lunedì 6 novembre 2017

Corriere 6.11.17
Devin il killer 26enne, un ex militare che insegnava la Bibbia ai bambini
di Guido Olimpio

Era stato congedato con disonore dall’aviazione. Sui profili social la foto di un mitra
Sono i mille volti del terrore. All’inizio di ottobre il tiro al segno sulla folla davanti al Mandalay Hotel di Las Vegas, con quasi 60 vittime. Poi l’attacco con un veicolo-ariete nelle strade di New York condotto da un giovane uzbeko nel nome dello Stato Islamico. Ora l’assalto a Sutherland Springs, Texas: massacro che — secondo le autorità — è il peggiore mai avvenuto in una chiesa degli Usa. Per la polizia a compierlo è stato Devin Patrick Kelley, 26 anni, sposato, originario di New Braunfels, sobborgo di San Antonio. Ieri è è entrato in chiesa vestito di nero e con un giubbotto antiproiettile. Dal 2009 al 2013 era nell’US Air Force da dove è stato congedato con disonore dopo essere finito davanti alla Corte marziale. Successivamente avrebbe tenuto corsi estivi sulla Bibbia nei dintorni di Sutherland. Nella sua pagina Facebook, il 29 ottobre, aveva postato una foto di un AR 15, fucile usato in molte delle stragi che hanno insanguinato l’America e la fanno sentire sotto assedio.
C’è l’individuo che prende di mira il prossimo solo per sfogare la sua rabbia e rispondere ai «soprusi» che pensa di aver subito. O semplicemente passa all’azione spinto dall’instabilità mentale. C’è il terrorista fai-da-te, che studia l’ideologia jihadista sul web e magari è ispirato in modo remoto. Oppure c’è lo xenofobo, pieno d’odio, che imita il mujahed. Scenario già visto nel 2015 a Charleston, in South Carolina, quando il neonazi Dylann Roof è entrato in un tempio afro-americano e ha freddato nove persone raccolte in preghiera. Sentieri e date si sovrappongono: Kelley ha agito nell’anniversario dell’attentato di Fort Hood — era il 5 novembre del 2009, sempre Texas — attuato dal maggiore dell’esercito americano Nidal Hassan, un ufficiale «influenzato» dal qaedismo.
Sono solo alcuni eventi di una catena di violenza — con molte matrici — che sconvolge uno dei Paesi in teoria meglio difesi. Polizie municipali equipaggiate come un esercito, dipartimenti della sicurezza che spendono montagne di denaro per la sicurezza, agenzie che spiano e sorvegliano. Eppure tutto questo non basta. Come non bastano le pistole nella fondina di milioni di americani. Anzi alcune di queste armi invece che garantire protezione finiscono per tramutarsi in mezzi di sterminio: non eliminano i «cattivi», annientano gli innocenti. Come i bimbi di Newtown portati via dalla follia di Adam Lanza e gli appassionati di musica country lungo lo strip di Las Vegas. Le statistiche dicono che ci sono 88 armi ogni 100 persone, arsenali che continuano a crescere dopo ogni strage per il timore che le autorità pongano dei limiti.
Il movente è importante solo fino ad un certo punto. Anche perché per alcuni episodi gli investigatori non hanno risposte precise. Il terrorismo «personale» — che magari non ha una radice ideologica — si accompagna a quello innescato dalle tensioni politiche. I conflitti in Medio Oriente, lontani migliaia di chilometri, sono la «benzina» che alimenta alcuni dei killer. Ma anche le tensioni razziali vicine, in un Paese mai così diviso, si tramutano in un innesco micidiale. Ancora: i luoghi di culto che diventano bersagli.
A tenere tutto insieme la propensione alla violenza e la preparazione dell’atto. Agevolate dalla disponibilità di bocche da fuoco, con caricatori capaci e meccanismi che permettono di usarne in quantità «militare». Pensate i 23 fucili accumulati da Paddock nella sua stanza d’hotel di Las Vegas trasformata poi in postazione da cecchino. E prima di lui la coppia islamista di San Bernardino e la guardia giurata di Orlando, Omar Mateen. Tutti si considerano, a modo loro, dei vendicatori. Spesso sono metodici e precisi nella messa a punto del piano. Ma alla fine sono soltanto degli assassini.

La Stampa 6.11.17
Usa, massacro durante la messa
Spara e ammazza 26 persone
Un ex militare di 26 anni fa irruzione nella chiesa di Sutherland Springs in Texas
di Simona Siri

Le macchine della polizia. Le ambulanze. Gli elicotteri che vanno avanti e indietro per trasportare i feriti. Le fotografie sgranate della scena prese con un telefonino. Le notizie che si susseguono confuse. Le immagini della Cnn. La prima stima che parla di dieci morti, poi di venti, poi di ventiquattro tra cui un bambino di due anni. Tristemente uguale a quelle che l’hanno preceduta, ieri negli Stati Uniti è andata in scena l’ennesima sparatoria di massa. Alle 11,30 locali il 26enne bianco David Patrick Kelley è entrato nella First Baptist Church di Sutherland Springs, un piccolo centro a 48 chilometri a Est di San Antonio, in Texas, e ha cominciato a sparare sulle cinquanta persone che in quel momento stavano assistendo alla funzione religiosa.
I morti al momento sono 26 e i feriti 30. «Ma il numero potrebbe salire», ha dichiarato alla Cnn il commissario della contea di Wilson, Albert Gamez Jr. Tra i primi testimoni, un uomo ha detto di aver visto un individuo «armato di tutto punto» entrare nella piccola chiesa. Un altro che lavora nella stazione di benzina di fronte alla chiesa ha detto di aver sentito sparare almeno 20 colpi. Sull’account Twitter di Ksat 12, il canale televisivo di San Antonio, una donna ha raccontato di aver visto un uomo scappare dalla chiesa in macchina, schiantarsi contro un’altra auto, scendere a piedi inseguito dalla polizia. Il giovane, secondo il Daily Beast un ex aviere che viveva a New Braunfels, un sobborgo di San Antonio a 40 km dalla chiesa dove ha commesso la strage, è stato ucciso dalla polizia. Altri testimoni avevano dichiarato a un giornale locale di temere che l’assassino fosse «uno di noi» dal momento che la comunità di Sutherland Springs conta non più di 400 abitanti.
Sul posto sta operando la polizia locale e l’Fbi. Un reporter del giornale locale, il Wilson County News, ha detto alla Cnn che la First Baptist Church è famosa per postare online i video delle messe domenicali sulla sua pagina YouTube: se così fosse, la sparatoria potrebbe essere stata ripresa dalle telecamere interne, una eventualità ovviamente preziosa per le indagini. A quattro ore della sparatoria, alle 15,21 locali, il Presidente Donald Trump, in viaggio ufficiale in Asia, ha rilasciato il suo primo commento via Twitter: «Possa Dio essere vicino alla gente di Sutherland Spring, in Texas. L’Fbi e la polizia locale sono sul posto. Sto monitorando la situazione dal Giappone». Da parte delle autorità non c’è ancora nessuna informazione circa la nazionalità dell’attentatore, né sulla dinamica della morte.
Le sparatorie di massa negli Stati Uniti sono diventate così comuni da essere divise in speciali classifiche a seconda del luogo: scuole, uffici, luoghi di culto. Indipendentemente dal numero totale delle vittime, quella di domenica a Sutherland Springs è già ora la sparatoria di massa con il più alto numero di morti avvenuta in chiesa. Prima di questa, il primato spettava a quella avvenuta il 17 giugno del 2005 presso la Emanuel African Methodist Episcopal Church di Charleston, nella Carolina del Sud. Allora nove persone furono uccise da Dylan Roof, ventunenne suprematista. Non solo, questa di Sutherland Springs avviene a poco più di un mese da quella di Las Vegas, dove morirono 58 persone e più di 500 rimasero ferite: il primo ottobre il sessantaquattrenne Stephen Paddock si barricò in una stanza del Mandela Bay Hotel e cominciò a sparare sulla folla che stava assistendo al Route 91 Harvest Musica Festival. I motivi del gesto sono ancora sconosciuti, le indagini ancora in corso. Sarah Huckabee Sanders, portavoce della Casa Bianca, subito dopo i fatti di Las Vegas disse che quello non era il momento giusto per iniziare una conversazione sul controllo delle armi da fuoco, da sempre uno degli argomenti più controversi all’interno della società americana. «Nel rispetto delle vittime ci asteniamo dall’aprire il dibattito sul controllo delle armi». I politici in maggioranza democratici che cercarono, dopo Las Vegas, di spingere in quella direzione furono accusati di voler strumentalizzare la morte di 58 innocenti per fini politici. In molti, oggi, alla luce della ennesima sparatoria si chiedono se quel momento arriverà mai.

Repubblica 6.11.17
Dopo Las Vegas è toccato al Texas più Texas che ci sia, dove sette cittadini su dieci possiedono pistole o fucili
La strage di massa nella vita quotidiana l’eterno ritorno dell’incubo americano
Oltre 30 mila uccisi ogni anno da armi da fuoco, eppure nulla riesce a smuovere la politica
di Vittorio Zucconi

IL BLITZ. A POCO più di un mese dal mattatoio umano di Las Vegas, in una piccola chiesa battista del Texas l’America celebra un altro sacrificio umano sull’altare del culto delle armi da fuoco. Dall’Asia, Trump invia inutili «pensieri e preghiere» per le vittime, l’Fbi e lo sceriffo di contea indagano, l’obitorio conta i morti, forse più di venti secondo la polizia citata dal quotidiano locale, il San Antonio Express, e il risultato di questa ennesima strage sarà lo stesso prodotto da Las Vegas, dal massacro dei bambini nella scuola di Sandy Hook nel Connecticut e di centinaia di casi come questi: niente. Assolutamente niente.
Otto sventurati innocenti in bici falciati da un demente uzbeko a Manhattan scatenano, giustamente, reazioni, indignazioni, incubi, misure straordinarie di sicurezza, richieste di deportazione e di blocchi alle frontiere e la fantasia sanguinaria del terrorismo jihadista giustifica prudenza, prevenzione e repressione. Ma la strage periodica, puntuale di altri cittadini colpevoli soltanto di essere andati a un concerto in Nevada o alla funzione domenicale in chiesa provocano una breve increspatura dell’acqua. Nessuno, certamente non i repubblicani legati mani, piedi e soldi alla lobby delle armi da fuoco personali e neppure i Democratici, che temono di alienarsi l’ala più conservatrice del proprio elettorato, osa dire che la principale minaccia alla sicurezza degli americani è già fra di loro. Gli oltre 30 mila uccisi ogni anni da pistole e fucili sono una cifra che il terrorismo di matrice esterna neppure osa sognare.
«Ho incontrato il nemico e il nemico siamo noi», disse il personaggio di un celebre cartoon, Pogo, parafrasando la frase dell’ammiraglio Oliver Perry nella guerra del 1812, e anno dopo anno, legge permissiva dopo legge permissiva, la battuta si dimostra tragicamente realista. Non ci sono più limiti all’acquisizione di armi e di munizione, ora che sono stati tolti anche i divieti ai sofferenti di malattie psichiatriche e le increspature di sdegno si placano nell’indifferenza, nella formidabile propaganda della lobby armata e nella pretesa che la Costituzione garantisca a tutti il diritto di possedere e portare armi. La resa della politica e dell’opinione pubblica è totale, nonostante anche un giudice conservatore come il fu Antonin Scalia avesse avvertito, certificando dalla Corte suprema il diritto ad armarsi, che il governo ha il dovere di regolare commercio e possesso di questi strumenti di morte.
Resiste e si rafforza l’illusione che essere armati sia una garanzia di sicurezza per individui e famiglie e che rappresenti un ostacolo insormontabile a chi volesse imporre regimi dittatoriali. Crescono come mai prima milizie paramilitari, ma la cronaca smentisce crudelmente la finzione della protezione personale a mano armata. In quella chiesa di Sutherland Springs, alle porte di San Antonio, nel Texas piùTexas dove sette adulti su dieci hanno armi, lo stragista è entrato tranquillamente in chiesa, ha potuto sparare a lungo, ha ucciso a volontà e nessuno lo ha potuto fermare come nessuno avrebbe potuto abbattere neppure con un bazooka l’islamista uzbeko “prima” che falciasse i ciclisti. Anche questa volta raccontiamo una storia già vista e che vedremo ancora. Perché il nemico è forte, è implacabile, è armato. Perché il nemico non sono “loro”, siamo noi.

