descrive così: «È arabo, ha i capelli molto lunghi e cammina come se avesse avuto un incidente, piegato in avanti. Non so che età abbia, non è sicuramente giovane, non vecchissimo ».
Alì vive in una villa sulla collina che guarda il ghetto, una vera e propria fortezza al limite del deserto difesa da filo spinato e miliziani armati di kalashnikov. I prigionieri sono stipati in quattro sezioni, tre per gli uomini e una per le donne, torturati fino allo sfinimento, costretti a chiedere alle famiglie riscatti fino a cinquemila euro per tornare in libertà. Qualcuno, come Efods Idehen, si è salvato così: «Stavo molto male, gli ho detto che non avrei potuto continuare a rimanere in quel posto, loro mi hanno coperto con delle lenzuola e mi hanno buttato nell’immondizia». Qualcun altro è stato costretto ad assistere all’omicidio del fratello e a chiamare in viva voce i genitori per chiedere altri soldi implorando di pagare il riscatto almeno per la sua liberazione. «Quel ragazzo aveva solo 16 anni, lo hanno legato sia mani che piedi e hanno cominciato a picchiarlo violentemente fino a quando non è morto e poi lo hanno buttato fuori dalla finestra. Poi hanno fatto chiamare il fratello per parlare con la madre chiedendo altri soldi».
C’è un orrore indelebile negli occhi di questi coraggiosi sette migranti sopravvissuti che, con fermezza, hanno ripetuto i loro tremendi racconti in aula a Palermo, a porte chiuse, di fronte a due dei loro carnefici, tra cui quello soprannominato “Rambo”, un vero e proprio gigante che gli agenti di polizia penitenziaria sono costretti a sedare per gestire le sue continue esplosioni di rabbia in carcere e che hanno riconosciuto in un drammatico incidente probatorio.
Era lui, in particolare, il carceriere che sottoponeva le donne a stupri e violenze. «Le ragazze — racconta Hamed Bakayoko — non avevano scelta. Non avevano accesso al cibo e l’unico modo per poter mangiare era “dormire” con lui». Le più “fortunate” venivano scelte da Alì in persona, portate fuori dal campo e costrette a rapporti sessuali negli alberghi di Sabha, poi “vendute” come prostitute.
Si muore picchiati fino allo sfinimento ma a centinaia, soprattutto donne e bambini, entrati nel ghetto e non “riscattati” muoiono di fame. Efods ne ha visti tanti: « Ci davano soltanto due cucchiai di pasta al giorno, quindi c’erano persone che morivano di stenti».

Repubblica 13.11.17
Stupri, violenze e rapimenti nel deserto la caccia ai rifugiati dei terribili Asma Boys
di Francesco Viviano

IL CASO. LE INDAGINI SU BANDE DI GIOVANI CRIMINALI LIBICI CHE SEQUESTRANO E DERUBANO CHI TENTA DI ARRIVARE IN EUROPA
SONO il terrore delle migliaia di migranti che attraversano il deserto per raggiungere la Libia nella speranza di partire per l’Italia. Attendono le loro prede subito dopo i confini che da Gambia, Niger, Ciad e altri paesi portano in Libia. Gli Asma Boys, giovani criminali libici protetti dalle varie milizie, hanno allestito campi di prigionia in mezzo al deserto nelle quali tengono in prigionia migliaia di migranti in attesa del migliore offerente.
«Non hanno una struttura piramidale — racconta un investigatore italiano — non fanno riferimento ad un solo capo, ma sono collegati alle milizie alle quali pagano una sorta di “tangente” sui loro guadagni. Oltre un migliaio di giovani che si sono spartiti le zone nelle quali operare compiendo sequestri di massa. Gli Asma Boys intercettano le carovane di disperati che oltrepassano i confini con la Libia e li portano nelle loro prigioni, dei veri e propri campi di concentramento».
Fonti d’intelligence che operano nel territorio ma anche testimonianze di superstiti che sono riusciti a fuggire e sopravvivere a quell’inferno, confermano che sarebbero oltre 25 mila i migranti rinchiusi nelle prigioni libiche, decine e decine (oltre le trenta censite dalle ong e dai governi di Tobruk e Tripoli) che sfuggono all’osservazione delle organizzazioni internazionali umanitarie. Ed all’interno di quelle prigioni gli Asma Boys compiono orrori indescrivibili sui loro “prigionieri” prima di venderli ad altre bande e trafficanti di esseri umani, ad imprenditori agricoli libici che li sfruttano anche per uno o due anni, senza pagarli.
È questo, secondo chi indaga, il primo step dell’orrore dei migranti che fuggono dai loro Paesi per raggiungere l’Europa. Ed è li che avvengono i primi orrori. Le testimonianze di chi è sopravvissuto prima di essere imbarcato verso l’Italia sono terrificanti. «Eravamo in balia di veri e propri barbari, gente senza scrupoli», raccontano. «Ci chiedevano sempre denaro, sempre denaro. Ero con mia moglie e mia figlia, ci hanno chiesto di consegnare tutto quello che avevamo, ma non avevamo niente, ci avevano già rubato tutto durante il viaggio. Poi hanno portato via mia moglie e mia figlia e non so più dove siano», racconta un nigeriano che è riuscito a raggiungere l’Italia e che non ha ancora trovato i suoi familiari. «Mi hanno torturato, hanno chiamato con il mio cellulare i miei parenti mentre mi picchiavano chiedendo dei soldi per lasciarmi libero. Ma i miei parenti non ne avevano...».
Altri testimoni vittime delle torture degli Asma Boys, hanno raccontato agli operatori umanitari in Italia, violenze orribili: «Mi hanno costretto ad assistere agli abusi su mia sorella — ha raccontato un altro migrante — erano una decina. Piangevo, li supplicavo di smetterla, ma loro ridevano a continuavano a picchiare me e stuprare mia sorella. È svenuta, poi l’hanno portata via ed io non l’ho mai più rivista ».
Il tema delle torture subite dai migranti è stato oggetto di attenzione anche della Corte Penale Internazionale presieduta dalla giurista gambiana Fatou Bensouda che sta tentando di raccogliere prove sui crimini compiuti dagli Asma Boys. Ma la Corte, ha spiegato Fatou Bensouda, sta valutando di aprire una inchiesta anche su chi dirige e controlla le prigioni “ufficiali” in Libia.

La Stampa 13.11.17
“Il blitz di Bankitalia in Etruria senza avvertire prima il governo”
La versione degli ex vertici di Arezzo: l’11 febbraio 2015 il commissariamento fu imposto
La proposta di Serra per rilevare 700 milioni di sofferenze arrivò fuori tempo massimo
di Gianluca Paolucci

«Le pare che se a Palazzo Chigi avessero saputo del commissariamento di Banca Etruria, nessuno ci avrebbe avvisato?». A porre la domanda è un protagonista e testimone dei mesi convulsi che precedettero il commissariamento della banca aretina. La sua e quella di altri protagonisti di quella vicenda è una ricostruzione per forza di cose di parte e parziale. Suffragata però da riscontri, anche documentali. E’ la versione dello scontro tra Renzi e Visco vista da chi quello scontro lo vissuto sulla propria pelle: i vertici della vecchia Banca Etruria. La frattura tra governo e Bankitalia si sarebbe consumata poche settimane prima, secondo questa ricostruzione, sulla riforma delle popolari varata dal governo Renzi alla fine di gennaio.
Una riforma da tempo richiesta dalla stessa via Nazionale, ma che si discostava in alcuni punti da quanto Bankitalia avrebbe voluto. E soprattutto venne fatta per decreto, in maniera traumatica, con Renzi che «prese il comando delle operazioni e scrisse le regole», lasciando Palazzo Koch ai margini, spiega un altro dei protagonisti. Da lì la rottura tra i due, Renzi e Visco.
Che il commissariamento sia arrivato a sorpresa è un fatto. Lo dimostra il verbale del cda di Etruria dell’11 febbraio del 2015, giorno del commissariamento della banca. Il cda si riunisce per discutere di un sacco di cose importanti: le svalutazioni richieste da Bankitalia, un aumento di capitale per coprire le perdite e ripristinare i requisiti patrimoniali richiesti da Bankitalia, l’aggiornamento sul progetto di aggregazione richiesto da Bankitalia. I lavori iniziano alle 12,30 nella sede di via Calamandrei. Tra i presenti oltre al presidente Lorenzo Rosi c’è anche il vice Pier Luigi Boschi, padre dell’allora ministro Maria Elena Boschi.
Il verbale è pieno di riferimenti ai rapporti con Bankitalia: viene illustrato il piano di taglio dei costi portato avanti «in stretto contatto» con l’autorità di Vigilanza, vengono comunicati i progressi sull’aggregazione «condivisi» con la Vigilanza e le svalutazioni da questa richieste sulle sofferenze. Viene preparata anche la bozza di un comunicato che avrebbe reso noto al mercato l’entità della perdita e il progetto di un nuovo aumento di capitale, anche questo da far visionare agli ispettori.
Alle 15.45 il cda riprende dopo una pausa e Rosi avvisa che gli ispettori di Bankitalia «hanno invitato il consiglio alla trattazione dei soli argomenti di massima urgenza (...) avvisando altresì che al termine dei lavori e prima della loro chiusura dovranno rendere comunicazioni urgenti al consiglio e al collegio sindacale». I lavori proseguono in un clima per nulla disteso e il verbale si chiude con le firme dei commissari appena insediati.
La richiesta di commissariamento di Bankitalia al ministero dell’economia è del 6 febbraio, un venerdì. Il decreto del Mef è del martedì 10 febbraio. Possibile che nessuno abbia avvisato Palazzo Chigi? E perché da Palazzo Chigi nessuno chiama Arezzo? Nelle settimane precedenti è provato che l’attenzione di Palazzo Chigi sul dossier Etruria è estremamente elevata.
C’è l’episodio dell’interessamento di Ghizzoni, allora ad di Unicredit. Episodio che la Boschi ha smentito, ma è un fatto che Rosi incontrò, a fine 2014, lo stesso Ghizzoni per parlare della possibilità di un’acquisizione. C’è la telefonata dell’allora sottosegretario Delrio al presidente di Bper, nei primi giorni del 2015, per informarsi della questione Etruria. Delrio ha spiegato di essersene interessato «per le possibili ricadute occupazionali».
Ma è un fatto che questo risulta l’unico intervento di Delrio, sul quale allora convergevano tutte le vertenze industriali, in materia bancaria. E c’è il lungo abboccamento con il finanziere Davide Serra, che per mesi - dal fallimento dell’ipotesi Vicenza - porterà avanti i suoi contatti con Etruria. Non è l’unico fondo che si fa avanti per Etruria in quel periodo. Ma le fonti interpellate chiamano Serra «la carta di Boschi» per il salvataggio. I contatti si concretizzeranno in un’offerta da 700 milioni per rilevare le sofferenze della banca. Arrivata però a fine febbraio, con la banca già commissariata.

Il Fatto 13.11.17
Tentazione Cencelli: la Sinistra ricade nei vizi della spartizione
In vista dell’assemblea del 2 dicembre Mdp, Si e Possibile si sono già accordati sul metodo di composizione delle liste per quote. I civici del Brancaccio in rivolta
di Luciano Cerasa

Una parte a me, una parte a lui e a te la metà, perché sei più piccolo e pure l’ultimo arrivato. Sarebbe questo il metodo tutt’altro innovativo e in pieno stile Cencelli, che starebbe andando per la maggiore tra gli organizzatori della costruenda compagine arcobaleno alla sinistra di Renzi per compilare liste di delegati e candidati.
Mdp annuncerà a breve un regolamento dell’assemblea costitutiva fissata per il due dicembre, che dovrebbe tracciare anche l’itinerario per la spartizione delle poltrone. Ma le indicazioni che stanno arrivando ai territori da Roma sono ben distanti dall’idea di un’area civica che tenga dentro i partiti e che cerchi di recuperare anche gli astenuti, sul modello spagnolo. A decidere i nomi dei candidati a quanto pare saranno le assemblee provinciali. Di fatto la partecipazione è libera e aperta a tutti gli elettori, ma gli incontri saranno organizzati e diretti dai partiti. Più o meno l’idea di Bersani, Fratoianni e Civati è questa: convocazione, palco presidiato, dibattito e poi la presidenza propone una lista di nomi, bloccata e sostanzialmente pro-quota. Grosso modo 40% a Mdp, 40 a Sinistra italiana e 20 a Possibile. E la partecipazione dal basso che non dà più il controllo alle segreterie va a farsi benedire.
Con il Rosatellum finirebbe allo stesso modo nella scelta dei parlamentari dei vari schieramenti: nominati saranno di qua e nominati saranno di là. Nell’area civica riunitasi al Brancaccio serpeggia un fortissimo malumore e si ragiona se starci o mollare la spugna. Il mondo più “radical” vorrebbe sentirsi dire che ci sarà un rinnovamento vero delle liste. Se si cambia rotta i capitani non possono essere sempre gli stessi, si ragiona, il popolo del referendum era molto più ampio e non lo richiami alle urne con un’assemblea di partitini. Anche l’indicazione di Pietro Grasso a guida politica in pectore non è giudicata la scelta migliore. Prima di tutto nel metodo: l’assemblea incoronerà un leader, non lo sceglierà tra una rosa di candidature. E poi, si recrimina, se l’idea è di confrontarsi solo con il Pd si può capire, ma se si vuole competere con i Cinque Stelle è evidente che Grasso è un pezzo del sistema, una candidatura fatta per prendere i voti dei sessantenni scontenti di Renzi, non per mobilitare il popolo del No al referendum composto in gran parte da giovani. Proprio un altro progetto, che potrebbe seminare scontenti e indifferenti.

