venerdì 10 novembre 2017

Il Fatto 10.11.17
Grasso e Boldrini dicono sì alla marcia a Ostia. Il Pd no
Aderiscono alla proposta della sindaca di Roma anche Sinistra Italiana e Forza Italia. Per i dem “ora non è tempo di divisioni”, ma non vanno
Grasso e Boldrini dicono sì alla marcia a Ostia. Il Pd no

Dopo l’annuncio in un’intervista al Fatto, ieri la sindaca di Roma, Virginia Raggi, ha rilanciato per domani la marcia della legalità a Ostia per rispondere all’aggressione al giornalista di Nemo da parte di un esponente del clan Spada: “Abbiamo una grande opportunità per esprimere il nostro sostegno alle vittime di questo gesto così violento e a tutti i romani: partecipare a una grande manifestazione, senza alcuna bandiera politica, grazie alla quale le istituzioni e i cittadini diranno con forza il proprio no alla criminalità”.
All’appello aderisce il presidente del Senato, Pietro Grasso: “Politica, istituzioni, giornalisti, cittadini devono marciare uniti contro ogni aggressione, ogni attacco alla libera informazione, ogni forma di criminalità. Per questo aderisco idealmente a tutte le manifestazioni che, su questi principi, saranno organizzate ad Ostia (giovedì ci sarà poi quella di Libera e Fnsi, ndr)”.
Anche Laura Boldrini, presidente della Camera, approva: “Do il mio sostegno alla manifestazione in programma per sabato a Ostia, così come a tutte le iniziative che in questi giorni vorranno denunciare l’inaccettabile gravità di quanto è accaduto mercoledì: l’esibizione di violenza, l’intimidazione ai danni dei giornalisti e di tutti i cittadini. Contro la criminalità organizzata, a Roma come altrove, è indispensabile una reazione forte e corale che riaffermi il valore fondamentale della legalità e difenda il diritto-dovere dei cronisti a fare in sicurezza il loro lavoro al servizio della collettività”. Un messaggio di sostegno arriva da Pier Ferdinando Casini, presidente della Commissione d’inchiesta sulle banche, da Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra italiana e da Forza Italia. Il Pd di Roma rifiuta, invece, l’invito: “Abbiamo sempre portato una battaglia a viso aperto contro la mafia a Ostia, sono tre anni che combattiamo senza una sponda da parte del M5S, e siamo contenti che anche la Raggi abbia cominciato ad accorgersi della presenza della mafia. Crediamo però che non si possa fare una questione di bandiere o posizionamento, tutto strumentale al ballottaggio, come sta cercando di fare il M5S. La cosa più utile ora è non alimentare divisioni”.

Il Fatto 10.11.17
Periferie violente. Ostia è la sintesi tragica di una democrazia agonizzante
di Enrico Fierro

Dove sale il fascismo, sale la violenza. A Ostia un cronista è stato ferito da un esponente della famiglia Spada, che ha appoggiato il candidato di CasaPound. Ma a essere ferita è stata la democrazia. Pensavamo che l’antifascismo fosse diventato una bandiera da srotolare solo il 25 aprile e invece dobbiamo mobilitarci tutti i giorni. C’è troppo lassismo e sottovalutazione del morbo fascista. Tra le “ragazzate” dei saluti romani, gli “sfottò” delle foto di Anna Frank, stiamo scivolando nel baratro della violenza che erode il diritto. Complice anche l’abbandono da parte dello Stato delle periferie, dove ormai si ottiene consenso con pasta e pestaggi. L’ingiustizia sociale genera rabbia, la placenta della destra. L’aggressione alla libera stampa è un segno grave di deterioramento della democrazia. Ma forse è stato un bene, perché ha svegliato la politica dal disinteresse per i bisogni degli emarginati. E ha fatto capire che non si vince al centro, ma in periferia. Arrivando prima dei pacchi di pasta fascista. Con case, lavoro, cultura, legalità, Dimmi come stanno le tue periferie e ti dirò come sta la tua democrazia.
di Massimo Marnetto

Signor Marnetto, lei ha ragione su tutto. Sottoscrivo in pieno la sua lettera che solleva temi, le confesso, che mi angosciano da anni. “Dimmi come stanno le tue periferie e ti dirò come sta la tua democrazia”, lei scrive. Le periferie stanno malissimo. La democrazia è agonizzante. Ostia è la sintesi tragica delle cose che lei analizza. Ostia Nuova, un deserto di case popolari lasciate al degrado, strade senza un servizio che sia uno. Assenza totale di associazioni, partiti politici, circoli, palestre pubbliche, insomma, quell’insieme di strutture che rappresentano un’alternativa al lasciarsi andare. Qui la democrazia non ha parole, non fornisce esempi, non educa. Un vuoto profondo, colmato dai clan, dai loro uomini più rappresentativi e dai fascisti. Mafia e fascismo a Ostia camminano a braccetto da anni. Ci chiediamo, io e lei, signor Marnetto, coltivando la stessa angoscia, come sia potuto accadere. Ostia Nuova negli anni 70 era un quartiere “rosso”, antifascista, democratico. Una spiegazione ce la può dare Jack Dion, un giornalista francese che ha studiato il successo della destra nelle banlieue, nel libro “Le mépris du Pouple” (Il disprezzo del popolo). Scrive Dion, “quando i partiti che si succedono al potere si trasformano in strumenti di difesa dell’ordine stabilito, il popolo diventa un nemico, esso simboleggia un pericolo potenziale”. Come se i partiti, e gli altri strumenti della democrazia, coltivassero una sorta di (il neologismo è sempre del saggista francese) “prolofobia”, paura del proletariato. Condivido questa analisi avendo osservato e raccontato alcune periferie italiane, da Scampia (Napoli) e Librino (Catania), al Paradiso (Brindisi). Temono il proletariato, gli emarginati e i luoghi dove vivono e si aggregano. Fuggono e il vuoto viene colmato da boss e fascisti. Sono loro gli “amici” del popolo, quelli che “fanno del bene”. Loro l’immagine di una ribellione che favorirà solo ed esclusivamente le élite.

Il Fatto 10.11.17
Renzi ha rapito il corpo del malato
di Salvatore Settis

Il suicidio assistito del Pd ha fatto tappa in Sicilia. Ispirandosi al Dottor Morte (Jack Kevorkian), il primario Matteo Renzi ha sequestrato il corpo del malato e lo dissangua senza pietà. Lo circondano premurosi assistenti-complici pronti a tutto, ma anche parenti in gramaglie che oggi biasimano l’assassino e domani gli votano la fiducia. A star dietro a tali balletti si rischia di non cogliere la radicale metamorfosi del Pd: da gioiosa macchina da guerra del 40% dopo le elezioni europee del 2014 a ipotetico ago della bilancia nel 2018, vaso di coccio fra i vasi di ferro dei due partiti maggiori, M5S e le destre. E quanto al Dottor Morte nostrano: da premier a candidato premier, e infine a ipotetico ministro di Qualcosa in un governo con le destre.
Non si ripeterà mai abbastanza che l’errore di prospettiva di quel 40,81% alle Europee, che valeva la metà perché solo il 50,58 % dell’elettorato aveva votato, non fu solo di Renzi, ma di chiunque chiuse allora gli occhi per non vedere e la bocca per non parlare. Ma tutta la strategia del Pd da allora al referendum del 4 dicembre 2016 fu ispirata da quell’equivoco: il miraggio di un inesistente 40% e la verità taciuta di un elettorato ridotto alla metà, e dunque più facile da manipolare. Questa fu la ratio dei volgari trucchi della legge elettorale detta Italicum, bocciata dalla Consulta senza aver funzionato nemmeno un giorno; questa, con travestimenti furbeschi e traguardando su possibili coalizioni, la ratio della nuova legge elettorale, che puzza di incostituzionalità prima di esser messa alla prova delle urne. L’enorme massa degli italiani che non votano è di fatto il cuore nascosto della politica e di ogni scommessa sulla democrazia di questo Paese. In Sicilia non ha votato il 53% degli elettori: lo stesso astensionismo delle regionali in Basilicata nel 2013. Per non dire dell’Emilia-Romagna, dove alle regionali 2014 non andò alle urne il 63% degli elettori. Cifre come queste tolgono credibilità agli eletti e segnalano una radicale sfiducia nella politica, virus temibile che delegittima le istituzioni. Eppure si parla poco di astensionismo, e intanto quasi tutti aspirano confusamente a farne un instrumentum regni. In due modi diversi, anzi opposti: secondo la ricetta Renzi (favorire l’astensionismo, concentrando gli sforzi propagandistici su chi si ostina a votare); o secondo la formula magica “del 4 dicembre” (recuperare al voto chi votò al referendum). Questo sortilegio, che accomuna il M5S e pezzi importanti di sinistra alternativa, in Sicilia è fallito: la percentuale degli astenuti è infatti identica a quella del 2012. Chiamare alle urne chi vi andò il 4 dicembre è un bello slogan, ma da solo non funziona. Non solo perché, come sanno tutti, vi fu sul referendum un’impropria alleanza tra forze politiche e idee assai disomogenee (da Brunetta a Zagrebelsky), ma per un motivo molto più importante. Se il 4 dicembre l’astensionismo si fermò al 34%, è perché milioni di cittadini capirono che quella riscrittura della Costituzione metteva a rischio i loro diritti, limitava la democrazia, favoriva uno sgangherato autoritarismo. In vista delle Politiche che ci aspettano dietro l’angolo, se non vogliamo rassegnarci a un’Italia dove meno del 50% dei cittadini è disposto ad andare alle urne, la scelta è una sola. Approntare, dichiarare, sbandierare programmi di governo fondati sui diritti costituzionali dei cittadini: dimostrarne la fattibilità giuridica, politica, economica. Ricordare ai cittadini quali sono i diritti che rischiano di essere, anche se non cancellati da una riforma costituzionale, calpestati di fatto perché dimenticati o seppelliti sotto valanghe di leggi e leggine. Proporre un orizzonte, un traguardo: non un astratto storytelling dell’Italia-che-non c’è, ma il profilo dell’Italia che (secondo la Costituzione) deve esserci; e di come arrivarci. Dalle profondità del coma indotto e governato dal Dottor Morte all’italiana, è improbabile che il Pd trovi il bandolo di questa matassa, anche perché intento ad auto-intrappolarsi nel gioco delle correnti interne. Ma le forze alla sua sinistra non saranno afflitte da una simile malattia senile, e non si condanneranno a un analogo, sterile correntismo? E saprà mai indicare credibili progetti di governo il M5S, se non ha saputo affrontare adeguatamente il tema della democrazia interna?
Pensiamo all’Italia che generò quella Costituzione che abbiamo saputo difendere col voto. Quella Carta non nacque da accordi di vertice fra i partiti ma da un vasto consenso nel Paese. Fuori dell’Assemblea Costituente vi furono, allora, i “Costituenti-ombra”: cittadini che contribuirono a delineare un orizzonte di diritti e un traguardo di assetti di governo, dettando di fatto gli indirizzi che oggi troviamo scolpiti nella Carta. Contro lo scandalo di un dibattito politico che si svolge sulle procedure, sulle modalità, sulle alleanze, sulle liste elettorali, sulla difesa dei privilegi, e non sulla sostanza dei problemi, non sulla vita degli italiani e sul futuro della Repubblica, chi saprà scagliare la prima pietra?

Repubblica 10.11.17
La connection sull’Arno tra uomini di camorra e l’imprenditoria toscana
L’indagine che imbarazza Pier Luigi Boschi vede coinvolti numerosi professionisti in affari con i clan. L’epicentro è Montevarchi dove i soldi del racket sarebbero finiti in una decina di società
Dario Del Porto e Gianluca Di Feo