Repubblica 6.11.17
Migranti "Quelle 26 donne morte la prova del fallimento di Minniti e dell'Europa"
Salvare le vite dalla diplomazia
di Roberto Saviano

I26 CADAVERI di donne che sono arrivati ieri a Salerno sulla nave militare spagnola Cantabria carica di migranti dimostrano che la strategia del governo per il controllo dell’immigrazione non funziona. Questi 26 corpi si aggiungono alle 8 salme arrivate due giorni fa nel porto di Reggio Calabria (tra di loro, 5 erano donne) insieme a un altro sbarco di migranti. Nel giro di due giorni, quindi, sono arrivate in Italia 31 donne morte mentre tentavano di attraversare il Mediterraneo per raggiungere l’Europa.
I blocchi del ministro Minniti non solo hanno significato per l’Italia un accordo con la Guardia costiera libica (tra i cui capi vi sono trafficanti secondo la denuncia delle Nazioni Unite), ma non hanno fermato nemmeno gli sbarchi.
BASTA ripercorrere a ritroso le ultime ore per rendersene conto. Ieri è sbarcata a Salerno una nave con 375 migranti (259 maschi, anche bambini, e 116 donne, di cui 9 in avanzato stato di gravidanza) oltre a 26 cadaveri di donne di nazionalità presumibilmente nigeriana, morte durante la traversata su un gommone, tra violenze e abusi, vittime due volte perché più deboli degli uomini.
Due giorni fa a Reggio Calabria è sbarcata una nave della Guardia costiera con a bordo 764 migranti (555 uomini, 97 donne, 112 minori) e 8 cadaveri (5 donne e 3 uomini). I migranti provengono da Pakistan, Somalia, Eritrea, Nigeria, Sudan, Libia, Bangladesh, Ciad, Guinea, Algeria, Egitto, Mali, Costa d’Avorio, Nepal, Marocco, Ghana, Camerun, Kenya, Niger, Senegal, Sierra Leone, Etiopia, Sri Lanka, Yemen, Siria, Giordania e Libano.
Venerdì 3 novembre la nave Aquarius di Msf ha scaricato a Vibo Marina quasi 600 migranti provenienti da Africa sub-sahariana, Eritrea e Somalia (tra cui 111 donne di cui 15 incinte e 90 minori non accompagnati di cui 20 presentano segni evidenti di maltrattamenti subiti durante la prigionia nelle carceri libiche). Nella notte tra giovedì e venerdì è arrivata a Seminara, in provincia di Reggio Calabria, un’imbarcazione con a bordo 44 migranti iraniani, siriani e iracheni (tra cui 9 donne e 13 bambini). E oggi a Crotone è previsto l’arrivo della nave Open Arms con 378 profughi.
Sono solo i numeri degli ultimissimi giorni. E solo quelli di cui si ha contezza, perché i migranti sono arrivati a sbarcare. Chissà quanti altri avranno perso la vita nel Mediterraneo senza che nessuno se ne accorgesse. Negli ultimi mesi ci hanno fatto credere che la campagna anti-Ong fosse servita a porre fine all’emergenza immigrazione. Hanno colpito le Ong come fossero loro responsabili dell’immigrazione clandestina, mentre le Ong erano solo responsabili di salvare vite umane.
Si tenteranno sempre nuove rotte, nuove tratte, nuovi modi per raggiungere questa fortunata sponda del Mediterraneo (nella notte tra giovedì e venerdì un barcone di migranti partito dalle coste turche è naufragato nell’Egeo, al largo dell’isola greca di Kalimnos e almeno una donna è annegata e diverse altre persone risultano disperse. Il barcone era partito dalle coste turche) e l’assenza di importanti Ong nel Mediterraneo inevitabilmente porterà a nuovi morti. Farli arrivare in Europa cadaveri o bloccarli nei lager libici non può essere la civile soluzione italiana ed europea al problema dei migranti.
Non sono credente, non potrei mai accontentarmi dell’ipocrita consolazione della giustizia divina per la tragedia umanitaria dei migranti morti in mare, torturati in Libia e in Turchia. Sulle morti in mare e sulle torture ai confini dell’Europa, da cittadini europei se vogliamo che questa definizione abbia ancora un senso, dobbiamo chiedere conto a coloro che siedono nei palazzi dei governi dell’Unione, devono rispondere della grave violazione dei principi fondamentali che l’Europa si è data. Non sono parole astratte, ma principi di umanità. Gli illustri colpevoli, che hanno stretto accordi con i torturatori, vanno giudicati ora, non aspettiamo che a fare giustizia per gli orrori di oggi sia il tempo. Ne va dell’Europa e delle sue ragioni fondative, perché oggi tra i responsabili di quelle morti, di quelle torture c’è il bieco opportunismo di Bruxelles. La mia è una call to action ai giuristi di buona volontà: dobbiamo far comprendere ai governi europei che nessuno può sacrificare vite umane in nome della propaganda elettorale rimanendo impunito.

"I 26 cadaveri di donne che sono arrivati a Salerno sulla nave militare spagnola Cantabria carica di migranti sono la prova che la strategia per il controllo dell'immigrazione del ministro dell'Interno Minniti è stata un fallimento". "Negli ultimi mesi ci hanno fatto credere che la campagna anti-Ong fosse servita a porre fine all’emergenza immigrazione. Hanno colpito le Ong come fossero loro responsabili dell’immigrazione clandestina, mentre le Ong era solo responsabili di salvare vite umane. Sulle morti in mare e sulle torture ai confini dell'Europa, da cittadini europei se vogliamo che questa definizione abbia ancora un senso, dobbiamo chiedere ai mandanti di questi orrori che siedono nei palazzi dei governi europei di rispondere per la grave violazione dei principi fondamentali che l'Europa si è data, che non sono parole astratte, ma principi di umanità".

l’intervento integrale di Roberto Saviano qui
https://video.repubblica.it/cronaca/migranti-saviano-quelle-26-donne-morte-la-prova-del-fallimento-di-minniti-e-dell-europa/288899/289506?ref=RHPPLF-BH-I0-C4-P5-S1.4-T1

La Stampa 6.11.17
Fra le migranti sopravvissute
“I nostri figli inghiottiti dal mare”
Sbarcata ieri a Salerno la nave con 420 profughi, tra cui 26 ragazze morte Una giovane: “Mi hanno stuprata in Libia”. Negli ultimi giorni 2500 arrivi
di Francesca Paci

Ventiquattro, venticinque, ventisei... Alle 10 di mattina, sotto un sole pallido ma ancora caldo, la gru della nave militare spagnola Cantabria sbarca al porto di Salerno i primi 26 dei 410 migranti soccorsi tre giorni fa nel Canale di Sicilia in quattro diverse operazioni. Un sacco dopo l’altro, lentamente: 26 ragazze, tutte nigeriane, tutte morte. I vivi, volti spettrali avvolti nelle coperte colorate, seguono dal ponte. Poi tocca a loro: una novantina di donne di cui 9 con il pancione, 26 minori di 15 anni e subito dopo gli altri, uomini di ogni età partiti da Siria, Mali, Gambia, Angola, Congo, Egitto, Senegal, Nigeria, una dozzina sono libici.
Una giovanissima, minuta e barcollante, ha lo sguardo più spiritato di tutte. «Sono stata violentata in Libia», dice ai mediatori culturali della Protezione Civile in maninka, la lingua della natia Guinea. Un’altra piange disperata: «Ho visto i miei tre figli inghiottiti dal mare». La più loquace chiede compulsivamente cibo, è affamata, racconta che «c’era un gommone accanto a quello su cui viaggiavo, era pieno di somali, li ho visti annegare in un momento».
Il sesto sbarco a Salerno in meno di sette mesi si porta dietro i fantasmi di chi è rimasto al largo. Sul molo si parla di almeno due naufragi e di una cinquantina di possibili dispersi.
«Vengo da Damasco, siamo partiti tutti dalla Libia, da Zwara» bisbiglia il siriano Abdul, prima di essere caricato sul pulmino diretto al centro della Protezione Civile di via Carrai per l’identificazione.
«Sono provatissimi, molto più dei migranti sbarcati finora» spiega la mediatrice Karima Sahbani. Ma sono le donne a riempire lo sguardo, e non solo quelle morte. Sono tante, troppe. Una scende tenendo stretto al petto il neonato di sette giorni partorito a bordo della Cantabria, a un’altra si sono appena rotte le acque, una ragazzetta ha le gambe tumefatte di lividi ma giura che si tratta di ustioni da benzina e non di violenze. Occhi enormi, capelli scomposti e quei sacchi sullo sfondo. Qualcuno butta là che si tratti di omicidio di genere, di un rito propiziatorio, ma è più verosimile che le vittime siano morte annegate oppure bruciate dal carburante che non risparmia i più fragili tra i passeggeri dei gommoni.
«Non ho mai visto ragazze cosi giovani» ammette, visibilmente impressionato il prefetto di Salerno Salvatore Malfi. I dati delle autorità locali, incrociati con quelli della Guardia Costiera, ricostruiscono giorni di fuoco, otto operazioni soltanto venerdì con 767 persone soccorse, tra cui quelle sopravvissute ai due naufragi in cui sono morte le 26 nigeriane, 3 nel primo e 26 nel secondo.
«Ci sono stati 2500 sbarchi negli ultimi quattro giorni, non sappiamo cosa accadrà con il peggioramento delle condizioni meteo ma di sicuro per il momento sembra che i migranti abbiano ricominciato a partire» osserva Flavio Di Giacomo dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni. Stamattina la nave Open Arms ne farà scendere a Crotone 401, tutti vivi.
«La Sicilia è praticamente chiusa per le elezioni e tocca a Salerno coordinare gli arrivi, su 18 porti italiani coinvolti siamo al nono posto per numero di sbarchi» spiega il vicequestore vicario facendo la spola tra gli ultimi migranti che scendono e i volontari che offrono loro bottigliette d’acqua e panini. Le ambulanze ne accompagnano nove all’ospedale, uno ha la gamba molto mal messa, quasi tutti sono disidratati. Un pulmino su cui sale la capo della Mobile Lorena Cicciotti carica cinque libici e li scorta «per accertamenti» in questura, dove si cercano informazioni, elementi utili alla ricostruzione della dinamica, potenziali scafisti.
I corpi delle vittime riposano all’obitorio cittadino, ancora senza nome. Ci vorrà un po’ per stabilire chi siano, se abbiano subito violenza, come siano morte. Hanno viaggiato tre giorni nella cella frigorifera della Cantabria, gli otto medici legali coordinati dal pm Masini hanno bisogno di tempo. La giovane libica con cinque piccolissimi bambini al seguito che ha messo piede a terra subito dopo i sacchi con i cadaveri li ha guardati mentre venivano allineati, «ce ne saranno a decine in fondo al mare».

Il Fatto 6.11.17
Salerno, arrivano in porto 26 cadaveri di donna recuperati in mare di fronte alle coste della Libia
Ipotesi di tratta - Il Prefetto: potrebbero essere state uccise. Due sospetti
Salerno, arrivano in porto 26 cadaveri di donna recuperati in mare di fronte alle coste della Libia
di Angela Cappetta

Ore 9.10, molo Manfredi di Salerno. La nave spagnola Cantabria sta per attraccare alla banchina con a bordo 375 migranti. È il ventiduesimo sbarco in quasi quattro anni nella città a sud di Napoli, ma quello di ieri mattina è stato scandito dal silenzio della morte: 26 corpi di donna, recuperati nel mar Egeo di fronte alle coste della Libia. Uno, due, tre, quattro: chi assiste allo sbarco conta il numero delle bare che vengono calate lentamente dalla poppa della nave. “Una tragedia dell’umanità. – l’ha definita il prefetto di Salerno, Salvatore Malfi – Abbiamo già avuto altri morti, ma su questa nave sarà tutto più complicato, anche come impatto morale. Siamo ancor di più in stretta collaborazione con la Procura della Repubblica perché potrebbe trattarsi di ventisei omicidi. Bisogna vedere se si trova qualche soggetto su cui concentrare l’attenzione o se si procederà contro ignoti. Che qualcuno abbia fatto morire queste donne e non sia stato un fulmine arrivato dal cielo è una cosa ovvia”. Di queste donne non si sa ancora niente. Non hanno nome, né età. Solo l’autopsia disposta dalla Procura di Salerno, che sta indagando sulla loro morte, potrà dare qualche certezza. La maggior parte delle vittime sembra avere un’età che oscilla tra i 14 e i 18 anni e pare che siano quasi tutte di nazionalità nigeriana. L’unica certezza finora è una mappa divulgata dalla Capitaneria di Porto di Salerno che evidenzia il punto esatto in cui i gommoni con a bordo le vittime sono affondati la scorsa notte. Quattro sono state le operazioni di salvataggio nelle acque internazionali di fronte alle coste della Libia.
La Procura di Salerno ha aperto un fascicolo con l’accusa di strage dolosa di genere e già ieri mattina il procuratore aggiunto Luca Masini è salito a bordo della Cantabria per un primo sopralluogo. Qualche ora dopo, negli uffici della squadra mobile di Salerno sono stati ascoltati vari migranti ospitati a bordo della nave spagnola. L’attenzione sembra concentrarsi sulla figura di due giovani maghrebini che, a guardarli, sembrava non portassero addosso i segni di un viaggio costipato nei pochi metri di un gommone d’emergenza. Ieri sera, alle venti, i due giovani erano ancora sotto interrogatorio. La Procura non si azzarda a fare ipotesi e il prefetto tende ad escludere collegamenti con la tratta finalizzata allo sfruttamento della prostituzione, ma da indiscrezioni sembra che gli inquirenti siano convinti che le giovani donne siano state vittime di maltrattamenti avvenuti prima o contestualmente al naufragio. L’autopsia sui ventisei cadaveri comincerà stamattina.

Repubblica 6.11.17
La strage delle ragazze
Nel naufragio morte solo donne giovanissime il mistero delle 26 vittime tra i 14 e i 18 anniI cadaveri sbarcati ieri a Salerno: erano a bordo di un gommone partito da Zwara con altre 64 persone
di Dario Del Porto

SALERNO. La più giovane avrà avuto 14 anni, la più vecchia 18. Chi le ha viste, come il prefetto di Salerno Salvatore Malfi, non dimenticherà i corpi straziati delle 26 nigeriane annegate nel canale di Sicilia mentre dalla Libia tentavano di raggiungere l’Italia. «È una tragedia dell’umanità, una storia che tocca il cuore», dice. La strage delle ragazze aggiunge nuove croci al cimitero infinito del Mediterraneo e apre altri, angosciosi, interrogativi sulle rotte dei trafficanti di esseri umani.
Erano partite dal porto di Zwara. La maggior parte, 23, viaggiava su un gommone insieme ad altre 64 persone che invece sono riuscite a salvarsi. In 3 erano su un’imbarcazione più grande, con altri 142 migranti a bordo. Perché, dopo l’ennesimo naufragio, il mare ha restituito solo i cadaveri di queste giovanissime donne? Davvero sono morte perché fisicamente più deboli, come ipotizzano alcuni, oppure è successo anche altro, prima se non addirittura durante la traversata finita in tragedia? Se lo sta chiedendo la Procura di Salerno che non esclude, non ancora almeno, che queste ragazze possano aver subito abusi e violenze. E forse non hanno smesso di domandarselo i sopravvissuti che toccano terra, stravolti, al molo 3 gennaio di Salerno.
Sbarcano in 375, provenienti quasi tutti dall’Africa Subshariana. La nave militare spagnola Cantabria, impegnata nel dispositivo Eunavformed li ha soccorsi e condotti in Italia. Ad attenderli, trovano il personale della Croce Rossa e il servizio coordinato dal prefetto Malfi con il questore Pasquale Errico. La tragedia riaccende le polemiche di casa nostra, con il ministro dell’Interno, Marco Minniti che difende la linea del Viminale: «Abbiamo lavorato sul governo dei flussi, che nell’ultimo anno sono diminuiti del 30,13 per cento. La strategia che abbiamo messo in campo è esattamente il contrario dell’emergenza». La presidente della Camera, Laura Boldrini, avverte: «Il flusso non si arresterà fino a quando il problema non sarà risolto all’origine, creando condizioni di vita dignitose nei paesi dai quali si continua a fuggire».
Quello che si conclude a Salerno è un viaggio del dolore, e non solo perché la stessa imbarcazione accompagna chi ce l’ha fatta accanto alle 26 ragazze che il mare, invece, non ha risparmiato. Ognuna di queste persone porta con sé il peso di un dramma da sopportare e l’incognita di un futuro da costruire. Come la madre avvolta in una coperta che piange senza più lacrime e ripete solo, in francese: «Ho perso i miei tre figli». O come la cittadina libica che, in arabo, racconta in maniera confusa a uno dei mediatori culturali: «Accanto a noi c’era un altro barcone pieno di somali. Sono morti tutti». Dalla Cantabria scendono 90 donne, 8 sono incinte. I minori sono 52, 21 hanno meno di 9 anni. Un neonato ha appena una settimana di vita e i volontari fanno a gara per procurargli il latte e assistere la madre. I più piccoli stringono un orsacchiotto o un pelouche ricevuto in regalo dai soccorritori, primo gesto di umanità dopo tanta sofferenza. Quasi tutti provengono dall’Africa Subsahariana, alcuni arrivano dalla Libia, un piccolo gruppo è di nazionalità palestinese.
Mentre scende le scale della nave, un bimbo che non avrà sette anni, la bottiglietta d’acqua stretta al petto, sorride con un sorriso contagioso. La volontaria lo accarezza con un gesto semplice, pieno di umanità. Nello sguardo del bambino, sembra di rivedere il piccolo eroe de “La vita è bella”. A lui come agli altri, ora, bisognerà dare delle risposte. E scoprire la verità sulla strage delle ragazze nel Mediterraneo.