Corriere 13.11.17
Pisapia: unire. Ma Boldrini: non col Pd
Assemblea di Campo progressista, l’ex sindaco ai dem: no a un’altra Sicilia
La presidente della Camera (applaudita) indica l’agenda. E Mdp approva
M. Gu.

ROMA Doveva essere il giorno della verità, per Campo progressista. Ma ieri, dopo mesi di riflessione per «tradurre l’utopia in progetto», Giuliano Pisapia si è limitato a ribadire le sue parole d’ordine. La novità è che la formula di un «nuovo centrosinistra per battere le destre populiste» comincia a stare stretta al popolo di Pisapia, che guarda al cantiere di una lista unitaria guidata da Pietro Grasso.
L’auditorium Antoniano è pieno per metà, 300 persone e, in prima fila, Laura Boldrini. Il saluto con il padrone di casa è affettuoso, assai più del congedo. Parte Pisapia e ancora una volta si appella al Pd: «L’idea di una autosufficienza rischia di essere un suicidio. Non possiamo regalare il Paese alle destre e ai populisti». L’avvocato si dipinge come «l’ultimo giapponese» e promette una strenua «resistenza» in nome dell’«unità e della discontinuità». Rilancia il suo mantra contro «la ridotta minoritaria» di Bersani e avverte Renzi: «Noi non vogliamo un’altra Sicilia». Quel che Pisapia non dice, lo afferma dal palco la presidente della Camera, che trascina l’assemblea di «Diversa» con un discorso da leader. Alla fine scattano tutti in piedi e i giornalisti registrano qualche attimo di gelo con Pisapia, spiazzato per l’accoglienza che la sua gente ha riservato alla terza carica dello Stato. L’obiettivo di un nuovo centrosinistra è lo stesso, ma l’inquilina di Montecitorio mette subito in chiaro il suo «no a un’alleanza purchessia», no a un accordo con il Pd nei collegi che non corrisponda a un patto sul programma, in netta discontinuità con il renzismo: «Dobbiamo cambiare radicalmente le politiche che hanno peggiorato la vita delle persone».
La critica al Jobs act è severa, Boldrini boccia i «nuovi lavoretti con cui non si organizza una vita» e invita a voltare pagina. «Basta con i bonus, basta con gli sgravi a tempo», no alla flat tax e sì allo ius soli. Ovazione. Tocca al giovane Marco Furfaro scandire il motto che molti si aspettavano da Pisapia: «Non ci sono le condizioni per un’alleanza col Pd. Non siamo la stampella di un leader ammaccato». Parlano Cuperlo e Damiano per la minoranza del Pd, Zedda per i pisapiani-renziani, Santagata per il mondo prodiano. Tabacci incassa le lodi di Pisapia a quel «centro più a sinistra della sinistra». Ecco Lerner, Monaco, Ferrara... Roberto Speranza sottoscrive «l’agenda straordinaria di Laura Boldrini» e contesta che l’unità sia la formula magica per vincere: «Unire senza cambiare politiche è una presa in giro». Le divergenze sono evidenti, eppure negli accenti di Boldrini, Pisapia e Speranza, Franceschini ha colto «segnali positivi di una volontà di ricomporre il centrosinistra».

Reubblica 13.11.17
Grasso la chiama per congratularsi L’idea di un ticket
di Monica Guerzoni

La prima telefonata di congratulazioni Laura Boldrini l’ha ricevuta dal presidente del Senato, che ha voluto complimentarsi a caldo per «la nettezza delle posizioni» assunte alla convention di Pisapia. E se molti prevedono una sfida per la leadership tra la seconda e la terza carica dello Stato, la giornata di ieri prefigura piuttosto un ticket per la guida della lista unitaria di sinistra. Un uomo e una donna, proprio come si augurava dal palco dell’Antoniano la presidente dei Verdi europei, Monica Frassoni. Grasso e Boldrini, che pure sembravano destinati a rivaleggiare nello stesso campo, in questa fase si ritrovano sulla stessa lunghezza d’onda. Convintamente a sinistra, distanti dal Pd di Renzi e dalle politiche degli utimi anni. E se il presidente del Senato ha rinunciato a un seggio sicuro e si è dimesso dal gruppo dem di Palazzo Madama, la presidente della Camera ha schivato ogni lusinga proveniente dal Nazareno e potrebbe accettare l’offerta di Speranza, Fratoianni e Civati: candidarsi nel centro di Milano, per intercettare i consensi della «base» di Pisapia. Sarà per i sondaggi, che lo danno secondo soltanto a Gentiloni quanto a gradimento tra gli elettori di centrosinistra, ma Grasso non si sente insidiato dal carisma di Laura Boldrini. Anzi, nelle ultime ore il presidente si è convinto che l’inquilina di Montecitorio sia la personalità giusta per allargare l’alleanza e traghettare un pezzo di mondo di Campo progressista nel progetto della lista unitaria. Lui ne sarà presidente e lei potrebbe essere preziosa anche per strappare al mare dell’astensione tante elettrici con il cuore a sinistra, che si sentono non rappresentate o discriminate. «Chi si dice progressista non può non dirsi femminista — ha gridato Boldrini dal palco della kermesse di Pisapia, incassando uno degli applausi più convinti —. Se le donne vanno avanti, tutto il Paese va avanti». A Nico Stumpo, responsabile dell’organizzazione di Mdp, è scappato un «brava!» ad alta voce. Speranza ha sottolineato l’apprezzamento per l’agenda-Boldrini. E persino il centrista Tabacci, uno degli uomini più vicini a Pisapia, ha speso dal palco una parola per il nuovo ticket: «Siamo onorati di avere dalla nostra parte la seconda e la terza carica dello Stato».

Repubblica 13.11.17
Boldrini: “Non si può stare con questo Pd”
Alla convention del movimento di Pisapia la presidente della Camera parla da leader della sinistra
Standing ovation dopo 34 minuti di discorso: “Basta bonus a pioggia e al nuovo schiavismo dei lavoratori”

ROMA. Quando finisce di parlare – 34 minuti, tanto basta a Laura Boldrini per illustrare il manifesto politico dei progressisti – i militanti riuniti in assemblea da Giuliano Pisapia, si alzano in piedi per una standing ovation. È l’investitura a leader della sinistra della presidente della Camera. Poco prima di intervenire nell’Auditorium Antonianum di Roma, Boldrini si schermisce: «Candidarmi? Prematuro». Poco dopo il discorso, cadenzato da applausi, che spazia dalle tasse al sisma, dal valore delle donne alla denuncia del “caporalato digitale”, ancora minimizza: «Spero che il contributo serva ».
Ma Laura Boldrini si prende la scena e la leadership. E rompe gli indugi in cui Campo Progressista e il suo “garante”, Pisapia, esitano: «Allo stato attuale, di fronte all’indisponibilità a cambiare rotta non sembrano esserci i presupposti per un’alleanza con il Pd purtroppo». Lo ripete due volte quel “purtroppo”, ma poi passa ai 6 punti politici («6 è un bel numero come dice Sant’Agostino») del manifesto dei progressisti, che deve essere laburista, sociale, femminista, ambientalista, europeista, solidale. Dà così corpo a quella «discontinuità» che insieme a «unità» è il filo conduttore dell’appello di Pisapia al centrosinistra. E quindi: «Basta bonus a pioggia, elargizioni come oboli, sgravi a tempo, palliativi». Se Renzi ha orecchie, ascolti. «Basta nuovo schiavismo, impoverimento dei lavoratori, lavoretti e precarietà con cui non si costruisce futuro». Ci vogliono misure strutturali, investimenti pubblici. Un libro dei sogni? No, dati alla mano, conti in tasca allo Stato, si possono fare queste politiche se si lotta contro l’evasione fiscale, se ci sarà una web tax, se però si dice no alla flat tax. «La tassazione deve essere progressiva, sulle tasse dobbiamo essere chiari: meno tasse vuol dire meno servizi per chi ne ha più bisogno». Ancora: «Chi è progressista non può non sentirsi femminista». E poi: «Contro le Ong una campagna scellerata».
Nella sfilata di leader del centrosinistra che prendono la parola nella convention di Campo progressista (che s’intitola “Diversa”), il più entusiasta su Boldrini è Roberto Speranza, che con Mdp da Pisapia e dal suo movimento ha preso le distanze. «Condivido dal principio alla fine quello che ha detto la presidente Boldrini». E fa pressing sull’ex sindaco di Milano: «Costruiamo una alternativa a quello che c’è oggi, in una prospettiva larghissima, apertissima. Ma il tempo è adesso».I dem Gianni Cuperlo e Cesare Damiano assicurano invece che porteranno nella direzione del partito oggi l’ultima chiama di Pisapia per una unità del centrosinistra. Bruno Tabacci, il più convinto finora di un’alleanza con il Pd, riflette:«Renzi non è in grado di gestire una coalizione larga». Conclude Ciccio Ferrara. E Pisapia lasciando l’Antonianum: «Attediamo risposte».
( g. c.)

Repubblica 13.11.17
Il ritratto.
Pietro Grasso le ha telefonato “Sei stata brava”. Ma è iniziata la partita per mettersi a capo di un pezzo di sinistra
Anche Laura in campo quello strano derby tra i due presidenti
di Giovanna Casadio

PIETRO GRASSO
Io mi sento un ragazzo di sinistra e chiedo alla sinistra di non fare passi indietro sui valori
Così il presidente del Senato alla festa di Mdp a Napoli
LAURA BOLDRINI
Chi è progressista non può non essere anche femminista
Così la presidente della Camera all’incontro con Pisapia

