domenica 5 novembre 2017

Corriere 5.11.17
Il corpo di Lenin, che fare?
«È arrivata l’ora di seppellirlo»
A 100 anni dalla Rivoluzione, si infiamma il dibattito. Guidato dalla sfidante di Putin
L’anniversario
Lenin morì il 21 gennaio 1924. Il patologo Alexei Ivanovich Abrikosov fu incaricato subito dopo di imbalsamarlo
Il corpo è conservato nel mausoleo sulla Piazza Rossa, a 2 metri di profondità. C’è pochissima luce, la teca è di cristallo
di Paolo Valentino

Alla vigilia del centesimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, il destino della mummia di Lenin torna a tormentare i russi. E tutto avrebbe immaginato il padre dell’Unione Sovietica, tranne che il quesito di una delle sue opere più celebri avrebbe finito per riguardare se stesso: che fare?
Reso eterno dall’imbalsamazione, disteso dentro una teca di cristallo, traslucente a due metri di profondità nella cavità fredda del Mausoleo sulla Piazza Rossa, il corpo di Vladimir Ilich incarna tutte le contraddizioni, i nodi irrisolti e le fragilità della Russia post-sovietica. Fondatore dello Stato moderno e padre del totalitarismo, reliquia della Superpotenza socialista cara all’auto-percezione russa e simbolo di un passato che non passa, Lenin è nuovamente al centro di un dibattito emotivo e lacerante.
A riaccendere la miccia di una polemica mai veramente sopita, è stata Ksenia Sobchak, già it-girl , stella dei reality show, blogger e ora candidata alle elezioni presidenziali del marzo prossimo. «Se fossi eletta — ha detto in un’intervista televisiva — ordinerei di rimuovere la mummia di Lenin dal Mausoleo e di seppellirla». Di passata, nella presa di posizione è interessante notare una coerenza familiare, per così dire: nel 1990, in piena perestrojka, fu infatti il padre di Xenia, Anatoly Alexandrovich Sobchak, allora sindaco dell’appena ribattezzata San Pietroburgo, a proporre la rimozione e l’inumazione del leader bolscevico, nel rispetto, spiegò al tempo Sobchak padre, delle sue ultime volontà.
Tant’è. L’uscita della signora ha avuto l’effetto di una deflagrazione. Giovedì scorso, perfino il leader ceceno, Ramzan Kadyrov, non esattamente un cultore della storia o una tempra di democratico voglioso di chiudere col passato comunista, ha detto che «è giunto il tempo» di seppellire il corpo di Lenin, invitando il presidente Putin a chiudere l’annosa questione. «E’ sbagliato che nel cuore della Russia, sulla Piazza Rossa, ci sia un sarcofago con un cadavere». E in verità, Kadyrov in genere i morti, di preferenza gli oppositori, tende a farli sparire.
Mikhail Fyodotov, capo del Consiglio per i Diritti Umani, ha addirittura proposto di trasformare il Mausoleo in un museo dove si racconta la tecnica dell’imbalsamazione, nella quale i russi sono all’avanguardia nel mondo. Una specie di Museo egizio del Cairo in versione moscovita: lì Tutankhamon, qui Lenin.
Per Valentina Matvijenko, presidente del Consiglio della Federazione, dovrebbe essere un referendum popolare a decidere se rimuovere o meno la mummia. Ma non subito, poiché c’è ancora «un’intera generazione di russi per i quali Lenin ha un grandissimo significato».
«Blasfemia», tuona il leader del Partito comunista, Gennady Zyuganov, il quale definisce «inaccettabile» che il tema venga riproposto alla vigilia dei cento anni dell’Ottobre Rosso. Zyuganov aggiunge anche di aver avuto assicurazione da Vladimir Putin in persona che fin quando lui sarà presidente anche Lenin rimarrà nel Mausoleo: «Con me in questo ufficio — sarebbero state le parole di Putin, secondo la versione di Zyuganov — non ci sarà barbarie sulla Piazza Rossa».
Sul piano ufficiale, tuttavia, il leader russo non si esprime: «Il tema non è all’agenda dell’Amministrazione presidenziale», si limita dire il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peshkov. Coerente con il profilo basso assunto nei confronti del centenario, che evoca una palingenesi rivoluzionaria non gradita a un potere che punta su ordine e obbedienza, Putin si guarda bene dal prendere pubblicamente posizione sulla mummia di Lenin. Sa che il tema rimane controverso. Sa che con la salma di Vladimir Ilich, egli rimuoverebbe dalla Piazza Rossa anche il fondatore della Russia moderna. Non ultimo, in cuor suo forse gli sta bene così. Non è stato lui a dire, non senza ragioni, che «la scomparsa dell’Unione Sovietica è stata la più grande catastrofe geopolitica del Ventesimo Secolo»?