Repubblica 6.11.17
Sfinite da abusi e torture la pista della procura sulla traversata calvario
(d. d. p.)

SALERNO. Come la traversata conclusa tragicamente nelle acque del Canale di Sicilia, è dalla Libia che parte l’inchiesta aperta dalla Procura di Salerno per far luce sulla strage delle ragazze annegate nel Mediterraneo. Gli inquirenti diretti dal procuratore Corrado Lembo indagano sulle organizzazioni di trafficanti di esseri umani che gestiscono il racket dell’immigrazione dalle coste del Paese un tempo governato da Gheddafi. I magistrati prendono in considerazione anche l’ipotesi che le 26 giovanissime vittime del naufragio possano aver subito abusi o addirittura torture. Sia prima della partenza per l’Italia, sia durante il viaggio.
Un sospetto fondato non solo sull’esperienza, ma anche sugli elementi già acquisiti in occasione di precedenti sbarchi avvenuti sul territorio salernitano, quando i sopravvissuti hanno riferito delle violenze subite in Libia ad opera dei trafficanti e spesso anche in mare per mano degli scafisti. Se questo è lo scenario, non può non far riflettere il dato di quelle 26 ragazze destinate ad essere sepolte a Salerno. Al momento il fascicolo è aperto contro ignoti per “morte come conseguenza di un altro reato”.
Le prime risposte potrebbero arrivare dalle autopsie. Un pool di otto medici legali, a partire da oggi, esaminerà i corpi per verificare eventuali segni di lesioni o possibili ulteriori elementi in grado di collegare la loro fine, oltre che all’annegamento, anche ad altre cause. Per tutta la giornata di ieri, la dirigente della squadra mobile, Lorena Antonia Cicciotti, ha raccolto le testimonianze dei sopravvissuti sbarcati dalla nave militare spagnola Cantabria. Cinque migranti, libici e nigeriani, sono stati condotti in questura e interrogati, la loro posizione è al vaglio.
Gli investigatori italiani hanno già a disposizione la ricostruzione effettuata a bordo della nave con l’ausilio di un ufficiale di collegamento del nostro Paese. Ma le prime versioni appaiono confuse, complice anche la fatica accumulata durante il viaggio, e il quadro sarà più nitido solo nelle prossime ore. Molti dei sopravvissuti hanno detto di aver perso familiari durante il naufragio, non è chiaro però se a bordo della nave vi fossero anche i congiunti delle ragazze. Chi vorrà, potrà vedere le salme e il loro eventuale riconoscimento potrebbe consentire di chiarire anche questo aspetto della tragedia. Di sicuro, non tutti i cadaveri sono stati restituiti dal mare e il bilancio reale della tragedia è molto probabilmente più pesante.
Sottolinea Matteo Marzano, della onlus L’Abbraccio che anche ieri ha preparato panini e pasti caldi per i migranti sbarcati a Salerno: «Le persone provenienti dall’Africa Subsahariana raccontano storie terribili. I silenzi delle donne, poi, dicono spesso molto più delle parole. La bugia non fa parte della loro cultura. È gente fiera, che affronta viaggi interminabili nella consapevolezza di rischiare la vita». I trafficanti chiedono in media seimila dollari per farli arrivare in Italia. Quando partono, spesso tengono i soldi nascosti nell’elastico degli slip, l’unico posto che ritengono sicuro. Quattromila dollari occorrono solo per raggiungere la Libia dai Paesi d’origine. «Chi si mette in cammino da Mali, Costa d’Avorio, Sierra Leone, può impiegare anche sette mesi prima di arrivare sulle coste libiche — dice Marzano — viaggiano quasi sempre di notte, stipati a bordo di furgoni per evitare di essere individuati dai satelliti-spia». In Libia si ritrovano scaraventati in un girone infernale, che può durare altri mesi. Gli altri duemila dollari occorrono per salire su un barcone e affrontare il mare. Come avevavo fatto quelle 26 ragazze che sognavano l’Italia, e hanno trovato la morte nel Mediterraneo.

Repubblica 6.11.17
“Senza le Ong in mare, rischiamo altre tragedie”
Carlotta Sami, portavoce per il sud Europa dell’alto Commissariato Onu per i rifugiati
di Vladimiro Polchi

ROMA. «Questa strage di donne rende evidente che la tragedia degli sbarchi continua e i rischi in mare non si sono affatto ridotti». Carlotta Sami, portavoce per il Sud Europa dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati, non nasconde la sua preoccupazione per «il fatto che di fronte a una situazione ancora instabile in Libia, molte Ong abbiano ritirato le loro navi dall’area interessata dai soccorsi ».
Le vittime dell’ultima tragedia in mare sono tutte donne, cosa significa? «Questo ci deve ricordare la particolare vulnerabilità delle migranti. In questo caso hanno avuto la peggio rispetto agli uomini imbarcati con loro. Ma spesso c’è di più. In base ai nostri dati, il 90% delle donne che arriva sulle nostre coste è stato vittima di violenze e abusi lungo il viaggio via terra e durante la permanenza in Libia».
A proposito di Libia, sono riprese in questi giorni le partenze dalle sue coste, perché?
«Siamo cauti a parlare di riapertura di rotte, ma invitiamo anche alla prudenza nel considerare come consolidata la situazione attuale di riduzione dei flussi. Le circostanze infatti sono tali che nessuno può parlare di netto cambiamento. È vero che si sono intensificati i controlli in mare della Guardia costiera libica, ma la situazione sul terreno è ancora drammatica. Dopo i recenti scontri di Sabratha, sappiamo di oltre 17mila persone che sono riuscite a scappare dai trafficanti di uomini, ma ancora 6mila sono tenute prigioniere. E le condizioni di vita in Libia non stanno affatto migliorando».
E la riapertura della rotta tunisina?
«Finora non è conseguenza della chiusura di quella libica, infatti a partire sono quasi solo cittadini tunisini».
I mezzi di soccorso in mare sono sufficienti a fronteggiare l’emergenza?
«Di fronte alla situazione che resta drammatica in Libia, noi stessi ci chiediamo se esiste ancora un meccanismo di salvataggio in mare davvero valido. Certo, ci preoccupa che molte Ong non siano più presenti con propri mezzi».
Come potrebbero ridursi davvero i rischi delle traversate?
«Bisognerebbe lavorare seriamente all’apertura di corridoi umanitari, di vie legali d’accesso in Europa per chi ha diritto a una qualche forma di protezione. Ma su questo punto non vediamo interventi concreti. Abbiamo chiesto a livello europeo 40mila posti per rifugiati che provengano da Paesi africani, compresa la Libia, così da evitare a queste persone di finire nelle mani dei trafficanti».

Repubblica 6.11.17
I nostri bambini malati immaginari?
Se la vivacità diventa un disturbo
Boom di certificati per deficit dell’attenzione, spesso però si tratta solo di bambini immaturi La maestra: “Ci troviamo di fronte a ragazzini a cui in casa non viene richiesta alcuna regola”
Daniele Novara, 60 anni, piacentino, è uno dei più noti pedagogisti italiani. Nel 1989 fonda il Cpp - Centro psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti di cui è direttore. Il suo ultimo libro si intitola “Non è colpa dei bambini” (Bur)
Le diagnosi quintuplicate in sei anni. Ma il pedagogista Novara nega che i problemi di apprendimento siano una patologia
di Maria Novella De Luca

ROMA. Non sanno più leggere. Non sanno più fare i conti. Non sanno più stare seduti nei banchi. Parlano male, quindi hanno bisogno della logopedia. Non sono distratti ma affetti, così si dice oggi, dal “disturbo dell’attenzione”. Non più vivaci, discoli, irrequieti, insofferenti, bensì “iperattivi”.
Chi sono? I nostri figli. Generazione Z. Così almeno li definiscono le statistiche. Colpiti sembra da una epidemia di “mal di scuola” collettivo, almeno a giudicare dalla valanga di certificazioni di disturbi di apprendimento che dilaga nelle classi di ogni ordine e tipo.
Ma è davvero così? Assolutamente no, fermi tutti, il meccanismo si è inceppato, dice con una tesi forte, provocatoria, Daniele Novara, pedagogista controcorrente, famoso per i suoi affollatissimi incontri dedicati agli adulti chiamati “Scuola genitori” e fondatore del Centro Psicopedagogico per la gestione dei conflitti. «Gran parte di quei disturbi sono in realtà difficoltà naturali della crescita, c’è chi impara prima e chi dopo, ma il punto è che la scuola non aspetta più e ormai stiamo sostituendo la psichiatria all’educazione, perché è più facile definire malato un bambino anziché ammettere che non sappiamo educarlo ».
Del resto, basta guardare i numeri delle famose diagnosi di dislessia, discalculia, deficit dell’attenzione e tutte le altre sigle che a scuola vogliono dire fatica e difficoltà: sono passate dallo 0,7% della popolazione scolastica nel 2010 al 3,6% del 2016. «Ma anche i numeri delle disabilità più gravi sono in aumento. Alcune giuste, vere, ma quanti ragazzini definiti “adhd”, ossia con il disturbo dell’iperattività, addirittura trattati con i farmaci, sono invece soltanto immaturi?». E dunque per “curarli” basterebbe una pedagogia diversa e magari il ritorno dei genitori «al loro ruolo di educatori», perché l’educazione, così scrive Novara nel suo nuovo libro “Non è colpa dei bambini”, «crede nelle potenzialità, guarda al bicchiere mezzo pieno, è essa stessa una terapia». Insomma non diagnosi ma parole, integrazione, famiglia. E una scuola che aspetta i più lenti, accoglie i più vivaci, sostiene i più deboli, senza “etichette”, con un pensiero, quello di Novara, che ricorda Maria Montessori.
«Vi sembra normale che in una sola classe di venti bambini ci siano, magari, cinque certificazioni tra dislessia, disgrafia, più altri cinque bambini Bes, cioè con bisogni educativi speciali? Metà degli alunni dunque in qualche modo “diversi” rispetto ad una presunta normalità. Impossibile. La verità, come vedo ogni giorno negli incontri con genitori e figli smarriti, è che si tratta di difficoltà, di immaturità, di percorsi di crescita magari più lenti, ma assolutamente non di disturbi psichiatrici». Anzi, per Daniele Novara, «gli studenti di oggi non sono peggiori o più difficili di quelli di ieri, per certi versi sono più avanti, ma alla prima difficoltà gli insegnanti li spediscono alla Asl, la società li medicalizza, li etichetta, usa farmaci, insomma la neuropsichiatria ha sostituito la pedagogia e l’educazione ». Un atto di accusa forte e netto che naturalmente divide. Anche perché, invece, da molti genitori di bambini con difficoltà le diagnosi e le certificazioni sono viste finalmente come un’ancora a cui aggrapparsi.
Francesca Mossa fa la maestra da 30 anni e il suo lavoro continua ad amarlo. «Quello che dice Daniele Novara è vero: nella mia classe ci sono 24 bambini e circa la metà ha certificazioni diverse. Alcune sono esatte, altre forse no, anzi strumentali. Ma il vero problema per un insegnante è tenere insieme queste infinite diversità, non lasciare indietro nessuno, in un sistema dove i tagli alla scuola sono quotidiani e anche i rapporti con le famiglie difficili. Non è vero che abbiamo abdicato al nostro compito educativo, è che siamo soli».
Una vera sfida. «Provate ad imporre ai bambini di alzare la mano prima di parlare — dice Francesca Mossa — , di essere rispettosi con gli insegnanti e i compagni di classe: le famiglie vi accuseranno di severità, come è successo a me. Noi ci troviamo di fronte a ragazzini a cui in casa non viene richiesta alcuna regola, imbottiti da ore di videogiochi, con genitori amorosi e vicini ma spesso fragili e soprattutto pronti a negare le difficoltà dei propri figli... ».
Sergio Messina, neuropsichiatra infantile, è il presidente dell’Aid, Associazione Italiana Dislessia. «Il problema non è l’abuso di diagnosi, anzi i nostri numeri sono anche più bassi rispetto ad altri Paesi, il problema sono le diagnosi sbagliate, i falsi positivi. In realtà per molti bambini avere una certificazione e poter contare su una didattica specifica ha rappresentato la salvezza. Ma ci vogliono protocolli e una pedagogia che non separi. Spesso gli strumenti utilizzati per i “Dsa” potrebbero essere utili per l’intera classe, senza creare alunni di serie A e di serie B. Questa è la didattica inclusiva ».

