Il Fatto 12.11.17
La guerra fredda del giornalismo
Soft
power. La Piazza Rossa di Mosca con le celebrazioni per i cento anni
della Rivoluzione del 1917, e il presidente Putin che interviene in una
trasmissione tv con domande dirette dal pubblico
di Stefano Feltri
“I
nostri soldati sono pronti a tutto, con il loro equipaggiamento possono
affrontare ogni situazione, io li chiamo così i nostri giornalisti:
soldati”. Irina Kedrovskaya si occupa di progetti web da un decennio e
il suo successo maggiore è Sputnik: “In tre anni siamo diventati uno dei
siti di informazione più importanti, sui social network raggiungiamo
oltre 2 milioni di persone ogni giorno”.
Basta un tour nella
redazione centrale di Spuntik, a Mosca, per capire le ambizioni:
centinaia di giornalisti lavorano in silenzio assoluto sui loro
computer, maxi-schermi a parte proiettano le varie home page di Sputnik e
Bbc, molti editor hanno davanti un doppio schermo, su uno ci sono testi
in russo, su altri in arabo, perché è in Medio Oriente che si combatte
una delle battaglie decisive sull’opinione pubblica, la guerra in Siria
si vince o si perde più sui media che sul campo, visto che quasi nessuno
è in grado di verificare cosa accade davvero. Dal soffitto pende un
cilindro su cui scorrono le news a rullo. Anche se il palazzo è sede
dell’agenzia governativa Rossotrudnichestvo (al piano terra si tengono
conferenze stampa dei ministri), l’atmosfera è quella di una vera
agenzia stampa globale. Quando arriva una breaking news, per esempio un
attentato, i giornalisti sanno perfettamente cosa fare: lanciano la
notizia flash, poi si attivano i protocolli per preparare infografiche e
approfondimenti, i cronisti sanno come muoversi, da Mosca gli editor
coordinano il lavoro in 80 città nel mondo, gli algoritmi adattano le
diverse home page in inglese, in russo e in tutte lingue in cui i
contenuti vengono diffusi. A Sputnik non si considerano concorrenti di
Tass o Interfax, due storiche e un po’ polverose agenzie russe, bensì di
Reuters o Bloomberg.
La “macchina della propaganda”
Assieme
al gruppo televisivo RT, già Russia Today, Sputnik è il principale
strumento della “macchina della propaganda del presidente Vladimir
Putin”, secondo un report della Cia americana datato 6 gennaio 2017. Il
sito e la tv, scrive la Cia, “ha contribuito a influenzare la campagna
elettorale (del 2016, ndr) come piattaforma per i messaggi del Cremlino
al pubblico russo e internazionale”. A Sputnik e al Cremlino sono
consapevoli di questa fama, ma la nuova Guerra fredda, come quella
vecchia, si combatte anche sul piano psicologico. E la Russia considera
un diritto contrattaccare. Irina Kedrovskaya è uno dei relatori alla
“Scuola Sputnik per giovani giornalisti”, programma organizzato
dall’agenzia governativa Rossotrudnichestvo per rappresentanti dei
media, cinque giorni a Mosca per “facilitare una percezione oggettiva
dei cambiamenti economici, scientifici, culturali ed educativi che
avvengono in Russia”.
Quaranta giornalisti, da Cuba all’Iran alla
Serbia alla Slovacchia all’Italia, anche il Fatto Quotidiano ha potuto
partecipare. I giornalisti dei Paesi più ostili a Vladimir Putin
mancavano: nessun americano, finlandese, francese o tedesco.
Sputnik
è il cuore di quella che Usa e Ue considerano la macchina della
propaganda di Putin, capace addirittura di cambiare l’esito delle
elezioni negli Stati Uniti, a favore di Donald Trump. Twitter ha
annunciato di non accettare più inserzioni a pagamento da RT e da
Sputnik, “vogliamo proteggere l’integrità dell’esperienza degli utenti”,
ha spiegato l’azienda. “Non pensavo che Twitter fosse sotto il
controllo dei Servizi segreti Usa, ma ora Twitter sembra ammetterlo”, ha
risposto Margarita Simonyan, direttore di Rt e architetto di questa
nuova era dei media governativi russi. Twitter donerà in beneficenza 1,9
milioni di dollari ricevuti da RT e Sputnik durante le elezioni del
2016.
Dimitri Peskov, il potente portavoce di Putin, ha spiegato a
Jim Rutenberg del New York Times che non è la Russia ad aver scelto di
combattere questa guerra a colpi di news, si è limitata al
“contrattacco”: tutto comincia con le “rivoluzioni colorate” nei primi
anni del potere putiniano a inizio anni Duemila. Georgia, e poi Ucraina,
Kirghizistan: al Cremlino si convincono che l’Occidente usa
organizzazioni non governative e media per sobillare le opinioni
pubbliche nell’area di influenza russa e si prepara a fare lo stesso a
Mosca. Tra le controffensive, nel 2005, Putin decide di finanziare il
progetto di Russia Today, affidato a una giornalista 25enne, Margarita
Simonyan. L’idea era di creare un network tv che trasmettesse ai russi
all’estero un’immagine rassicurante del Paese, ma la Simonyan lo
ribattezza Rt e lo trasforma nella risposta alla Cnn. Rt non parla di
Russia, parla del mondo da una prospettiva russa. Nel 2014 la stessa
operazione viene replicata sul web: la radio Voice of Russia e l’agenzia
di stampa Ria diventano Sputnik (il satellite lanciato nel 1957 è
l’ultimo trionfo tecnologico che la Russia può vantare).