Roma. «Io ci sono». Laura Boldrini è pronta a scendere in campo come leader della sinistra. Quattro anni e otto mesi dopo l’elezione a presidente della Camera, Boldrini - terza donna nella storia repubblicana a guidare l’assemblea di Montecitorio, dopo Nilde Iotti e Irene Pivetti - è in corsa. In questi anni le è capitato di tutto. Già quando adottò la “ghigliottina” per condurre in porto il decreto Imu-Bankitalia, fu bersaglio degli attacchi sessisti sul web scatenati dai 5Stelle. Poi aggressioni verbali e fake leghiste. E lei imperterrita, forte di quell’esperienza come portavoce dell’Alto commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite che l’aveva portata negli angoli più sperduti del mondo, è andata avanti. Diretta e ostinata.
Fino all’investitura a leader della sinistra nell’assemblea di Campo progressista, ieri. Se qualcuno pensa che sia cominciato un derby con l’altra più alta carica istituzionale, il presidente del Senato, Pietro Grasso, ebbene Boldrini fa sapere che si sbaglia. Tra i primi a telefonarle per complimentarsi con il discorso fatto è stato proprio Grasso: «Brava Laura, doppiamente brava per la nettezza delle posizioni che hai assunto». Le ha detto il collega presidente, che ha lasciato il Pd con parole non lusinghiere per quel partito guidato da Matteo Renzi.
La situazione è anomala, effettivamente. Le due più alte cariche dello Stato, i presidenti dei due rami del Parlamento - anche se cercano di preservare il loro ruolo di arbitri e perciò ripetono di non volere essere tirati per la giacchetta - sono in campo per guidare la sinistra italiana. Grasso incoronato da Mdp di Bersani, Speranza e D’Alema con l’aggiunta di Sinistra italiana di Fratoianni e Vendola, di Possibile di Pippo Civati e pure di Montanari e Falcone. Boldrini designata dall’assemblea di Giuliano Pisapia, al quale la lega una solida amicizia, che tuttavia non le ha impedito ieri di avvertirlo che non è più tempo di indugiare nell’illusione di abbracciare questo Pd.
Ma d’altra parte sin dall’inizio, dalla loro elezione alla guida delle due Camere, i due sono legati da un comune destino. Furono entrambi, provenienti dalla società civile, l’ultimo bel gesto del centrosinistra di Bersani e Vendola - uniti nella coalizione “Bene comune”, che non aveva perso ma non aveva neppure vinto. Bersani allora segretario del Pd, prima di essere travolto a sua volta dai 101 franchi tiratori che impedirono a Romano Prodi di essere eletto al Quirinale, disse: «Con Boldrini e Grasso alla guida delle Camere abbiamo dimostrato che cambiare si può». Forse per questo, ora la sinistra vuole ricominciare da loro: da Grasso “ragazzo di sinistra”, ex procuratore antimafia; da Boldrini, donna di sinistra, che invitò, insediandosi alla Camera, a «guardare il mondo con lo sguardo aperto di chi arriva da lontano, con l’intensità e lo stupore di un bambino, con la ricchezza interiore inesplorata di un disabile». Tanta acqua è passata. Boldrini è stata accusata di essere «divisiva », fissata con il linguaggio di genere, che cioè si dica sindaca e ministra, al femminile. Però nell’assemblea di Campo progressista è tornata sulle buone pratiche della parità, senza indugiare sulle parole ma sulla sostanza di un paese al 51% composto da donne e che («Quando mai si è visto?») discrimina la sua maggioranza.
Con Grasso, come presidenti delle Camere, hanno preso insieme iniziative importanti, ad esempio hanno varato il ruolo unico dei dipendenti del Parlamento. Anche in politica c’è feeling, se è vero che tutti e due immaginano una sinistra che non si rinchiuda in una ridotta, che non faccia semplice testimonianza, che getti il cuore oltre l’ostacolo delle divisioni. Grasso e Boldrini però dovranno accordarsi per mettersi a capo di una sinistra a pezzi.

La Stampa 13.11.17
Le “alte cariche” tutte in campo
Dopo Grasso si schiera Boldrini
La presidente della Camera attacca Renzi e ruba la scena a Pisapia
di Fabio Martini

Sta parlando da 32 minuti, un intervento lunghissimo quello di Laura Boldrini, più lungo di quello del padrone di casa, Giuliano Pisapia e quando finalmente la presidente della Camera si congeda dalla platea, i militanti di Campo progressista la salutano con una standing ovation, un applauso lungo e appassionato. L’ex sindaco di Milano resta seduto e il suo viso è contrariato. Per ragioni evidenti. Nella mezzora appena conclusa, la presidente della Camera non soltanto ha trascurato la terzietà che si attribuisce di solito alla terza carica dello Stato, ma è intervenuta con espressioni lapidarie nel delicatissimo dibattito in corso dentro Campo progressista e più in generale nell’area a sinistra sull’opportunità di coalizzarsi col Pd e lo ha fatto con voce alta e impostata, apprezzatissima dalla platea: «Di fronte a tante espressioni di indisponibilità credo che non ci siano più le condizioni per un’alleanza con il Pd! E io dico, purtroppo». E, sempre con un tono gagliardo, da comizio, ha bocciato la politica economica dei governi a guida Pd: «Basta con i palliativi, con i bonus a pioggia. Gli incentivi devono essere strutturali e non elargiti come oboli!».
Espressioni molto nitide, inserite in un intervento fiammeggiante che segue di qualche giorno le esternazioni più misurate ma altrettanto nette espresse giovedì scorso dal presidente del Senato Pietro Grasso al Festival della letteratura di Pescara: «Non so se sia uscito io dal Pd o se è il Pd che non c’è più. Il Pd era quello di Bersani...». Grasso e Boldrini, due interventi nell’arco di 4 giorni che disegnano uno scenario originale: la seconda e la terza carica dello Stato impegnate nella bagarre politica con la stessa verve polemica dei leader di partito.
Ma mentre Pietro Grasso è stato chiamato (da Bersani e D’Alema) a guidare la “Cosa rossa” che dovrebbe nascere dall’alleanza Mdp-Sinistra italiana-Montanari&Falcone, la presidente della Camera non soltanto si è di fatto “iscritta” a Campo progressista, ma ha fatto pendere il suo peso su una bilancia ancora molto in equilibrio dentro il movimento guidato dal sempre più indeciso Pisapia.
Una divisione tra le diverse anime affiorata anche nella assemblea dei quadri, convocata all’Auditorium Antonianum dei Francescani, che era chiamata a prendere una decisione sulle alleanze. L’ex sindaco di Milano resta convinto che la Lista progressista in costruzione con altri soggetti (i Radicali, i Verdi, i socialisti di Nencini, prodiani come Giulio Santagata), debba lasciare aperta la strada per un’alleanza tecnica col Pd nei collegi: «Non vogliamo un’altra Sicilia, non possiamo non fare di tutto per unire». Chiede a Mdp, di non chiudersi in una «ridotta» che può fare solo testimonianza, senza cambiare il Paese. E ripete più volte che la parola-chiave, oltre ad «unità», è «discontinuità». Non al punto di chiedere, almeno ora, che Renzi si faccia da parte. Una linea condivisa, nei loro interventi, da Giulio Santagata, ’ex braccio destro di Romano Prodi, dal leder dei Verdi Angelo Bonelli e con qualche cautela in più da Riccardo Magi, segretario dei Radicali italiani.
Ma dentro Campo progressista l’area ex Sel (Ciccio Ferrara, Marco Furfaro) non ci sta e spinge non soltanto per rompere col Pd, ma punta a ricongiungersi con Mdp e con gli eventuali, ulteriori scissionisti dal Pd (Orlando e Cuperlo?), una linea che a sorpresa ha trovato come portavoce la presidente della Camera. Incoraggiata probabilmente dagli ex Sel (ma anche da Bruno Tabacci), Laura Boldrini con un intervento appassionato e militante ha conquistato gli applausi più convinti della giornata, costringendo una volta ancora Pisapia a rinviare ogni decisione.

Il Fatto 13.11.17
Pisapia tentenna ancora “Guai se Renzi si isola” Boldrini gli ruba la scena
Grandi manovre - Oggi direzione Dem. La presidente scende in campo per l’ex sindaco
di Lu. Ce.

La seconda e la terza carica dello Stato si contendono la leadership della diaspora della sinistra alla sinistra del Pd. Uno spazio per ora ristretto, affollato e diviso sul da farsi, a cominciare dall’atteggiamento da tenere con la casa del grande fratello dem, per ora stabilmente occupata da Matteo Renzi.
Dopo il presidente del Senato, Pietro Grasso, che ha aperto da qualche settimana lo sportello delle consultazioni per la “reunion” di Mdp, SI e Possibile, anche la presidente della Camera, Laura Boldrini scende in campo ma per l’altro competitor a sinistra del Pd, Giuliano Pisapia. Ma parlando dal palco di “Diversa”, il convegno di area convocato ieri a Roma da Campo progressista, Boldrini dà subito un dispiacere all’ex sindaco di Milano: “Di fronte a tante espressioni di indisponibilità, allo stato attuale purtroppo non sembrano esserci i presupposti per un’alleanza con il Pd”. La posizione della presidente della Camera piace invece all’esponente di Mdp, Roberto Speranza, che accoglie con entusiasmo la sua agenda politica, definita “eccezionale”. Chi è progressista non può non essere anche femminista, premette Boldrini che poi boccia in seguenza il Jobs act (“il lavoro dovrebbe tirare fuori le persone dalla povertà, non tirarle dentro. Non è stato creato lavoro, ma lavoretti”), i bonus a pioggia (“gli incentivi devono essere strutturali e non elargiti come oboli”) e dice un No tondo alla flat tax, ingiusta “perché fa parti uguali tra disuguali”, proponendo di ripristinare per chi ha grandi patrimoni la tassa sulla prima casa: “Come prevede la Costituzione, chi ha di più deve contribuire di più”. Infine l’Europa: “Tutti dobbiamo contribuire per creare gli Stati Uniti d’Europa. Disgregare l’Unione europea è un atto autolesionistico”.
L’intervento da nuovo leader del neonato Campo progressista della Boldrini, suggellato in sala da una standing ovation, ruba la scena al discorso di Pisapia che torna a tentennare in modo bipartisan tra Renzi e Bersani. “Lo dico al Pd, l’idea dell’autosufficienza è un suicidio politico, non possiamo lasciare il Paese alla destra”, luogo politico e culturale dove, secondo il padre di Campo progressista, il segretario Renzi dovrebbe smettere di guardare: “Guardi a sinistra: non ci può essere alcun cammino per chi pensa che nel nuovo centrosinistra ci possa essere spazio per un nuovo o un vecchio centrodestra”. Pisapia poi volge la testa e dice no anche alla squadra di Grasso “una ridotta minoritaria che non ce la fa a governare il paese”. Insomma per Pisapia quel che bisogna evitare è la sindrome siciliana del centrosinistra diviso, che tanti dispiaceri ha già affibbiato a Renzi e a Bersani e tornare in fretta a un’unica coalizione. La pensa così anche l’ex segretario del Pd, Walter Veltroni, da molti considerato il mentore del segretario del Pd, che ospite di Lucia Annunziata su Rai 3 lo prende per le orecchie e detta le condizioni a tutti: “Domani (oggi, ndr) alla direzione Renzi per prima cosa annunci che vuole concludere l’iter di legge dello Ius soli e del biotestamento e inviti ad un tavolo Grasso e le altre forze”. “Bisogna cercare di costruire al centro e a sinistra – sostiene Veltroni – uno schieramento capace di competere. Se no vince la destra o peggio, non vince nessuno”.

Corriere 13.11.17
I (tanti) generali e le liti a sinistra
di Aldo Cazzullo

C’ è un solo problema che la forza nascente alla sinistra del Pd non ha: la mancanza di leader. Le truppe scarseggiano; i generali abbondano. E non uno la pensa come l’altro.
A fronte di infinite difficoltà, l’esercito della nuova sinistra ha due certezze: un’ampia pluralità di posizioni; e una vasta schiera di condottieri. Ognuno si considera il comandante in capo, nonché l’ideologo. Peccato che nessuno abbia le stesse idee degli altri.
Ieri, ad esempio, Pisapia ha detto che bisogna fare l’alleanza con il Pd, e la Boldrini ha risposto che al momento non si può fare l’alleanza con il Pd. In platea non c’era un delegato che concordasse con il vicino: chi proponeva l’accordo tecnico, chi l’accordo politico; chi la desistenza nel Centro Italia, chi l’arrocco al Nord; chi il patto di ferro, chi la rottura.
Non è in discussione la qualità delle persone: Pisapia ad esempio è stato un buon sindaco di Milano; la Boldrini è stata molto attaccata sul web ma è molto amata dal suo popolo, perché spesso è stata l’unica a dire cose di sinistra. Il punto è la quantità. Pisapia doveva essere il rassembleur , fino a quando non è sceso in campo il presidente del Senato Grasso. Ma Bersani non ha mai rinunciato ufficialmente a essere lui il leader ombra. D’Alema da sempre considera che il posto di capotavola sia là dove siede lui. Però, se il capo di una forza giovane dev’essere giovane, allora chi se non Speranza? Poi c’è il portavoce di Sinistra italiana, Fratoianni, che è pure bello; almeno quanto il biondo Civati, fondatore di Possibile, la risposta italiana a Podemos (che però ha il 20%, vale a dire circa 200 volte di più). Ci sarebbe anche il movimento di Anna Falcone e del professor Montanari, che — come ha annotato Roberto Bonami sulla Stampa — ha scritto un libro contro tutte le mostre, tranne le sue. Non manca ovviamente la sinistra della sinistra: i rifondatori comunisti capeggiati da Acerbo che ha appena preso il posto dell’ex ministro Ferrero, celebre per aver manifestato contro il suo governo, quindi contro se stesso. Ieri all’assemblea di «Diversa», il nuovo nome del movimento di Pisapia, è stato evocato pure il fantasma di Turigliatto, citato da Carlo Romano, uomo di Tabacci (esistono). Non possono assentarsi dalla scena, come sempre nei momenti più belli, i trotzkisti, rappresentati dal mitico Ferrando.
Disuniti su tutto, i numerosi leader sono uniti su un punto: detestano Renzi, le sue politiche, talora la sua persona. Con diverse sfumature — Pisapia ha votato sì al referendum, quasi tutti gli altri erano per il no —, ma con l’idea che il segretario stia affondando il Partito democratico, da cui è cominciata la fuga: il prossimo potrebbe essere Cuperlo, che ha un piede al Nazareno e l’altro ormai altrove.
Renzi di fatto è un centrista, almeno su temi fondamentali come economia e lavoro. Anzi, secondo i suoi odiatori è proprio di destra. È normale quindi che alla sua sinistra nasca un nuovo partito. Uno però. Non centomil a.
La situazione è ulteriormente complicata dal proliferare di correnti dentro il Partito democratico. Orlando ed Emiliano sono usciti allo scoperto con le primarie. Ma il più potente tra i capi interni resta Franceschini. Una corrente non si nega a nessuno, neppure a Damiano; come la qualifica di padre nobile, in attesa nell’affollata riserva della Repubblica.
Non è mica finita qui. C’è tutta una galassia di listarelle e leaderini indecisi tra il progetto di Pisapia, l’alleanza con il Pd, la lista europeista della Bonino e la tentazione di presentarsi per proprio conto: i radicali di Magi, i socialisti di Nencini, i verdi di Bonelli e altri che certo stiamo dimenticando. Libertà e Giustizia di Sandra Bonsanti che fine ha fatto? Vogliamo proprio escludere una zampata di Vendola? Un canto del cigno di Bertinotti? Una resurrezione di Occhetto, ieri acclamato alla fiera della Microeditoria di Chiari (Brescia)?
Sarebbe anche uno spettacolo bello e variopinto. Il problema è che i mille coriandoli in cui si è frammentata la sinistra rischiano di essere dispersi dal vento. Che in tutto il mondo, Europa e Italia comprese, tira verso destra.