GLI affari sono affari. E quando si presentano degli oscuri imprenditori con un forte accento campano e con le valigette piene di biglietti da 500 euro, nessuno batte ciglio. Trovano soci e professionisti per realizzare i loro piani, investono e guadagnano. Se però questo accade lungo quel tratto dell’Arno che unisce Arezzo e Firenze, nei paesi che hanno segnato l’ascesa di Matteo Renzi, allora la questione può diventare quantomeno imbarazzante. Così l’ultima istruttoria della procura di Napoli sul clan Mallardo, famiglia camorristica di Giugliano considerata una delle cosche più influenti d’Italia, va a intrecciare direttamente le attività di Pierluigi Boschi e arriva persino lambire l’ingegnere di un’azienda promossa da Tiziano Renzi. Nei loro confronti non c’è nulla di penalmente rilevante, mentre il gip ha ridimensionato il ruolo degli imprenditori toscani indagati per riciclaggio. Gli atti della procura, però, offrono un racconto impressionante di quanto sia facile per gli emissari delle mafie infiltrare il tessuto economico: di fronte ai quattrini, tutti aprono le porte. In silenzio.
L’epicentro di questa inchiesta è Montevarchi, borgo da cartolina quasi a metà strada tra Arezzo e Firenze. Lì secondo i magistrati gli inviati dei boss mettono su una manciata di società e per 10 anni vi riversano i soldi raccolti con la droga e con il racket. Ovviamente si affidano a figure ben note nel paese, che sanno a chi rivolgersi per raggiungere i risultati. La prima creatura si chiama Valdarno Costruzioni. Ha sede presso la società di un prestigioso architetto, che fa la spola tra Montevarchi e Laterina, di cui è stato candidato sindaco in rivalità con la lista di Maria Elena Boschi. La Valdarno è la prima creatura dei Mallardo. Tutte le pratiche e i progetti vengono curati dal principale studio cittadino, lo stesso che disegna i piani urbanistici dei comuni e che realizza sul territorio opere per Gucci e Prada. Non sorprende quindi leggere che il primo rogito viene siglato dal notaio che redige i verbali delle assemblee di Banca Etruria. Che la sede viene ospitata dalla ditta del segretario del Rotary. O che il commercialista di riferimento lavora per numerose istituzioni fiorentine. Relazioni che permettono in fretta di costruire e vendere i primi 14 appartamenti con oltre due milioni di incasso. Non stupiscono, dunque, neppure le parole del pentito Giuliano Pirozzi, quando racconta delle «ottime entrature presso le banche in Toscana » vantate da Antimo Liccardo, considerato l’uomo di fiducia dei Mallardo in Val d’Arno.
Sono due i referenti principali degli investitori venuti dal Sud, indagati per riciclaggio. C’è Mario Nocentini, ben introdotto nel giro della Coldiretti. È lui che nel 2002 trascina Pier Luigi Boschi, il papà di Maria Elena, insieme ad altri coltivatori della zona, tra cui il titolare di uno dei frantoi più famosi, nel piano per l’Orcio: un camping di livello che non verrà mai completato. Tra l’aprile 2005 e l’agosto 2012, Nocentini entra con il 49 per cento nella Edil Europa 2 srl, società immobiliare controllata dalla Valdarno che realizza le palazzine ritenute in odor di camorra, ma i denari – scoprono gli inquirenti – non li mette lui: sono i risparmi di tre commercianti di Montevarchi, che preferivano non apparire. Per i pm, guidati dal procuratore Giovanni Melillo e dal suo vice Giuseppe Borrelli, sono comunque «capitali di provenienza opaca». Alla fine, il business vale oltre cinque milioni.
Michele Quaranta invece ha una società che è riuscita a farsi approvare il progetto per tre asili, finanziati con i fondi renziani per l’edilizia scolastica. Tra il 2004 e il 2007, è socio al 30 per cento della filiale toscana dei Mallardo. E poi nel 2014 porta avanti le iniziative della Nikila Invest. Si tratta di una azienda fiorentina nel mirino di diverse procure: si occupa di outlet e residenze di prestigio. Ha relazioni societarie con la Party srl di Tiziano Renzi, che mentre il figlio era a Palazzo Chigi avrebbe partecipato personalmente agli incontri con i sindaci di Sanremo e Fasano per promuovere i cantieri di nuovi centri commerciali. Uno dei tanti intrecci che capitano nelle piazze del Valdarno. Per Nocentini come per Quaranta, il gip ha bocciato la richiesta di sequestro. E adesso tutti sostengono che si trattava di pessimi affari, di averci perso. Già, ma perché nessuno ha mai protestato? Stando ai documenti ufficiali, sembrano vittime perché cedono quote agli emissari del clan senza farsi compensare in modo adeguato. Gli inquirenti però hanno un altro sospetto e ipotizzano che i pagamenti ci siano stati, ma in nero. Citano la conversazione registrata nello studio di un avvocato legato al boss: «Sono stati tacitati in nero, i voti del concordato che abbiamo comprato a nero e tutto il resto… appresso cioè c’è un mondo dietro questo, che lei non sa, non può sapere e non vuole sapere».

Il Fatto 10.11.17
La mutazione genetica del Pd in tre profili
di Franco Monaco

rnare sulle parole con le quali Grasso ha motivato la sua rottura con il Pd: la denuncia di un partito irriconoscibile per “merito, metodo, stile”. Provo a isolare tre profili di tale mutazione genetica: la deriva antipolitica, una linea ondivaga un po’ su tutto, l’autorappresentazione come il solo, vero partito.
Primo. Il Pd nacque quale partito nuovo ma nel solco della eredità di partiti storici tra loro antagonisti e tuttavia accomunati dal senso dello Stato. Nella sua Carta fondativa, il Pd si autodefinisce “partito della Costituzione”. Un partito che fa del rispetto delle regole e del valore delle istituzioni un proprio tratto identitario. L’opposto dell’antipolitica e del populismo. Renzi lo racconta come il solo argine al populismo, così da meritare il “voto utile” alla democrazia e alla stabilità delle istituzioni. Tesi sempre meno plausibile, al punto che, per taluni, il voto utile e responsabile dovrebbe semmai andare al “moderato” Berlusconi alleato di Salvini e Meloni (!). Qualche esempio: la campagna del referendum costituzionale connotata da una marcata intonazione populista; la corriva polemica contro la Ue cui intestare problemi che sono nostri e ottusi vincoli che derivano da impegni dai noi sottoscritti; l’attacco frontale a Bankitalia per imputarle una crisi bancaria che chiama in causa ben più estese responsabilità (mai avrei immaginato di assistere, in Parlamento, allo spettacolo del partito di Berlusconi che impartisse lezioni sul senso/valore delle istituzioni terze!); la tardiva, trafelata rincorsa al taglio dei vitalizi palesemente a rimorchio della campagna dei 5stelle; la rottamazione della vecchia guardia (una cosa buona se non si fosse risolta nella sostituzione di essa con una mediocre e improbabile classe dirigente, nonché nella rottamazione, anziché nella rivisitazione critica e creativa, delle culture politiche originarie).
Secondo. Una sorta di zelig su questioni politiche qualificanti la linea e il profilo di un partito. Esempi? Leggi elettorali che facevano indifferentemente perno su maggioritario o proporzionale, su premio al partito o alla coalizione, come se quella elettorale non fosse la più politica delle leggi, che rinvia alla propria visione del sistema politico; la oscillazione tra presuntuosa autosufficienza coltivata ostinatamente per tre anni e la recente, estemporanea apertura alla coalizione; una strategia politica che prima assume come avversario sistemico i 5stelle e che poi scopre che il vero competitor è la destra; l’iscrizione del Pd, senza confronto interno, alla famiglia dei socialisti europei per poi rivendicare la propria profonda distanza/differenza da essa; la vistosa schizofrenia tra giustizialismo e garantismo; il pendolarismo tra centralismo (smaccato nella riforma costituzionale poi provvidenzialmente bocciata dagli italiani) e goffa rincorsa autonomistica degli amministratori Pd nei referendum di Lombardia e Veneto, propiziata da un mix di ignavia e opportunismo.
Terzo. La cosa che più sorprende è che metamorfosi e contraddizioni siano state avallate alla unanimità dalla direzione politica. Senza che qualcuno si alzasse a chiedere conto delle improvvise conversioni a U. A riprova di come siano ridotti i partiti. Tutti, intendiamoci. In queste ore, verrebbe quasi da difendere l’indifendibile Renzi. La legione di quanti, per miopia o convenienza, per tre lunghi anni hanno assecondato ogni sua scelta ne porta in solido la responsabilità. Penso non solo ai miracolati dello stretto giro renziano (questo lo si capisce), ma anche ad alcuni “fratelli maggiori” del Pd (Napolitano, Veltroni, Fassino, Franceschini, Finocchiaro…) che, con azioni od omissioni, hanno avallato un deragliamento da gran tempo visibile.

il manifesto 10.11.17
Oggi sciopero generale per i sindacati di base
Domani manifestazione nazionale a Roma. Usb, Cobas e Unicobas scendono in piazza contro la manovra del governo
di M. Fr.

Oggi giornata di sciopero generale per i sindacati di base. Nelle loro varie articolazioni e definizioni – Usb, Cobas e Unicobas – iniziano una due giorni di lotta in vista della manifestazione nazionale di domani pomeriggio a Roma (concentramento ore 14 a piazza Vittorio e corteo fino a piazza Madonna di Loreto). Nell’appello sottoscritto anche da Rifondazione comunista si legge: «Mentre i governanti annunciano trionfanti la ripresa, dilagano i licenziamenti, la precarietà, lo sfruttamento e la povertà. Mentre i governanti ci dicono che non ci sono soldi per le pensioni, la sanità, la scuola, i contratti di lavoro; alle banche, alle multinazionali, ai ricchi vengono donati miliardi e miliardi di danaro pubblico. Mentre i governanti parlano di diritti e libertà, i principali diritti sociali affermati dalla nostra Costituzione vengono stracciati».
Allo sciopero di oggi – che verosimilmente bloccherà il trasporto pubblico con orari diversi in molte città – partecipano anche i Cobas nei comparti scuola, trasporti, la sanità, pubblico impiego e lavoro privato contro le politiche economiche e sociali del governo e la sua finanziaria. Manifestazioni in molte città, a Roma al ministrero dell’Istruzione (ore 9.30) e al Parlamento (ore 11.30).
Nella scuola, «lo sciopero si oppone alle intollerabili proposte governative che prevedono per docenti e personale Ata, dopo 10 anni di blocco contrattuale, un’elemosina di 50 euro mensili, mentre per i presidi un aumento di 500 euro, sancendo così il loro ruolo “padronale” che dà luogo a soprusi continui verso chi non si piega alle logiche aziendalistiche». Sciopero anche «contro l’obbligo assurdo di 400/200 ore di alternanza scuola-lavoro, grottesca forma di addestramento al lavoro gratuito; contro i quiz Invalsi e la chiamata diretta e i “bonus” decisi dai dirigenti per formare una “corte” di succubi; per aumenti che recuperino almeno il 20% di salario  perso nell’ultimo decennio».
Scioperano oggi anche la Clap (Camere del lavoro autonomo e precario). La Rete “La Salute non si appalta” sarà in presidio sotto il Ministero della Salute (a Trastevere a Roma) a partire dalle ore 9 per chiedere lo stop alle esternalizzazioni nel sistema sanitario nazionale.

il manifesto 10.11.17
L’estrema destra cresciuta all’ombra del «berlusconismo»
Relazioni pericolose. L’alleanza tra Casa Pound e Salvini e la rottura. Ma «prima gli italiani» resta uno stendardo comune. ll’indomani del voto «Il Tempo» ha aperto con un titolo che proclamava «la marcia su Ostia»
di Guido Caldiron

Il «caso Ostia» non rappresenta solo l’inquietante prospettiva che in un territorio segnato dall’abbandono da parte della politica, e dalla contemporanea presenza di una sorta di welfare malavitoso, l’estrema destra possa fare significativamente breccia. C’è un altro indizio importante che è arrivato dal voto del litorale romano e che non riguarda tanto la condizione di marginalità sociale che si vive nelle periferie e le conseguenze che tutto ciò può avere in termini di rappresentanza locale, quanto piuttosto l’esito politico più generale che può produrre.
I POCO MENO DI 6000 VOTI che Casa Pound ha raccolto domenica scorsa, molti dei quali arrivati dalle case popolari di Nuova Ostia e di Acilia, potrebbero infatti risultare decisivi nel ballottaggio che il 19 novembre vedrà contrapposte la candidata del M5S Giuliana Di Pillo e quella del centrodestra, in quota Fratelli d’Italia, Monica Picca, distanziate al primo turno di soli 2309 consensi. Del resto, al di là delle schermaglie che hanno accompagnato la vigilia delle elezioni nel X municipio della capitale, con i «fascisti del terzo millennio» impegnati a sfidare in particolare la lista che si rifà a Giorgia Meloni, proprio per una rischiosa, in termini di consensi, contiguità ideologica, su temi quali immigrazione, rom e «preferenza nazionale», «destra» e «estrema destra» hanno agitato slogan e argomenti del tutto sovrapponibili.
COSÌ NON STUPISCE che all’indomani dell’esito del voto, il quotidiano di destra della capitale, Il Tempo, abbia aperto con un titolo che riproducendo la grafica dei manifesti dei neofascisti, proclamava «la marcia su Ostia». E con una lunga lettera del leader di Cpi sul litorale, Luca Marsella – che ricordava anche le precedenti affermazioni elettorali degli estremisti, da Bolzano a Lucca passando per Todi – in provincia di Brescia, a Trenzano il sindaco 39enne Andrea Bianchi, eletto nel 2013 con il centrodestra ha appena aderito a Casa Pound.
Uno sviluppo che può essere considerato come un elemento preoccupante a se stante o come parte di una ulteriore deriva più complessiva in atto nel paese. Di cui l’estrema destra rischia di essere solo la componente più visibile. Ma potenzialmente decisiva.
CRESCIUTA NEGLI ANNI dell’egemonia culturale e politica del «centro-destra» guidato da Silvio Berlusconi, della cui prolungata affermazione si è giovata sia sul piano dei ripetuti tentativi di legittimazione storica che nello «sdoganamento» di un armamentario propagandistico aggressivo – dal revisionismo pop sul Ventennio mussoliniano fino all’imprenditorialità politica della xenofobia e del risentimento -, l’ultima stagione dell’estrema destra italiana si è in gran parte sviluppata all’ombra del «berlusconismo». Di cui ha finito per costituire, nella prospettiva di una «destra plurale» che è riuscita a trasformare le proprie apparenti contraddizioni nelle diverse facce di una medesima proposta di società, una sorta di avanguardia giovanile e sociale. Uno scenario già emerso nel recente passato, ma cui la crisi economica da un lato e la ritrovata unità della destra politica dall’altro, offrono una rinnovata attualità.
Nel caso specifico di Casa Pound, si è perso il conto della partecipazione di esponenti governativi della coalizione berlusconiana – seguiti a dire il vero fino ad oggi anche da diversi nomi della sinistra e del giornalismo indipendente – che hanno varcato il portone del palazzo di via Napoleone III, occupato dal 2003, per partecipare alle iniziative dei «fascisti del terzo millennio».
SUL PIANO PIÙ SQUISITAMENTE politico, nel 2005 gli ideatori dello «squadrismo mediatico» sostennero, al pari di tutto il centrodestra, la Lista Storace alle regionali del Lazio e in seguito entrarono a far parte del Movimento Sociale Fiamma Tricolore che nel 2006 appoggiava Berlusconi. Con il passare del tempo è però con la Lega, dopo la virata sovranista e filo Le Pen di Matteo Salvini, che Casa Pound stringerà una salda per quanto effimera alleanza. Nel 2014 i neofascisti sostengono la campagna elettorale europea, risultata vincente, del leghista Mario Borghezio. L’anno successivo, il numero 2 di Cpi, Simone Di Stefano, è sul palco di piazza del Popolo a Roma insieme a Salvini e Meloni al termine della manifestazione dei sovranisti contro Renzi e parla della nascita «di un nuovo fronte politico». «Condividiamo ogni singola parola del progetto di Salvini – presentato come l’unico vero leader della destra – e in particolare i tre capisaldi: no euro; stop immigrazione; prima gli italiani», dichiara Di Stefano.
OGGI, DOPO LO STRAPPO intervenuto in seguito con la Lega, lo stesso esponente di Cpi, in occasione della chiusura della campagna elettorale ad Acilia, ha attaccato Salvini chiedendosi «gli avete visto mai un tricolore in mano? No, perché la Lega è rimasta quella di un tempo…». Questo, malgrado i leghisti si siano in realtà spinti sempre più in là in direzione dell’estrema destra – tra l’altro eleggendo nel Municipio 8 di Milano Stefano Pavesi, del gruppo di Lealtà e Azione, nato come emanazione dei neonazisti Hammerskin.
Perciò, al di là delle querelle sulle bandiere, anche se non è ancora e forse non sarà mai la base per una coalizione elettorale, perlomeno in modo esplicito, è possibile che quel «prima gli italiani» sia già uno stendardo sufficientemente solido, e comune, per far confluire dalla stessa parte consensi raccolti in modo diverso. A cominciare da Ostia.