Repubblica 6.11.17
Il genitore
“Più sport e meno tv non serviva lo psichiatra”
di Zita Dazzi

MILANO. «Mio figlio a scuola? Quattro anni di odissea». Così ne parla Marco Rizzi, 44 anni, impiegato, moglie cassiera al supermercato, due figli, uno di dieci, l’altro di due anni. Una famiglia come tante, in un piccolo paese in provincia di Piacenza. «Tutto è cominciato quando c’è stato il passaggio dall’asilo alle elementari. Alla fine dell’anno le maestre ci dissero che il bambino aveva delle difficoltà di attenzione, non riusciva a stare fermo, a concentrarsi, a spiegarsi. Mi consigliarono di farlo vedere da un logopedista, e noi andammo subito all’Usl, che lo prese in carico nell’area della neuropsichiatria infantile».
Come vi siete sentiti da quel momento?
«Ovviamente l’abbiamo presa molto male. La dottoressa non ci dava risposte convincenti, ci faceva sentire colpevoli di qualcosa. Poi è arrivata la diagnosi che parlava di disturbi dell’attenzione, con una richiesta di accompagnamento scolastico».
Un insegnante di sostegno?
«Eravamo perplessi, la pediatra ci consigliato di chiedere un parere diverso. Ci era chiaro che il bambino aveva problemi a scuola, ma non ci sembrava così grave».
Nella vostra famiglia com’era l’atmosfera?
«Andavamo da una psicologa privata, che ha cominciato a lavorare su noi come genitori. Intanto le visite previste dalla Usl non davano grandi risultati. Fra me e mia moglie si è creata una grande tensione. Il bambino era sotto pressione, invece che migliorare, peggiorava».
Come ne siete usciti?
«Parlando con amici, qualcuno ci ha consigliato di parlare col dottor Novara. E da lui abbiamo avuto esiti completamente diversi. Abbiamo sospeso con la Usl e cominciato con un osteopata, che ha riscontrato un problema psicomotorio. Molte sue difficoltà nascevano da una postura sbagliata, che lo limitava anche nel parlare».
Che altro avete fatto?
«Lo abbiamo mandato a fare sport, ha trovato una nuova dimensione. Anche in classe la situazione è molto migliorata. C’è stato uno scontro forte con la scuola che continuava a pensare di dare al nostro bambino una maestra “di sostegno”. Mentre noi eravamo ormai certi che lui aveva bisogno solo di recuperare autostima e sicurezza».
Quanto è contato il clima famigliare sul modo di stare a scuola di vostro figlio?
«Abbiamo dovuto fare un lavoro di coppia, avevamo le nostre responsabilità. Io lo aiutavo nei compiti in modo non sereno, questo gli faceva perdere sicurezza. Adesso è stato molto invogliato a stare sulle sue gambe. Abbiamo capito che il “sostegno” lo faceva “sedere”, non prendeva iniziative ».
Siete fuori dal tunnel ora?
«Siamo riusciti piano piano ad aiutarlo anche limitando molto il tempo che passava davanti a televisione, videogiochi, play station. È stato faticoso, ma è servito. I risultati si vedono, arrivano voti alti. Senza insegnante di sostegno e senza visite psichiatriche ».

Repubblica 6.11.17
Sicilia, il crollo della sinistra
Il Pd e il rischio dell’irrilevanza
di Stefano Folli

NELLA singolare notte siciliana in cui i voti restano congelati nelle urne in attesa di essere scrutinati con calma stamani, tre dati sembrano già abbastanza certi. Il primo, è ovvio, riguarda la scontata indifferenza dei siciliani verso un rito elettorale da cui non hanno granché da sperare. La percentuale dei votanti equivale all’incirca a quella del 2012, forse un poco più bassa. Niente di sorprendente, ma chi dovrebbe rammaricarsene sono i Cinque Stelle. Per il tipo di messaggio di cui si sono fatti interpreti e per la retorica che li caratterizza, avrebbero dovuto far breccia proprio in quel 50 per cento e oltre di siciliani che si astiene per i più diversi motivi. Invece la percentuale resta fissa, anzi peggiora, e i seguaci di Grillo, con Di Maio in testa, si sono trovati a remare nello stesso stagno dei partiti tradizionali. Mutuando da costoro vizi e reticenze, proponendosi con la loro medesima opacità, ossia il contrario esatto di ciò che una forza cosiddetta anti-sistema dovrebbe rappresentare.
Così la contesa elettorale — ed è il secondo dato certo — si è risolta in un testa a testa fra il M5S e il centrodestra di Musumeci, senza che nessuno sia riuscito a scalfire la montagna delle astensioni.
SECONDO gli exit poll di ieri sera, sulla cui attendibilità nessuno ha voglia di giurare, a prevalere di poco sarebbe il candidato del cartello elettorale Berlusconi-Salvini-Meloni. E non c’è da stupirsi, considerando la tradizione della destra in Sicilia. Ma se questo sarà il risultato reale, i Cinque Stelle avranno qualcosa su cui riflettere. Grillo lo aveva capito per tempo: in Sicilia o c’è la vittoria o c’è la sconfitta. Risultati intermedi, giochi di parole in “politichese” per raccontare di “una buona affermazione” servono a poco. Se oggi il M5S non avrà vinto, contraddicendo gli exit della notte, vorrà dire che ha perso. E il cammino verso le politiche sarà d’ora in poi meno lineare e pianeggiante del previsto, soprattutto perché il ritorno del centrodestra è tutto fuorché un fatto locale, o meglio regionale. Il cartello che vince in Sicilia (governare è un’altra cosa, naturalmente) è lo stesso che vincerebbe in quasi tutti i collegi del Nord, se si votasse domani.
Terzo dato, il più clamoroso e significativo sul piano politico: la disfatta del Pd. Benché ampiamente annunciato, il crollo della lista di centrosinistra colpisce. Dal 30 per cento di cinque anni fa al 17-18 di oggi (sempre in base agli exit, non ai dati effettivi). Si dovrà capire se il Pd è sceso sotto il 10 per cento rispetto al 13,5 del 2012. E occorrerà misurare qual è stato, alla fine dei conti, l’apporto dei centristi di Alfano, o di quel che ne resta. In ogni caso, e quali che siano le ragioni della sconfitta, il Pd vede ridursi la coperta: è più debole sia sulla destra sia sulla sinistra. E il tentativo di usare toni e temi populisti per tagliare un po’ d’erba sotto i piedi dei Cinque Stelle, non ha certo dato i risultati sperati. Unica consolazione, se così si può dire: non si è realizzato il sorpasso da parte di Claudio Fava, espressione della sinistra nemica del “renzismo”; anzi, si direbbe che il risultato della piccola coalizione “rossa” è inferiore alle attese.
Il problema è che se si sommano i voti del centrosinistra (compreso Alfano) e quelli della sinistra, ossia Micari e Fava, si raggiunge a malapena il 25 per cento. Un quarto non dei siciliani, bensì di quella metà scarsa di elettori che si sono scomodati per andare al seggio. Un disastro che dovrebbe indurre il Pd a rivedere parecchie delle sue strategie politiche e comunicative. È presto per dire se il segretario Renzi sarà chiamato a dare spiegazioni. In quale sede, poi? Tutti gli organi di un Pd ridotto al lumicino sono saldamente nelle mani del leader. E questo fa la differenza. Per adesso si sa che la strada del “nuovo inizio”, qualunque cosa significhi, passa dal dibattito televisivo di domani sera fra Renzi e Di Maio. Nella speranza che siano veri i sondaggi che collocano un ipotetico centrosinistra allargato (con Pisapia, gli europeisti Bonino e Della Vedova, il socialista Nencini eccetera) intorno al 31 per cento su scala nazionale. Competitivo con un centrodestra oltre il 33 per cento e a distanza di sicurezza dal M5S al 26.
Questo è il cuore della questione. La Sicilia ha dimostrato che la contesa è fra il centrodestra e i Cinque Stelle, con la sinistra tagliata fuori. Se lo schema si replicasse nel resto d’Italia, il Pd rischierebbe l’irrilevanza. Renzi deve rientrare in gioco nel più breve tempo possibile, fin da domani, per ricollocarsi sulla scena da protagonista. Per lui è l’ultima occasione, ma è difficile che possa avere successo senza un’autentica autocritica.

La Stampa 6.11.17
Crolla il Pd
Gustavo Zagrebelsky: “L’antipolitica superata dal riflusso totale Rosatellum incostituzionale, Mattarella doveva mettere dei paletti”
“Anche il Rosatellum è anticostituzionale”
Zagrebelsky:«Il voto di fiducia è stato un abuso di potere
“È la stagione dell’impolitica Grasso sarà un buon leader”
intervista di Giuseppe Salvaggiulo

«A differenza di qualche anno fa, oggi vedo più impolitica che antipolitica». Così Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale, interpreta la stagione politica che volge alle elezioni.
Qual è la differenza?
«L’antipolitica è un’energia che può essere mobilitata “contro”: i partiti, i politici di professione, la democrazia parlamentare. Non è un caso che il populismo sia antipolitico e mobilitante. In un certo senso, è un atteggiamento attivo. L’impolitica è l’esatto contrario: è un atteggiamento passivo, di ritrazione, di stanchezza. Un modo di dire: lasciatemi in pace».
Quali sono i segnali di questo cambiamento?
«La si può misurare con i numeri sempre più scarsi di coloro che scendono in piazza, che seguono i talk show politici, che vanno a votare. L’impolitico è pronto a sopportare qualunque cosa. L’antipolitico, invece, è disposto a mobilitarsi. Si potrebbe dire che l’impolitica è la fase suprema dell’antipolitica, quando non si crede neppure più al populismo».
Abbiamo visto le conseguenze dell’antipolitica. Quali possono essere quelle del diffondersi di sentimenti impolitici?
«L’astensionismo non è solo quantità, ma anche qualità. Favorisce la corruzione di quel che resta della politica, poiché inaridisce il voto d’opinione, mentre gli scambisti di voti e favori non si astengono di certo. Dunque cresce l’incidenza percentuale del consenso ottenuto con metodi collusivi. Mi stupisco che non ci sia allarme. Il silenzio della classe politica è forse un segno di accondiscendenza?».
Ci sono altre peculiarità di questo fenomeno?
«L’astensionismo cresce in generale, ma non quando ai cittadini viene data la possibilità di votare contro i partiti. Allora si scuotono. Nel referendum costituzionale come in quello per l’autonomia in Veneto. Si è votato su un quesito come “volete più autonomia?”. È come chiedere: “volete più soldi? Più salute?”. Le analisi dei flussi segnalano un forte contributo dell’elettorato del M5S. Non è stato un voto per separar-si, ma per separar-li. Loro sono i partiti».
La vicenda del Rosatellum aumenta la disaffezione?
«E’ stata tutta interna al Palazzo. La maggioranza dell’opinione pubblica ha capito la posta in gioco e ha pensato: è un problema dei partiti, noi non c’entriamo, se la vedano tra di loro. La rabbia, se c’è, non si manifesta più».
Qual era la posta in gioco?
«Di tutte le leggi, quella elettorale più delle altre dovrebbe essere fatta per i cittadini-elettori. Ma la scrivono i partiti, che la usano per tutelare innanzitutto i propri interessi. È una contraddizione della democrazia. Proprio per questo ci devono essere dei correttivi».
Quali potrebbero essere?
«C’è una regola aurea che viene dall’Europa: non si cambiano le leggi elettorali nell’anno antecedente le elezioni. Così, i calcoli utilitaristici sarebbero più difficili e potrebbe fare capolino qualcosa come la “giustizia elettorale”».
Ma l’Europa è lontana, per parafrasare una canzone di Lucio Dalla.
«Ci sono la Corte costituzionale e il presidente della Repubblica. La Corte, però, è fuori gioco perché il suo intervento, peraltro difficile dal punto di vista procedurale, sarebbe tardivo. Arriverebbe dopo le elezioni e un’assurda giurisprudenza ha detto che un Parlamento eletto con una legge elettorale incostituzionale può tranquillamente starsene al suo posto».
E il Presidente della Repubblica?
«Non ha rilevato evidenti motivi d’incostituzionalità. Mah! Che dire del voto unico: voto per il candidato nel collegio uninominale e devo trascinarmi dietro una lista di nomi nelle liste proporzionali per i quali non vorrei votare? Una sorta di pacco-sorpresa».
Si aspettava altro dal Quirinale?
«Al punto in cui si era giunti, era difficile credere a un rinvio della legge. Avrebbe assunto il significato d’una dichiarazione di guerra contro un’ampia maggioranza parlamentare. Ci sono cose giuste che non si possono più fare nel tempo sbagliato».
Che cosa intende dire?
«Che sarebbe stato necessario richiamare a tempo debito, fuori e prima della mischia, i limiti, “i paletti” d’ogni onesta legge elettorale. Il presidente della Repubblica dispone d’un potere d’influenza che, mi pare, non sia stato esercitato».
Pensa anche alle questioni di fiducia posta dal governo?
«No, perché sono state un colpo di mano non previsto (anche se prevedibile) dell’ultima ora».
Ma erano legittime, o no? Qualcuno ha evocato il fascismo, s’è parlato di golpe.
«La questione di fiducia d’iniziativa governativa non è citata nella Costituzione, si è affermata nella prassi parlamentare. La legge elettorale non riguarda l’azione di governo, né risulta nel programma di questo governo. Si è trattato di un pretesto per imporre il voto palese a un Parlamento riottoso. Non c’è stata violazione di alcuna norma costituzionale, però la vita politica non è fatta solo di legittimità ma anche di correttezza costituzionale e talora la scorrettezza è anche più grave dell’illegittimità. E’ un chiaro caso di abuso del diritto».
Renzi ha fatto notare che con lo stesso metodo è passata la legge sulle unioni civili.
«Un pensiero inquietante. Un buon fine non sana un mezzo cattivo. Il fine giustifica i mezzi? Forse il contrario: un mezzo sbagliato può corrompere un fine giusto».
Che cosa pensa del comportamento del presidente del Senato Grasso?
«Ha difeso la dignità delle istituzioni, con un gesto dimostrativo che ha un contenuto di alta drammaticità. Il suo significato è questo: sono stato sottoposto a una violenza morale alla quale non potevo resistere. Detto dalla seconda carica dello Stato! Mi pare che ci sia affrettati, da parte di coloro dai quali quella pressione presumibilmente è provenuta, a passare oltre con ipocrite espressioni formali di rammarico».
Vede per Grasso un futuro politico, magari di governo?
«È una risorsa possibile che potrebbe rivelarsi preziosa in futuro. Tuttavia, quel suo gesto di protesta gli avrà certamente alienato molte simpatie negli ambienti che contano. Anche per questo merita non solo rispetto ma anche apprezzamento».

