Il Fatto 10.11.17
La mutazione genetica del Pd in tre profili
di Franco Monaco
rnare
sulle parole con le quali Grasso ha motivato la sua rottura con il Pd:
la denuncia di un partito irriconoscibile per “merito, metodo, stile”.
Provo a isolare tre profili di tale mutazione genetica: la deriva
antipolitica, una linea ondivaga un po’ su tutto, l’autorappresentazione
come il solo, vero partito.
Primo. Il Pd nacque quale partito
nuovo ma nel solco della eredità di partiti storici tra loro antagonisti
e tuttavia accomunati dal senso dello Stato. Nella sua Carta fondativa,
il Pd si autodefinisce “partito della Costituzione”. Un partito che fa
del rispetto delle regole e del valore delle istituzioni un proprio
tratto identitario. L’opposto dell’antipolitica e del populismo. Renzi
lo racconta come il solo argine al populismo, così da meritare il “voto
utile” alla democrazia e alla stabilità delle istituzioni. Tesi sempre
meno plausibile, al punto che, per taluni, il voto utile e responsabile
dovrebbe semmai andare al “moderato” Berlusconi alleato di Salvini e
Meloni (!). Qualche esempio: la campagna del referendum costituzionale
connotata da una marcata intonazione populista; la corriva polemica
contro la Ue cui intestare problemi che sono nostri e ottusi vincoli che
derivano da impegni dai noi sottoscritti; l’attacco frontale a
Bankitalia per imputarle una crisi bancaria che chiama in causa ben più
estese responsabilità (mai avrei immaginato di assistere, in Parlamento,
allo spettacolo del partito di Berlusconi che impartisse lezioni sul
senso/valore delle istituzioni terze!); la tardiva, trafelata rincorsa
al taglio dei vitalizi palesemente a rimorchio della campagna dei
5stelle; la rottamazione della vecchia guardia (una cosa buona se non si
fosse risolta nella sostituzione di essa con una mediocre e improbabile
classe dirigente, nonché nella rottamazione, anziché nella
rivisitazione critica e creativa, delle culture politiche originarie).
Secondo.
Una sorta di zelig su questioni politiche qualificanti la linea e il
profilo di un partito. Esempi? Leggi elettorali che facevano
indifferentemente perno su maggioritario o proporzionale, su premio al
partito o alla coalizione, come se quella elettorale non fosse la più
politica delle leggi, che rinvia alla propria visione del sistema
politico; la oscillazione tra presuntuosa autosufficienza coltivata
ostinatamente per tre anni e la recente, estemporanea apertura alla
coalizione; una strategia politica che prima assume come avversario
sistemico i 5stelle e che poi scopre che il vero competitor è la destra;
l’iscrizione del Pd, senza confronto interno, alla famiglia dei
socialisti europei per poi rivendicare la propria profonda
distanza/differenza da essa; la vistosa schizofrenia tra giustizialismo e
garantismo; il pendolarismo tra centralismo (smaccato nella riforma
costituzionale poi provvidenzialmente bocciata dagli italiani) e goffa
rincorsa autonomistica degli amministratori Pd nei referendum di
Lombardia e Veneto, propiziata da un mix di ignavia e opportunismo.
Terzo.
La cosa che più sorprende è che metamorfosi e contraddizioni siano
state avallate alla unanimità dalla direzione politica. Senza che
qualcuno si alzasse a chiedere conto delle improvvise conversioni a U. A
riprova di come siano ridotti i partiti. Tutti, intendiamoci. In queste
ore, verrebbe quasi da difendere l’indifendibile Renzi. La legione di
quanti, per miopia o convenienza, per tre lunghi anni hanno assecondato
ogni sua scelta ne porta in solido la responsabilità. Penso non solo ai
miracolati dello stretto giro renziano (questo lo si capisce), ma anche
ad alcuni “fratelli maggiori” del Pd (Napolitano, Veltroni, Fassino,
Franceschini, Finocchiaro…) che, con azioni od omissioni, hanno avallato
un deragliamento da gran tempo visibile.