il manifesto 10.11.17
Non scegliere a Ostia è un suicidio
di Norma Rangeri

Se fossimo cittadini chiamati al voto nel municipio di Ostia, quando si voterà per il ballottaggio tra la destra e i 5stelle, voteremmo per i pentastellati. Non scegliere e magari restarsene a casa, indifferenti, sarebbe un errore politico e ancor prima una pesante responsabilità democratica.
Proprio l’astensione sembra essere invece l’atteggiamento del Pd dopo la batosta elettorale ricevuta in Sicilia ma anche a Ostia. Con dichiarazioni ambigue, il partito del Nazareno pensa di cavarsela con la formula delle «due destre» e la conseguente diserzione delle urne. «Comunque andrà il ballottaggio, vincerà una destra», è il mantra del Pd romano. Un atteggiamento pilatesco, un arretramento sul fronte antico ma purtroppo attuale della vigilanza democratica, un suicidio politico. Tanto più se il 9% di Casa Pound finirà alla candidata delle destre romane, non schierarsi denuncia il piccolo, anche miserabile, cabotaggio del partito che esprime il governo del paese. Sostenere come ha fatto il candidato locale Athos De Luca, «non diamo indicazioni, libertà di coscienza» per poi aggiungere «ovviamente consigliamo di andare a votare», è come nascondere la testa sotto la sabbia.
I fatti di Ostia hanno alzato il sipario, davanti alla pubblica opinione, sulla violenza, sull’estremo degrado dell’agibilità politica in vaste zone della capitale.
Sulla devastante corruzione della pubblica amministrazione che il quel municipio è finita da gran tempo in mano a dirigenti politici e pubblici funzionari condannati e finiti agli arresti. A Ostia, è bene ricordarlo, si torna al voto dopo due anni di commissariamento del municipio, sciolto per infiltrazioni mafiose, proprio quel pezzo di città dove l’ex sindaco Alemanno voleva costruire un casinò per la maggior gloria degli usurai.
Segnato da un’astensione altissima, il primo turno delle elezioni si è concluso consegnando al ballottaggio la destra e il M5S. Una destra che ha molte facce, come sempre. Quella del partito Fratelli d’Italia, la parte che viene dal Msi, quella di Casa Pound, la lista arrivata al 9% con cinquemila voti, quella della criminalità organizzata con gli amici di Roberto Spada, il picchiatore, fermato ieri, che abbiamo visto all’opera nel pestaggio del giornalista della Rai. Immagini riprese in diretta dall’operatore che ha filmato e mostrato a tutto il paese in quale clima si sta svolgendo l’ultimo scampolo di una campagna elettorale dove è tornato il manganello.
Di fronte all’evidente smacco di chi parla tanto di sicurezza a proposito degli immigrati, il ministro dell’interno non può cavarsela con la più banale delle frasi di circostanza («non possono esistere zone franche»). Non dovrebbero esistere ma forse vale la pena ricordare che la vicenda di Ostia mostra un territorio dove comanda l’usura, il traffico di droga, le estorsioni dove a fare la legge sono le organizzazioni criminali, dove, come sempre accade in territori ad alta densità mafiosa, lo Stato non c’è o si fa complice. Come la storia insegna, e come fa bene a sottolineare Roberto Saviano quando parla del rapporto tra fascismo e crimine ricordando la lezione di Matteotti. E bene ha fatto la sindaca Raggi a chiamare i cittadini alla mobilitazione con una manifestazione antifascista aperta a tutti, senza bandiere di partito, e a sottolineare che i voti di Casa Pound i 5Stelle non li vogliono.
Siamo sicuri che anche gli elettori del Pd, specialmente quelli costretti a vivere nell’inferno di questo disgraziato territorio alle porte di Roma, il giorno del ballottaggio saranno più saggi dei loro dirigenti e non si asterranno da questo fronte estremo di difesa della democrazia.

La Stampa 10.11.17
Dalla gestione degli affitti alle piazze dello spaccio
Così i clan regnano a Ostia
Sparatorie, cassonetti bruciati e donne costrette a prostituirsi
di Francesco Grignetti

Occhio ai piccoli segnali maligni, quando si parla di clan malavitosi. E allora, parlando di Ostia, gli addetti ai lavori hanno notato un fenomeno davvero inquietante: è da un mese che viene incendiato un cassonetto al giorno, sempre attorno alla sede del X Municipio, quella specie di Fort Apache della legalità dove è insediato (ancora per poco) il commissario straordinario Domenico Vulpiani, un poliziotto tosto che è stato capo della Digos di Roma. «I clan - dice - ci vogliono far capire che sono pronti a tornare». Forse non si sono mai allontanati di molto. Si sono semplicemente nascosti, come pare sia la strategia del clan Triassi, organici a Cosa Nostra, vedi la cosca agrigentana Cornera-Cuntrera, che se ne stanno zitti e buoni, evitando le sparate e le pacchianerie che piacciono tanto agli altri.
Vulpiani in questi 26 mesi da commissario prefettizio ha spacchettato il business principale dei clan sul litorale, ovvero gli stabilimenti balneari, che erano suddivisi in 71 lotti ma in pratica facevano capo alla famiglia Fasciani grazie a una serie di teste di legno. Eppure tutto è in bilico e potrebbe tornare all’antico. E poi il Municipio è anche lo snodo fondamentale dove girano le licenze commerciali (primo business della zona), le licenze edilizie (secondo business), le case popolari (terzo business).
Altri segnali: nel giro di tre settimane, tre sparatorie. Si è visto che c’entra lo spaccio. Gli investigatori non pensano che sia iniziata una guerra, quanto un «aggiustamento» sul territorio. Risistemazione forse inevitabile dopo che gli Spada, cugini dei potenti Casamonica, avevano estromesso dallo spaccio il clan precedente, i Baficchio-Galleoni, che erano gli epigoni della Banda della Magliana, ma poi sugli stessi Spada sono piovute pesanti condanne (a ottobre: 50 anni per tredici imputati, reato riconosciuto è «estorsione con l’aggravante del metodo mafioso») e così sugli alleati dei Fasciani (a giugno li hanno condannati in appello, ma per associazione a delinquere semplice e non mafiosa; poi è arrivata la Cassazione e ha rimesso dentro la mafiosità).
I processi parlano di un clan Spada che ha messo le mani sulle case popolari di Ostia con violenza inaudita. In pratica si sono sostituiti al Comune: eseguono sfratti e poi assegnano le case agli amici o a chi li paga. Per essere chiari: su 6400 appartamenti popolari di Ostia, sono 2800 quelli occupati abusivamente. Qui gli Spada impongono un pizzo generalizzato. Chi non può pagare, è costretto ad andare via. Se è una donna, è spinta a prostituirsi. In un caso pretendevano di farsi cedere la corrente elettrica per l’appartamento vicino.
E ancora. Palestre che sorgono come funghi, senza autorizzazioni, che mai potrebbero avere. Sale scommesse quantomai equivoche. E droga, usura, estorsioni, attentati, controllo del territorio, omertà, intimidazione dei poteri pubblici e della politica locale. Questo è il lato oscuro degli Spada e degli altri clan. «Il convincimento che quello romano sia un territorio risparmiato dai mafiosi - scriveva qualche giorno fa il procuratore capo Giuseppe Pignatone in una lettera al Messaggero - è tuttora molto diffuso e dopo la sentenza di primo grado nel processo a carico di Carminati, Buzzi e altri, alcuni commentatori hanno affermato che la Capitale si era liberata definitivamente dal problema mafia. Non credo che le cose, purtroppo, stiano così».
Mentre il dibattito pubblico si avvitava sulla questione della «mafiosità» o meno di Carminati, infatti, la cruda realtà di Roma è venuta fuori prepotentemente. Si moltiplicano gli arresti e fioccano le condanne. Troppo grande e troppo estesa la città per un solo clan, è evidente che le periferie sono sotto attacco di tanti piccoli clan. Così accade a Ostia con gli Spada. «Famiglie - concludeva Pignatone - senza alcuna derivazione dalle tradizionali mafie meridionali, ma ugualmente in grado di controllare il loro territorio anche con il ricorso alla violenza... La Procura della Repubblica continua a non accettare l’idea, purtroppo molto diffusa, che la corruzione a Roma sia un fatto normale se non addirittura utile allo sviluppo. Né, tantomeno, quella che la mafia non esista se tra gli imputati non vi sono siciliani, calabresi o campani».

La Stampa 10.11.17
“Vi disprezziamo, qui non si entra”
Omertà e sputi nel fortino dei boss
Ma i condomini confessano: “Paghiamo ogni mese per abitare qui”
di Federico Capurso

Il silenzio avvolge le case popolari di piazzale Gasparri. Gli alveari di Ostia Nuova, cuore del feudo del clan Spada, sono muti. «È strana, vero? Dico, questa atmosfera…». La voce, anonima come quella di chiunque abbia voglia di parlare, arriva dal bancone di un chiosco poco distante dal mare. «Se non ci fossero tutti questi giornalisti, i blindati della polizia e i carabinieri, sembrerebbe un quartiere come tutti gli altri». Ecco, è questo ciò che ormai stride, nel territorio controllato dalla famiglia criminale degli Spada: la normalità.
Ma non ci sono solo i passanti ad osservare la scena. Gli affiliati del clan Spada scrutano dietro le finestre l’arrivo a metà mattinata delle troupe televisive. Quando le telecamere si accendono di fronte alla «loro» palestra (dove Roberto Spada ha aggredito il giornalista della Rai) decidono di scendere nel cortile che si apre all’interno dei sei palazzi gemelli. Parlano fitto, sottovoce, poi si dividono. Ognuno davanti a un ingresso, appoggiati alle cancellate, stretti nei loro giubbotti, gli occhiali scuri calati sugli occhi. Fissano i giornalisti e sputano in terra: «Qui dentro non si entra». Solo alle forze dell’ordine è concesso il passaggio. Quando i Carabinieri si affacciano, gli affiliati scompaiono. Nel cortile, stretto come un corridoio a cielo aperto tra le due file di case, vige una sola regola: «Camminare guardando verso l’alto, mai a terra. Possono sempre tirarti addosso qualcosa». Gli uomini dell’Arma indicano le fitte file di finestre che si alzano sopra di loro. Sembrano vuote, i balconi sono deserti, ma «c’è sempre qualcuno che guarda». Molti di quegli appartamenti, infatti, sono abitati da uomini del clan agli arresti domiciliari. E il loro lavoro, non potendo più uscire, diventa spesso quello delle vedette.
Quando si scende nel garage, dove gli occhi delle famiglie criminali non arrivano, ci sono decine di telecamere ad osservare i movimenti di chi entra e chi esce. Le macchine sportive e i suv, simbolo della ricchezza ostentata dalle famiglie del litorale, non ci sono. L’arrivo delle televisioni era previsto, e poi gli uomini ai piani alti della gerarchia criminale del clan non vivono nel blocco di case popolari di piazzale Gasparri. Il boss, Carmine Spada, ha una villa distante circa un chilometro dalla Piazza. E anche il fratello, Roberto Spada, diventato il reggente della famiglia dopo l’arresto di Carmine, vive lontano da qui.
Piazzale Gasparri è il quartier generale; il fortino della droga. Da qui i ragazzi in scooter trasportano la merce lungo il litorale e fino al centro di Roma. «Oggi è tutto tranquillo, ma di solito già dall’alba inizia a muoversi una quantità enorme di droga», racconta la titolare di un’attività commerciale che decide di parlare, a patto di mantenere l’anonimato. «Quando sono arrivata, non pensavo fosse così marcia la situazione», racconta. «Adesso appena posso vendo, ma a chi?».
Nel mondo della criminalità di Ostia Nuova non c’è però solo lo spaccio, ma anche il racket degli alloggi popolari. La droga fornice il potere economico; i palazzi, invece, il controllo del territorio. L’Ater, l’agenzia che gestisce gli alloggi popolari, possiede circa due chilometri quadrati di palazzi a Ostia, dove vivono anche le famiglie normali. Famiglie che però, spesso, finiscono vittime del racket degli Spada. «Io ho pagato, per entrare in una casa popolare», racconta Daniela, che il vero nome ha preferito non dirlo. «Non voglio dire quanto, perché potrebbero capire chi sono. Adesso pago un canone mensile». Nessuno, all’Ater, ha mai ricevuto un euro da Daniela e, forse, non ne conosce nemmeno l’esistenza, ma lei è tranquilla: «Quelli dell’Ater non sono mai venuti e non credo che verranno mai. Rischierebbero grosso». Dall’altra parte c’è Massimo. Lui ha deciso di comprare, per i suoi nipoti, la casa popolare in cui vive da cinquant’anni. «Sono arrivato prima degli Spada», racconta, «e non saranno loro a mandarmi via. Hanno provato a fare pressioni, ma sto qui dai tempi della banda della Magliana, figuriamoci se ho paura di questi». E poi, aggiunge guardando da lontano il castello del clan, «questo posto somigliava al Paradiso».