Corriere 6.11.17
Macaluso: al Pd manca cultura politica
Non ci si nasconde con risultati così
intervista di Daria Gorodisky

ROMA «È chiaro che si tratta di una sconfitta clamorosa, Renzi subisce una sconfitta molto pesante». Emanuele Macaluso — una vita passata a sinistra, parlamentare pci e poi pds per sette legislature — commenta «da non iscritto» il risultato delle Regionali in Sicilia: «Come siciliano, sono amareggiato e umiliato; come osservatore politico dico: attenti, un partito con l’ambizione di governare il Paese che si riduce a questi livelli non può nascondere che oggettivamente un problema esiste».
Quali sono le cause di questo fallimento?
«Innanzitutto, un centrosinistra che si presenta diviso gioca a perdere. Nessuno poteva certamente pensare cheil Pd o la lista di Claudio Fava potesse vincere. Così hanno raccolto soltanto voti di appartenenza. E bisognerà anche vedere quanti saranno alla fine quelli del Pd».
A chi attribuisce la responsabilità della spaccatura?
«Sia a Bersani e D’Alema che a Renzi. Hanno usato la conflittualità per confrontarsi, un braccio di ferro che poi era soltanto un braccio di latta. Però la causa della disfatta riguarda soprattutto il Pd: non è più un partito ma un aggregato politico elettorale al servizio del leader. E questo si paga».
È il partito leggero…
«Appunto. Prima la sinistra aveva un rapporto diretto con le masse, affrontava i problemi concreti delle persone, conduceva battaglie sociali e culturali, combatteva la mafia. Adesso tutto questo è completamente sparito. Si pensa che bastino i tweet, i dibattiti televisivi urlati… Il Pd non ha più un giornale, una rivista culturale, comunicazione».
Manca cultura politica?
«Totalmente. E questo nelle persone fa prevalere l’istinto o l’assenteismo. Oggi tutto è giocato sulle battute, sui rimpalli. Renzi pensa che il 40% raccolto al referendum costituzionale sia sua proprietà personale. E che tutto si risolva inseguendo i grillini, che rappresentano l’anti-cultura politica e parlamentare. Qualcuno si offende quando dico che una volta un bracciante emiliano o un contadino delle Madonie avevano cultura politica, interesse e visione del mondo superiori a quello dell’attuale classe dirigente politica».
Oltre a questi errori alti, strutturali, crede che in Sicilia abbia influito negativamente anche l’alleanza con Alfano?
«Certamente. Perché un conto sarebbe stata un’alleanza con Alfano di tutta la sinistra unita; ma se ti presenti diviso e pensi di poter vincere con Alternativa popolare…».
Che prospettive vede per le prossime Politiche?
«O ci sarà una coalizione, oppure si andrà a una ripetizione del risultato siciliano. Lo devono avere chiaro Bersani e D’Alema, ma soprattutto Renzi. E, se c’è una coalizione, è questa che decide il candidato a Palazzo Chigi».
Ha un nome?
«No. Ma non si può ignorare che Gentiloni ha acquisito credibilità in Italia e in Europa, mentre Renzi l’ha completamente persa».
Per chi avrebbe votato in Sicilia?
«Per fortuna voto a Roma. E già sarà difficile…».

Corriere 6.11.17
«Per Matteo è stato come il 4 dicembre Molto difficile allearsi ora»
di Alessandra Arachi

«Stiamo ragionando su exit poll, è la premessa al nostro ragionamento».
D’accordo Miguel Gotor, però intanto questi sono numeri che consegnano la Sicilia al centrodestra o ai 5 Stelle...
«La Sicilia da sempre è il laboratorio delle politiche nazionali. E se questi numeri verranno confermati ci dicono che il centrodestra è la prima coalizione e il M5s il primo partito. E poi...».
Poi?
«Che è una sconfitta secca del Pd di Renzi che secondo i nostri calcoli dovrebbe essere sotto il 10 per cento».
E il vostro candidato di Mdp Claudio Fava?
«Beh secondo gli exit poll si va dal soddisfacente (7) al buono (11). E quindi positivo, non ci possiamo lamentare».
Se si sommano i dati del vostro candidato a quelli del centrosinistra non si arriva né a Musumeci né a Cancelleri...
«La politica non si fa con la matematica. In Sicilia hanno chiamato centrosinistra una coalizione del Pd con il partito di centrodestra di Alfano. Non si può fare».
Ma è la coalizione di governo?
«È la coalizione formata con l’ex segretario del Pdl, che non può che far perdere voti. Perché l’elettore di Alfano vota a destra e l’elettore di centro sinistra prende le distanze».
E quindi? Per le prossime politiche state pensando ad un’alleanza con il Pd per non consegnare il Paese alla destra?
«Adesso così com’è non riesco proprio a vederla un’alleanza con il Pd, ci sono divergenze sostanziali che non sono maturate in questi giorni o in questi mesi, ma in anni. Per un’alleanza con il Pd serve una svolta radicale nei contenuti, Fisco, investimenti, scuola, lavoro. Che non vedo certo con il Pd di Renzi. La cifra dell’arroganza della sua corte è evidente».
A cosa allude?
«All’attacco che Davide Faraone ha fatto al presidente del Senato Grasso».
E se non Renzi chi potrebbe guidare il Pd per la svolta radicale?
«Chi riesce a parlare di politiche nei contenuti. Comunque una cosa è certa».
Cosa?
«Che stasera Renzi torna indietro alla sera del 4 dicembre, siamo al gioco dell’oca».

Repubblica 5.11.17
David Rossi
Mps, un misterioso testimone e il giallo sulla morte di Rossi. "Ho sentito anche uno sparo"
David Rossi
Un imprenditore ha raccontato all'avvocato della famiglia del manager scomparso il retroscena di un mancato appuntamento
di Sergio Rizzo

PERCHÉ l'avvocato Luca Goracci non abbia mai rivelato l'incontro misterioso, lo spiega egli stesso: "Era la terza o la quarta persona che si presentava millantando di sapere qualcosa sulla morte di David Rossi, poi sparita nel nulla. E non avrei mai potuto provare niente". Certo è che nell'episodio della fine violenta del capo della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena ogni particolare rischia di non essere insignificante.
La morte, avvenuta mentre infuriava la bufera giudiziaria sull'acquisizione della banca Antonveneta, la sera del 6 marzo 2013 in circostanze mai chiarite, è stata archiviata due volte come suicidio. E ora è giunto il momento di raccontare anche questo episodio, per assurdo che possa apparire. Ecco allora che cosa è successo nei giorni tra la fine di febbraio e i primi di marzo del 2016 al legale che sta minuziosamente seguendo per la famiglia di Rossi questa vicenda, ostinandosi a non credere alla versione ufficiale.
"Il caso di David", rievoca Goracci, "era stato riaperto a novembre 2015. A febbraio mi telefona un tizio dicendomi che mi deve parlare del caso Rossi. Non vuole dare il numero di telefono, ma richiama sempre lui. Dopo un appuntamento mancato ci incontriamo nel mio studio: doveva essere l'inizio di marzo 2016. Sui quaranta, un metro e ottanta, distinto.
Dice di essere un imprenditore che lavora nel mantovano. Dice di conoscere Rossi e di farsi vivo solo ora dopo tre anni passati all'estero, perché il caso era stato riaperto". Ma quale segreto ha da rivelare? "Mi dice ", continua Goracci, "di aver fissato un incontro con David alle ore 18 del 6 marzo 2013, giorno della sua morte. Però di essere arrivato in ritardo di quasi due ore. Dice perfino di ricordare che il suo orologio, quando si trova ai Ferri di San Francesco segna dieci minuti alle otto". In quel momento David è già a terra nel vicolo. "Il mio interlocutore dice di essere arrivato proprio lì e di aver visto il corpo di Rossi. Fa per avvicinarsi, ma succede l'imprevedibile: viene assalito alle spalle da tre o quattro persone. Dopo una breve lotta si divincola e scappa, mentre sente esplodere un colpo d'arma da fuoco", ricorda l'avvocato. A questo punto Goracci gli chiede il perché di quell'appuntamento. "Ed è lì", spiega il legale della famiglia, "che lui comincia a parlare di conti correnti aperti dalla banca con l'intervento di alcuni dirigenti per i finanziamenti necessari alla sua attività imprenditoriale a Brescia e Mantova". A Mantova anche Rossi si recava spesso, visto che era vicepresidente del Centro Palazzo Te, una Fondazione culturale comunale. Nel racconto affiorano altri particolari: "Lì a Mantova, secondo il mio interlocutore, si frequentavano con cadenze quasi settimanali. E un giorno, forse verso la fine del 2012, lui si sarebbe recato con Rossi a Roma per incontrarsi con una persona che avrebbe consegnato loro una valigetta, e poi David si sarebbe fatto accompagnare all'Ospedale di Siena con quella valigetta". La storia sembra sempre più sconclusionata. Ma Goracci, dopo l'incontro, ricorda un curioso particolare riferitogli in un'occasione dal fratello di David, Ranieri. E verifica quella circostanza: un giorno del 2012 David si era effettivamente presentato in ospedale, dove il padre era ricoverato, proprio con una valigetta.
Era il 7 novembre. "La narrazione prende poi una piega strana, il tizio comincia a parlare di denaro in nero che veniva dalle fatture di operazioni immobiliari a Mantova. Pare tutto assurdo. Ci salutiamo a finisce lì. Non l'ho più visto né sentito. Ma ricordo bene che si era presentato come Antonio Muto".
Quando si pronuncia quel nome, a Mantova è automatico associarlo a quello dell'Antonio Muto processato e assolto, tanto in primo quanto in secondo grado, dall'imputazione di contiguità con le cosche mafiose che in quella zona controllano affari, politica e appalti. Oggi ha 55 anni: quando è arrivato da Cutro, nella provincia calabrese di Crotone, era appena un ragazzo che faceva il muratore. Adesso, come lo descrive la giornalista della Gazzetta di Mantova Rossella Canadè nel suo libro inchiesta "Fuoco criminale - La 'ndrangheta nelle terre del Po", è "il costruttore più noto e più chiacchierato della città". A giugno scorso è finito ancora in manette con l'accusa di aver distratto fondi dalla sua società impegnata in una grande iniziativa immobiliare nel centralissimo piazzale Mondadori, poi fallita, in favore di una seconda società creata per una gigantesca speculazione nell'area vincolata di Lagocastello. Operazione che a sua volta ha originato un'inchiesta su presunte pressioni che a dire dei magistrati sarebbero state esercitate su Consiglio di Stato e ministero dei Beni culturali per far cadere quel vincolo. E l'11 dicembre il gip di Roma dovrà decidere se mandare a processo Muto insieme ad alcuni personaggi di primo piano come l'ex senatore democristiano ed ex consigliere della Finmeccanica Franco Bonferroni, l'ex presidente della Commissione Lavori pubblici del Senato Luigi Grillo e l'ex presidente del Tar Lazio Pasquale De Lise. Ma anche l'ex sindaco forzista di Mantova Nicola Sodano, architetto di origini crotonesi che gli inquirenti ritengono cointeressato con Muto nella vicenda Lagocastello. Domanda d'obbligo: che c'entra la banca senese in una vicenda così torbida? Nelle carte dell'inchiesta sulla 'ndrangheta c'è un pentito il quale riferisce ai magistrati di aver appreso da Muto che "a Siena c'era un altissimo funzionario che sboccava i movimenti, anche se poi voleva la sua parte". Non è un pentito qualsiasi, ma il commercialista della cosca. Vero o falso che sia, è un fatto che i soldi per piazzale Mondadori, 27 milioni e mezzo, siano arrivati proprio dal gruppo Monte dei Paschi. A Siena Muto, accompagnato da Bonferroni, ha incontrato a più riprese alcuni dirigenti: una volta pure l'ex amministratore delegato Fabrizio Viola. Quanto a Rossi, anche lui è effettivamente di casa a Mantova, dove il Monte ha rilevato molti anni prima la Banca agricola mantovana. Come detto, David è stato designato nel 2011 alla vicepresidenza del Centro Palazzo Te in rappresentanza della banca senese: lo stesso giorno in cui il sindaco Sodano ne è stato nominato presidente.
Le sorprese, però, non sono finite. Quindici giorni dopo quella misteriosa visita del sedicente imprenditore mantovano all'avvocato Goracci, il giornalista Paolo Mondani che sta conducendo un'inchiesta sui grandi debitori delle banche italiane intervista per Report su Rai3 proprio Antonio Muto. E ci manca poco che l'avvocato Goracci, davanti al teleschermo, caschi dalla sedia: "Non era la stessa persona che avevo incontrato. Decisamente un altro". Qual è allora l'identità del misterioso visitatore? Forse quella di un omonimo? "Antonio Muto costruttori edili fra Mantova e Provincia saremmo una quindicina ", dice l'intervistato a Mondani. Abbiamo controllato. Di Antonio Muto iscritti al registro delle imprese ce ne sono 44, e di questi 4 operano in provincia di Mantova: due sono di Cutro, il terzo di Crotone. Quanti di loro affidati dal Monte dei Paschi?