Repubblica 13.11.17
Alle radici del mal di sinistra
di Tommaso Cerno

LA SINISTRA si gioca oggi, come l’Italia di mister Ventura, la qualificazione al campionato politico di primavera. Si presenta in campo priva di un progetto per il Paese e soprattutto di una visione del mondo. Si presenta divisa e pronta a dare la colpa all’arbitro. Si presenta all’indomani di una scissione che ha spento il nucleo del progetto democratico. Fatica a trovare un collante capace di rimettere insieme i cocci sparsi sul terreno progressista. Al punto che alla vigilia della direzione del Pd che fa da spartiacque fra la legislatura che si spegne e i riflettori della campagna elettorale che si accendono, sono intervenuti — allo scadere, come si dice in gergo — Romano Prodi e Walter Veltroni, abiurando il voto di starsene fuori dalla contesa che, bluffando un po’, avevano fatto entrambi. Segno che la situazione si è davvero messa male.
VA PREMESSO che Matteo Renzi dal palco non farà un discorso epico, farà un discorso prevedibilissimo. Conterrà un’apertura non formale a sinistra, nessuna abiura su ciò che il Pd ha fatto finora, non imporrà tuttavia agli altri partiti di giudicare buone quelle scelte. Toglierà infine di mezzo la questione della sua leadership nel futuro governo e, in perfetta tradizione italiana, attenderà i commenti. Al termine del suo intervento, ognuno potrà leggere ciò che ha detto come meglio gli comoda. E ne ascolteremo delle belle. Tutto e il contrario di tutto. Ne deriva che la decisione da prendere — se si tenterà davvero di creare una coalizione allargata, capace di respingere l’avanzata delle destre oppure si deciderà di far passare la Svezia, cioè di arrendersi alla sconfitta — dipende da altro: è una scelta sostanziale che la sinistra, nelle sue mutazioni, deve maturare dentro di sé pensando solo al futuro del Paese e non al proprio. Per farlo, deve porsi una domanda su cosa sia diventata.
Cosa provoca questo mal di sinistra, la sensazione cioè di non saper più penetrare l’animo dell’Italia e del mondo?
Tre ragioni.
La prima ragione è di natura politica: mentre il nazionalismo si fa globale e diventa uno dei motivi politici più potenti del pianeta dai paesi ex-socialisti dell’Unione europea, all’Inghilterra della Brexit, gli Usa di Trump, la Russia di Putin, la Turchia di Erdogan, l’India di Modi, la sinistra rinuncia — più ancora della destra — alla dimensione internazionale. Si richiude dentro i confini della Stato-nazione che contesta, si provincializza mentre fuori marciano populismi e forze antisistema che arruolano milioni di cittadini in tutto il mondo. È uno scherzo della storia che la forza internazionalista per definizione rischi l’estinzione proprio quando i confini non esistono più. Ma basta ascoltare il dibattito per capire che è così. Perfino quello sulle migrazioni dall’Africa, la questione più difficile del secolo appena iniziato, è declinato all’interno dell’Italia. Si parla solo di leggi, di riforme vuote, di emendamenti e di mozioni. Come se all’improvviso la sinistra fosse diventata un Bignami di amministrazione pubblica e non un pensiero che sogna un mondo migliore.
La seconda ragione è di natura culturale: la sinistra italiana, divisa in cento correnti autodefinitesi tutte riformiste e che si distinguono solo dalle virgole nei comunicati stampa, non è più di sinistra. Non perché Renzi sia un moderato o un destrorso contaminato dalla stima del Cavalier Berlusconi, ma perché ha assunto una visione di se stessa che è animata dagli stessi fantasmi che animano la restaurazione culturale di questo tempo. Se ci riflettiamo la stessa idea della frontiera da chiudere, lasciando fuori gli “altri”, che anima la xenofobia e l’odio del terzo millennio, attingendo a uno dei cardini del nazionalismo storico, e che si dovrebbe combattere, è identica al virus che ha avvelenato la sinistra italiana: il desiderio di chiudersi in un’area più stretta dove tutti si somigliano. Una specie di mito della razza pura in politica. Un modo democratico per odiare l’altro.
La terza ragione è di natura pratica: a sinistra ormai tutti mentono sapendo di mentire. Prendiamo il surreale dibattito sulla riconferma di Ignazio Visco a Bankitalia. Renzi ne contesta l’operato, opinione legittima, ma viene criticato per il “poco senso dello Stato”, l’uomo solo al comando che si fa beffa del tempio istituzionale per eccellenza, rischiando di lordarne il marmo. Tutto giusto. Ma perché allora nessuno si è alzato a contestare quando, in pochi giorni, i presidenti di Camera e Senato hanno deciso per ragioni politiche di dismettere le vesti istituzionali e candidarsi alla guida di nascenti partiti della Nouvelle Gauche all’italiana? Eppure, storia repubblicana alla mano, si tratta della prima volta. Non era mai capitato.
La sinistra va in campo così, appunto come l’Italia di Ventura. Pensando a sostituire l’allenatore e non a vincere la partita. Primitiva ed elementare, in questo sì simile al nazionalismo di destra che a parole vorrebbe sconfiggere.

Repubblica 13.11.17
Rinviato, anzi no: che psicodramma il congresso di Napoli
Il caso/ accuse di brogli per eleggere il nuovo segretario provinciale pd
Il Nazareno nella notte di sabato blocca le operazioni di voto ma domenica ecco il dietrofront. Solo oggi i risultati
di Dario Del Porto

NAPOLI. Chi credeva di averle viste tutte, con i cinesi in coda per le primarie del 2011 e le monetine agli elettori ai seggi del 2016, ha evidentemente sottovalutato il Pd napoletano, capace di trasformare in uno psicodramma anche il congresso per l’elezione del nuovo segretario provinciale. Lì dove Matteo Renzi, dopo i disastri di un anno fa, aveva minacciato di usare “il lanciafiamme”, il voto nei circoli ha finito per incendiare ulteriormente gli animi, invece che sopirli.
Ci ha messo del suo anche il Nazareno, in realtà, dopo che uno dei candidati, Nicola Oddati, proveniente dall’area ex Ds, aveva sollevato riserve sulla legittimità del congresso chiedendo il rinvio. Nel giro di 12 ore, tra le 23 di sabato sera e le 11 di ieri mattina, i democratici napoletani sono passati dallo slittamento delle elezioni, sollecitato dal vice segretario nazionale Maurizio Martina con una mail inviata al garante Alberto Losacco, alla conferma del voto sancita sempre via mail dal responsabile nazionale per l’organizzazione Andrea Rossi. E non è ancora finita, perché ieri sera, quando avevano votato circa 10 mila iscritti (ma il dato non è ufficiale) sugli oltre 25 mila e i congressi si erano celebrati in un centinaio dei 126 circoli dell’area metropolitana, la commissione presieduta da Losacco ha deciso di non aprire i plichi, riconvocandosi per questa mattina. Una scelta, spiega Losacco, dettata non solo dall’esigenza di aspettare la documentazione dalle sedi più lontane, «ma soprattutto perché ci sono contatti e spiragli d’intesa tra i candidati e i loro sostenitori. In commissione si registrava un clima di maggiore serenità. Sono fiducioso», assicura Losacco. Ma chissà se oggi si saprà come è finita la corsa a tre fra il grande favorito Massimo Costa, medico e docente universitario, sostenuto dai leader locali del partito assieme a popolari, pittelliani, orlandiani e franceschiniani, Oddati, che insieme ai suoi sostenitori non ha partecipato al voto, e l’outsider Tommaso Ederoclite. A urne chiuse, sono cominciati i colloqui fra chi chiede un nuovo congresso domenica prossima e chi invece conta di proclamare i delegati per voltare definitivamente questa nuova, tormentata pagina del Pd napoletano, reduce dalla batosta alle Amministrative e senza più l’ex governatore Antonio Bassolino, che ha lasciato il partito.
La polemica aveva accompagnato tutta la vigilia del congresso. Oddati aveva contestato gli elenchi degli iscritti e 17 circoli avevano comunicato la volontà di restare chiusi. Ma la situazione si è ingarbugliata sabato sera, quando Martina ha scritto di ritenere «opportuno il posticipo » del congresso «a seguito delle valutazioni politiche emerse in ambito nazionale ». Così il congresso era stato inizialmente rinviato di una settimana. Ieri mattina, invece, Rossi ha replicato: «Pur rispettando le motivazioni politiche che hanno indetto Martina ad assumere la decisione di chiedere il rinvio, considerato che la comunicazione è pervenuta a poche ore dall’apertura dei seggi e che le procedure congressuali si sono svolte finora regolarmente, si conferma che i congressi si svolgeranno regolarmente ». A quel punto, è scattata la corsa contro il tempo per garantire lo svolgimento della consultazione. Intanto, il numero dei circoli chiusi è aumentato, con il risultato che neppure Costa è riuscito a votare perché il suo circolo di appartenenza, nel quartiere Vomero, era sbarrato. L’ennesimo paradosso, per il Pd napoletano senza pace.