Il Fatto 10.11.17
Minorenne denuncia violenza sessuale. Il parroco di Bologna: “Eri ubriaca, te lo meriti”
Don Lorenzo su Facebook: “Nessuna pietà se vai con un maghrebino
di Sarah Buono

“Tesoro se ti ubriachi da far schifo e ti allontani con un maghrebino, notoriamente veri gentlemen, svegliarti seminuda è il minimo che potesse accaderti”. Appare sempre più sbiadito il ricordo di Don Camillo in Emilia se per don Lorenzo Guidotti quella minorenne che venerdì scorso ha denunciato alla polizia di essere stata violentata in un vagone della stazione non merita nessuna pietà. “Se nuoti nella vasca dei piranha non puoi lamentarti se quando esci ti manca un arto, mi sembra di sognare! Dovrei provare pietà? No, non la provo per chi vive da barbara con i barbari e poi si lamenta perché scopre di non essere oggetto di modi civili. Chi sceglie la cultura dello sballo lascia che si ‘divertano’ anche gli altri”.
Sacerdote di una parrocchia della periferia di Bologna, sempre in prima linea per i poveri e ratzingeriano di ferro, “l’unico Vicario di Cristo su cui hanno gettato più merda è Cristo stesso, Pio XII santo subito!”. Il Don è noto per uno stile molto informale, dalla passione per le felpe con cappuccio, l’ultima con la scritta “sono un bimbo di Dio, un soldato di Cristo”, ai manifesti “Jesus needs you” (Gesù ha bisogno di te) con tanto di dito puntato del Salvatore in puro stile americano. Da tempo sul proprio profilo Facebook il sacerdote commenta, in libertà, le notizie del giorno scagliando la propria ira contro svariati soggetti come la scienza, “nulla è più evanescente, vago e assolutamente temporaneo e opinabile quanto uno studio sientifico?”. O la Francia “laicista che possa sprofondare con Sodoma e Gomorra”. Non mancano battutacce su Laura Boldrini, presidentessa della Camera, definita “la maestrina, anche un orango svolgerebbe con più dignità il suo ruolo” e Rosy Bindi “certo che piuttosto che andar con lei, mi sposo con Vladimir Luxuria”. Accortosi del clamore mediatico Don Lorenzo ha tentato, con risultati discutibili, di fare marcia indetro: “Ho usato parole imprudenti, ma il mio era un attacco alla cultura dello sballo. Vogliamo aspettare la seconda vittima? Io no. Non ce l’ho con i migranti ma con chi agevola l’onda migratoria e magari dà dello xenofobo a chi ha un pensiero più leggermente articolato del fare entrare tutti”. Giustificazioni seguite da altre scuse causate forse dalla dura presa di posizione della Curia felsina: “Sono opinioni sue personali, che non riflettono in alcun modo il pensiero e la valutazione della Chiesa, che condanna ogni tipo di violenza”.
In quella che un tempo veniva definita la rossa Emilia manco più Peppone però se la passa benissimo. Nel piccolo comune di Sant’Agata Bolognese, paese della Lamborghini, ieri sera il sindaco di centrodestra Giuseppe Vicinelli ha presentato l’Assessorato alla Vita, il primo in tutta Italia. Campagna informativa contro l’aborto e iniziative di aiuto concreto come il progetto Gemma che prevede un aiuto di 180 euro al mese per due anni per le neomamme in difficoltà economica che abbiano rinunciato ad abortire e dal 2018 ai nuovi nati un pacco regalo.

Repubblica 10.11.17
Eiti della seduzione e il diritto di dire no
di Michela Marzano

C’È CHI dice che lo scandalo Weinstein abbia finalmente permesso a tante donne di denunciare le molestie subite e, conseguentemente, alla parola femminile di liberarsi senza più remore, senza più sensi di colpa, senza più vergogna. Ma c’è anche chi dice che, ormai, non sarà più possibile evitare che si scateni una vera e propria guerra dei sessi: niente più seduzione, niente più corteggiamenti, niente più possibilità di lasciarsi andare all’inevitabile gioco dei ruoli che, nonostante le ambivalenze e le contraddizioni, permette di fatto di entrare in relazione con l’alterità altrui.
Nel giro di alcuni giorni i dibattiti, soprattutto in Italia, si sono polarizzati ( e sclerotizzati) tra coloro che, talvolta mischiando tutto, hanno preteso che non ci fosse alcuna differenza tra stupro, molestie sessuali e seduzione, e coloro che, mischiando anche loro tutto, hanno rinfacciato alle donne di aver parlato troppo tardi, di non aver avuto il coraggio di farlo al momento giusto, di strumentalizzare la situazione per rincorrere la celebrità. E se in Italia, ancora una volta, si stesse perdendo l’occasione per fare un po’ di chiarezza? E se, invece di interrogarsi su ciò che rivela veramente questo scandalo, ci si stesse limitando a cavalcare l’onda delle emozioni senza capire che il vero problema che sta emergendo è quello dell’abuso di potere che inquina, da ormai troppo tempo, le relazioni umane?
Sono passati quasi tre secoli da quando Montesquieu, in L’esprit des lois, spiegava che, siccome chiunque detiene il potere è portato ad abusarne, occorre che «per la disposizione delle cose il potere freni il potere » . Senza limiti, cioè, ognuno avrebbe tendenza ad abusare del potere che esercita o possiede, sia esso politico, economico, sociale o simbolico. Eppure c’è chi dimentica la lezione del grande filosofo francese e continua a immaginare che le relazioni umane siano perfettamente simmetriche, che la parola di ognuno abbia la stessa rilevanza e lo stesso peso, che chiunque possa sempre e comunque avere la possibilità di dire “no” o “sì” liberamente. Che “potere contrattuale” può però avere una giovane donna ( ma anche un giovane uomo) di fronte al capufficio, al professore, all’agente, al direttore, al ministro e via di seguito quando costui (o costei), approfittando del proprio ruolo o della propria posizione, chiede o pretende servizi, prestazioni, gesti o parole? Perché passare sotto silenzio le minacce esplicite o implicite di fronte alle quali ci si può trovare quando si è in una situazione di dipendenza o di fragilità, indipendentemente dal fatto che si parli del mondo dello spettacolo o di quello universitario, dell’universo politico o di quello aziendale?
Chi detiene il potere, scriveva Montesquieu, è portato ad abusarne se non incontra dei limiti. E il limite, quando si ha voglia di sedurre qualcuno, non può che essere il rispetto: rispetto di chi ci è di fronte e della sua alterità; rispetto del suo desiderio, ma anche della sua paura o della sua vergogna; rispetto dell’altro e della sua posizione necessariamente subalterna. Non si stratta di smetterla di cercare di sedurre, sterilizzando il desiderio e separando gli uomini dalle donne, gli eterosessuali dagli omosessuali, i giovani dai vecchi. Ma di tornare a dare un senso al rispetto di chi ci sta di fronte quando il posto da lei/ lui occupato è per definizione subordinato.
Certo, il limite tra la molestia e la seduzione è la presenza del consenso. Chi acconsente può poi difficilmente giustificare una denuncia o pretendere che la propria parola sia presa sul serio da tutti. Ma cosa vuol dire esattamente “ consentire”?
Consente forse chi non ha la forza o il coraggio di dire esplicitamente “ no”, perché ha paura, si vergogna, non ce la fa, non ha gli strumenti adeguati, si sente letteralmente “ inadeguato” e immagina che il proprio valore dipenda sempre e solo dal giudizio degli altri, soprattutto se occupano un ruolo o una funzione superiore? Se nessuno ci ha permesso di acquisire pian piano la consapevolezza del nostro valore, è quasi impossibile anche solo immaginare di poter dire di “ no” a chi, occupando una posizione di potere, ci fa capire che è solo quella la strada che si apre a noi per immaginare di “valere”. Come quella studentessa che, chiedendomi recentemente un appuntamento, mi racconta delle avances del collega, dicendomi che è senz’altro colpa sua, che c’è qualcosa in lei che non va bene, che vorrebbe non andarci più in quello studio, «ma come faccio professoressa? E se poi quest’esame non riesco a passarlo?» Lo ripeto, non si tratta di cancellare la seduzione. Al contrario. Si tratta di riconoscere la bellezza della sfida che comporta ogni seduzione quando si cerca una risposta al proprio desiderio. Ma questo è possibile solo in caso di simmetria nelle relazioni. In caso di asimmetria, c’è solo abuso di potere. Con tutta la tristezza che l’abuso porta con sé, oltre che la sofferenza di chi è stato abusato.

Corriere 10.11.17
La road map di Grasso per l’alleanza della sinistra: il Pd era quello di Bersani
Per l’ex magistrato il ruolo di presidente di un «soggetto largo»
di Monica Guerzoni

ROMA In zona Cesarini, i dem hanno compreso quanto alto sia il rischio di presentarsi alle politiche senza coalizione. Da Cuperlo a Orlando si moltiplicano gli appelli ai padri nobili, perché diano il loro contributo alla costruzione di un’alleanza di centrosinistra. Ma se Romano Prodi si tira fuori, Pietro Grasso lavora a una lista di sinistra, alternativa al Pd e in discontinuità da Renzi.
Il cantiere del presidente del Senato guarda anche a Pisapia e alla minoranza dem, escludendo però l’ipotesi di una saldatura con il Pd a guida renziana. «Stare insieme è un valore», riconosce Bersani, però ad Agorà si dice «non ottimista» su un accordo tra sinistra e dem: «Uniti così non vinciamo». La distanza dal Pd è tale che i bersaniani sono pronti a dialogare con i 5 Stelle, oggi a Ostia e domani in Parlamento.
L’ex segretario conferma le tappe del progetto. Il 19 novembre assemblea nazionale di Mdp e a dicembre, dopo la fase di «precongresso», il lancio di simbolo, programma e lista. Salvo colpi di scena il presidente sarà Grasso, che ha visto i leader della nuova sinistra in cantiere. Negli incontri a Palazzo Giustiniani l’ex magistrato è parso «carico, in palla, determinato, convinto» e soddisfatto per la nettezza del profilo politico. Ha «le idee chiarissime» e non lavora per mettere su «la ridotta dei rancorosi, ma un soggetto largo e inclusivo, che non ponga veti». A Pescara il presidente ha rivelato l’ansia della discesa in campo: «Vediamo se finalmente posso riuscire a esprimere me stesso». Perché ha lasciato il partito? «Non so se sono uscito io dal Pd, o non c’è più il Pd». Applausi. «Il Pd era quello di Bersani e della coalizione Bene comune con Sel, quelli erano i miei principi». Ma il Grasso «ragazzo di sinistra» ha voglia di fare politica? «Non lo so, se ci sono le condizioni forse sì... Per ora ascolto».
Nel documento che Speranza, Fratoianni e Civati hanno concordato con Grasso, la parola centrosinistra non c’è. E non è un caso se nessun contatto recente si registra con Prodi e gli altri fondatori. Nicola Fratoianni prende le distanze: «Stiamo scrivendo un’altra storia. Finalmente si parte». L’idea che si va consolidando attorno alla figura di Grasso è una lista che apra le porte anche a Pisapia, qualora l’ex sindaco si rassegni a tagliare i ponti con il Pd. «Se arriva anche Godot non ce n’è per nessuno», spera Pippo Civati. L’avvocato vive ore di tormento. Spiazzato dalla centralità di Grasso, ieri Pisapia ha riunito i suoi per studiare una rotta in vista del lancio domenica della proposta «Diversa», cui sono invitati Speranza, Boldrini e Cuperlo. L’ex presidente del Pd è sempre più lontano dal Nazareno e rivolge un accorato appello a Prodi, Veltroni e Letta, perché «siamo in emergenza ed è il momento di dare una mano». Per scongiurare un’altra rottura, Andrea Orlando rilancia l’appello di Cuperlo ai padri nobili: «Rischiamo che il Pd arrivi terzo, un’irrilevanza tragica».
Se Renzi imboccherà la strada del partito personale, la minoranza non potrà che uscire. «Il tema non è se c’è la scissione o meno — fa scongiuri Orlando — il tema è se il Pd resta una grande forza di centrosinistra, o si allea di volta in volta con questo o quello. Ma così diventa una riedizione 2.0 del Psi della Prima Repubblica».