Repubblica 6.11.17
Ostia, ballottaggio Di Pillo (5S)-Picca (FdI). Ma trionfa astensionismo: alle urne solo uno su tre
Nelle elezioni del presidente del decimo municipio, l'affluenza crolla di 20 punti rispetto alle comunali. Allagamenti e blackout in alcuni seggi. Pd fuori dai giochi, cresce CasaPound
di Valentina Lupia
qui
http://roma.repubblica.it/cronaca/2017/11/05/news/ostia_al_voto_alle_12_affluenza_del_10_89_-180292646/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P2-S1.8-T1

La Stampa 6.11.17
A Ostia due su tre non vanno alle urne
Verso il ballottaggio M5S-centrodestra
Nel feudo di Raggi i grillini costretti al secondo turno. Boom di CasaPound
di Federico Capurso

Ostia si arrende. Nel giorno del suo possibile riscatto, con il ritorno al voto dopo due anni di commissariamento per mafia, decide di non decidere: il dato dell’affluenza segna un misero 36,15%. Più di sei elettori su dieci, quindi, hanno deciso di rimanere a casa.
Quello di Ostia non è un voto locale e sarebbe sbagliato considerarlo tale. Il «mare di Roma» è un quartiere che, se diventasse autonomo, con i suoi 230 mila abitanti sarebbe la quattordicesima città italiana per popolazione. Qui, Virginia Raggi pesa per la prima volta il suo consenso nelle urne dall’elezione trionfante del giugno 2016. E la politica, tra le macerie di un territorio abbandonato a se stesso, è stata chiamata a ricostruire la propria immagine, trovando però la vittoria schiacciante dell’astensionismo.
Il crollo di affluenza è senza precedenti (circa venti punti in meno rispetto alle ultime elezioni comunali) e getta una luce fioca sui primi dati emersi dallo spoglio. Come pronosticato dai sondaggi, è quasi certo il ballottaggio tra il Movimento 5 stelle, con Giuliana Di Pillo, e la coalizione di centrodestra, con Monica Picca. Le due candidate - secondo le primissime proiezioni - si attestano entrambe intorno al 30%, con il centrodestra leggermente in vantaggio. Forza Italia - avverte Davide Bordoni, consigliere capogruppo di Fi in Campidoglio - chiederà ai suoi alleati di non fare apparentamenti politici con nessuna altra lista in vista del ballottaggio». E sulla stessa linea si muove il M5S, che continuerà a correre da solo, nonostante la posta, per i grillini, sia ben più alta. Qui, nel 2016, Raggi ottenne il 44% delle preferenze. Un risultato distante da quelle percentuali rischierebbe di inasprire il malcontento nel M5S per la gestione del Campidoglio, tra caroselli di nomine e faide interne controllate a fatica. «Il nostro nemico non sono i partiti, ma l’astensionismo», metteva in guardia - non a caso - la stessa sindaca di Roma nel corso del comizio conclusivo della campagna elettorale a Ostia, pochi giorni fa. Perché anche la sfiducia dei romani nella politica può essere un’arma da usare contro la sua amministrazione.
Fuori dai giochi, invece, il Pd guidato da Athos De Luca, che non riuscirebbe a sforare l’asticella del 15%. È evidente come sia ancora fresco, in particolar modo a Ostia, il ricordo di Mafia Capitale e la condanna a cinque anni di carcere dell’ex presidente Pd del municipio. Chi va oltre ogni aspettativa è invece il candidato dell’estrema destra di CasaPound, Luca Marsella, che secondo le prime proiezioni arriverebbe a sfiorare uno storico 10% di consensi. Radicato da anni sul territorio, tra pacchi di pasta regalati ai poveri, lotta per le case popolari e il fresco endorsement del clan Spada, una delle famiglie che si spartiscono il potere criminale sul litorale romano. E adesso, di fronte all’incognita del ballottaggio, si prepara ad essere il possibile ago della bilancia.

Corriere 6.11.17
A Ostia l’affluenza crolla di 20 punti Sfida al ballottaggio 5 Stelle-centrodestra
Nel Municipio sciolto per mafia testa a testa tra due donne. Poi il Pd, CasaPound è la quarta forza
di Valeria Costantini, Andrea Arzilli

ROMA Sarà un testa a testa tra Giuliana Di Pillo, candidata del Movimento 5 Stelle, e Monica Picca di Fratelli d’Italia per la presidenza del Municipio X di Roma. Il ballottaggio rispetta il pronostico della vigilia: si terrà il prossimo 19 novembre. Tiene il Pd con il candidato Athos De Luca, in terza posizione seppure con notevole distacco dalle prime due. Ed exploit di Luca Marsella, CasaPound, con un dato provvisorio che sfiora il dieci per cento.
In più c’è il dato politico dell’affluenza: 36,2%. Praticamente un cittadino su tre si è recato al seggio per scegliere il minisindaco del Municipio X sciolto due anni fa per mafia: un crollo di 14 punti percentuale rispetto a giugno 2016, quando l’affluenza si attestò al 51% e Virginia Raggi trionfò con il 44% delle preferenze al primo turno.
Segnali di disaffezione alla politica in un territorio contaminato dalla malavita, ma c’entra anche il maltempo che ha messo in ginocchio tutta Ostia. Strade allagate, blackout su intere porzioni del lungomare e seggi al buio con cittadini costretti a segnare la preferenza sulla scheda a lume di candela. In alcuni casi si è reso necessario l’intervento dei vigili del fuoco per assicurare il diritto al voto dei cittadini del litorale.
Disagi che hanno finito per enfatizzare lo scontro politico su una tornata che per tutti i contendenti vale tantissimo. «Grillo aveva detto: Lagos è la città modello da seguire. La Raggi esegue e ha iniziato ad allagare tutto…», il tweet d’attacco della leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni. Mentre i consiglieri M5S che hanno accompagnato la sindaca ad Auschwitz nel «viaggio della memoria» insieme a 130 studenti, hanno risposto definendosi «dispiaciuti» per la mancata partecipazione di un rappresentante del centrodestra del Campidoglio.
Un «trailer» del ballottaggio: stavolta è il centrodestra della candidata Monica Picca — di FdI ma sostenuta anche dalla Lega di Matteo Salvini: quasi un laboratorio di coalizione in prospettiva delle elezioni per il Lazio — a insidiare Giuliana di Pillo, ex collaboratrice di Raggi e candidata del Movimento che aspettava con ansia la prima verifica da forza di governo: l’esito del voto in uno tra i municipi che è stato tra i maggiori serbatoio elettorale della sindaca (nel ballottaggio contro Roberto Giachetti, 19 giugno 2016, a Ostia Raggi prese quasi il 77%) rappresenta il giudizio sull’operato della giunta grillina a quasi un anno e mezzo dall’insediamento in Campidoglio. E il calo di più di dieci punti percentuale ha le sembianze di un rimprovero.
Di sicuro per il ballottaggio sarà decisivo il serbatoio di CasaPound: nel primo turno ha sottratto voti al centrodestra cavalcando i temi sociali cari alla sinistra, ma per il 19 tira aria di endorsement per Monica Picca.

Repubblica 6.11.17
Un volume dell’università di Cambridge affronta il tema dei rapporti tra la magistratura e gli altri poteri. Spiegando come possano convivere
Se la storia assolve il processo politico
di Benedetta Tobagi

Nelson Mandela trasformò un’aula di tribunale in un campo di battaglia contro l’apartheid
Norimberga, i diritti civili, Microsoft: alcuni dibattimenti hanno dato vita a nuovi ordinamenti

«È un processo politico!». Quante volte abbiamo sentito un imputato gridarlo, per delegittimare il giudizio in cui è coinvolto? Ben prima che Berlusconi ci costruisse sopra la sua grande narrazione, era stato il bancarottiere mafioso Sindona, confortato da illustri sodali iscritti alla P2, a proclamarsi vittima di una persecuzione giudiziaria. L’argomento è stato usato in abbondanza a destra e a sinistra per delegittimare i processi su stragi e terrorismo, da piazza Fontana al “7 aprile”.
Sebbene in Italia sia diventato quasi un genere letterario, non è solo un vizio nostrano. «Tornerò se avrò un processo giusto», ha dichiarato nei giorni scorsi il secessionista catalano Puigdemont dal Belgio. Dalla colossale Tangentopoli brasiliana ai grandi casi mediatici statunitensi come quello contro O.J. Simpson, oggetto di una pluripremiata serie tv recentemente trasmessa anche in Italia, si grida al processo politico spesso e volentieri, ma il più delle volte a vanvera.
Il concetto, in realtà, andrebbe preso sul serio, e ha una storia lunga e appassionante. Basti ricordare il saggio del ’68 Strategia del processo
politico, con cui l’avvocato francese Jacques Vergès, difensore dei combattenti per l’indipendenza d’Algeria prima, di alcuni tra i più efferati dittatori africani poi, formalizzò le tecniche del cosiddetto “processo di rottura” per sabotare la “giustizia borghese” dall’interno, a partire dal modello del processo a Gesù. Ttecniche cui si sarebbero ispirate le Brigate Rosse e la banda Baader-Meinhof. Oltre le angustie dell’invettiva, poi, nel Paese in cui un intero sistema politico è collassato sotto i colpi delle inchieste per corruzione - e le “verità di Stato” vengono non di rado a coincidere con il racconto dei “pentiti” (come spiega Salvatore Lupo in un magistrale libretto sul processo Andreotti) - i nessi e le reciproche interferenze tra potere esecutivo e giudiziario sono un tema di particolare urgenza, ma ancora tutto da esplorare.
Un viatico prezioso si trova nel recente volume della Cambridge University Press, Political Trials in Theory and History, una raccolta di quindici saggi a cura degli storici Devin Pendas e Jens Meierheinrich, ad oggi la più accurata ricognizione della nozione di processo politico sia sotto il profilo teorico che storiografico, come recita il titolo. Si tratta di una cavalcata attraverso i secoli tra storia e diritto, da Socrate e Gesù Cristo al processo Microsoft, nel segno della multidisciplinarietà e di un “salutare scetticismo”, come dichiarano programmaticamente gli autori. Il merito principale del libro è quello di smarcare il concetto dalla connotazione solo negativa che ha nel discorso pubblico, adottando uno sguardo laico per capire come e perché un processo possa avere significati e implicazioni politiche, nel bene o nel male.
Anziché concentrarsi sulle giurisdizioni speciali, come il Tribunale per la difesa dello stato fascista o i famigerati processi staliniani degli anni Trenta (tema circoscritto al capitolo sui processi del Terrore postrivoluzionario in Francia), i curatori tematizzano le dimensioni politiche della giustizia in regime di stato di diritto, nel contesto di marcata “giudiziarizzazione” della politica (dalla smodata proliferazione di reati in risposta alle emergenze mediatiche all’affidamento degli standard etici per la politica alle aule dei tribunali) caratteristica del mondo contemporaneo.
Un “giusto processo” in contesti democratici e costituzionali, infatti, può essere strumentalizzato in molti modi: una consapevolezza maturata attraverso annose battaglie contro la pretesa apoliticità della giustizia (in cui nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta ebbe tanta parte Magistratura democratica) e ormai alleggerita dalle connotazioni marxiste delle origini. Particolarmente interessante, oggi, studiare i regimi democratici nella forma ma non nella sostanza, come la Russia. Una brillante analisi dell’affaire Yukos, il processo per frode fiscale del 2003 contro Khodorkovsky, illustra sia la cosiddetta telephone law, ossia la capacità del regime putiniano di influenzare gli esiti giudiziari attraverso canali informali e indiretti, sia le patologie del sistema economico postsovietico. «Tutto ciò di cui mi accusano sono normali business practice » , si difendeva l’oligarca: discorso affine allo storico atto d’accusa mosso da Craxi in Parlamento ai tempi di Mani Pulite.
Non è politico solo il processo diretto ad abbattere un avversario (quello, cioè, che i curatori definiscono un processo distruttivo), oppure a stabilizzare lo status quo. Il
lawfare - efficace neologismo in uso dal 2001 per i casi in cui si dà battaglia attraverso il diritto - ha molte facce, anche positive. Lo sapevano bene gli attivisti per i diritti civili di cui tratta il capitolo sulla storica decisione della Corte Suprema degli Usa nel caso Brown contro il ministero dell’Istruzione che nel maggio 1954 giudicò incostituzionale la segregazione razziale nelle scuole pubbliche. Si tratta, in questi casi, di processi politici didattici, in cui l’aula diventa il palcoscenico per una battaglia delle idee. Spesso grazie al talento di un accusato che riesce a cambiare di segno un processo distruttivo, come fece Nelson Mandela nel celebre processo di Rivonia del 1964: avvocato e imputato al tempo stesso, con una performance memorabile impose l’apartheid all’attenzione del mondo.
Grande interesse, infine, riveste la terza categoria individuata da Pendas e Meierheinrich, quella dei processi politici decisivi, in cui, cioè, attraverso un contenzioso specifico, si dibattono questioni che hanno significato e rilevanza molto più ampia. È stato il caso dei grandi processi contro i crimini di guerra dal 1945 in poi, Norimberga in primis. Appassionante la ricostruzione del ruolo dei sovietici nella sua preparazione, in particolare il racconto del modo in cui l’emissario di Stalin, Rudenko, si adoperò affinché nell’atto di accusa contro i nazisti – un documento con cui i protagonisti erano consapevoli di scrivere la prima storia del conflitto – fosse stemperato il peso del patto Ribbentrop- Molotov, che garantì alla Germania il non intervento dell’Urss in cambio della spartizione della Polonia.
Più di recente, è analizzato in questa chiave il processo del 1998 che vide Microsoft accusata di abuso di posizione dominante, concorrenza sleale e monopolio, in cui lo scontro tra il “monopolista canaglia” Gates e le lobby rivali ha fatto esplodere il conflitto tra politiche antitrust e ideologia del libero mercato che giace al cuore dell’economia statunitense: un ottimo esempio di come studiare in questa chiave processi celebri aiuti ad analizzare le grandi tensioni sotterranee che percorrono i nostri tempi.

Repubblica 6.11.17
Nello Rossi.
L’avvocato generale in Cassazione conferma l’allarme: “Chi pubblica i nastri custoditi in archivio viola il segreto”
“Sì, con questo decreto i cronisti rischiano di più”
intervista di Liana Milella

ROMA. «Con il nuovo decreto i giornalisti correranno più rischi ». Dice così Nello Rossi, avvocato generale in Cassazione ed ex procuratore aggiunto a Roma, confermando l’allarme di Repubblica sul rischio carcere per i cronisti che pubblicano intercettazioni “irrilevanti” finite nell’archivio riservato.
Leggendo il testo del decreto lei che ne pensa?
«Le do una risposta strettamente tecnica che prescinde da giudizi sulla complessiva validità della nuova normativa. È un fatto che l’area del segreto sulle intercettazioni si amplia e soprattutto diventa permanente».
Che significa?
«Le intercettazioni irrilevanti o inutilizzabili saranno sempre ‘coperte dal segreto’. In una prima fase varrà quello delle indagini preliminari. Poi scatterà il regime di segreto disposto dalla nuova normativa per le intercettazioni inviate nell’archivio riservato. Queste ultime non entreranno mai a far parte del fascicolo del pm, a meno che non vengano recuperate per necessità nel corso del dibattimento».
Dov’è la differenza rispetto ad oggi?
«Finora le intercettazioni erano coperte dal segreto solo fino a quando l’imputato non ne veniva a conoscenza e ‘comunque non oltre la chiusura delle indagini preliminari. Con il decreto muta il significato e la finalità del regime di segretezza. Sino ad ora posto a tutela delle indagini e oggi prolungato oltre la loro chiusura ».
Lei dice che le intercettazioni finite nell’archivio saranno segrete per sempre. Che succede al cronista che le fa uscire?
«Con l’ampliamento dell’area del segreto non rischierà più solo il cronista, che pubblicava intercettazioni a indagini ancora in corso, ma anche chi rivela e pubblica le conversazioni custodite in archivio. Il concorso del giornalista nel reato di rivelazione del segreto d’ufficio con il pubblico ufficiale diviene dunque un’ipotesi concreta, a patto naturalmente di dimostrare che ci sia stata complicità nell’acquisire e rivelare una intercettazione dell’archivio riservato».
Ma perché il giornalista rischia 3 anni di carcere e non solo 30 giorni per la pubblicazione arbitraria?
«È il risultato della diversa latitudine acquisita dal segreto, che col decreto si proietta oltre la chiusura delle indagini. Il giornalista potrebbe commettere due reati, dapprima violando il segreto e poi pubblicando l’atto destinato a rimanere nel chiuso dell’archivio ed eventualmente a essere distrutto a richiesta dell’interessato».
Ma Gentiloni e Orlando dicono che il diritto di cronaca è salvo. Ma 3 anni di carcere non sono una minaccia?
«Non si tratta di una censura alla cronaca giudiziaria, perché stiamo parlando di informazioni ritenute estranee al processo. Certo il faticoso equilibrio raggiunto nel decreto mette in conto la perdita di dati politicamente significativi e la accetta. A loro volta anche i cronisti saranno chiamati a fare delle scelte».