Repubblica 13.11.17
Ritorna Berlusconi l’alleato necessario
di Ilvo Diamanti

IL successo di Nello Musumeci alle Regionali in Sicilia ha posto in evidenza la debolezza del Centrosinistra. Ma anche, ovviamente, la capacità competitiva del Centrodestra. Il diverso rendimento dei due poli si spiega con la differente capacità di coalizione. Prima causa della sconfitta del M5s, irriducibile a ogni alleanza. Mentre sull’altro versante, l’accordo fra il Pd e le diverse formazioni di Sinistra è risultato impossibile. Questa situazione non appare condizionata da specifici fattori territoriali.
MA DETTATA, piuttosto, da difficoltà sostanziali, che riguardano i rapporti tra i leader e le forze politiche di quest’area. Anche il centrodestra appare segnato da rilevanti differenze interne: di progetto e di strategie. Eppure, le distanze tra FI, Lega (NcS: Noi con Salvini), FdI e la stessa UdC, per quanto profonde, non hanno prodotto fratture insuperabili. Da ciò il successo del centrodestra. Che costituisce un precedente significativo. Perché delinea uno scenario che potrebbe riprodursi altrove, soprattutto nel Nord, alle prossime elezioni politiche. Tanto più quando entrerà in vigore la nuova legge elettorale, il cosiddetto Rosatellum (bis), che prevede la possibilità di presentare candidati di coalizione nei collegi uninominali. Diventa, così, probabile l’eventualità che il modello siciliano si riproponga altrove. Nei collegi e in prospettiva nazionale. Con effetti analoghi. Per gli analoghi tipi di relazione fra i partiti. Sulla diversa capacità di coalizione gravano diverse cause. Politiche, ma anche “personali”. Che hanno favorito, fin qui, e potrebbero avvantaggiare - ancora soprattutto - il centrodestra. Fra le altre, vale la pena di sottolinearne una, particolarmente evidente e influente. Il ruolo e la presenza di Silvio Berlusconi.
È infatti lui, il Cavaliere, il principale artefice dell’intesa in Sicilia. E del progetto di coagulare gli altri principali pezzi della destra, ma anche del centro. Per prima: la Lega. Quindi i FdI di Giorgia Meloni. Ma anche l’Udc. Mentre lo stesso Alfano tenta di accodarsi alla compagnia, per non rimanere appiedato – ed escluso – nella prossima legislatura. Silvio Berlusconi, peraltro, è anche l’interlocutore “necessario” per il PdR, il Pd di Renzi. Nella prospettiva di confermare e allargare il programma di riforme avviato negli ultimi anni dal governo. Con il sostegno essenziale di Berlusconi. A partire dal gennaio 2014, quando proprio Renzi e Berlusconi siglarono il Patto del Nazareno. Spezzato e concluso, nel febbraio 2015, dall’elezione di Sergio Mattarella. Ma oggi, meglio: domani, quell’intesa potrebbe divenire nuovamente necessaria. Nella prospettiva – molto realistica - di un Parlamento senza alcuna maggioranza possibile. Perché nessun Partito, nessun Non-partito, nessun Polo (e Non-Polo) pare in grado di affermarsi, alle prossime elezioni. Da solo. E soprattutto di governare. Da solo.
Così, Berlusconi diventa l’alleato necessario, seppure non gradito, per fare le riforme. Istituzionali, ma, ancor prima, economiche, necessarie al Paese per “rimanere in Europa”. L’unico in grado di “coalizzare” – quantomeno, “aggregare” - il centrodestra. O, se si preferisce, le destre di diverso orientamento. Per cercare l’intesa con il centrosinistra e, anzitutto, con il PdR.
La centralità ritrovata – ma, in fondo, mai perduta – di Berlusconi può apparire singolare. Perché il suo partito, FI, attualmente è stimato circa il 14%. Un paio di punti sopra, rispetto a un anno fa. Ma quasi 3 in meno, rispetto alle europee del 2014. E oltre 7, rispetto alle politiche del 2013. Senza risalire al periodo 2008-2009, quando il Pdl si attestò intorno al 35-37%. Mentre Berlusconi stesso, ha visto la fiducia nei suoi confronti, come leader, attestarsi al 30%. In risalita dopo l’uscita dal governo, nel 2011. Ma sostanzialmente stabile, negli ultimi anni.
In altri termini, Silvio Berlusconi si è imposto come tessitore politico proprio mentre lui, “personalmente”, ma soprattutto il suo partito “personale” appaiono deboli. Comunque e sicuramente: “più” deboli che in passato.
Tuttavia, la coincidenza fra i due dati non appare “casuale”. Anzi, in qualche misura è “causale”. Berlusconi, in altri termini, diventa un alleato possibile anche per gli altri, gli avversari politici, perché è più debole che in passato. Personalmente e politicamente.
Perché lui, per primo, ha bisogno di contare, sulle scelte di governo. Per ragioni politiche, personali. E per interessi aziendali. In secondo luogo, nessun soggetto politico, conviene ripeterlo, è in grado di governare da solo. Ma l’area di Centro-Destra, dove si collocano, FI, Udc, Lega e FdI, oggi appare il Polo che attrae maggiori consensi. Oltre un terzo dei voti. È, inoltre, il accreditato nella competizione per conquistare i collegi del Nord.
Ma Berlusconi è, sicuramente, l’unico a poterlo tenere insieme. L’unico in grado di trasformarlo da un’area confusa in un Polo effettivo. Non per caso, intercetta le simpatie dei due terzi degli elettori che si collocano a Centro- destra. Ma convince anche la maggioranza di quelli che si dicono di Destra. Senza “mezzi termini”. Berlusconi, infine, negli ultimi anni, ha visto crescere la fiducia nei suoi confronti presso gli elettori di Centro, ma anche di Centrosinistra.
Per questo oggi si propone, e può agire, come un “mediatore”. Mentre ieri era la bandiera di una “parte”, più che di un partito. E ciò segna un passaggio e un cambiamento significativo, rispetto alla nostra storia recente, segnata dalla sua presenza. Perché, dal 1994 fino a ieri, egli ha segnato la principale frattura del nostro sistema politico. Di più: del sentimento politico del nostro Paese. L’alternativa fra berlusconismo e anti- berlusconismo, infatti, ha rimpiazzato – in parte assorbito – il muro dell’anti-comunismo. Oggi neppure Berlusconi è in grado di erigere muri, intorno a sé. Per volontà e/o debolezza propria. E degli altri. Non importa. Ma il suo muro è divenuto una tela. Così, un’epoca della nostra storia è finita. E non è chiaro cosa ci attenda domani.
Anzi: oggi stesso.

Il Fatto 13.11.17
CasaPound e dintorni
“Abbiamo abolito i partiti e rianimato il fascismo”
Angelo D’Orsi - “Sottovalutazione e normalizzazione, un po’ come fecero molti intellettuali italiani tra il 1922 e il 1926”
di Stefano Caselli

“Pochi giorni fa ero in Lombardia, a Seregno – un comune che tra l’altro mi risulta essere stato recentemente commissariato causa infiltrazioni mafiose – al termine di un incontro sono stato accerchiato da un gruppo di persone che mi hanno chiesto con un tono piuttosto aggressivo: ‘Tu la vuoi più sicurezza?’ La prima cosa che ho pensato è stata perché mai degli sconosciuti mi dessero del tu, poi ho preso il loro volantino: orribile, fascista fin dalla confezione delle immagini. Era un invito ad arruolarsi in certe squadre di difesa del quartiere, ‘per tenere a bada l’immigrazione’, come se fosse un fenomeno governabile da una ronda. Siamo arrivati a questo, all’arruolamento”.
Angelo D’Orsi, docente di Storia delle dottrine politiche all’Università di Torino, racconta l’episodio con un misto di divertimento e preoccupazione.
Professore, Ostia o Seregno poco cambia. Come la chiamiamo questa ostentazione di fascismo così di moda?
Diffido dell’uso del termine “emergenza”, in Italia lo è ogni cosa, basta. La realtà è che il fascismo è una presenza costante nella storia d’Italia, non ce ne siamo mai liberati. Si è talvolta manifestato in forme diverse, oggi si ripresenta nella sua epifania più trucida e canonica, quella dell’aggressione violenta e impari, tipica delle squadre d’azione delle origini, che erano tutt’altro che eroiche.
A cosa dobbiamo questo “regalo”?
Negli ultimi decenni siamo stati fuorviati. Siccome non c’era più il comunismo, allora non c’era più nemmeno il fascismo. Ricordo un’intervista a Renzo De Felice sul Corriere della Sera sul finire degli Anni Ottanta in cui si sosteneva apertamente la tesi della fine dell’inutilità sopravvenuta dell’antifascismo. La firmava un certo Giuliano Ferrara, che su questa linea campa ormai da più di un quarto di secolo. Ci siamo illusi che il fiume nero e limaccioso avesse smesso di scorrere. E invece riemerge, come un fiume carsico, ciclicamente. E poi c’è un fatto determinante, la scomparsa dei partiti, in particolare di una forza di sinistra come il Partito Comunista, che ha storicamente, da Togliatti in poi, avuto la funzione di baluardo della democrazia, come lo era stato il Partito Socialista in epoca prefascista. Il venir meno del Pci – e lo dico senza essere mai stato iscritto in vita mia – ha aperto le praterie.
E chi è venuto dopo il Pci
Lasciamo perdere. Casa Pound e dintorni potranno anche fare orrore, ma spesso nelle periferie hanno un ruolo sociale e paternalistico, cosa a cui la sinistra, se ancora esiste, ha abdicato. Anche il fascismo delle origini si presentò come movimento rivoluzionario, fin dalla disfatta di Caporetto, quando si promise “la terra ai contadini”. Il Partito Socialista, peraltro contraddicendo Lenin, non lo fece. Oggi il massimo che si riesce a pensare è un obbrobrio come la legge Fiano, un vulnus pericoloso. Bisogna vincere sul piano delle idee, non su quello delle manette.
E gli intellettuali? Se ancora esiste questa categoria?
Sono stati spesso conniventi. Penso ad esempio a chi accetta un confronto pubblico in determinate sedi. È una situazione simile a quella che già si verificò tra il 1922 e il 1926: per molti intellettuali, contrari al fascismo, la comunanza di mestiere prevaleva comunque sull’opzione politica, per cui si poteva dialogare e collaborare. Abbiamo sottovalutato e normalizzato.
E se il vero problema fosse all’origine? Ossia nella storica continuità tra apparato statale fascista e apparato statale repubblicano?
A proposito di questo, molti tirano sempre in ballo l’amnistia Togliatti, che però non era così lasca. Semplicemente si sottovalutò la cultura delle istituzioni, in particolare della magistratura. Ogni spazio di arbitrarietà concesso dalla legge al giudice fu sistematicamente utilizzato a favore dei fascisti. Era giusta l’esigenza di creare il più in fretta possibile un nuovo Stato. Ma alla fine non fu così nuovo.
C’è anche un problema oggettivo di ordine anagrafico. La memoria storica del fascismo sta scomparendo.
Ricordo dibattiti con Norberto Bobbio e Alessandro Galante Garrone in cui si sminuiva il peso delle opinioni sul fascismo di chi il fascismo non l’aveva vissuto. Ma allora non potremmo nemmeno parlare di storia romana o di Risorgimento. Storia e memoria sono due cose differenti, la seconda è soggetta a oblio, rimozione, errore, la prima, in teoria, no.
Questo però è un discorso accademico. Non ci sono più i racconti dei nonni…
Qui deve supplire la scuola, fare un racconto storico adeguato all’età. I ragazzi oggi passano molto più tempo a scuola che in famiglia molto più tempo a scuola che in casa…
Una tesi ricorrente è che senza il successo del Movimento 5 Stelle la situazione potrebbe essere ben peggiore.
Il M5S è un movimento molto composito che intercetta destra e sinistra. Lo zoccolo duro del suo elettorato è principalmente provato dal tema della corruzione della cosa pubblica. Non condivido chi, come Renzi, liquida i 5 Stelle come “di destra”. Non è così.
Prima o poi vedremo un sindaco di Casa Pound.
Penso di sì. Non in una grande città, ma accadrà.

Il Fatto 13.11.17
L’ambiguità tra i sessi è anche peggio della molestia
di Elisabetta Ambrosi

Può esistere qualcosa di più insidioso delle molestie e dell’aggressione sessuale esplicita, di cui mezzo mondo sta discutendo? Sì: è il clima di costante e strutturale ambiguità che esiste quando una donna si trova a parlare di un lavoro con un uomo con un potere superiore al suo. Lei sa, e lui glielo conferma, che sarebbe utile gratificarlo, anche solo vestendosi bene, e sensuale, per lui. Lei sa che intrecciare un rapporto informale, intriso di erotismo, anche quando non si arrivi al sesso, è la strada che l’avvicinerà a ciò che sta cercando. Come lo è, ovviamente, avere un rapporto sessuale, con uomini che non sono mostri ma possono anche essere belli, simpatici, ironici.
Ma non è questo il punto. Anche quando una donna si ritrova in una relazione non spiacevole, comunque è a disagio perché non c’è parità. Lo racconta la sua ansia e paura di troncare, perché questo significherà inesorabilmente porte chiuse per lei. Di tutto questo, cioè del fatto che quel rapporto non è paritario, l’uomo che ha più potere spesso è ignaro: crede che ciò che stia accadendo sia una cosa naturale, così come ritiene naturale che del lavoro di cui si stava parlando non si debba più discutere in caso di allontanamento e rottura della relazione.
Invece le cose stanno diversamente e le donne lo sanno. Sono colpevoli? Può darsi. Eppure non sono migliori quegli uomini che neanche si rendono conto di quanto asimmetrici siano certi rapporti basati sulla differenza di potere, e sul timore, che ne consegue, di chi potere ne ha meno e che normalmente è in una posizione di maggiore fragilità.
Perché alla fine (quasi) sempre di questo si parla: un uomo con un ricco stipendio da un lato, una donna precaria o disoccupata, o comunque più povera, dall’altro. Responsabili entrambi di un clima sessualizzato, ma – di sicuro – in proporzione al loro potere e forza economica.