Corriere 10.11.17
Una mediazione in extremis per scongiurare l’isolamento
di Massimo Franco

La sfasatura tra quello che una parte crescente del Pd ritiene si dovrebbe fare, e le intenzioni del vertice, si sta accentuando. E si è radicata la convinzione che ormai non possa essere Matteo Renzi a mediare con il resto della sinistra. In teoria, potrebbe assumere un ruolo centrale il premier Paolo Gentiloni, al quale si attribuisce, forse con un eccesso di ottimismo, la possibilità di recuperare un rapporto con Pietro Grasso, Mdp, Giuliano Pisapia. Il problema è che si tratta di una centralità teorizzata da chi cerca di convincere il leader del Pd ad accettare rapidamente la nuova fase.
Accettazione improbabile. Il rapporto tra il partito e il presidente del Consiglio vive di sbalzi che risentono di quelli di un leader teso ad archiviare la sconfitta in Sicilia; e in sofferta e larvata competizione con Palazzo Chigi. Quando i renziani chiedono a Renzi di «permettere a Gentiloni di farsi garante di un patto», implicitamente additano l’ostacolo; e il premier non si presta a manovre contro il segretario. Inoltre è difficile chiedere a un leader legittimato dalle primarie e assecondato finora nelle sue scelte, di farsi ridimensionare perché c’è stato il voto siciliano.
Eppure, col nuovo sistema elettorale, allearsi è indispensabile per non finire all’opposizione. E dunque si immagina un asse con Emma Bonino e Carlo Calenda da una parte, e quanti se ne sono andati dal Pd dall’altra. Ma quando Grasso dichiara di non essere «uscito dal Pd, è il Pd che non c’è più», chiude la porta. Una corsa solitaria, è stato calcolato, potrebbe ridurre il numero dei parlamentari dem alla Camera della metà: sebbene nella cerchia renziana si confidi di perderne meno di cento, rispetto ai 283 di oggi.
Soprattutto, aumenta la preoccupazione per un Pd che, da partito del sistema, sta slittando su una china che cancella il ruolo storico di perno. La polemica su Bankitalia, fatte salve le pecche imputabili alla vigilanza dell’istituto di emissione, ha assunto toni che seminano perplessità. E sui vitalizi da abolire per gli ex parlamentari, le obiezioni non sono tanto sul merito ma sul metodo scelto dal vertice dem, che rischia di favorire il M5S. In più, dopo l’offensiva contro la conferma del governatore Ignazio Visco, si è incrinato il rapporto con il Quirinale, preoccupato dai riflessi internazionali.
Lo sfondo sul quale il partito maggiore si avvia alla campagna elettorale è questo. E rispetto all’esigenza di recuperare sponde, i segnali sono opposti. Un Renzi attorniato da consiglieri che alimentano la sindrome dell’accerchiamento non appare disposto a rivedere la strategia. E i tempi stretti frustrano i progetti di tregua. Mancano quattro giorni alla direzione di lunedì, e un segnale potrebbe essere dato. Ma è più verosimile che si aggravi la spaccatura a sinistra; e che il Pd serri le file per limitare i danni.

il manifesto 10.11.17
Internazionale   
L’accoglienza di Xi ipnotizza e smorza Trump
Cina/Usa. Toni moderati e apertura al negoziato con Kim. Il deficit commerciale con Pechino «è colpa di Obama»
di Simone Pieranni

Giunto in Cina, ricevuto in pompa magna dalla impeccabile organizzazione cinese, Donald Trump ha notevolmente abbassato i toni su tutte le questioni in sospeso tra Washington e Pechino. Tanto che, se dovessimo immaginare l’incontro con Xi Jinping come un match di boxe, la sensazione è che Pechino abbia vinto ai punti.
Non a caso il leader cinese ha definito l’esito dell’incontro uno «storico nuovo inizio» a sottolineare un suo successo diplomatico, seppure parziale. Lo scopo della Cina prima del viaggio di Trump in Asia, tanto sulla Corea del Nord, quanto sulle tensioni commerciali con gli Usa, è parso quello di voler prendere tempo: le parole di Trump sulla questione legata al nucleare di Pyongyang e sulla «imbarazzante» – come la definì lo stesso Trump – condizione della bilancia commerciale Usa Cina, sembrano evidenziare un fatto: Washington in questo momento è costretta ad accettare che a condurre il gioco sia Pechino, forte della sua nuova immagine internazionale.
L’accoglienza di Xi a Trump, definita dalla stampa cinese degna di una «visita di stato extra», è stata apprezzata e sottolineata da The Donald ma ha anche significato una manifestazione di forza millenaria – potente e astuta – da parte di Pechino. La giornata trascorsa alla Città Proibita, tra cene e opera di Pechino (con tanto di video della nipote di Trump Arabella Kushner impegnata a parlare cinese e già diventata da tempo un «meme» in Cina) hanno funzionato: Trump è apparso stordito da tante attenzioni finendo per esaltare il numero uno cinese in modo iperbolico. «Un uomo speciale», con cui si sarebbe creata una «grande alchimia»: così Trump ha inaugurato il suo dialogo con Xi , conclusosi con il discorso nella Grande sala del popolo.
Non che ci si aspettasse granché, ma questo tanto atteso meeting è sembrato molto più scenografico che reale dal punto di vista di accordi e soprattutto di soluzioni.
Sulla Corea del Nord – tema caldo in agenda – non si possono considerare i toni più concilianti di Trump come un vero passo in avanti. Trump ha ribadito la necessità di arrivare a un negoziato, ma poco prima di partire dal Giappone aveva espresso nuove minacce. La percezione che si siano riaperti canali tra Pechino e Pyongyang sembra poter fare sperare per il meglio, ma Trump ha avvisato: «bisogna fare in fretta».
E oggi in Vietnam per l’inizio dei lavori dell’Apec incontrerà anche Putin; probabile che si faccia un punto finale del viaggio e delle conseguenze per la crisi coreana: al ritorno negli Usa di Trump forse sarà lecito attendersi qualche novità al riguardo, benché le posizioni rimangano molto distanti.
La Cina non è intenzionata a portare Kim a un tavolo senza garanzie americana sulla propria presenza militare in Corea del Sud. Washington sembra chiedere, invece, prima un «sì» di Kim a dialogare e poi eventualmente procedere per trovare un difficile compromesso.
Poi è stato affrontato il tema della bilancia commerciale tra i due paesi, attraverso un gioco delle parti spassoso per analisti e storici ma poco significativo nella pratica.
Il cruccio di Trump, fin dalla campagna elettorale, è il fatto che gli Usa importano dalla Cina molto più di quanto vi esportano. Questo dato a Washington viene letto come il risultato di politiche volute dalla Cina attraverso l’uso di moneta, incentivi statali e basso costo del lavoro. Dopo gli strali però, in Cina Trump ha rigirato la frittata: la colpa di questo, ha raccontato, non è affatto di Pechino bensì di Obama, troppo leggero nel difendere gli interessi «del popolo americano».
Xi Jinping non aspettava assist migliore per sostenere le ragioni cinesi e tornare a decantare l’ascesa pacifica della Cina. Non a caso ieri sono stati comunicati accordi e investimenti per 250 miliardi di dollari. Ma a parte i 9 effettivi di accordi immediati, il resto è sospeso nel tempo e nell’evolvere delle relazioni tra i due paesi. Xi Jinping, che appare sornione ma ha le mosse del cobra, ha detto che Usa e Cina devono partire da questi accordi per «formulare e lanciare un piano per la prossima fase delle relazioni economiche bilaterali».
I due paesi devono portare avanti «discussioni approfondite sui fronti degli squilibri commerciali, le restrizioni all’export, l’ambiente per gli investimenti, l’apertura di mercato e altre questioni». La Cina, ha aggiunto Xi, è aperta alla cooperazione pratica con gli Stati Uniti nei campi «dell’energia, delle infrastrutture e nel contesto del progetto di Nuova via della Seta». Quest’ultimo riferimento non sarà sfuggito ai più: per la Cina gli Usa sono ormai un interlocutore come tanti altri, al di là dell’accoglienza di facciata riservata al presidente americano: Pechino è lanciata sulla Nuova via della Seta. Con o senza «l’amico» Trump.

Il Fatto 1011.17
I “signori del mondo” e il risiko dei sorrisi
Vertice asiatico - Donald, Vladimir, Jinping tra business, sanzioni e guerre
di Giampiero Gramaglia

La partita a tre si gioca da oggi in Vietnam, dove Trump, Xi e Putin, i ‘Signori del mondo’, almeno di quello che s’affaccia sul Pacifico, si ritrovano per il vertice dell’Apec: i presidenti americano, cinese e russo avranno una serie di riunioni plenarie e incontri bilaterali. Per Trump, è il ‘gran finale’ d’una missione asiatica concepita tutta in crescendo: prima, il conforto degli alleati, Giappone e Sud Corea, senza neanche l’emozione – causa maltempo – di scrutare la frontiera più militarizzata al mondo, quella tra le due Coree; poi, Pechino e il gioco cinese degli inchini, figurati certo, ma inusuali per i modi spicci di The Donald. Che, vanesio com’è, ha gradito l’accoglienza “imperiale” e che la stampa americana ha sottolineato.
I media hanno anche notato il cambio di tono, se non di passo, di Trump l’Asiatico. E s’interrogano se la versione ‘educata’ del magnate presidente sarà pure protagonista dell’incontro con Putin, i cui dettagli sono stati definiti nelle ultime ore. Il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, dice ovvietà: “Non c’è un’agenda concordata, ma sarà una buona opportunità per scambiarsi opinioni sui temi più importanti bilaterali e multilaterali”. L’incontro, il secondo faccia a faccia fra i due presidenti, dopo quello in estate, a margine del G20 di Amburgo, potrebbe non restare un episodio isolato: Peskov precisa che Putin e Trump “avranno l’occasione d’incontrarsi più volte a margine del vertice, se lo riterranno necessario”. La delegazione americana è più cauta: il segretario di Stato Rex Tillerson non dà neppure per certo il colloquio a quattr’occhi.
Sull’agenda, di cui Peskov nega l’esistenza, c’è senz’altro la Corea del Nord, un argomento costante della missione asiatica: ieri, il Cremlino apprezzava l’invito a cooperare e l’apertura a negoziare venuti da Trump, che però con il dittatore di Pyongyang, Kim, alterna da mesi il bastone e la carota. A Pechino, Usa e Cina paiono avere una linea comune: applicare le sanzioni dell’Onu e dialogare.
Si parlerà pure di Medio Oriente, dove Mosca ha di molto aumentato la propria influenza, a causa, o grazie, a seconda delle prospettive, alla decisione degli Usa di ‘tenersi alla larga’, salvo i raid aerei anti-Isis. Ma Usa e Russia s’affrontano nella regione per interposti alleati: Arabia Saudita e Iran sono ai ferri corti.
Con Trump, Putin potrebbe sollevare il problema delle sanzioni alla Russia per la vicenda ucraina, che azzoppano l’economia; e anche quello delle accuse di doping allo sport russo, che sono vissute come una congiura infamante. Si ignora, invece, se e come sarà affrontata la questione Russiagate, le interferenze russe ‘pro Trump’ nelle elezioni presidenziali.
A Pechino, Xi e Trump hanno firmato accordi da 250 miliardi di dollari: non solo, o non soprattutto armamenti, come a Ryad a maggio e a Tokyo e Seul, all’inizio della settimana. Il magnate presidente cambia verso rispetto ai mesi scorsi e afferma ora di volere relazioni “sempre più forti” con la Cina e mena vanto della “grande chimica”, cioè dell’ottimo affiatamento, con Xi. E l’enorme deficit commerciale? Passato in cavalleria.
Dagli Stati Uniti, passata la sbornia elettorale di un martedì nero per i Repubblicani, inseguono Trump le critiche per il tentativo d’imporre la vendita della Cnn come condizione al ‘matrimonio’ fra At&t e Time Warner. Per i paladini della libertà di stampa, il presidente sta compiendo un abuso: “È il comportamento dei leader nelle dittature, non nelle democrazie”. A scuola ieri da Xi, oggi da Putin, Trump avrà pur qualcosa da imparare: o è solo lui il maestro della museruola alla stampa?

Corriere10.11.17
Trump a Pechino evita polemiche «Deficit colpa dei miei predecessori»
Toni concilianti del leader Usa: non do la colpa alla Cina. Siglate intese per 250 miliardi
di Guido Santevecchi 

PECHINO «Xi Jinping è un uomo davvero speciale e il popolo cinese fa bene ad essere molto orgoglioso di lui», dice Donald Trump. Xi lo osserva con un lieve sorriso, da imperatore compiaciuto. Subito dopo però il presidente americano solleva la questione del deficit commerciale enorme degli Stati Uniti con la Cina: 347 miliardi di dollari l’anno scorso. E chiede la fine di questa situazione «molto sleale». A Pechino, blandito dall’accoglienza imperiale nella Città Proibita, Trump si guarda bene dal rispolverare le parole della campagna elettorale, quando accusava la Cina di aver «stuprato l’economia americana». E ora sostiene: «Non do la colpa alla Cina, dopo tutto, chi può incolpare un Paese che si avvantaggia su un altro per il bene dei propri cittadini». Colpa delle precedenti amministrazioni americane dunque, nella visione di Trump, che è stato eletto promettendo America First.
La Casa Bianca pompa i risultati di questo vertice: le imprese americane, da Qualcomm alla Boeing, da Goldman Sachs a Caterpillar annunciano intese che valgono 250 miliardi di dollari. Un risultato «miracoloso» in così poco tempo, dicono i cinesi. Ma i detrattori di Trump ricordano che sono accordi da spalmare in un decennio almeno e che molti erano in gestazione da tempo e altri sono solo memorandum preparatori. Sinopec, azienda statale cinese dell’energia, promette di investire 43 miliardi in Alaska per sviluppare un gasdotto: il governatore dello Stato sostiene che saranno creati 12 mila posti di lavoro americani. Boeing incassa l’ordine per 300 aerei, un affare da 37 miliardi di dollari. Il segretario di stato Rex Tillerson ammette che sono numeri ancora molto piccoli comparati con lo squilibrio commerciale.
Alle parole molto cordiali e rispettose dell’ospite americano Xi non ha risposto con altrettanto entusiasmo. Ha detto che la cooperazione tra le due superpotenze è l’unica scelta praticabile, non si è congratulato in pubblico per il primo anniversario dell’elezione alla Casa Bianca. Ha osservato che «le differenze ci sono ma bisogna lavorare insieme e questo vertice storico ha indicato la direzione». Spiega al Corriere il professor Shen Dingli, esperto di relazioni internazionali: «Bisogna stare attenti a una differenza: Xi in patria è molto amato, Trump invece provoca divisione e malcontento tra il suo popolo; quindi Xi non può esagerare con gli elogi per l’ospite, per non ferire l’altra parte dell’America». Come dire che Trump passerà, Xi resterà ancora a lungo. Trump torna sulla Nord Corea, tema centrale della sua missione in Asia: definisce il regime di Kim «assassino», dice ancora che Xi è di grande aiuto e assicura che «possiamo liberare il mondo dalla minaccia nucleare nordcoreana».
Xi, in piedi accanto a Trump, ha continuato a non battere ciglio. Ma è un fatto che il leader cinese non ha mai voluto incontrare il Maresciallo di Pyongyang, lo disprezza e sta stringendo le sanzioni. Trump ha bisogno di imbarcare anche la Russia nell’azione di accerchiamento. Oggi in Vietnam per il vertice Apec vedrà Putin, ma sarà un «vertice formale» solo se potrà uscirne una dichiarazione utile alla causa, diceva ieri sera il prudente Rex Tillerson .

