Corriere 8.11.17
«Il sequestro Abu Omar non si poteva organizzare senza coinvolgere l’Italia»
di Giovanni Bianconi
Sabrina De Sousa, unica diplomatica a scontare una pena
ROMA
Da funzionaria della Cia complice del sequestro di Abu Omar a
volontaria in una casa famiglia romana per bambini disagiati; dal mondo
misterioso delle spie a quello meno affascinante dei reclusi, con tre
anni di pena da scontare ai servizi sociali in virtù di un indulto e una
grazia presidenziale che hanno abbattuto l’iniziale condanna a sette
anni. Sabrina De Sousa — sessantaduenne cittadina statunitense e
portoghese nata a Bombay da madre indiana, con un passato da agente
segreto in Italia — è l’unica dei venticinque diplomatici americani
sotto copertura colpevoli del rapimento dell’imam egiziano, avvenuto a
Milano nel 2003, che sta pagando il conto con la giustizia. L’altro ieri
il giudice ha dato il via libera all’affidamento in prova che dovrebbe
concludere una brutta storia nella quale la donna si sente, in qualche
modo, una vittima collaterale.
«L’unica mia attività in quella
vicenda — racconta De Sousa — è stata aver partecipato a una riunione
con funzioni di interprete tra uomini della Cia e del Sismi, il servizio
segreto militare italiano, in cui si discusse di extraordinary
rendition . Ma solo in termini generali. Senza nomi né indicazioni
concrete. Avvenne al Consolato di Milano, dove io ero stata trasferita
da un anno». Gli americani chiedevano l’appoggio degli italiani per
portare via dei sospetti terroristi come Abu Omar, nella «sporca guerra»
cominciata con l’attacco alle due torri dell’11 settembre 2001. «Nel
giorno in cui è avvenuto il sequestro, a febbraio del 2003, io ero fuori
città, in settimana bianca, e quando sono tornata mi hanno detto che
c’era stata un’operazione andata a buon fine, niente altro. Poi io sono
rientrata negli Usa e non ho saputo più nulla fino all’inchiesta della
magistratura italiana».
All’epoca non c’era altro da dire né da
chiedere: «Un musulmano pericoloso, che stava progettando un attentato a
uno scuola-bus in Italia, era stato prelevato e portato via per essere
interrogato. Solo dopo abbiamo saputo che non era vero, come hanno
ammesso le stesse autorità egiziane che l’hanno torturato, e oggi Abu
Omar scrive tweet di solidarietà in mio favore».
Questa, in
sintesi, la versione di Sabrina De Sousa. Che si sofferma anche sui
coinvolgimenti italiani nel sequestro, coperto da un segreto di Stato
che ha cancellato le condanne in appello all’ex capo del Sismi Nicolò
Pollari e ad altri funzionari del Servizio. «Secondo il nostro
capo-centro Jeff Castelli (condannato a 7 anni di carcere, ma l’Italia
non ne ha mai chiesto l’estradizione, ndr ) Pollari era d’accordo,
mentre lui ha detto di no, ma senza poterlo dimostrare per via del
segreto di Stato confermato dal governo», racconta oggi De Sousa. Che
aggiunge: «Io non so che cosa sia accaduto, ma so per certo che
un’operazione come quella su Abu Omar in un Paese alleato come l’Italia
non si può portare a termine senza l’approvazione e il coinvolgimento
delle autorità italiane».
Ma nella versione dell’ex agente segreto
che ufficialmente svolgeva il compito di seconda segretaria
d’ambasciata a Roma prima di essere spostata a Milano, mentre in realtà
collaborava allo scambio di informazioni antiterrorismo «e ad operazioni
di cui non posso parlare», c’è anche altro: «Se gli agenti della Cia
hanno agito lasciando tracce evidenti come le carte di credito usate
negli alberghi milanesi nei giorni del sequestro, lo hanno fatto non
perché sono dei pasticcioni, come s’è detto in America sotto
l’amministrazione Obama, ma perché convinti che in Italia non sarebbe
successo niente dal momento che il vostro governo era d’accordo. Quella è
gente esperta; a Beirut o altrove hanno fatto operazioni di cui non s’è
mai saputo nulla. Se in Italia hanno lasciato tracce è perché c’era la
sicurezza che potevano muoversi senza subire conseguenze. In ogni caso
hanno usato dei nomi falsi, di copertura: 19 dei 25 condannati sono di
persone che voi non sapete in realtà chi siano; dietro quei nomi ci sono
persone sconosciute all’Italia».
Pur essendo l’unica condannata
che sta scontando una pena, Sabrina De Sousa non ce l’ha con la
magistratura italiana, bensì con i suoi due Paesi, Usa e Portogallo: «Io
mi sento tradita dagli Stati Uniti, mi sono dovuta dimettere dalla Cia
per poter andare a trovare mia madre malata in India, altrimenti avrei
dovuto rispettare l’ordine di non uscire dal Paese; per me gli Usa non
hanno chiesto l’immunità diplomatica e nemmeno la grazia parziale o
totale sollecitata per altri, l’ho dovuta chiedere da sola. E quando
sono stata prima arrestata e poi bloccata in Portogallo, il mio avvocato
portoghese mi ha detto che un alto ufficiale dei servizi locali s’era
proposto di farmi rientrare clandestinamente negli Usa. Ma io non ho
voluto, perché preferisco chiudere la questione legale e tornare una
cittadina libera».