Il Fatto 13.11.17
Basta con il pregiudizio delle donne che riducono gli ex mariti sul lastrico
di Selvaggia Lucarelli

Cara Selvaggia, ti racconto questa storia perché negli ultimi giorni si è parlato molto di donne che riducono gli ex mariti sul lastrico e li riducono a clochard, a vite tra sedili e cruscotti di automobili, a nullatenenti ricattati da avvocati avidi e cinici. La storia con il mio ex marito suggerisce che le cose non sono esattamente così. O meglio, lo saranno in qualche caso. In qualche eccezione. Solo che le cose eccezionali sono pure dall’altra parte. Il mio ex marito mi ha lasciata poco dopo la nascita della nostra unica figlia, Sofia. Si era banalmente innamorato di un’altra, una argentina che aveva conosciuto durante un viaggio di lavoro. Stavamo insieme da 10 anni, avevamo insieme una società di catering, per me era stato non dico l’unico uomo della vita ma quasi.
Mi sono ritrovata a 30 anni a crescere una figlia quasi da sola (lui viaggia moltissimo) e a sbirciare le foto su Facebook di lui su aerei e località sparse per il mondo con un’altra. Più bella, più giovane, più tutto. L’ho odiata, ho odiato lui, ho odiato la mia vita. C’era solo una cosa davvero adorabile: mia figlia. Dopo cinque anni di buio in cui lui prendeva la figlia qualche rara domenica, il mio ex ha cambiato vita decidendo di cambiare lavoro e di smettere di viaggiare. Si è sposato (sì, con lei) e ha comprato casa a 1 km dalla mia. Da quel momento ha cominciato a vedere la bambina con regolarità. Questo non vuol dire che i nostri rapporti siano tornati sereni, vuol dire che ha iniziato a fare il padre. E lo ha fatto piuttosto bene per tre anni.
Nel frattempo mia figlia si è affezionata alla compagna di lui. All’inizio ne sono rimasta sconvolta, poi mi sono abituata, infine mi sono sentita sollevata. Se dovevo affidare mia figlia a un’altra donna, era meglio che quella donna fosse una persona amabile piuttosto che una stronza per assecondare le mie frustrazioni. Mi piaceva persino che mia figlia iniziasse a imparare lo spagnolo, che mi raccontasse dei piatti che cucinavano insieme, che mi parlasse bene di lei. Finché sei mesi fa una telefonata del mio ex marito mi annuncia che lui e sua moglie si sono lasciati. Farfuglia qualcosa nervoso, capisco solo “se la faceva con un altro”. Ho abbastanza goduto, lo ammetto. Dopo anni era il mio riscatto. Quello che non potevo prevedere è che qualche settimana dopo mi chiamasse lei. “Mi manca Sofia”, mi ha detto. Era la prima volta che ci parlavamo direttamente. Anche a Sofia mancava lei. Lo sapevo perché me lo aveva detto un paio di volte, quasi facendo finta che non fosse importante. E qui viene il bello Selvaggia. Io e questa donna siamo diventate amiche. Ci vediamo spesso e ogni tanto, quando lavoro, Sofia sta da lei. Solo che indovina che succede? Il padre non vuole. Capisci il paradosso? Siccome è stato mollato e lei ora ha un altro compagno, lui non vuole che Sofia la veda. E credimi, ci rende la vita complicata perché diciamo tutti delle gran bugie, compresa la figlia. Tutto questo per dire che no, le donne non sono solo mostri succhiasoldi, dopo i divorzi. Sono capaci di grandi cose. Perfino di diventare amiche di quelle che nostro marito se lo sono prese.

Cara V., è davvero una bella storia, però mi auguro che dopo tutto questo miele, questa tolleranza, questa generosità d’animo, tu farai l’unica cosa da fare per ristabilire la tua posizione di donna dominante: ruberai il nuovo compagno all’argentina. È lì che metterai alla prova anche la sua, di superiorità morale. (scherzo eh.)

Non capisco se il mio psicologo sia freudiano e weisteiniano
Cara Selvaggia, le parole di Morelli sulle donne che sono tutte “un po’ puttane” non mi hanno stupita. Ti dico solo che l’ultimo psicologo da cui sono andata mi ha adescata in una di queste chat in cui si filosofeggia su vita, amore e amicizia postando frasi di Osho e di Fabio Volo. Era lì a spiegare a tutte noi single disperate come fare ad uscire da lutti sentimentali e nel frattempo, in privato, faceva il piacione con tutte. Io ci sono cascata in pieno. Mi sono perfino comprata due suoi libri su amazon per andare all’appuntamento nel suo studio meglio preparata. Il suo studio era in realtà qualcosa di più simile al tinello di casa, ma sorvoliamo. Mi ha tenuta un’ora a chiacchierare indagando sulla mia vita, poi due giorni dopo mi ha cominciato a scrivere frasi ambigue via whatsapp.
Era chiaro che voleva scoparmi, più che psicanalizzarmi. Di fronte alla mia delusione e ai miei rifiuti, è diventato cattivo. Mi ha psicanalizzata in due messaggi dandomi della frustrata inattiva sessualmente e incapace di evolvere. Ho scoperto che la stessa cosa la fa con le altre che ci cascano. Tu scrivi un post in cui ti dipingi sola, abbattuta, delusa dagli uomini, lui ti scrive in privato che qualche seduta dallo psicologo può aiutare, poi manda qualche aforisma efficace, qualche pagina dei sui libri e il gioco è fatto.
Quindi, per tornare alla considerazione iniziale, non mi ha stupita la frase di Morelli. (non è lui lo psicologo che adesca, sia chiaro) Gli psicologi ci sembrano creature superiori e invece, ahimè, qualche volta ti chiedi se hanno studiato alla scuola di Freud o a quella di Weinstein.
Giò

Cara Giò, già di per sé uno psicologo che si procaccia clienti frequentando bacheche e chat dovrebbe insospettire. Diciamo che una donna saggia dovrebbe stargli alla larga. Se poi sono bacheche in cui si fa psicanalisi collettiva con le frasi di Fabio Volo, una denuncia all’ordine degli psicologi dovrebbe essere d’obbligo.

Repubblica 13.11.17
Il villano quotidiano e le molestate ignote
di Natalia Aspesi

PARE che a non poterne più di questa quotidiana tempesta a puntate di molestatori (non stupratori) di donne in vista, siano soprattutto le donne ignote: molestate ieri o cinquant’anni fa (secondo una ricerca Istat ogni anno in Italia una donna su tre viene molestata e se ne sta zitta) non contano nulla perché le villanate non sono venute da una celebrità e quindi ghiotte per tutti, ma dal ragioniere vicino di casa, dal matematico incontrato in ascensore, dal marito dell’amica più cara: dai signori xxx che certo non interessano a nessuno, e se decenni fa ci si scansava vergognandosi, adesso gli si può dare un calcio là e finisce lì, tra gemiti terrorizzati (di lui).
Un molestatore (non un violentatore) soprattutto se affascinante e potente in ogni campo, potrebbe essere un don Giovanni che ottiene ciò che vuole, o che è costretto a dare ciò che le signore vogliono (se non ha di quelle mogli che non lo mollano un secondo, come certi registi o certi direttori d’orchestra). Allora perché molestano? Perché è un esercizio di potere in un campo, quello dei sessi, che hanno perduto, perché sanno di umiliare, perché possono ricattare, perché alla fine sono fragili, insicuri e delle donne, le loro donne, hanno paura. Però è necessario anche un minimo di buon senso, non creando una classe specifica di molestatori (non stupratori) composta solo di privilegiati, né trasformando ogni uomo in un criminale, un serial rapist.
A sentire le molestate denuncianti, questi molestatori (non stupratori) una volta le hanno toccato il ginocchio, un’altra hanno aperto la patta, un’altra ancora hanno fatto versacci con la lingua (risposte eleganti, non mi rompa le calze, non gli faccia prender freddo, pare proprio il mio cagnolino Billy). Certo molestie, ma forse solo anche citrullaggini, goliardate (non stupri), certo più colpevoli quando imposte da persone a cui si potrebbe pure dire no grazie, ma a cui non sempre non ci si può sottrarre, non solo per debolezza. Uno degli ultimi casi denunciati, quello del comico americano di massimo successo Louis C.K. che in scena fa ridere parlando di masturbazione poi appena può chiede alle signore, da gentiluomo sessuomane, il permesso di farlo davanti a loro, è soprattutto un problema psichiatrico.
Non si denunciano subito potenti molestatori (talvolta anche gli stupratori), ma neppure gli ignoti: allora bisogna anche dire che il concetto di harassment, di molestia (non di stupro), è piuttosto recente; chi, almeno in Italia, avrebbe potuto pensare di denunciare un esibizionista o un pizzicottaro, appunto un molestatore, quando persino sul reato di stupro i nostri governi non riuscivano a trovare un accordo? Una sentenza della Cassazione del 1967 definiva non violenza “quella necessaria a vincere la naturale ritrosia femminile”. Ancora negli anni ’80 la legge riteneva lo stupro un atto contro la morale e non contro la persona, nell’82 il tribunale di Bolzano stabiliva che non si poteva evitare qualche iniziale atto di forza o di violenza, “dato che la donna soprattutto fra la popolazione di bassa estrazione sociale e scarso livello culturale vuole essere conquistata anche in maniera rude, magari per crearsi una sorta di alibi al cedimento del desiderio dell’uomo”.
Nel 1985 il tribunale di Roma cancellò il “debito coniugale” cioè l’obbligo della moglie a non rifiutarsi, stabilendo la necessità, nel sesso, del “consenso di entrambi”. Ricordo i primi processi di stupro a Milano, in cui la colpevole era sempre la donna, in quanto “già fidanzata”, cioè non più vergine quindi priva di valore e già puttana (come se le professioniste del sesso non avessero il diritto al no), oppure perché tornava dal lavoro di notte, oppure perché era vistosa. Come poteva il povero giovane trattenersi? E come lo difendevano le madri contro quella schifosa!
Purtroppo non mi ricordo i nomi dei protagonisti di un celebre processo milanese: una bellissima studentessa diciottenne accusò un suo professore che era andato a casa sua per ragioni di studio, di averla forzata al sesso. L’antico difensore che pareva quello del processo a Frine, interpretata da Gina Lollobrigida nell’episodio diretto da De Sica nel film “Altri tempi”, accusò di ogni misfatto la ragazza, ma già vegliavano le femministe, i giudici stabilirono che il no si può dire anche all’ultimo momento, le mutande già strappate, e il povero professore, tra l’altro di un certo fascino, fu giudicato colpevole e condannato a qualche anno di galera. Ora lo stupro, reato perseguibile d’ufficio, viene punito con giusta durezza. Anche le molestie ovvio: negli Stati Uniti basta uno sguardo birichino per fare causa all’incauto, da noi qualcosa di più concreto, se denunciato, mi pare, entro un certo lasso di tempo.
Domanda: e le molestie sul web, e la farraginosa ricerca di sesso o d’amore, da parte di uomini e di donne, con esplicite porcherie nei siti, e gli incontri che non sono né molestie né violenze, e le tante trentenni che tutte insieme, senza un ragazzo, se la ridono nei ristoranti o se la godono al cinema, donne sole e felici, farebbero causa a un collega che osasse corteggiarle anche rusticamente, spiritosamente, non perché irrispettoso ma perché ormai terrorizzato?