Repubblica 10.11.17
Trump, i giornalisti e la sindrome cinese
di Federico Rampini

«LA CINA ci ha distanziati, ci ha lasciati indietro». Il vibrante omaggio di Donald Trump a Xi Jinping avviene al termine del summit, quando i due appaiono di fronte alla stampa. Ma chiamarla conferenza stampa sarebbe una beffa. Dentro il salone dell’Assemblea del Popolo su Piazza Tienanmen, i due rilasciano dei “ joint statement”, dichiarazioni congiunte. Quando hanno finito di parlare e sarebbe il nostro turno, i giornalisti cinesi tacciono. Gli hanno insegnato da tempo qual è il loro ruolo: prendere appunti e stare sull’attenti. Qualche collega americano prova a gridare domande ai due presidenti. Xi ci ignora, impassibile, sdegnoso. E Trump è felice di imitarlo. Non risponde neppure a una domanda. Quello che una volta si sarebbe definito “il leader del mondo libero”, si adegua volentieri al costume di casa. Raggiante, ha finalmente trovato uno che la pensa come lui sul ruolo dei media. Bugiardi, disturbatori della quiete, irrispettosi verso i potenti della terra. Viene il dubbio che quella sua ammirazione verso «la Cina che ci ha distanziati» non si riferisca solo al tasso di crescita del Pil, all’attivo commerciale, o alla modernità delle infrastrutture. Questa Cina è il paese dei suoi sogni, qui sì che sanno mettere i media al loro posto. Lungi dall’esportare diritti umani a Pechino, lui vorrebbe importare l’ordine cinese nella sua America. Da notare che perfino nei colloqui bilaterali tra le due delegazioni gli americani hanno cancellato l’espressione “diritti umani”, per sostituirla con un fugace e blando richiamo ai “diritti individuali” (che forse si riferisce ai diritti di proprietà intellettuale: bisogna pur difendere i copyright di Apple e Boeing).
È ormai distante anni luce l’America di Barack Obama: ancora nel settembre 2016 al G20 di Hangzhou l’allora presidente osò muovere dei cauti rilievi a Xi Jinping sulla censura, la persecuzione dei dissidenti, gli abusi contro le minoranze etniche. I cinesi gli negarono perfino la scala per scendere dall’Air Force One all’aeroporto, obbligandolo a un umiliante arrivo dalla scaletta di servizio, lontano dai riflettori delle telecamere. A Trump invece hanno riservato un trattamento regale. E lui li ha contraccambiati con generosità.
Essendo stato corrispondente a Pechino per cinque anni, dal 2004 al 2009, misuro la distanza percorsa. Da una parte la Cina di oggi ha davvero distanziato l’America per la qualità delle infrastrutture, la sua ricchezza aumenta senza sosta, i rapporti di forze cambiano velocemente in favore del gigante asiatico. D’altra parte le libertà si restringono. Ai miei tempi, appena otto anni fa, Internet era ancora relativamente aperto, la censura esisteva ma non ci impediva di leggere tanti siti stranieri. Oggi la morsa della “grande muraglia di fuoco”, come la chiamano i dissidenti, si è inasprita a dismisura. I cinesi navigano su Internet quanto noi, sono dei campioni del commercio online e usano i social media, ma tutto questo accade in un universo separato, controllato, nazionalizzato. Niente Google né Facebook. Quasi tutti i siti dei grandi media occidentali sono filtrati o bloccati. Perfino in quella “bolla extra-territoriale” in cui lavoriamo noi inviati al seguito del presidente americano, nel centro stampa dove una task force delle telecom Usa ci garantisce un servizio speciale per by-passare la censura, siamo colpiti da blackout improvvisi, non abbiamo accesso a Gmail né a tanti altri spazi di comunicazione occidentali.
Trump è a suo agio dentro il modello cinese o in compagnia di altri autocrati che si accinge a incontrare in questi giorni in Asia (Putin, Duterte). Da Washington arriva una notizia che — se confermata — sarebbe molto più grave dell’arroganza mostrata col “silenzio stampa” di ieri a Piazza Tienanmen. Il Dipartimento di Giustizia agli ordini di Trump avrebbe minacciato di bloccare il matrimonio fra AT&T e Time Warner, se quest’ultima non vende la Cnn. È noto il livore di Trump contro questa rete televisiva che lui accusa di essergli ostile. Se davvero il potere esecutivo usa questi ricatti per condizionare la geografia dei media americani, allora Washington si avvicina un po’ di più ai metodi di Pechino e Mosca.

Repubblica 10.11.17
Trump sfida la Cina sui commerci. Il dossier ci riguarda ma la Ue tace
I due Leader
di Federico Rampini

PECHINO. Sulla Corea del Nord c’è un’intesa di facciata (sanzioni, de-nuclearizzazione) con Xi Jinping. Nelle prossime ore Donald Trump tenterà di replicarla con Vladimir Putin. Appuntamento ai vertici Apec-Asean di Da Nang in Vietnam e nelle Filippine. Ma la seconda giornata della visita di Stato in Cina è dedicata all’altro tema rovente: l’immenso squilibrio negli scambi tra le due superpotenze dell’economia globale. Trump spara una cifra ancora più alta di quella che circola abitualmente: «500 miliardi di dollari annui, questo è l’avanzo commerciale della Cina nell’interscambio con noi. È enorme, è eccessivo, state approfittando di noi». (L’attivo cinese è stimato a 310 miliardi, fermo restando che le statistiche sul commercio estero non sono scienza esatta, è probabile che Trump si riferisca al solo interscambio di merci, escludendo i servizi come finanza e logistica dove gli Usa sono in attivo). Trump, lusingato dall’accoglienza regale che Xi gli riserva, usa un accorgimento diplomatico per dirottare la colpa dello squilibrio commerciale su qualcun altro. Guarda caso, il suo capro espiatorio per eccellenza: Barack Obama. «Io non ce l’ho con voi cinesi, fate i vostri interessi. La colpa è delle passate Amministrazioni Usa che non hanno difeso la nostra industria e i nostri lavoratori». La sua conclusione: così non possiamo andare avanti, lo squilibrio è insostenibile.
Xi gli risponde con una litania di statistiche, corredata da luoghi comuni del liberismo occidentale. Cita l’immenso volume delle importazioni cinesi dal resto del mondo, oltre mille miliardi annui, a riprova che la crescita economica del gigante asiatico ha un effetto traino sulle altre nazioni. Vero: le ultime rilevazioni del Fondo monetario internazionale dicono che se la crescita mondiale è in accelerazione, la causa numero uno è la locomotiva cinese. Questo non toglie nulla alla gravità degli squilibri, particolarmente acuti con alcuni paesi occidentali. Xi abbraccia anche la più classica teoria del liberismo economico, che insegna come gli squilibri commerciali nascano da vantaggi comparativi, specializzazioni di ogni paese nelle produzioni in cui è più competitivo, e alla fine questi squilibri nelle partite correnti vengono azzerati dai flussi di capitali. Accade da anni nei rapporti Cina- Usa visto che Pechino reinveste buona parte del suo attivo commerciale in buoni del Tesoro Usa. Questo nulla toglie all’impatto distruttivo che la concorrenza cinese ha avuto sul tessuto industriale e sull’occupazione americana (e di altri paesi industrializzati in Europa). Alla fine Xi aggiunge i rituali impegni di riforme strutturali che rendano il mercato cinese più aperto (generalmente disattesi). Regala all’ospite il trofeo simbolico di nuovi accordi e contratti per un valore immediato di 9 miliardi di dollari, cioè una goccia nell’oceano del deficit americano. Evoca cifre mirabolanti di 250 miliardi ma si tratta di proiezioni decennali su accordi di là da venire.
I temi posti da Trump sono reali. Per quanto il presidente americano sia sprovvisto di una strategia adeguata per riscrivere le regole del gioco della globalizzazione, queste regole sono oggi favorevoli ai cinesi. Quando Trump denuncia il «massiccio furto di proprietà intellettuale, che ci costa 300 miliardi l’anno», si riferisce soprattutto a una pratica diffusa: in numerosi settori, arbitrariamente definiti come «strategici », la Cina accetta sul proprio territorio gli investitori stranieri solo a condizione che si prendano un socio locale paritetico, e gli trasferiscano il loro know how. Ma è un privilegio che fu concesso a Pechino nel 2001 all’epoca del suo ingresso nella World Trade Organization (Wto). Obama non c’entra, risalgono agli anni 90 (Bush padre e Clinton) quei negoziati preliminari sulle regole d’accesso al Wto che consentirono alla Cina regole fortemente asimmetriche su dazi e tante altre cose. Aveva un senso perché la Cina era un gigante povero. Ora quelle regole sono superate, ci danneggiano, ma sono scritte nei testi del Wto e cambiarle non dipende dalla sola volontà di un presidente.
Non è un problema solo americano, l’Italia è nella stessa posizione: siamo dalla parte dei “perdenti” nel confronto competitivo con la Cina. La latitanza dell’Europa pesa. Trump non ha la preparazione né la squadra in grado di avviare una revisione a tutto campo delle regole della globalizzazione. È un negoziato nel quale l’Europa dovrebbe aiutarlo. L’Europa non fa gioco di squadra perché al suo interno c’è una divergenza d’interessi: la Germania è filo-cinese e ha comportamenti mercantilisti analoghi a Pechino, accumula attivi commerciali, e sul mercato asiatico ha una penetrazione formidabile.

Il Sole 10.11.17
La Cina toglierà i limiti sul controllo estero del capitale delle banche
di Rita Fatiguso
qui
http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2017-11-10/la-cina-rimuove-limiti-controllo-estero-capitale-banche-e-jv-092632.shtml?uuid=AEvVvG8C

Il Fatto 10.11.17
Parla con Leonard. Quattro passi con il poeta giù dalla Tower of Song
di Francesco Bianconi  dei Baustelle