Modello Al Jazeera
Il
progetto nasce con una esplicita matrice governativa, da un decreto del
Cremlino. “Quando qualcuno voleva scrivere di Russia, non poteva
accedere direttamente a contenuti prodotti qui e doveva basarsi su media
locali che li mediavano, con molte distorsioni, per questo è nato
Sputnik – spiega Vasily Pushkov, responsabile dei progetti
internazionali di Sputnik –. Il modello sono Al Jazeera del Qatar e
l’agenzia cinese Xinhua, Sputnik deve essere un prodotto competitivo con
le grandi agenzie di stampa internazionali”. Ma che credibilità può
avere una testata che è espressione diretta del potere di Vladimir
Putin? Vasily Pushkov si aspetta la domanda, anzi, si può dire che è
proprio per dare la risposta che organizza la “Scuola per giovani
giornalisti”. E la risposta è articolata: “Io sono nato nell’Unione
sovietica, negli anni Ottanta, e voi in Occidente denunciavate un regime
che bloccava la pluralità delle fonti di informazione, ci spiegavate
l’importanza di ascoltare ogni punto di vista, io ora guardo Euronews
ogni mattina, ma perché dovrebbe bastarmi?”. Tradotto: avete voluto la
libertà di espressione? Ora dovete accettare che pure la Russia si
esprima. Propaganda e indipendenza, poi, sono due concetti scivolosi:
“Ne parliamo ancora come se fossimo nella Guerra fredda, ma davvero oggi
qualcuno pensa che si possano manipolare le opinioni, quando perfino in
Corea del Nord la gente si informa con i telefoni comprati al mercato
nero? A tutti i giornalisti piace definirsi indipendenti, ma c’è sempre
qualcuno che paga il loro stipendio e a nessuno piace spendere per
leggere cose che non apprezza”.
Se Sputnik fosse soltanto un sito
che racconta l’attualità con una prospettiva russa, nessuno lo
noterebbe. Ma quello che scrive ha conseguenze politiche, tanto che il
Congresso americano non accetta più gli accrediti dei suoi giornalisti,
li tratta come rappresentanti di un governo estero invece che da
cronisti. E il presidente francese Emmanuel Macron ha espulso il
corrispondente di Sputnik dal team autorizzato a seguire l’Eliseo:
durante tutta la campagna elettorale il sito russo pubblicava articoli
come “Macron potrebbe essere un agente americano, lobbista degli
interessi delle banche” (Sputnik vuole sempre mantenere una patina di
oggettività: non si tratta di un editoriale ma di un’intervista a un
oscuro deputato dei Republicains, Nicolas Dhuicq le cui parole il sito
si limita a riportare). Decidere che posizione tenere sulle elezioni in
Francia, o su quelle imminenti in Italia, sembra più una questione di
politica estera che di linea editoriale. Anton Ansimov, giovane
vicedirettore di Sputnik, rivendica: “Mai ricevuto una telefonata dal
Cremlino per dirmi come coprire le elezioni in Francia”. Poi, forse con
una punta di ironia, aggiunge: “Vorrei che fosse successo, così sarei
stato sicuro di non sbagliare”.
Non si tratta tanto di inseguire
le dichiarazioni di Putin, o di anticiparle. Sputnik ha un metodo, prima
che un contenuto: seminare il germe del dubbio sul Web e sui social,
mettere in discussione la versione dei media tradizionali, cioè
occidentali. Un esempio: il dittatore Bashar al Assad è sostenuto dalla
Russia, ma è anche considerato il principale responsabile della morte di
oltre 400.000 siriani dal 2011 a oggi. La principale fonte dei dati
sulle vittime è l’Osservatorio siriano per i diritti umani. “Sapete
quanta gente ci lavora?”, chiede Oleg Dimitriev, consulente per la
formazione di Spuntik, alla platea di 40 giornalisti internazionali.
Risposta: “Una sola persona e da Londra”. Quindi non ha nessuna
credibilità, come ha denunciato Rt nel 2015. Ma nel 2013, il New York
Times aveva dato anche alcuni dettagli che i media russi omettono: a
Londra, l’Osservatorio è gestito soltanto da Osama Suleiman, che però si
avvale di uno staff di quattro persone in Siria e 230 attivisti sul
campo. Chi avrà ragione? Rt o il New York Times? Già farsi la domanda
indica che qualche giorno nella “scuola” di Sputnik inizia a produrre i
suoi effetti.