Il Fatto 13.11.17
Fausto Brizzi, dieci attrici lo accusano: “Sesso ai provini”
Il racconto delle ragazze corrisponde in molti punti. Gli autori del programma: “Denunce anche a carico di altri”
di Stefano Caselli

Era nell’aria, la voce tra gli addetti ai lavori circolava da giorni e se ne è avuta praticamente la certezza sabato direttamente dalle parole dell’interessato che respingeva ogni accusa: “Mai e poi mai, nella mia vita, ho avuti rapporti non consenzienti e condivisi”.
Ma la portata delle accuse al regista Fausto Brizzi, raccolte da Le Iene e andate in onda ieri sera, andrebbe ben oltre la molestia. In un caso almeno – se è vero il racconto di una delle dieci attrici che hanno accettato di fare nome e cognome – gli estremi dello stupro ci sarebbero eccome: “Indossavo pantaloni stretti – racconta fra lacrime e singhiozzi – e la mutanda è scesa con loro. Mi sono detta, oddio ma che sta facendo, lui era ingestibile… Cercavo di spostarlo con la spalla ma niente, continuava a tenermi con la mano stretta sul collo… è successo tutto in un attimo… Poi mi ha penetrata, ero immobilizzata, non capivo più niente. Poi la scena è finita. L’ho guardato in faccia e gli ho detto: Divertito? Ho preso e me ne sono andata. Sono stata stupida – e qui il pianto è a dirotto – me la sono cercata, una ragazza normale se ne sarebbe fregata di tutto questo, quindi è colpa mia. Tutte quelle ragazze che pur di apparire fanno le troie… ma io non sono così”.
Soltanto una delle dieci intervistate ammette la violenza sessuale fino alla penetrazione, ma tutte le altre raccontano di aver subito tentativi anche violenti di molestia: “Ce l’aveva in mano, io ero nuda, ha cercato con la forza di aprirmi le gambe”. In un paio di casi il regista sarebbe rimasto completamente nudo e si sarebbe masturbato davanti alle ragazze.
Il copione, stando ai dieci racconti, era sempre lo stesso. Fausto Brizzi invitava nella sua casa-studio (le descrizioni dell’arredamento corrispondono tutte) le ragazze per i “provini”. A volte Brizzi avrebbe tentato l’approccio con la tecnica del massaggio rilassante, altre – più spesso – chiedendo alle ospiti di improvvisare delle scene “d’amore” per poi approfittarne: “‘Voleva una scena erotica e sentimentale: ‘Sempre recitata?’ gli ho chiesto – racconta una ragazza – ‘No’, ha risposto, ‘Se il regista è realista ha bisogno della vera scena di sesso’. Un attimo dopo era completamente nudo”.
Una scena che raccontano in molte. Come i baci, le mani nelle mutande, i tentativi di farsi masturbare e simili. “Mi ha spogliata, mi ha spinta sul letto, è diventato un mostro, gli occhi rossi, le vene del collo gonfie…”.
Non mancano tuttavia le ragazze che hanno avuto la forza – e il coraggio – di prendere ed andarsene, non prima però di aver subito pesanti tentativi di molestia. Quelle che hanno avuto meno forza, purtroppo, non solo si portano dentro il trauma e l’umiliazione (“Non riuscivo più a guidare, mi sentivo stuprata, ero sconvolta, piangevo come una bambina, mi sentivo una puttana. Fin quando non lo vivi non lo puoi capire”), ma anche l’amarezza di non aver avuto il coraggio di denunciare subito: “L’ho raccontato a mia madre – ricorda una di loro –. Lei è andata su tutte le furie, mi ha chiesto cosa avremmo potuto fare. Le ho risposto che non avremmo avuto la forza, anche economica, di sostenere un processo”. Un’altra ricorda di averne parlato con alcuni “addetti ai lavori”: “Mi hanno consigliato di tacere”.
Le Iene, come dimostra il servizio di Dino Giarrusso, hanno tentato ripetutamente di contattare il regista, sia la telefono che nella casa studio. Invano. Ed è una storia che potrebbe essere soltanto all’inizio: “Stiamo ricevendo decine e decine di segnalazioni – rivela Giarrusso – in molte si fa il nome di Brizzi, ma i molestatori nel mondo del cinema sono molti di più”. Appuntamento alle prossime puntate.

Republica 13.11.17
Chiara Gamberale
“È una legge da rivedere Pochi sei mesi per denunciare”
di Carlo Moretti

ROMA. «Prima di stasera non sapevo che ci sono solo sei mesi per denunciare una violenza sessuale: è una legge da rivedere assolutamente ». La scrittrice Chiara Gamberale ha appena finito di seguire il servizio delle Iene,
e nonostante sia molto turbata per le denunce delle ragazze, «molto più dettagliate e pesanti di quelle del servizio precedente», ha un pensiero per le altre due ragazze vittime incolpevoli di questa vicenda. «Conosco Claudia, la moglie di Brizzi, penso alla loro bambina di un anno, per questo forse la sento più vicina e faccio riflessioni più sul piano umano che giudiziario e mi chiedo: ma nessuno tutela anche questa ragazza? Questa moglie e questa figlia, forse una riflessione su di loro dovremmo farla. Come tutti mi sono fatta una idea, ma c’è qualcosa che non torna fino in fondo, è un materiale talmente delicato».
Nell’incertezza degli eventi, non si dovrebbe denunciare?
«Mi piacerebbe sapere quante di queste molestie siano avvenute prima di sei mesi fa. Perché io prima di stasera mi dicevo che forse bisognerebbe andare in Procura a denunciare invece che alle Iene, poi però pensi al limite dei sei mesi per la denuncia della violenza e allora forse quelle che hanno subito molto tempo prima del limite utilizzano il canale di denuncia che gli viene offerto».
Ci sono anche voci che difendono Brizzi, quelle di Nancy Brilli e Cristiana Capotondi.
«Fossero rimaste vittime anche loro e lo avessero denunciato, si potrebbe parlare di malattia, ma hanno parlato solo aspiranti attrici: allora davvero sarebbe un caso di abuso di potere, ancora più odioso».
Brizzi ha avuto un pensiero per la moglie: “Proteggetela”.
«Anch’io sono figlia di un errore giudiziario, mio padre nel ‘93 è stato il grande errore di Mani Pulite, un caso che poi si è risolto in nulla. So bene cosa significa venire investiti dalla gogna mediatica, per questo vorrei lasciar parlare le parti. Spero intervenga la giustizia ma spero anche che poi i risultati avranno lo stesso spazio dell’accusa. Qualunque sia l’esito».
Conosco la gogna mediatica vorrei che parlassero tutte le parti in causa
La scrittrice Chiara Gamberale

Il Fatto 13.11.17
Atac: i macchinisti “infedeli” sabotano la metro di Roma
Top secret - Il documento riservato: i treni cittadini, specie la linea “B”, si fermano per “guasti inesistenti”. 67 procedimenti discliplinari
di Luca De Carolis

Tanti, troppi treni che non partono per guasti in realtà inesistenti. Al punto da portare a un crollo delle corse del 23 per cento. E ad alimentare il sospetto di “un’azione mirata” di macchinisti e dipendenti, che ha portato all’apertura di 67 procedimenti disciplinari. Cifre e analisi del disastro delle due linee di metropolitana di Roma, raccontate da un’analisi riservata dell’Atac, la municipalizzata dei trasporti, che il Fatto ha visionato. E da cui emerge un quadro che porta al timore di uno “sciopero bianco” di alcuni dipendenti. Irritati – è il cattivo pensiero – dall’annuncio della tolleranza zero sul controllo dei badge, i tesserini elettronici di riconoscimento da timbrare all’entrata e all’uscita dal servizio. “Si tratterebbe comunque di una minoranza, perché la gran parte dei lavoratori di Atac lavora sodo”, assicura una fonte interna. Una minoranza capace però di portare a un drastico rallentamento del servizio, essenziale per una città già strangolata dal traffico.
Un fenomeno evidente soprattutto sulla linea B, quella che collega l’Eur e la periferia sud con il nord-est della città, con una diramazione (la B 1). Stando al rapporto di Atac, a partire da luglio il numero di corse sulla B è calato progressivamente, fino a giungere nella settimana tra il 23 e il 29 settembre a una soppressione di 966 corse su 4152 programmate, ovvero il 23,3 per cento. Con cancellazioni concentrate nel pomeriggio e nella sera (la mattina è possibile sostituire il veicolo). Ma il calo c’è stato anche sulla linea A, quella che passa anche per Piazza di Spagna e a pochi metri da Piazza San Pietro, nel cuore di Roma, dove il livello di produzione è calato dal 96 per cento del marzo scorso, all’87 per cento di settembre, a parità di macchinisti e treni. “Le cause di soppressione sono dovute quasi interamente a mancanza di treni e di guasti”, osserva l’azienda. Ovvero, “è cresciuto il numero di treni non ritenuti idonei (scarto) dai macchinisti, a valle dei controlli previsti all’atto della partenza. Parallelamente, è aumentato il numero di guasti riscontrati in linea durante il servizio”. Ed è sulla natura di questi problemi tecnici che Atac formula gravi riserve, scrivendo: “È significativo il numero dei guasti non bloccanti, ovvero che consentirebbero la prosecuzione del servizio, rispetto al totale dei guasti riscontrati. E da qui, l’accusa: “È evidente un’azione mirata che porta a una notevole diminuzione delle corse”. E i numeri sembrano confermarlo, visto che “la percentuale di guasti non bloccanti è passata dal 25 al 70% nel giro di due sole settimane”. Non solo: l’analisi rileva come il 10 per cento dei macchinisti dichiari quasi il 40 per cento dei guasti, mentre il 30 per cento degli altri addetti alla guida ne dichiari il 70 per cento. Di conseguenza, conclude il rapporto, “non si tratta di un disagio diffuso tra tutti i macchinisti, con una distribuzione uniforme delle segnalazioni, ma piuttosto dell’azione di un gruppo ristretto di soggetti”. E così si è arrivati all’apertura di un’inchiesta interna, “per comportamenti potenzialmente anomali”, con 67 procedimenti disciplinari avviati da inizio agosto a oggi. In gran parte a carico di macchinisti della linea B, 20 dei quali sono oggetto di almeno due procedimenti. Per 16 dipendenti è già arrivata la sanzione, con sospensione temporanea dalla paga e dal servizio, mentre gli altri sono ancora sotto inchiesta.
Nel frattempo, l’azienda “ha rafforzato i controlli in linea e durante la presa in carico dei treni”, e introdotto “modalità più rapide per la valutazione dei guasti dichiarati e per un intervento immediato da parte della manutenzione, laddove necessario”. Provvedimenti avviati mentre è in corso l’iter del concordato preventivo per l’Atac, un Moloch su cui gravano debiti per oltre 1,3 miliardi di euro, di cui 275 milioni solo verso i fornitori. Ma la soluzione del concordato ha suscitato mal di pancia diffusi tra lavoratori e sindacati, nonostante le ripetute rassicurazioni del Campidoglio (“Non toccheremo i posti di lavoro”). Un altro motivo di tensione nella pancia dell’azienda dove spariscono le corse. Per guasti che forse non esistono.

Corriere 13.11.17
IL caso sport e pedofilia
«L’allenatore abusò di mia figlia L’ho scoperto dal telefonino»
di Gaia Piccardi

«Dopo le lacrime e il dolore, ora sento rabbia. Aspetto il processo al molestatore di mia figlia e, intanto, impazzisco. Voglio fare qualcosa per migliorare il mondo dello sport, devo trovare un perché a questa brutta storia capitata alla mia figliola. Quello che è successo a noi non deve accadere a nessun’altra famiglia. Ma il lupo è molto vicino, spesso più di quanto immaginiamo».
Valdinievole, Toscana, prima dell’estate. Anna, impiegata di livello, divorziata, è mamma di Francesca, abbondantemente minorenne, aspirante pallavolista. La società è piccola ma valida, l’allenatore 66enne (scapolo, senza figli, ben voluto dalla comunità di 20 mila anime) gode di buona fama e ha la totale fiducia (troppa, scopriremo) della dirigenza. Ha le chiavi della palestra, che apre e chiude, con il furgone va a prendere e riaccompagna le ragazzine della squadra. «Colto, preparato, astuto, subdolo — racconta Anna con la voce che freme di indignazione —, non il maniaco che al parco spalanca l’impermeabile. Capace di un sopraffino lavoro di manipolazione psicologica con tutti, grandi e piccini». Francesca è strana. Litigiosa, taciturna, si chiude in se stessa. Anna inizia a impensierirsi («Dove sto sbagliando?»), è sostenuta dall’allenatore che si fa da tramite con la bambina («Mi inoltrava gli sms che lei gli mandava quando discutevamo») ma decide di rivolgersi a una psicologa («Se i bambini hanno problemi, la colpa è dei genitori»). Che, saputo della corrispondenza tra allieva e coach, ha l’intuizione: «Quel signore si sta prendendo libertà indebite, il rapporto è totalmente squilibrato, vigila».
Dopo l’incubo di Francesca, già nella rete del pedofilo, inizia quello di Anna. Incastrarlo non è facile. «Questi malviventi sono dei geni del male, non sono su WhatsApp come tutti noi. Usano piattaforme su Internet non rintracciabili: se anche avessi controllato il telefonino di mia figlia, non ci avrei trovato nulla di compromettente». Finché, con la scusa di portarlo a riparare, Anna lo mette in mano a tecnici competenti, che scovano — nero su bianco — gli indizi del reato. Pietrificata, interrompe ogni comunicazione con l’allenatore, che si fa prendere dal panico e bersaglia Francesca di messaggi: se mamma ci scopre sono rovinato, non raccontare nulla, dille di non impicciarsi. L’ultimo atto è il più straziante: continuare a mandare Francesca a pallavolo, sorvegliata dalla polizia e seguita dal prezioso lavoro dell’avvocato Claudio Del Rosso di Pistoia, per raccogliere le ultime prove, denunciare e incastrare il pedofilo.
Dalla calciatrice Hope Solo, che ha accusato l’ex presidente della Fifa Blatter, al maestro di karate di Brescia, le cronache sono zeppe di episodi di molestie nello sport. Anna ha deciso di parlare con il Corriere perché la sua storia abbia un senso: «Mi sono data mille colpe per non essermi accorta di nulla. Per un genitore, è il fallimento. Credevo che la relazione fosse da nonno a nipotina, che quell’uomo si approfittasse un po’ del ruolo di un marito assente. Mentre cerco di ridare una vita normale a mia figlia, provo a rendermi utile: vegliate, state attenti, non sottovalutate i segnali dei figli, sono gli insospettabili ad essere più pericolosi».
Il sistema dello sport di base presenta falle spaventose. «Dov’è il Coni, come vigila? — si chiede Anna —. Cosa prevede in merito alla tutela dei minori in ambito sportivo? E poi la Federvolley: esiste un elenco dei tecnici accreditati Fipav? Quell’uomo, reo confesso e in attesa di processo, è stato cancellato o potrà tornare ad allenare? Le Federazioni dovrebbero imporre due allenatori, mai uno: la possibilità di trovare due pedofili è marginale». La società che ha assunto il molestatore come coach non ha commesso reato: a fronte di una fedina penale pulita, non c’è altro controllo. «Si fa troppo poco. E molti genitori non vogliono sapere né vedere, perché scoprire certe cose dei propri figli è dilaniante. Pochissimi denunciano. Ma io ho la testa dura e sono andata fino in fondo».
Oggi Francesca è in cura psicologica. Terapia di rimozione, la chiamano. Con l’amore della famiglia prova a rinascere. Ha trovato un’altra squadra di volley dove esercitare i suoi talenti, e dove sono sempre presenti almeno due coach. «Ogni giorno mi chiedo: cosa potevo fare di diverso e di più?». La risposta è la forza che ha spinto Anna a raccontare: «Questa storia poteva capitare a chiunque. E non deve capitare mai più».