Repubblica 6.11.17
Bankitalia e Consob il risparmio tradito
di Massimo Giannini

DAI lavori della Commissione d’inchiesta sulle crisi bancarie emerge un quadro sconfortante per il presente delle nostre istituzioni, e inquietante per il futuro dei nostri risparmi. I partiti spargono veleni a piene mani, in vista del voto del 2018. E se i “controllati” non hanno certo esitato a usare i clienti come bancomat, i “controllori” non hanno affatto brillato per severità e tempestività. Dalle prime audizioni i responsabili della Vigilanza di Banca d’Italia e Consob escono malconci.
Troppi buchi nella rete dei controlli. E siamo solo ai due crac più recenti di Banca Popolare Vicenza e Veneto Banca. Con i disastri di Montepaschi, Etruria, Marche, Carige, dove arriveremo? Tra salvataggi pubblici, aumenti di capitale “bruciati”, aiuti interbancari, depositi in fuga, questa crisi ci è costata 60 miliardi. Meno dei 250 spesi dalla Germania. Ma pur sempre un salasso che avremmo potuto evitare. Se non ci siamo riusciti, dipende dalle troppe falle del sistema. Falle legislative, senz’altro. Ma anche falle operative. Che chiamano in causa Ignazio Visco appena riconfermato, e Giuseppe Vegas in scadenza di mandato.
Renzi ha sbagliato a incontrare Casini alla Regione Toscana, “privatizzando” un organismo pubblico. Ma soprattutto ha sbagliato i tempi e i modi del suo assalto a Palazzo Koch. Un banchiere centrale non si sfiducia con una mozione. Meno che mai da parte di un ex premier che in quasi tre anni ha gestito male la riforma delle popolari e il decreto sul “bail in”, e ha avuto a disposizione tutti gli strumenti per inchiodare alle sue responsabilità la Banca d’Italia (dalla “moral suasion” al Cicr). E il Pd renziano, impegnato in un goffo inseguimento dei Torquemada pentastellati, sta sbagliando ancora a trasformare la commissione parlamentare in un tribunale del popolo.
Ma premesso questo, non si possono non vedere le gravi incongruenze nell’azione delle due Authority sulle banche venete. Il capo della Vigilanza di Banca d’Italia, Carmelo Barbagallo, ha ammesso che gli ispettori già nel 2001 e poi nel 2008 avevano rilevato anomalie nella sopravvalutazione del prezzo delle azioni di Veneto Banca e Popolare di Vicenza. Ma in quattordici anni nulla è accaduto. Le due banche hanno continuato a lanciare aumenti di capitale, e i soci ignari a sottoscriverli, rimettendoci 11 miliardi. Chi doveva intervenire, e non l’ha fatto?
Le risposte del direttore generale della Consob Angelo Apponi sono allarmanti: «Il fatto che Banca d’Italia andasse in ispezione non significa che ribaltasse le informazioni su di noi. Nel 2013 riceviamo un’indicazione in cui si dice che stanno offrendo azioni. Un prezzo troppo alto, che potrebbe compromettere il buon esito del collocamento. Non c’è scritto che il prezzo è fatto secondo procedure più o meno arbitrarie. Questo lo abbiamo saputo solo andando noi in ispezione... Non mi risultano comunicazioni... noi non riceviamo i verbali ispettivi di Bankitalia...». La “traduzione” dell’ex viceministro Enrico Zanetti è folgorante: «Lei ci sta dicendo che ciò che Bankitalia sapeva dal 2001 la Consob l’ha scoperto nel 2015, quando i buoi non solo erano scappati ma erano morti di vecchiaia?».
Meglio di così non si poteva dire. Ma peggio di come ha fatto Apponi non si poteva replicare: «Certo che qualcosa non ha funzionato nella collaborazione tra le due vigilanze. Abbiamo due culture diverse, Bankitalia difende la riservatezza, noi la trasparenza...». Resta da chiedersi chi difende i risparmiatori. E anche cosa succederà, quando si apriranno gli altri dossier. Etruria, per esempio. Avranno davvero l’impudenza di non convocare Maria Elena Boschi, figlia di papà Pierluigi ex vicepresidente indagato per bancarotta? Proveranno davvero a non audire Federico Ghizzoni, contattato — secondo il libro di Ferruccio de Bortoli — dalla stessa Boschi per far comprare la banca paterna da Unicredit?
E poi Mps. Sarà convocato Mario Draghi, come ha annunciato Luigi Di Maio? E da governatore dell’epoca gli sarà chiesto conto dell’indiscrezione di Bloomberg, secondo la quale Bankitalia sapeva già dal settembre 2010 che la banca di Siena allora guidata da Mussari e Vigni trafficava in derivati con Deutsche Bank per occultare i 370 milioni di perdite dell’affare Santorini? Ed è vero che aspettò solo il 2012 per sollecitare l’inchiesta della Procura? Anche questa è “cultura della riservatezza”? O “spirito di sistema”, che anima sempre i nostri organi di garanzia?
Visco, alla Giornata mondiale del risparmio, ha fornito un dato che fa riflettere: il tasso di risparmio delle famiglie italiane è crollato dal 19 all’8,6 per cento. Forse non è solo colpa della Grande Recessione. «Del nostro operato — ha poi concluso — non esitiamo a dare conto alle istituzioni e al Paese... ». Nessuno dubita della sua onestà e della sua buona fede, ma è esattamente questo che ci si aspetta dal governatore. E se è vero che la politica delinque a trattare la Banca d’Italia come fosse la Rai, è altrettanto vero che la Banca d’Italia si deve meritare ogni giorno il prestigio e il rispetto che gli è dovuto. Anatre zoppe, in via Nazionale o in Consob, sono un lusso che non ci possiamo permettere.

La Stampa 6.11.17
E la Cina sogna il sorpasso all’America
di Bill Emmott

Il Presidente degli Stati Uniti sta per arrivare in Cina proprio nel mezzo della visita più lunga in Asia di un Presidente americano negli ultimi 25 anni: in tempi normali sarebbe una dimostrazione di forza.
Ma quando mercoledì Donald Trump arriverà a Pechino dopo le tappe in Giappone e Corea del Sud, la sensazione dominante sarà di debolezza. Pochi funzionari e osservatori potranno evitare di pensare che nel giro di pochi anni il presidente cinese Xi Jinping potrebbe sottrarre agli Usa la leadership globale.
Sarebbe prematuro crederlo, ma non necessariamente infondato. Per quasi un millennio gli imperatori cinesi si sono aspettati che i capi di Stato stranieri in visita rendessero loro omaggio, portando doni e onorandoli. Il presidente Trump forse non se ne rende conto, ma sta per fare qualcosa di simile. Chiederà l’aiuto della Cina per trattare con la Corea del Nord, il Paese che negli ultimi tempi sta minacciando gli Usa con missili nucleari a lunga gittata, e si attende l’annuncio di qualche accordo commerciale che agli occhi dei cinesi rappresenterà il prezzo da pagare per questo aiuto.
Il predecessore di Donald Trump, Barack Obama, in Asia perseguiva una politica che aveva due linee guida: un grande progetto di scambi commerciali e di investimenti con 11 Paesi dell’area asiatica e pacifica, il Partenariato Trans-Pacifico (Trans-Pacific Partnership), che escludeva la Cina con l’intento di permettere agli Stati Uniti di stabilire le regole del gioco e il «pivot to Asia» che prevedeva il rafforzamento del sostegno militare nella regione in funzione di contrasto ai tentativi della Cina di controllare il Mar Cinese Meridionale costruendo atolli artificiali e basi in acque internazionali.
Appena diventato presidente Trump ha stracciato l’accordo per il Partenariato Trans-Pacifico. Anche la sua avversaria, Hillary Clinton, durante la campagna elettorale sosteneva di non volerlo, ma si supponeva che avrebbe cambiato idea una volta arrivata alla Casa Bianca, proprio come suo marito, Bill Clinton aveva fatto nel 1993 per l’Accordo nordamericano per il libero scambio (North American Free Trade Agreement). L’amministrazione Trump, invece, ha preso a minacciare la Cina di imporre tariffe e misure protezionistiche sull’acciaio e altri prodotti di esportazione, ma fin qui non ha fatto nulla.
Nel campo della difesa e della sicurezza gli Stati Uniti hanno in sostanza ignorato qualunque altra problematica, compresa l’espansione territoriale della Cina, per concentrarsi sulla Corea del Nord, che Trump nei suoi discorsi e nei suoi tweet ha minacciato di «totale distruzione», accusandone il leader, Kim Jong-un, di aver intrapreso una «missione suicida». Un modo, nella sua ottica, per dimostrare la forza e la determinazione dell’America dopo anni di fallimenti e manifestazioni di debolezza.
Il problema è che, a meno che non sia pronto a invadere la Corea del Nord, Trump rischia di rendere evidente la sua impotenza, ovvero, per usare una definizione in voga nella Cina maoista degli Anni 50, di essere una «tigre di carta». Il capo degli stati maggiori riuniti, il contrammiraglio Michael Dumont, in una lettera indirizzata a un parlamentare statunitense divulgata ieri, ha affermato che un’invasione via terra sarebbe l’unico modo per localizzare e annientare l’arsenale nucleare di Pyongyang e che una tale opzione implicherebbe un numero incalcolabile di vittime.
Per questi motivi è sensato che gli Stati Uniti rafforzino la loro alleanza con il Giappone e la Corea del Sud, come ha fatto Trump visitando per primi questi Paesi nel suo tour asiatico di 11 giorni. Ma, a meno che non riesca a persuadere la Cina a fare qualcosa di concreto, o per via economica o per via militare, non si vedono possibili progressi nella soluzione del problema nordcoreano. E nel frattempo Kim Jong-un potrebbe anche cercare una prova di forza, tirando fuori nuovi missili e magari conducendo qualche nuovo test nucleare durante la permanenza di Trump in Asia.
Insomma, il Presidente degli Stati Uniti nella migliore delle ipotesi apparirà impotente e nella peggiore un accattone. C’è anche la possibilità che mentre si trova in uno dei cinque Paesi dove ha in programma di fare tappa, in patria, a Washington, Dc, Robert Mueller, il procuratore speciale che sta indagando sulle possibili collusioni con la Russia durante la sua campagna elettorale per influenzare l’esito del voto, annunci nuovi arresti e faccia trapelare nuove informazioni. E se così sarà, il viaggio del Presidente assomiglierà sempre di meno alla trionfale ostentazione di potere dei suoi desideri e sempre di più a un giro di saluti di congedo.
Certo, è prematuro ipotizzare che il presidente Trump possa essere esautorato dall’ex direttore dell’Fbi Mueller, così come lo è dire che la Cina sta per aggiudicarsi la leadership globale. Ma in quest’ultimo caso è corretto affermare che la debolezza degli Stati Uniti rappresenta una grande opportunità in questo senso. La Cina ha l’occasione di rafforzare le sue relazioni nella regione e, mentre l’America è distratta, di accrescere la dipendenza degli altri Paesi asiatici in tema di commerci, aiuti, investimenti e sicurezza.
La Cina ha già avviato la sua grande opera strategica, la «Nuova via della Seta», con enormi investimenti in infrastrutture e agevolazioni commerciali, passando dall’Asia all’Europa attraverso l’Asia Centrale. E’ un’ambizione simbolica, ricreare la Via della Seta che nel Medioevo collegava l’Italia e le altre città europee con Pechino. Ma è anche un’ambizione politica, creare legami di dipendenza dalla Cina, imponendo la sua autorità e la sua influenza in tutta la regione.
Cioè quello che un tempo faceva l’America. La visita di Trump conferma che quei tempi sono tramontati, anche se il momento della Cina è ancora di là da venire.
Traduzione di Carla Reschia

La Stampa 6.11.17
Don Giovanni non è più quello di una volta
Da Tirso de Molina a Mozart, da Molière a Marinetti in un’antologia il mistero del Grande Seduttore Così diverso dai molestatori seriali di questi giorni
di Elena Loewenthal