Cara G.,
(…) Ho appena finito di leggere le traduzioni delle interviste di Leonard Cohen (…). Tu sai bene quanto sia grande la mia ammirazione per Cohen, ma forse non sai quanto detesti l’approfondimento delle biografie degli artisti, soprattutto quelli che amo. È strano: l’arte dovrebbe sempre coincidere con la vita, no? Ecco, io tendo umilmente, senza strafare, ad applicare questa formuletta anche alla mia, di vita, ma non la faccio valere per gli altri. Mi ferisce scoprire che Céline sia stato un mascalzone, un collaborazionista, mi irrita pensare ai trascorsi fascisti di Malaparte, mi fa venire l’orticaria scoprire che per Renoir le donne, da quando hanno smesso di piegarsi a terra per lavare i pavimenti, siano diventate amanti meno abili. Ma stavolta ho dovuto fare eccezione. Sono dovuto entrare nella vita di Cohen, quella che sta in potenza fuori dalle sue canzoni. Ho dovuto profanare il tempio. Cerco di sintetizzarti che cosa ci ho trovato
Cohen non amava farsi intervistare. Era schivo, violentava con voce garbata il mondo ma temeva di violentare la propria storia. Pensava, come molti suoi colleghi, che parlassero le canzoni e che non ci fosse niente da spiegare. Lo si può intuire dal timbro di un cantante, il fatto che sia schivo o meno; lo si capisce dal modo in cui emette una sequenza di note, dalle progressioni armoniche che usa nelle sue composizioni, dal tono generale di un arrangiamento, da come una melodia viene portata.
Cohen non amava spiegare perché i suoi versi posseggono un valore letterario così denso, complesso e stratificato da innescare nell’ascoltatore un delirio e una fatica (sia benedetta, la fatica!) interpretativa tali da oscurare e rendere banale qualsiasi tipo di comunicazione extradiegetica. Faccio un esempio, il primo che mi viene in mente fra migliaia di possibili: “Some women wait for Jesus / And some women wait for Cain”; dopo un distico simile, ogni tentativo di chiarimento appare inferiore al messaggio di partenza; è prova lampante di come l’oscuro, all’interno di un discorso artistico, sia superiore al chiaro, di come il mistero sia più poetico della soluzione. Cohen non amava spiegare le canzoni perché non era un cantante. O meglio, era uno che aveva cominciato a fare il cantante molto tardi. Soprattutto in un’epoca, gli anni sessanta, in cui il ruolo della popstar (e persino del songwriter) coincideva col possedere le Armi e i Sacramenti della Giovinezza. Cohen era un poeta e uno scrittore, per certi versi fallimentare, che ha imbracciato la chitarra quando, secondo i costumi del tempo, era già vecchio. Suppongo che anche per questo, rispondere alle domande di un capellone del New Musical Express quantomeno lo mettesse in imbarazzo.
Cohen non amava farsi intervistare perché non aveva tempo. Cohen amava, scriveva, viveva. Lasciava tutto e salpava verso Idra, poi si faceva soldato e andava a combattere per Castro durante la crisi della Baia dei Porci, per poi rendersi conto di essere esattamente quello che la rivoluzione comunista combatteva, ovvero un borghese con la mania dei completi eleganti, e quindi fare retrofront, deporre il fucile e tornare a scrivere, per poi fermarsi ancora e nascondersi dentro monasteri, ebreo dentro nidi buddhisti, o cristiano ortodossi, chi se ne frega, seguirne le regole, tagliarsi i capelli, meditare e pregare all’alba. Per poi tornare fuori, scrivere, amare, vivere.
Leggendo le interviste di Cohen, sentendolo parlare della sua vita, e sommando questo al mistero altissimo dei versi delle sue canzoni (sulla cima della Tower of Song si ha la possibilità di fare il giro dei merli e guardare l’orizzonte), mi sono reso conto di avere davanti un uomo con un’ossessione. Che definirei così: l’ossessione del superamento della materia. Cohen ha scritto un romanzo, Beautiful Losers, stroncato all’epoca dalla critica perché giudicato osceno, pornografico. Cohen racconta di relazioni, usa un lessico a volte osceno – in una canzone famosissima immortala una fellatio al Chelsea Hotel, e la immortala senza giri di parole (“giving me head”, canta) – ma non è mai pornografico.
Cohen sente piuttosto il peso pornografico del mondo, e cerca di liberarsene. Al giornalista che gli chiede quale sia la sua canzone più rappresentativa, risponde Bird on a wire, quella che dice “I have tried in my way to be free”. Liberarsi dal peso della materia, salire più in alto. Sentire, dentro al biblical landscape che ci è dato di attraversare, la finitezza dei corpi, della carne, del metallo, del fuoco e dell’acqua, dei fiori e dei fucili, dei baci e delle coltellate. Il limite del materialismo, sentire quanto ci va stretto. Cohen sente la vergogna dell’essere un essere umano, e ce lo dice nelle canzoni in maniera complessa, col lessico dei poeti, quello che fa entrare in collisione mondi lontanissimi, il pompino con la Bibbia, e ce lo dice rispondendo ai giornalisti. Raccontando di sé errante, irrequieto, avventuriero in perenne ricerca di un mondo diverso da questo.
Per tutta la vita ha cercato di distruggersi in quanto corpo, in quanto materia. Cohen voleva trascendere, andare oltre sé. Per questo semmai è erotico, non pornografico. L’amore, quello vero, dice Byung-Chul Han in Eros in agonia, è annullare l’ego per entrare in congiunzione con l’Altro (l’iniziale è maiuscola per evitare fraintendimenti da feuilleton). Questo emerge dalle canzoni di Cohen, questo emerge dalle sue risposte a volte stanche e snob, altre volte più partecipate. L’uomo, nel suo unico senso possibile: colui che ama a tal punto da provare vergogna, schifo, pietà, dell’uomo stesso, e che ha il coraggio di distruggerlo.

Corriere 10.11.17
Se la Svizzera dimezza il tempo della diagnosi di morte
di Paolo Di Stefano

«Non so se mai ci incontreremo, io e la morte, ma ci rincorriamo da una vita». È la frase, molto suggestiva, con cui si apre Io e Lei il libro più recente del genetista Edoardo Boncinelli. Epicuro escludeva, epicureisticamente, quell’incontro: quando ci siamo noi non c’è lei e quando c’è lei noi non ci siamo più. Fatto sta che la rincorsa, reciproca, tra l’individuo e la morte, parte nel momento in cui il bambino ha il primo «contatto cosciente» con la fine, e diventa consapevole del destino fisico suo e delle persone che lo circondano, nonni, genitori, zii, fratelli, cugini, amici… In quel preciso momento è come se uno starter, un giudice di partenza, desse il segnale di inizio rincorsa. Da allora cominceremo a misurare la vita in giorni, mesi, anni, talvolta con leggerezza, più spesso con umanissima angoscia. È da quel momento che prende il via lo scorrere del tempo, o meglio la sua percezione. Durante la rincorsa sentiremo il respiro del tempo al nostro fianco: a tratti sembra un compagno di strada benigno, a tratti un avversario feroce che vuole superarci a tutti i costi, senza farsi scrupoli di allungare la gamba per uno sgambetto. Questa immagine competitiva viene in mente leggendo una notizia che arriva dalla Svizzera, la cui Accademia di scienze mediche ha deciso di dimezzare il tempo della diagnosi di morte: non più dieci minuti dall’arresto cardiaco ma cinque, il tempo che rende irreversibile l’interruzione delle attività del telencefalo. Dopo cinque minuti, bruciando un po’ i tempi, si potrà procedere all’espianto di organi. La decisione ha provocato le proteste delle associazioni mediche ippocratiche, cattoliche, di bioetica, che ritengono che l’attesa debba prolungarsi finché si spenga anche il tronco encefalico. Dunque, adesso sappiamo che la rincorsa, nel momento più sacro e insondabile del traguardo, si conclude sempre al fotofinish. Urge una Var per capire se l’incontro avviene o no.

Corriere 10.11.17
La lettura di Susanna Mati
Nietzsche ovvero il signor N.
di Paola Capriolo

Nello sterminato panorama degli studi dedicati all’autore dello Zarathustra, il recente Friedrich Nietzsche di Susanna Mati (Feltrinelli, pp. 186, e 14) occupa una posizione particolare, distinguendosi nettamente da quelle interpretazioni che, sulla scia di Heidegger, a partire dagli anni Trenta si sono sforzate di ricondurne il pensiero a un «sistema» filosofico più o meno implicito. Prendendo le mosse da certe intuizioni critiche di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Susanna Mati compie il tentativo opposto: percorrere quest’opera labirintica prendendone assolutamente sul serio lo «stile».
In altre parole, la sua domanda non è: che cosa dice Nietzsche? (una domanda cui è quasi impossibile rispondere in modo univoco di fronte a un filosofo che ha affermato le tesi più contraddittorie), ma piuttosto: in che senso dice ciò che dice? Ovvero, che cosa può mai significare un’affermazione per colui che, annunciando la «morte di Dio» e il congedo da ogni metafisica, è giunto a revocare il valore stesso della verità?
Proprio questa «liquidazione della verità», per dirla con Gottfried Benn, questa impossibilità di affermare una qualsiasi tesi, che fa di Nietzsche «il vero e proprio punto di non ritorno della filosofia occidentale», costituisce la premessa di una lucidissima argomentazione volta a sottolineare il «tratto estetico» del suo pensiero. Non si tratta però, puntualizza Mati, del ritorno a una metafisica dell’arte di stampo romantico, bensì di una «sapienza della parvenza» che avvicina nel modo più ambiguo la figura del pensatore a quella del commediante, di una finzione consapevole di sé e tanto più autentica in quanto votata al naufragio. Così, dalla Nascita della tragedia sino alla catastrofe di Ecce homo , possiamo seguire tappa dopo tappa l’autorappresentazione di questo «giullare dell’eternità» per il quale il pensiero si è trasformato in un gioco di maschere perennemente in bilico sull’ambiguo crinale tra verità e menzogna: fino alla maschera ultima, la follia, «destinata a non essere più tolta da quanto è mimeticamente vera».
La «follia» è l’esito estremo di uno sforzo teoretico che, nella sua «resa dei conti all’ingrosso con la totalità del pensiero occidentale e con le sue conseguenze», agisce come «una dinamite che fa saltare anche se stessa»; ed è insieme il culmine di quella frantumazione dell’io in cui il prospettivismo che caratterizza lo stile di Nietzsche e la sua critica radicale all’idea di un soggetto stabile e unitario si fondono in modo inestricabile con la sua stessa psicologia, o meglio, non-psicologia. Il gioco di maschere, la possibilità di essere, come egli afferma in una lettera a Jacob Burckhardt, «tutti i nomi della storia», hanno quale presupposto un distacco da sé che rasenta l’impersonalità: per questo, oltre che per rispecchiare in qualche modo il «tratto estetico» della filosofia di Nietzsche, Mati lo designa sempre con la sola iniziale, N., alludendo esplicitamente al K. dei romanzi kafkiani.
Come il Josef K. del Processo e l’agrimensore K. del Castello sono e non sono Kafka, così, sembra suggerirci l’autrice, il personaggio di cui si parla nelle sue pagine è e non è il professor Friedrich Nietzsche, il quale a sua volta è e non è Dioniso, lo «spirito libero», Zarathustra. In tal modo il «gioco di maschere» viene arricchito di uno strato ulteriore; ma soprattutto si scongiura l’antinomia in cui rischierebbe di cadere l’intera argomentazione del libro, se fosse svolta in quel linguaggio puramente teoretico e affermativo del quale proprio Nietzsche ha decretato una volta per sempre l’impraticabilità.

Repubblica 10.11.17
Da Ovidio a Stendhal e fino ai nostri giorni, riflessioni sull’emozione più misteriosa che ci sia. Tra letteratura e teorie del comportamento
Per un istante o per sempre il doppio gioco della felicità
di Marc Augé

Questo testo è un estratto da un capitolo di Momenti di felicità ( Raffaello Cortina, pagg. 114, euro 20) di Marc Augé L’autore inaugurerà BookCity a Milano il 17 novembre alle 20,30, al teatro Dal Verme: riceverà il Sigillo della città dal sindaco Giuseppe Sala e dialogherà con Daria Bignardi
Don Giovanni è l’eroe dell’incontro e dell’istante. Sotto questo aspetto, egli è il personaggio chiave di un racconto d’avventura nel quale le peripezie più rocambolesche e le più stupefacenti coincidenze si susseguono incrociandosi a ritmo serrato fino all’epilogo, che è in parte racconto del terrore e in parte fantascienza. Il Dom Juan di Molière potrebbe essere l’eroe di una storia a fumetti. Riesce a catturare il lettore e lo
spettatore anche per l’illimitata capacità di incontri sempre nuovi, dalle ragazze che seduce al fantasma cui lancia la sfida – senza trascurare la scena del mendicante, in cui, quasi fosse stanco, lui per primo, di mettere alla prova l’ottusa fiducia dell’interlocutore, gli getta il luigi d’oro che gli aveva fatto balenare in forma di tentazione, senza più nulla esigere in contropartita, «per amore dell’umanità». Momento mirabile, che la dice lunga sul coraggio, o l’incoscienza, di Molière… All’opposto di Don Giovanni, seduttore infaticabile e impenitente, incontriamo in Ovidio la coppia che rappresenta al tempo stesso fedeltà e felicità, Filemone e Bauci, a incarnare la serenità che soltanto il timore della separazione potrebbe turbare: non tanto la paura della morte, bensì il terrore di dover sopravvivere all’essere amato. Così, Zeus ricompensò la coppia frigia che aveva onorato le leggi dell’ospitalità riunendo i due, al momento della morte, a formare il tronco di un albero doppio, quercia e tiglio insieme. Va detto che Zeus, durante l’impresa compiuta sotto sembianze umane, era accompagnato da Hermes, dio degli incroci, degli scambi, dei commerci e… dei ladri. Viaggiando insieme, sotto le apparenze di due vagabondi straccioni, mettevano alla prova le qualità umane di coloro che incontravano e rifiutavano di accoglierli. Lezione da imparare, che ricorre peraltro in molti racconti d’origine folklorica: fate attenzione a chi si presenta sotto la copertura della mendicità! Potrebbe essere un dio! Ma una seconda lezione, molto sottile, si può trarre dal poema di Ovidio: solamente coloro che si amano l’un l’altro sanno aprirsi agli altri.
Per quanto tempo? Una frazione di secondo o un’eternità? Don Giovanni o Filemone? Ogni momento di felicità legato a un incontro inizia con l’esplosione di sensazioni, con il risveglio dei sensi, che possono peraltro essere oggetto di una metodica preparazione. Stendhal dipinge l’incomparabile felicità del suo eroe, Lucien Leuwen, nel momento in cui percepisce un’«inclinazione nascente» nei confronti di Madame de Chasteller: per due volte, i due protagonisti passeggeranno nei giardini del Chasseur Vert, locanda nei pressi di Nancy, dove li raggiunge l’eco dei corni che suonano alcuni valzer di Mozart mentre i raggi del sole al tramonto penetrano nel sottobosco illuminandolo. Lucien avverte che il braccio di Madame de Chasteller s’appoggia al suo. Al termine della seconda passeggiata, convincerà il loro piccolo gruppo a farsi servire un punch. In quel momento eccezionale, tutti i sensi sono esaltati. Leuwen si unisce alla conversazione degli amici, ma con Madame de Chasteller, che lo ha nuovamente pregato di porgerle il braccio, non scambiano una sola parola, appagati nel silenzio che li unisce.
Su un diverso registro, Rousseau redige il minuzioso computo degli elementi naturali che contribuiscono alla sua estasi sull’isola che lo ospita, presso la riva del lago di Bienne. Vero è che Rousseau ricorda e, di lì a qualche anno, cerca di analizzare la sensazione di felicità da lui provata sull’isola di Saint-Pierre. Dapprima evoca la bellezza del luogo in generale, il panorama di cui aveva ammirato la magnificenza da un’altura, prima di scendere al lago. Abbandonandosi al ritmo regolare dei flutti, egli si libera poco per volta di tutte le riflessioni che quella condizione gli ispira, fino a percepire esclusivamente la pura sensazione di esistere: «Seguendo il flusso e riflusso dell’acqua, il rumore continuo ma a tratti più forte dell’onda che s’infrangeva, i miei occhi e le mie orecchie supplivano ai moti interni che la fantasticheria spegneva e bastavano a farmi sentire con piacere di esistere, senza preoccuparmi di doverlo pensare». Tuttavia, la fuga dalla vita sociale, fino ad avvertire la mera sensazione fisica dell’esistere, è relativa ed è legata anch’essa alla felicità dell’incontro: dal 1765, Rousseau vive sull’isola di Saint-Pierre in un ambiente amicale, nell’unico edificio che vi sorge, proprietà dell’ospe-dale di Berna, in cui risiede il fattore Engel, al quale egli si accompagna per essere iniziato alla botanica dell’isola. Per essere felice, Rousseau sente il bisogno di momenti di semplice, franca amicizia. Per gli eroi di Stendhal, è invece la felicità amorosa, quando c’è, a far sì che lo sguardo si posi su quanti li circondano: acquietato, benevolo e, se è il caso, indulgente. Sempre, la sensazione di felicità si traduce comunque in sensazione fisica: il benessere percepito da Jean-Jacques o dagli eroi di Stendhal è legato all’armonia, che essi avvertono in quell’istante, tra la pace interiore e ciò da cui sono circondati – armonia fragile per definizione, effimera, eppure già consegnata al ricordo.
Sappiamo che Stendhal, nonostante le critiche che muove a Rousseau, nutriva per lui una così grande ammirazione da indurlo talvolta a confondere le due identità. Poco importa: molte differenze esistono tra Rousseau – più vicino alla saggezza stoica e che, pur condannato a una vita instabile ed errabonda, non smette mai di agognare la quiete dello spirito in un gradevole rifugio – e gli eroi di Stendhal, sempre pronti a partire, attratti dall’avventura che li porterà verso gli altri, verso l’amore o la morte.
Vero è che gli eroi di Stendhal trovano i momenti di felicità amorosa soltanto quando il tempo si ferma, eppure sono sempre in movimento.
Nulla a che vedere, peraltro, con la rincorsa all’emozione effimera di Don Giovanni, che colleziona le donne come, altri, farfalle e per il quale le seduzioni della conquista cancellano quasi istantaneamente l’emozione dell’incontro.
La storia della letteratura offre, così, una riserva illimitata di atteggiamenti possibili nei confronti del tempo e della felicità. La scrittura crea distanza rispetto all’emozione grezza e al tempo stesso si sforza di renderla intelligibile agli altri, divenendo oggetto di ricerca e insieme strumento d’indagine. E talvolta compie il miracolo: induce l’anonimo lettore a percepire ciò che essa si è ingegnata ad analizzare e che riesce improvvisamente a rappresentare, suscitando in lui un moto di allegria e di riconoscenza – nella duplice accezione del termine – non appena costui scopre e, letteralmente, si ritrova nell’incontro con una “felicità di scrittura” cui fa immediatamente eco la sua felicità di lettore.
© 2017 Raffaello Cortina Editore. Traduzione di Maria Gregorio