Il Fatto 13.11.17
Atene, i “prigionieri” di piazza Syntagma
Nella capitale ellenica tra migranti bloccati dalla chiusura delle frontiere europee e cuochi baschi che cucinano gratis per i profughi
Sciopero della fame
di Cosimo Caridi

Disegna perché non sa scrivere. Mohamed ha nove anni e non è mai stato scolarizzato. Nato a Homs, in Siria, ha imparato a camminare sotto le bombe. Subito dopo, con il fratello maggiore e i genitori, ha lasciato il paese. Dove è tua mamma? “In quella tenda. Dorme, è stanca”. E papà? “In Germania”. Fatima, la madre di Mohamed, sta facendo lo sciopero della fame. Sono 13 giorni oggi. Vuole raggiungere il marito a Stoccarda. Non si vedono da oltre due anni. “Eravamo in un campo in Turchia – racconta la donna, mentre rassetta due coperte, unico arredo della sua tenda – mio marito è andato avanti. Ha attraversato il mare e poi i Balcani. Quando è arrivato in Germania ci ha chiesto di raggiungerlo”. Il resto è cronaca. Nel marzo 2016 la cancelliera tedesca, Angela Merkel, ha chiuso la rotta balcanica. Almeno 100 mila persone rimangono intrappolate tra i confini alle porte d’Europa. Di questi, oltre 62 mila sono tutt’ora in Grecia. Mohamed è uno di loro.
In piazza Syntagma, ad Atene, sul marmo antistante al parlamento ellenico, 15 famiglie siriane hanno piazzato le loro tende. Ci sono donne e bambini in quantità, ad accompagnarli uno sparuto gruppo di uomini. Il primo novembre hanno appeso uno striscione nero a caratteri bianchi: “Sciopero della fame. Ricongiungete le nostre famiglie ora!”. Su un cartellone, ogni mattina, annotano da quanti giorni va avanti la protesta. “I tedeschi ci hanno diviso dai nostri cari – spiega Ibrahim, trentenne designato portavoce della comunità – abbiamo aspettato e seguito le procedure, ma non abbiamo ottenuto nient’altro che un pasto e un materasso”. I richiedenti asilo sono stati sparpagliati in decine di centri in tutta la Grecia. I campi sono quanto di meglio lo Stato possa fornirgli.
Ma Atene non ha fondi per pagare le pensioni, quindi per chi fugge dalla guerra c’è poco, sovente nulla. Il programma dell’Unione Europa per ricollocare i profughi si è rivelato un buco nell’acqua. Gli stati membri, secondo quanto deciso da Bruxelles, avrebbero dovuto accogliere 160 mila profughi che si trovavano già in Grecia e in Italia. Prima il gruppo di Visegrad, e poi tanti altri, si sono sfilati e a oggi solo 13.622 sono le procedure registrate, di cui 9.960 sono andate a buon fine, meno del 7 per cento.
Le isole vicine alla Turchia, trasformate in hotspot per volere dell’Europarlamento, sono diventate carceri per i profughi. La convivenza forzata tra locali e migranti risulta ogni giorno più difficile.
La disoccupazione ellenica rimane sopra il 22 per cento e quindici cittadini su 100 vivono sotto la soglia della povertà. Alba Dorata, il partito xenofobo greco, terza forza del parlamento, capitalizza il malcontento. Si moltiplicano le aggressioni degli attivisti di estrema destra a richiedenti asilo, e volontari che li supportano, l’ultima mercoledì scorso nella capitale. Le foto del viso insanguinato di Evgenia Kouniaki sono state diffuse su Facebook. Kouniaki è la legale di un pescatore egiziano testimone di un pestaggio, sempre a opera di Alba Dorata. Mentre andava dalla polizia è stata avvicinata da una decina di uomini che le hanno rotto naso e occhiali.
In piazza Vittoria, a pochi passi da dove è avvenuta l’aggressione, s’incrociano squallore ed eccellenza. Il piccolo parco è diventato negli anni della crisi il crocevia di spaccio e prostituzione, anche minorile. Qui i migranti che hanno perso la speranza toccano il punto più basso dell’Europa. C’è chi traffica l’eroina gialla e chi si vende per pochi euro. Soldi che, con ogni possibilità, pensa di reinvestire in un trafficante di uomini che lo aiuti ad attraversare i muri costruiti lungo la penisola balcanica.
Ed è proprio in piazza Vittoria che viene distribuito il miglior pasto gratuito per i rifugiati. I paesi baschi sono la regione del mondo con il maggior numero di ristoranti stellati. La cultura culinaria affonda nelle origini di Euskal Herria e ha creato eccellenze come le società gastronomiche. Club privati, a cui l’iscrizione passa di padre in figlio, dove gli uomini si tramandano le ricette della tradizione. “Zaporeak è l’associazione creata dai cuochi delle società gastronomiche – spiega Josi Etxeberria mentre controlla la cottura di quattro pentoloni – questa situazione è oramai incancrenita, non la possiamo risolvere noi, ma bisogna limitare il degrado”. Josi e i suoi hanno trasformato uno scantinato nella cucina di un ristorante. Una decina di volontari affettano, impiattano e imbustano. “Dobbiamo dare qualcosa di qualità a chi vive nella precarietà assoluta – continua Josi – c’è un legame tra cibo e dignità. Mangiare non è solo sfamarsi”.

Il Fatto 13.11.17
Su le maniche: il riscatto fai-da-te del popolo greco
di Michele Revelli

La Grecia ritorna sulla scena europea, questa volta non come vittima sacrificale ma come sopravvissuta. Già l’esito del negoziato coi creditori per la “seconda valutazione” aveva ispirato un certo ottimismo negli ambienti di governo. Poi a settembre la decisione di Macron di tenere il discorso “per svegliare l’Europa” proprio in Grecia, ad Atene, aveva lasciato intendere che si aprissero possibilità prima insperate e insperabili. Ora l’annuncio di Alexis Tsipras di aver raggiunto gli obiettivi di bilancio e di essere in grado di destinare il miliardo di euro di surplus ai “poveri che hanno sofferto questi sette anni di austerità” come “dividendo sociale” è un’ulteriore conferma.
Questo momento parzialmente favorevole non è frutto del caso ma il risultato dello sforzo compiuto dalla comunità greca tutta intera, in primo luogo dai cittadini col loro impegno sociale, come ho potuto verificare per esperienza diretta sul territorio greco, parlando con rappresentanti politici e volontari delle organizzazioni di solidarietà.
La Grecia che ho visto si discosta molto dal tetro quadro di abbandono e degrado di qualche tempo fa, quando i negozi erano chiusi e i ristoranti vuoti, la gente asserragliata in casa mentre per le strade esplodeva la rivolta. Oggi i ristoranti sono frequentati e anche il turismo interno è ripreso (+0,7% i consumi, +9,5% l’export) mentre le proteste sono quasi cessate. Organizzazioni come La solidarietà del Pireo e i vari Ambulatori di quartiere hanno accompagnato la popolazione nel periodo più duro della crisi, innovando le tradizionali pratiche di volontariato e massimizzandone gli effetti che oggi sono ben visibili a voler guardare tra le pieghe della società greca.
Una delle componenti più innovative, per esempio, sono stati gli ambulatori sociali: strutture di volontariato dove vengono distribuiti medicinali e fornite cure a quanti non possano permettersi le spese mediche. La cosa che maggiormente mi ha colpito andando a visitarne uno, nel quartiere di Nea Smyrni, periferia sud di Atene, è stata la professionalità. Trattandosi di un’iniziativa partita dalla gente senza il supporto di grandi Ong o finanziatori esterni, mi aspettavo un ambiente meno rifornito di farmaci e specialisti. Invece ho scoperto che l’ambulatorio era frequentato con regolarità da 850 pazienti e contava più di 11 specialisti tra cui otorini ginecologi cardiologi pediatri e persino psicologi e dentisti con tanto di attrezzatura per ecografie ed elettrocardiogramma. Con altrettanto stupore mi è stato riferito che tra le cure più richieste vi sono quelle dentistiche e grazie alle donazioni di privati l’ambulatorio è riuscito anche a dotarsi di un’attrezzatura professionale adeguata. Sebbene l’iniziativa fosse nata nel 2013 da 8 membri di Syriza, oggi tra i 50 collaboratori volontari si trovano anche medici conservatori che sono stati attratti dalla purezza dei loro ideali e dal loro intento di tener fuori la politica di partito dall’impegno sociale che non si cura di differenze di bandiera ma mette al primo posto i problemi della gente (per quanto cercassi, non ho visto un solo volantino, o un’affiche o un simbolo di partito).
Ciò che è stato realizzato dagli ambulatori sociali per la sanità è stato fatto dalla Solidarietà del Pireo per il cibo e i beni primari. Dall’idea di 14 persone “di buona volontà” (di Syriza e non solo) nel 2012 si è avviato un progetto che unisse le tradizionali pratiche di aiuto come distribuzione di vestiti cibo assistenza scolastica e consulenze legali a un nuovo concetto di volontariato che è più descrivibile dalla coppia solidarietà-partecipazione.
Infatti a chiunque voglia ricevere vestiti o alimentari si propone di prestare servizio come volontario (quasi come un atto di “buona volontà”), così che chiunque utilizzi il servizio non pensi di ricevere la carità ma si senta parte di qualcosa. I volontari di solito sostano nei pressi del grande supermercato di fronte alla sede con delle buste chiedendo ai clienti di riempirne una per la Solidarietà del Pireo. In questo modo l’organizzazione può ricevere i beni da distribuire mentre i volontari più bisognosi possono ottenerli tramite una valuta non ufficiale di loro invenzione chiamata “Pireo”. Lo scopo è quello di rimettere in piedi chi per colpa della crisi è stato affossato ma mostra una reale volontà di rialzarsi: per questo sono esclusi dal programma quanti dimostrano di volerne solo approfittare, mentre qualunque immigrato è ben accetto.
Tutto questo mi ha fatto capire che il motore della ripresa greca non sta tanto nelle decisioni politico-istituzionali, quanto nella mentalità politica del suo popolo, disposto a spendersi attivamente per risolvere i problemi delle persone più che per affermare individualismi di partito. Approccio incomprensibile se guardato dall’Italia, dove nulla di tutto ciò sembra far notizia.