La Stampa 5.11.17
Grasso candidato premier di Mdp
L’annuncio in assemblea il 2 dicembre
La data scelta per aspettare il passaggio della manovra in Senato
di Francesca Schianchi

C’è una data cerchiata in rosso nel calendario dei vertici di Mdp: sabato 2 dicembre. E’ per quel giorno che stanno organizzando una grande assemblea, in comune con Sinistra italiana e Possibile. Il lancio della lista che si presenterà alle politiche in primavera, ufficializzando il simbolo e il nome del leader e candidato premier: Pietro Grasso.
Per rispetto del suo ruolo istituzionale, il presidente del Senato continua a tacere. All’indomani dell’uscita dal gruppo del Pd ha rilasciato dichiarazioni di grave critica nei confronti del partito che lo ha portato in Parlamento, ma ha evitato di dare indicazioni sul suo futuro da «ragazzo di sinistra». Ma nelle file degli scissionisti dem, dopo la delusione di Giuliano Pisapia - inseguito per mesi come «leader federatore» prima di rassegnarsi a separare le strade - oggi sono molto fiduciosi che il corteggiamento all’ex magistrato porti i suoi frutti. Una figura solida, in ottimi rapporti con Bersani che lo portò in Parlamento e lo propose come seconda carica dello Stato, «una personalità straordinaria – lo elogia Arturo Scotto – che con le sue dimissioni ha fatto un gesto che vale più di mille convegni». Convinti che questa volta il matrimonio si farà, ma consapevoli della necessità di rispettare il suo ruolo nelle istituzioni: per questo si è individuata la data dei primi di dicembre, ancora un mese di tempo per consentirgli di guidare l’Aula del Senato nella discussione della manovra, e aspettare, prima di trascinarlo nella lotta politica, che la legge passi alla Camera.
Nel frattempo, il cronoprogramma di Mdp prevede tappe di avvicinamento alla data clou. Dopodomani è prevista una Direzione nazionale, in cui il coordinatore Speranza sottoporrà una bozza di programma da diffondere ai livelli locali, su cui si tireranno le somme domenica 19 in Assemblea nazionale. Parallelamente proseguono colloqui con le forze più vicine, a cominciare da Sinistra italiana e Possibile, per arrivare a una lista comune. Delegati di ogni partito potrebbero essere eletti il 26, per poi arrivare all’assemblea costituente della lista il 2 dicembre. Vendola ha già benedetto la leadership di Grasso, «il nostro programma politico vivente», Fratoianni lo ha definito «un valore aggiunto»: chi invece si è espresso in modo critico, e probabilmente sarà fuori dal percorso, sono Falcone e Montanari, i due leader dei cosiddetti “autoconvocati del Brancaccio”. Nel Mdp sanno bene che importante per gli sviluppi futuri è anche il risultato che farà oggi Claudio Fava in Sicilia, la prima volta del movimento alle urne. E quello che succederà nel Pd dopo il voto nell’isola. Ma considerano la strada tracciata.

il manifesto 5.11.17
Migliaia di migranti in arrivo, decine di morti
Mediterraneo. Il numero crescente di sbarchi e tragedie smentisce il ministero degli interni. E la guerra alle ong impedisce soccorsi rapidi ed efficaci. Partono da Tunisia e Algeria ma anche dalla Libia, Stato fallito con cui Roma ha stretto accordi
di Adriana Pollice