Repubblica 10.11.17
Italo Svevo
Quattro racconti perduti per un amico di nome JoyceRisalgono al 1926 e furono scritti per una conferenza dedicata allo scrittore irlandese. Saranno esposti a Roma
di Raffaella De Santis

La storia dell’amicizia tra Italo Svevo e James Joyce si arricchisce di un nuovo capitolo. Quattro racconti brevissimi che Svevo scrisse in preparazione della conferenza dedicata allo scrittore irlandese tenutasi a Trieste al circolo “Il Convegno” nel 1927. I dattiloscritti inediti sono stati di recente acquistati dalla Biblioteca Nazionale di Roma. Raccolti sotto il titolo “Storie di un uomo rispettabilissimo” e firmati con il vero nome dello scrittore, Ettore Schmitz, sono arrivati nelle mani di un libraio antiquario triestino che si era messo da tempo sulle loro tracce. È lui, il libraio Simone Volpato, ad averli poi venduti alla biblioteca. Negli
apologhi, Svevo si diverte a giocare con i temi classici della sua opera: c’è in tutti un personaggio che aspira alla gloria letteraria ma non ce la fa a coronare il proprio sogno. Dopo aver pubblicato tre romanzi, tra cui il recente La coscienza di Zeno (1923), Svevo potrebbe godersi il sospirato successo che sta finalmente arrivando grazie all’Omaggio che gli aveva tributato Eugenio Montale e al sostegno del suo amico Joyce. Invece sullo scrittore pesano ancora le stroncature, compresa quella di Giuseppe Prezzolini, ferite che lo tengono inchiodato al personaggio dell’inetto protagonista di questi inediti. Il primo raccontino, scritto come gli altri nel 1926, è il più bello e assurdo, di umorismo british. Un uomo “rispettabilissimo”, figlio di una famiglia di negozianti, muore all’improvviso. Il giorno del funerale riesce ad aprire gli occhi e a sentire cosa gli altri dicono di lui. Scopre allora che la sua fama di letterato è fasulla, che l’editore era stato pagato dalla famiglia per pubblicarlo e che le trionfalistiche recensioni erano su commissione. Finale a sorpresa. «Inseguivo queste carte da molto tempo», dice Simone Volpato. E ne svela il misterioso backstage. «Appartenevano all’archivio del Centro studi triestino Giani Stuparich, dismesso dopo la morte nel 1982 della sua creatrice, Anita Pittoni. Da allora molti documenti sono andati all’asta, altri sono finiti in mano agli eredi». Il fondo, che custodiva, tra gli altri, scritti di Saba, Virgilio Giotti, Bobi Bazlen e Scipio Slataper, si è disperso in mille rivoli. Volpato, che a Trieste gestisce la libreria antiquaria Drogheria 28, sapeva dell’esistenza di questi scritti per averne trovato traccia nelle carte di Anita Pittoni, la donna amata da Stuparich che a Trieste animava un ambito salotto letterario. Da lì è partita la caccia. Volpato è riuscito a rintracciare un erede di Anita e a comprare i dattiloscritti prima che finissero all’asta. Ne ha poi proposto l’acquisto alla Biblioteca nazionale di Roma, dove ora sono esposti nel museo letterario
Spazi900, ideato dal direttore Andrea De Pasquale. «Vogliamo riprendere l’antica tradizione delle biblioteche ad ospitare un museo. Per questo stiamo lanciando un nuovo allestimento e abbiamo comprato anche un diario di Filippo de Pisis, un volumetto di Sandro Penna ( Versi intimi) e il manoscritto autografo della poesia A mia moglie di Saba».
Ma veniamo a quella conferenza che preoccupa Svevo. Lo scrittore sa che dovrà parlare dell’opera dell’autore dell’Ulisse e non si sente all’altezza nei panni del critico letterario. Studia per giorni il suo intervento, è teso. Svevo e Joyce sono grandi amici, si sono conosciuti a Trieste nel 1905 quando Svevo era andato a prendere lezioni d’inglese alla Berlitz School, dove Joyce insegnava. Del loro rapporto e della conferenza tenutasi l’8 marzo del 1927 parla un recente libro di Maurizio Serra, Antivita di Italo Svevo (Aragno). «Credo che Svevo scrisse gli apologhi come divertissement, per stemperare i momenti di paura durante la preparazione della conferenza su Joyce», racconta Eleonora Cardinale, curatrice scientifica del museo Spazi900. Per Svevo quell’impegno era così gravoso da farlo sfogare con Montale in una lettera: «Passai due mesi laboriosi sull’Ulisse. M’incantò ma mi distrusse. Poi raccolsi tanto materiale che la mia conferenza sarebbe durata la notte intera. E ora sono al duro lavoro di condensare il tutto in una predica di 45 minuti che – come mi dicono – è l’estensione ammessa. Mai più accetterò una cosa simile». In uno degli apologhi, trasforma l’ansia in
boutade, raccontando di un letterato stressato che muore nel mezzo di una conferenza.
Svevo era stato aiutato nel suo lavoro di preparazione al convegno da Stanislao Joyce, il fratello del grande scrittore. Si era addirittura rifugiato a scrivere a casa sua, sommerso da carte e appunti. Quando finalmente arriverà al testo definitivo si ritroverà con una grande quantità di materiale in più da scartare, tra cui le quattro novelle, lasciate poi a casa di Stanislao. Sarà lo stesso Stanislao a donarle nel 1954, un anno prima di morire, ad Anita Pittoni. Sul fatto che siano di Svevo nessuno ha dubbi, né il libraio né la biblioteca. Troppi gli elementi che riconducono allo scrittore: i temi, senza dubbio, ma anche il fatto che i dattiloscritti sono in inchiostro rosso, come spesso le carte di Svevo. Perfino le correzioni a penna, delle piccole cassature fatte con lineette, sono tipiche dello scrittore. Tutto condito da un’ironia fulminante. Uno dei raccontini finisce con lo scrittore di fama che commenta così la morte improvvisa del povero letterato in cerca di gloria: «Anche per i letterati valgono le leggi di Darwin!».

Repubblica 10.11.17
Mibact, i ritardi del concorsone 70 assunzioni su 800 previste
La paralisi per la pioggia di ricorsi al Tar e la concorrenza tra precari che corrono per più posti
A un anno e mezzo dalla prova architetti, archivisti e altri esperti restano (per adesso) a casa. E a risentirne è il sistema della tutela
di Francesco Erbani

ROMA Viene presentato come il punto di svolta nella tutela dei beni culturali in Italia. Un punto di svolta atteso da troppi anni, che il ministro Dario Franceschini esibisce come un vanto della propria gestione. Ma il concorso per assumere 500 nuovi funzionari nelle esangui soprintendenze, in archivi e biblioteche ridotti al lumicino stenta a dare i suoi frutti. Bandito nel maggio 2016, avrebbe dovuto produrre effetti già alla fine di quell’anno. Nel frattempo il ministro è riuscito a portare da 500 a 800 i nuovi innesti. E spera di arrivare a quota 1000 con la nuova legge di stabilità. Ma anche il 2017 è avviato a chiudersi e appena una settantina sono le assunzioni realmente effettuate: una cinquantina di bibliotecari e una ventina di antropologi. Languono invece tutti gli altri, architetti, storici dell’arte, archeologi e archivisti.
Le prove si sono svolte e le commissioni si sono pronunciate. I vincitori sono stati proclamati, le graduatorie sono state fissate e pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale. Accanto ai vincitori compaiono gli idonei. Però qualcosa si è inceppato. Trascorrono le settimane, i mesi e, nonostante le sollecitazioni di chi ha superato la prova e attende l’immissione in ruolo, nulla accade. Né si capisce con certezza dove siano gli intoppi.
È la prima volta, si sottolinea al ministero, che si bandisce un concorso di queste dimensioni e il motivo del ritardo nelle assunzioni, s’insiste, sono i ricorsi al Tar. Alcuni dei quali contestano i requisiti richiesti ai candidati o la posizione in graduatoria. Ma può essere solo questo il motivo? C’è chi ricorda che anche dopo precedenti concorsi furono presentati ricorsi. Eppure si procedette ugualmente alle assunzioni con riserva. Al Mibact ribattono che non è possibile operare in questo modo e che molto invece dipende dalle diverse interpretazioni dei giudici amministrativi. Inoltre, assicurano, le assunzioni avverranno entro la fine di quest’anno. Aggiungendo che nel frattempo sono stati reclutati 45 nuovi funzionari amministrativi (non provenienti però dal concorso). In attesa che la situazione si sblocchi continuano a fioccare gli interrogativi su come opera il ministero. Un’altra ragione del ritardo può essere di tipo burocratico. E risale a un paradosso. Molti candidati, che da anni sono impiegati come funzionari, ma in modo assolutamente precario, hanno acquisito grandi competenze. E questo li ha indotti a presentare domanda per diverse classi di concorso, per esempio, sia come archivisti sia come bibliotecari. E ad aver vinto per entrambi i ruoli. Insomma, potrebbe essere stata la spiccata preparazione di tanti concorrenti ad aver messo in crisi gli apparati ministeriali?
Il Mibact ha urgentissimo bisogno di rinforzare i propri organici, sia a Roma, nelle sue strutture centrali, sia soprattutto nelle soprintendenze territoriali o negli archivi, dove si esercita concretamente la tutela. Ma il compito è arduo e con poco personale si fa anche fatica a smaltire le pratiche post concorso. E così 91 archeologi hanno vinto il concorso e altri 112 sono risultati idonei, ma nessuno di loro ha effettivamente preso servizio. Lo stesso accade per gli storici dell’arte (40 vincitori e 41 idonei, nessuno assunto), per gli archivisti (95 vincitori e 136 idonei, nessuno assunto) e per le figure di promotore e comunicatore (30 vincitori e 79 idonei, nessuno assunto). Per gli architetti siamo ancora più indietro. Il bando prevedeva 130 posti, ma si è ancora in attesa che venga pubblicata la graduatoria di merito. Come pure per i restauratori, ai quali si attribuivano 80 posti, ma è appena uscita la graduatoria degli ammessi all’orale.
La situazione in molti uffici del ministero si è fatta pesante. In particolare in tante soprintendenze delicate, alle prese, senza il personale sufficiente, con le semplificazioni procedurali decise dalla riforma Madia, che impongono tempi brevissimi per le autorizzazioni paesaggistiche. L’età media dei funzionari supera i 55 anni e fra la fine di quest’anno e l’inizio del prossimo sono in tanti ad andare in pensione. Le nuove assunzioni non avrebbero coperto tutte le necessità. Ma una boccata d’ossigeno l’avrebbero comunque assicurata. Sempre che giungano in porto al più presto.