Corriere 7.11.17
Al Quirinale si studia l’ipotesi voto a maggio
di Marzio Breda
Sarà
impossibile, per il Pd, mettere da parte il voto siciliano come si
archivia una pratica fastidiosa. La sconfitta va così al di là delle
previsioni da riaprire il confronto sui campi di forza interni al
partito, sulle prossime alleanze e sul nome del candidato premier e, di
conseguenza, sul timing per arrivare alle politiche del 2018. Ne
discutono in tanti ormai, puntando a far aprire le urne a maggio anziché
a marzo (il 4 o l’11), secondo la road map pianificata da Sergio
Mattarella, che prevedeva lo scioglimento delle Camere subito dopo la
sessione di Bilancio, cioè tra Natale e l’Epifania. Che cosa ne pensa il
capo dello Stato? Diciamo che il suo atteggiamento è oggi
«indifferente» per forza di cose, e domani sarà comunque condizionato
dalle scelte della politica. Con l’obiettivo di non avallare nulla che
possa essere traumatico, in un senso o nell’altro. Per capirci: posto
che la legislatura si chiude a 5 anni da quando si è insediato — il 15
marzo 2013 — questo Parlamento, anche se nella storia repubblicana la
prassi è sempre andata nel senso di anticipare di qualche settimana o
mese il congedo delle Assemblee (e allora si parla di scioglimento
tecnico), il presidente potrebbe concedere tempi supplementari tali da
sfociare in un voto a maggio. Ma non certo per una strategia di
traccheggiamento pre-elettorale, che rischierebbe di tradursi in una
forzatura. E dunque a patto che il prolungamento gli venga chiesto dal
premier o dal segretario del partito di maggioranza, i quali gli
assicurino di voler completare provvedimenti che altrimenti
decadrebbero. Come jus soli o testamento biologico. Insomma: nell’anno
elettorale europeo, mentre a Bruxelles si attende di capire dove sfocerà
il voto italiano, non sembra utile sorprendere tutti con
incomprensibili dilazioni. Sarebbero prove di bizantinismo politico.