Il momento è più delicato che mai, per sollevare l’argomento. Ma proprio per questo non si può negare che capiti a proposito. Di questi giorni fare il nome di Don Giovanni evoca all’istante orchi panciuti e potenti dello star system affetti da irrefrenabili esuberi ormonali. Ma tra l’eroe mozartiano (e non solo!), conquistatore di femmine per antonomasia, e la pletora di molestatori seriali di cui ultimamente si sono riempite le pagine dei giornali corre una enorme distanza. Se non altro perché uno è un eroe, e l’altro no.
In questo gioco di affinità (pochissime) e contrasti (molti) è decisamente puntuale la ricca antologia Sulle orme di Don Giovanni che Guido Davico Bonino ha curato per Nino Aragno Editore: quasi 500 pagine per un viaggio vario e appassionante nella figura del maschio più impenitente di tutti, da Tirso de Molina (1579-1648) a Odon von Horvath (1901-1936), attraverso libretti d’opera, commedie, elegie, racconti, ritratti, echi. «Com’è possibile definire Don Giovanni, un personaggio di pura invenzione, che nonostante ciò ha affascinato drammaturghi, librettisti, narratori dal Seicento al Duemila, per circa quattro secoli?», si domanda la Premessa dello studioso. E davvero gli ingredienti di questo enigma tutto letterario sono tanti, almeno quante le diverse risposte che affiorano dalle pagine. Chi, cos’è Don Giovanni? Un «ribelle», «profano dell’esistenza… come non sopporta di sentirsi vincolato da un’affettività reciproca ed esclusiva, così non tollera di doversi mostrare rispettoso verso un’Entità superiore», e diventa scandaloso.
Personaggio complesso
Ma forse lo scandalo vero di Don Giovanni è la sua complessità, così come l’hanno dipinta in tantissimi - dall’indimenticabile libretto di Lorenzo Da Ponte per Mozart a Baudelaire, da Goldoni a Balzac, da Dumas a Puskin a Flaubert, da Molière a Byron, per arrivare a Rilke, Pirandello e Marinetti con il suo (attuale? Eccome!) prontuario del 1917 Come si seducono le donne: «Eccellente terreno di conversazione per un uomo ardito e intuitivo è l’elogio sfacciato, senza mezzi termini, del corpo della donna e della sua eleganza». Una complessità così diversa da quella dello sciupafemmine di oggi, che sia un calciatore o un produttore cinematografico. Una complessità che evoca simpatia e orrore, che spiazza perché non la capisci mai fino in fondo. E che in fondo, ma che la cosa resti tra noi donne, incuriosisce.
Il vasto repertorio di testi, che appartengono a mondi, lingue ed epoche diverse, tiene fede soprattutto a queste mirabile varietà, cioè alla complessità di Don Giovanni. Anche alle sue contraddizioni, di cui forse la più stridente sta proprio nel confronto fra lo spensierato «Madamina, il catalogo è questo» e lo spettro del Convitato di Pietra. Resta, su tutto, il mistero di che cosa abbia in testa e nel cuore quest’uomo, resta il dubbio che sia più quello che tace di quello che dice, più quello che vorrebbe fare di quello che fa. Ma alla fin fine dietro il dubbio se ne insinua un altro, che è quasi una certezza: forse il vero mistero non è lui, Don Giovanni, ma quello che egli ha inseguito invano per tutta la vita, di opera in sonetto, di racconto in elegia, senza mai capire. Come dice la Bibbia: «Tre cose io trovo mirabili, anzi quattro, che mai conoscerò: la via dell’aquila addentro il cielo, la via del serpente sopra la rupe, la via della nave nel cuore del mare, la via di un uomo in corpo di donna».
Perché il vero Don Giovanni, e cioè quello della letteratura e non la sua squallida riproduzione nella realtà di Hollywood, è in bilico tra la lussuria e la tragedia. Seduce le donne ma subisce la vendetta del destino - o punizione del cielo a che dir si voglia. È gaudente ma dannato. Proprio come quel Casanova che compare anch’egli in questa antologia, da sé stesso immortalato mentre si svergina sedicenne sverginando dolcemente eppure fermamente due sedicenni.
Creatura inafferrabile
Perché nella storia di Don Giovanni c’è il Grande Seduttore ma ci sono anche tanti altri protagonisti: le donne sedotte, quelle gelose, quelle (poche) che non cedono. I servitori e le spalle. Il Convitato di Pietra che sigla la condanna. C’è la fame insaziabile ma anche lo scherno, la sfida alle convenzioni ma anche ai sentimenti propri e altrui: «D’irato amante i giuramenti audaci Giove non ode, e van dispersi al vento. Nei miei vezzi confido. Armi sono queste rade volte infelici». C’è che Don Giovanni ti chiama inevitabilmente in gioco: se sei uomo perché prendi le misure della distanza che ti separa da lui. Se sei donna perché ti domandi quali armi avresti sfoderato per resistergli. Se mai…
Perché il vero Don Giovanni, quello cioè della letteratura, sa fin dall’inizio di andare incontro alla disfatta, «salendo a lenti passi lo scalone del palazzo» nel libretto mozartiano. È una creatura inafferrabile che non cogli mai del tutto, come ben evidenzia la varietà di tratti nell’antologia. Ad esempio: cosa pensa veramente delle donne? Gli piacciono davvero o sono soltanto lo strumento per dire di sì alla propria autostima, al proprio orgoglio, agli impulsi? «Il piacere massimo che infatti provo è d’ingannare una donna e lasciarla senza onore», gli fa dire Tirso de Molina. «Signor nacqui di carne, non di ferro o di sasso. Amo donna, egli è vero; e perché cavagliero lorica al petto porta, e stocco al fianco? Ciò di fare ei sol brama, per la Fe’, per la Patria, e per la Dama», fa eco il Don Giovanni di Giovan Battista Andreini (1576-1654). E ancora: gli piacciono proprio tutte, come a Liolà di Pirandello, o soltanto quelle belle? Quando si avvicina a una donna, Don Giovanni la giudica anche? In sostanza, è un amante o soltanto un seduttore? Non lo sapremo mai, a meno che non ci capiti o ci sia capitato di trovarsi fra le sue braccia.

Repubblica 6.11.17
Il lato oscuro di Hollywood
di Paolo Di Paolo

«E QUANDO mi svegliai, lui era già tra le lenzuola, con una mano sulla mia bocca e l’altra che vagava un po’ dappertutto». Un’altra testimonianza sul caso Weinstein? No, il brano di un romanzo pubblicato esattamente trent’anni fa. Era il 1987: negli Stati Uniti (e anche da noi) usciva — postumo e incompiuto — un libro intitolato Preghiere esaudite. L’autore, Truman Capote, fra i talenti più straordinari della sua generazione, ci aveva lavorato, a più riprese, per decenni: una commedia nera dal vero. Il ritratto, fin troppo ravvicinato, della bella gente di Hollywood e di New York, «che poi tanto bella non è». Provate a sfogliarlo. Il copione di queste ore è già tutto lì. Capote descrive i “mostri” del jet set: li ha frequentati per anni, li conosce benissimo, è stato al centro di quel pianeta privilegiato. Ne conosce i difetti, le ombre, una per una. E le racconta con una spietatezza che — quando i primi capitoli vennero diffusi su rivista — pagò carissima. Stava svuotando il suo vaso di Pandora, e fu perciò letteralmente emarginato.
La forza di questo libro ansioso e maligno sta nell’ambiguità che riesce a restituire. Nessun rapporto umano è semplice, dice Capote, nessuno; e può dirlo perché è uno scrittore, perché la libertà più autentica del romanzo è quella che permette di sottrarsi a ogni semplificazione. Se entra a capofitto nello squallore, non è per giudicarlo, anche quando così sembra, ma per provare a capirlo; per farsi fino in fondo tutte le domande. C’è il vecchio sessuomane e c’è la donna che se lo ritrova nel letto. C’è l’arrivista con sangue freddo di lucertola, al maschile e al femminile. C’è il potente che armeggia con la patta e c’è la sua vittima. C’è l’arrampicatore sociale intelligentissimo e corazzato di cinismo, c’è quello che a tanto cinismo non resiste e molla tutto. Massaggiatori più o meno improvvisati, e pesci-pilota che sanno come sfruttare la propria bellezza, e «ragazze arrivate parecchio in alto», di cui tutti pensano male. Il quadro non è tanto diverso, se ridotto all’osso, da ciò che mostra dell’umanità un romanzo di Balzac pescato a caso. Segno che l’umanità non cambia tanto facilmente. Non cambia mai.
Non dico che rileggere Preghiere
esaudite nei giorni di questa valanga mediatica risulti illuminante. Però può offrire qualche spunto utile a guardare con più lucidità alla «gigantesca soap opera» quotidiana fatta di accuse, talvolta di illazioni, di difese goffe e il più delle volte inaccettabili.
Quando Lea Melandri, una grande protagonista del movimento delle donne, invitava — in un’intervista a Simonetta Fiori pubblicata qualche giorno fa su questo giornale — a riflettere «sulla complessità e sull’ambiguità del rapporto tra uomini e donne», non ha certo sminuito la gravità delle accuse. Nel «terreno delicatissimo» in cui ogni obiezione può essere scambiata per complicità con l’orco, evitare le semplificazioni è tutt’altro che semplice. Non a caso, Melandri usa appunto due termini precisi: complessità e ambiguità.
Ecco: della relazione fra uomini e donne, o fra umani in generale, «relazione che intreccia perversamente vita privata, violenza e potere » (ancora parole di Melandri), le pagine di Capote offrono un’immagine impressionante. Uno sguardo moralista la definirebbe desolante. Uno sguardo lucido la definisce crudamente realistica. Tanto più se lo scrittore americano si avventura in una riflessione su come funzionano i rapporti umani quando «il primo interesse è l’uso che puoi farne». Il principio dello sfruttamento reciproco («sesso, protezione, appagamento dell’ego») — sostiene Capote — «è banale, è umano». Poi aggiunge: «Tra questo e l’autentico “utilizzo” di un’altra persona c’è la stessa differenza che passa tra i funghi commestibili e quelli che uccidono». Il ragionamento sibillino complica la prospettiva, e questo è comunque un bene. Perché avvelenare tutti i funghi — in una voyeuristica e penosa confusione “social” — non serve a nessuno. Tanto meno alle vittime degli abusi di potere, delle molestie sessuali, di qualunque schifosa e ingiustificabile prepotenza, il più delle volte dovuta a mano maschile. Vale per Hollywood, e vale per indirizzi infinitamente meno scintillanti. Dove ogni giorno si consumano violenze pesantissime su chi non presume di avere voce per denunciarle. E spesso, nemmeno fa in tempo.

Il Sole 6.11.17
Timeout. Le pause della discordia
Quelle 11 ore di riposo che tolgono il sonno a medici e infermieri
di Gianni Trovati

Giusto due anni fa, a novembre del 2015, la questione infiammò il mondo della sanità, con agitazioni e scioperi di medici e infermieri. Il tentativo di risolverla è stato fatto all’italiana, a suon di deroghe e di tolleranza di situazione fuori regola. Ma ora il problema torna sui tavoli con il rinnovo dei contratti degli statali, e promette scintille.
Stiamo parlando del cosiddetto «orario europeo», che impone ai datori di lavoro di garantire almeno 11 ore di riposo fra un turno e l’altro. Un diritto ovvio, che però in molti settori fa saltare il banco: a partire dalla sanità.
Il problema è semplice. Per essere lucidi e lavorare bene, fra un turno e l’altro bisogna andare a casa, mangiare qualcosa e farsi una bella dormita. Gli orari, quindi, devono lasciare libere da impegni le persone per almeno 11 ore. Senza interruzioni.
Ma proprio sul carattere continuativo del riposo obbligatorio casca l’asino. O meglio, soprattutto negli ospedali, cade la possibilità di comporre davvero il tabellone dei turni coprendo tutte le caselle necessarie a garantire il servizio sulle 24 ore. Dopo anni di vincoli al turn over che hanno limitato i nuovi ingressi, la coperta è corta. E la deroga vince sulla regola.
Il compito di trovare la quadra toccherebbe ai nuovi contratti; la trattativa entrerà nel vivo già mercoledì, quando sono stati convocati i primi tavoli dopo la pausa che ha accompagnato l’attesa dei finanziamenti in manovra, ma c’è un problema. L’Aran, l’agenzia negoziale che rappresenta la Pubblica amministrazione nella sua qualità di datore di lavoro, ha il compito ingrato di pensare le regole più raffinate nel tentativo di mettere insieme l’obbligo di garantire il riposo e quello di assicurare il servizio. Ma, ribattono i medici, gli infermieri e i loro sindacati, non c’è regola che tenga: i due obiettivi si raggiungono solo allargando gli organici.
Tornando sul pratico, in effetti, l’esperienza di questi due anni offre un menu ricco di stratagemmi più che di applicazione effettiva della regola: interpretazioni cavillose che distinguono la «pronta responsabilità» dal turno anche quando la reperibilità porta a una chiamata al lavoro, rispetto dei turni a macchia di leopardo e, soprattutto, orari di lavoro che finiscono per rompere la griglia degli obblighi senza che i controllori mettano bocca, ben sapendo che le 11 ore farebbero saltare il banco. A mettere in fila i tanti slalom fra le regole è stata qualche mese fa la Federazione italiana delle aziende sanitarie e ospedaliere (Fiaso), che con il Cergas, il centro di ricerca della Bocconi sulla sanità, è andata a guardare che cosa succede negli ospedali italiani. Nel 55% dei casi le undici ore di riposo consecutivo restano una bella idea, confinata nell’utopia, e dove si è provato a tradurla in pratica sono state tagliate soprattutto le ore di formazione. Il rapporto mostra anche l’altra faccia della medaglia: queste interpretazioni creative e flessibili degli obblighi hanno evitato il crollo del sistema, confinando in uno-due casi su cento le ricadute in termini di tagli significativi dei servizi o allungamento sensibile nei tempi d’attesa.
L’equilibrio però rimane precario e il tema si candida a diventare una presenza ingombrante nelle stanze del confronto sui contratti. Con due aggravanti: i soldi, e il tempo.
Sul primo aspetto, i conti sono relativamente facili. L’obbligo di garantire gli 85 euro lordi agli oltre 600mila dipendenti del comparto assorbe gran parte dell’aumento nominale da un miliardo già previsto per il fondo sanitario, tema che sta già scaldando il confronto fra governo e regioni all’interno di una legge di bilancio che non lascia grandi spazi aggiuntivi. E il calendario è stretto. Sia la politica sia i sindacati ambiscono a chiudere l’accordo entro fine anno, per portare gli aumenti nelle buste paga in tempo per una primavera che si annuncia ricca di elezioni: quelle per il Parlamento, ovviamente, ma anche quelle chiamate a rinnovare le rappresentanze sindacali negli uffici pubblici. Arrivare a quell’appuntamento con gli stipendi già spinti dai rinnovi contrattuali aiuterebbe tutti.
Il contesto, insomma, è quello che è, e spinge verso una risposta rapida a un problema complesso, rimasto appeso per oltre tre anni visto che le regole entrate in vigore nell’autunno di due anni fa sono scritte nella legge 161 dell’ottobre 2014. Il rischio, quindi, è l’ennesima soluzione di compromesso, che scarica il problema sulle spalle delle singole strutture: con tanti saluti al diritto al riposo di medici e infermieri, e al diritto dei pazienti di essere curati da persone in forma.