A ciascuno le sue “fake news”
Oleg Shchedrov,
già giornalista e poi direttore della russa Interfax, un ventennio alla
Reuters è il profeta supremo del dubbio: divide noi “giovani
giornalisti” in quattro gruppi e assegna due temi: il veto della Russia
nel Consiglio di sicurezza Onu sulla risoluzione anti-Assad sulle armi
chimiche e il pericolo nucleare della Corea del Nord. Due gruppi devono
analizzare la copertura dei media occidentali, altri due dei media russi
in inglese, per identificare i pregiudizi, le “parole emozionali” che
vogliono provocare reazioni nel lettore, il rispetto della regola che
prevede di sentire sempre la controparte (cioè i russi). Non è difficile
intuire lo scopo dell’esercizio. “Se vuoi uccidere una storia, rendila
molto oggettiva”, è una delle massime che Shchedrov dispensa per
spiegare la linea della Russia sulla Corea del Nord (critica ma senza
arrivare a trovarsi a fianco degli Usa contro Kim Jong-un).
I
“giovani giornalisti” ascoltano e prendono appunti: molti arrivano da
agenzie di stampa o televisioni pubbliche di Paesi con una democrazia
dalla qualità discutibile. Sono abituati a questi paletti. Per alcuni
partecipare alla scuola di Sputnik è un problema: il gruppo di
giornaliste bulgare viene criticato in patria, un giornalista di un
Paese dell’Europa ex sovietica (evitiamo il nome) evita di fare domande
così non deve presentarsi e citare la testata per cui lavora. Teme di
ritrovarsi sulla lista nera dei giornalisti filo-putiniani e di
rovinarsi la carriera. Perché Sputnik è ancora piccolo e marginale in
Paesi come l’Italia – ci scrivono dal veterano Giulietto Chiesa a Marco
Fontana, che è anche responsabile dell’ufficio stampa dell’Ordine dei
pediatri – in zone più sensibili per gli interessi russi Sputnik è una
voce influente: in Libano viene rilanciato da una tv, in Slovacchia
l’agenzia di stampa pubblica Tsar ha dovuto cancellare il suo contratto
con Sputnik dopo un solo mese per le proteste. E così via.
Ogni
settimana, la Commissione europea produce una “Rassegna di
disinformazione”, a cura di una specifica task force, che censisce i
casi di fake news o manipolazioni dei media russi o filo-russi, Sptunik è
spesso il bersaglio delle accuse. Ma il ministero degli Esteri guidato
da Sergej Lavrov reagisce di conseguenza. “Abbiamo lanciato anche noi un
progetto di lotta alle fake news, analizziamo gli articoli che parlano
di Russia sui principali media e poi denunciamo sul sito del ministero
quelli che contengono bugie”, spiega al Fatto Sergey Nalobin, il
funzionario a capo delle strategie digitali del ministero degli Esteri. È
uno degli ultimi incontri nel seminario di Sputnik e sembra confermare
quanto negato a più riprese nei giorni precedenti, cioè che i nuovi e
aggressivi media internazionali basati in Russia e voluti dal Cremlino
siano strumenti della politica estera di Putin. “Noi vogliamo soltanto
offrire risposte a chi viene privato delle informazioni corrette da
parte di giornalisti poco professionali che neppure sentono il parere
dell’ambasciata o del ministero quando scrivono di Russia”, spiega
Sergey Nalobin che ama citare Gandhi: “Prima ti ignorano, poi ridono di
te, poi combattono, poi vinci”. Al ministero sembrano pensare di essere
nella penultima fase: nessuno ride più ma si combatte. Tra le varie
attività, il team di 85 persone che si occupa di informazione duella
anche via Twitter e Facebook con le fake news anti-russe: “Cerchiamo di
rispondere in tempo reale, valutiamo se l’autore dell’affermazione è un
troll o un esperto, un politico o un giornalista e se l’interlocutore è
rilevante replichiamo subito”.
L’unica Russia da mostrare all’estero
Oltre
ai seminari, la “scuola per giovani giornalisti” prevede anche una
breve passeggiata sulla Piazza Rossa e una singolare scelta turistica
per l’unico momento dedicato alle visite di monumenti: il Cremlino
Izmailovo, una specie di ricostruzione della Russia in miniatura, molto
lontano dal centro dove guide autoctone in abiti finto-tradizionali di
poliestere illustrano come si faceva il pane nelle campagne, la storia
delle Matrioske e l’arte ceramica. Tutto finto, incluse le chiese
ortodosse di legno senza chiodi, questa imitazione risale al 2001, al
debutto dell’era Putin. Chissà, forse è un modo di trasmettere ai
giornalisti dei Paesi considerati amici l’immagine di una Russia che
rimane connessa alle sue radici ma si è liberata di tutta la sua storia
recente, dagli zar al comunismo al caos degli anni Novanta.
C’è il
finto Cremlino e poi c’è quello vero, da dove Vladimir Putin governa su
una Mosca immacolata e ordinatissima pronta ad accogliere trionfalmente
i Mondiali di calcio del 2018. E questa è la sola Russia che Sputnik e
gli altri media di Mosca vogliono che venga raccontata.