Con il saluto d’onore degli ufficiali di bordo, ieri mattina sono sbarcate sul molo del porto di Reggio Calabria le salme di 5 donne e 3 uomini, tutti annegati. Erano sulla nave Diciotti della Guardia costiera e facevano parte del gruppo di migranti recuperati venerdì, in diverse operazioni, al largo delle coste libiche.
Ce l’hanno fatta  a salvarsi in 765, tra i quali 112 minori (63 non accompagnati). Dal gruppo erano già stati prelevati con l’elicottero 14 ustionati gravi per contatto con il carburante dello scafo su cui erano stipati, tre talassemici e una bambina con dolori al petto.
Dopo le operazioni di rito, partiranno per i centri di accoglienza di undici regioni. Arrivano da 27 stati differenti, sparsi tra Asia e Africa, dal Pakistan al Nepal, dalla Somalia al Libano. Venerdì la nave militare spagnola Cantabria aveva incrociato al largo della Libia un gommone affondato con 64 sopravvissuti e 23 annegati.
Ieri il papa, in un discorso alle università cattoliche, si è augurato per il futuro una classe dirigente aperta ad accogliere: «Vorrei invitare gli atenei a educare i propri studenti, alcuni dei quali saranno leader politici, imprenditori e artefici di cultura, a una lettura attenta del fenomeno migratorio in una prospettiva di giustizia, di corresponsabilità globale e di comunione nella diversità culturale».
Sono stati 2mila i migranti soccorsi nel Mediterraneo tra lunedì e venerdì. Il ministro degli interni Marco Minniti, lo scorso week end alla conferenza programmatica del Pd, aveva vantato i risultati della sua politica in tema di blocco degli sbarchi: «Gli arrivi in Italia sono diminuiti del 30% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso e ci sono stati 8.500 rimpatri volontari assistiti».
Gli accordi con la Libia (incluse le milizie attive sul territorio) prevedono il blocco delle partenze e il contenimento dei flussi nei centri di detenzione locali (in condizioni terribili), in cambio di mezzi navali, addestramento, sostegno economico. Evidentemente il meccanismo si è rotto.
Questa settimana, infatti, la marina libica ha recuperato in diverse operazioni 900 migranti, tra questi anche sette cadaveri, al largo delle proprie coste ma le motovedette, invece di riportarli a terra, li hanno imbarcati su mezzi militari europei verso l’Italia.
La politica messa in campo da Minniti con le Ong non ha certo migliorato le cose. Il numero di soccorritori è drasticamente diminuito rendendo le operazioni più insicure.
Mercoledì la nave Aquarius di Sos Méditerranée ha dovuto sostenere quattro interventi in 18 ore, 588 naufraghi salvati: «Abbiamo soccorso un gommone con 108 persone a bordo e ci siamo preparati a soccorrere un secondo gommone. Prima che la nostra lancia arrivasse sulla scena, l’imbarcazione si è rotta e le persone hanno cominciato a saltare in acqua. Erano in molti in acqua. Abbiamo lanciato i mezzi di galleggiamento e stabilizzato la situazione. Anche se abbiamo fatto tutto quello che potevamo, non potremo mai essere sicuri che tutti siano stati salvati», ha spiegato Madeleine Habib, coordinatrice delle operazioni Search and Rescue dell’Aquarius. Impossibile sigillare le frontiere italiane anche sui fianchi est e ovest. Venerdì nel crotonese è riuscito ad approdare un barcone con 48 migranti.
A condurli sulle coste calabre, dietro il pagamento di 6mila dollari a testa, uno scafista russo, Timur Shirchenko, arrestato dalla polizia italiana. Ieri una motovedetta della guardia costiera siciliana ha intercettato una piccola barca con 23 persone a bordo: erano tutti algerini ed erano diretti in Sardegna. Tratti in salvo, sono stati trasportati nel porto di Calasetta, nel Sulcis. Ancora nel Sulcis, il giorno precedente, erano arrivati 38 algerini.
Si tratta delle cosiddette barche fantasma, natanti di ridotte dimensioni che da Algeria e Tunisia arrivano indisturbati sulle spiagge di Sicilia e Sardegna portando piccoli gruppi. La marina tunisina ieri ha bloccato 12 connazionali su uno scafo in avaria al largo di Sfax.
Ieri sono sbarcati nel porto di Taranto 324 migranti dalla fregata tedesca Mecklenburg. Stamattina a Salerno ne sono attesi 400, accanto ai superstiti ci saranno anche i cadaveri: 26 salme, tutte donne. Domani arriverà a Crotone la nave dell’Ong Proactiva Open Arms con 378 scampati al mare.
Il tema migrazioni entra nella campagna elettorale per le regionali siciliane con Forza Italia, in vantaggio nei sondaggi, che attacca il Pd: «Il tappo libico è saltato – dice il parlamentare Gregorio Fontana –, ci sono di nuovo i morti, gli sbarchi sono ripresi. Solo che vengono dirottati verso le coste pugliesi e calabresi per evitare che l’ennesimo fallimento dell’esecutivo vada a interferire con le elezioni siciliane. Il bluff governativo è venuto alla luce».

Repubblica 511.17
Migranti, si riapre la rotta dalla Libia
Nell’ultima settimana oltre 2.500 sbarchi. Frontex: possibile che le partenze continuino ad aumentare Ma il Viminale frena: “Situazione sotto controllo, dall’inizio dell’anno i flussi sono calati del 29 per cento”
di Vladimiro Polchi

ROMA.  «Monitoriamo l’evolversi della situazione in Libia e registriamo una piccola riapertura della rotta tunisina. Ma siamo ben lontani dall’emergenza del 2016». Al Viminale si invita alla cautela e si tirano fuori i numeri: oltre il 29% di sbarchi in meno in un anno. Le ultime settimane hanno solo rialzato l’allerta: preoccupa la riprese, seppure contenuta, dei flussi e l’instabilità crescente in Libia.
Al porto di Reggio Calabria ieri ha attraccato la nave “Diciotti” della Guardia costiera, con a bordo 764 migranti, di cui 555 uomini, 97 donne e 112 minori, tutti recuperati al largo delle coste libiche. Sulla “Diciotti” anche i corpi di 8 persone. Arriverà invece oggi al porto di Crotone la nave “Open Arms”, con a bordo altri 378 migranti. Numeri che portano a 2.500 le persone soccorse in mare nell’ultima settimana. «Segno di una situazione in divenire — ragionano dal ministero dell’Interno — per ora assolutamente sotto controllo ». Eppure non mancano segnali divergenti. Nell’ultimo report di Frontex, l’agenzia europea delle frontiere disegna diversi scenari futuri, dove soprattutto le tensioni libiche rischiano di innescare un «possibile aumento del numero di partenze nelle prossime settimane».
Certo i numeri restano ancora lontani dall’anno scorso, quando si registrò la cifra record di 181mila sbarchi. E sono questi per ora a rassicurare il Viminale. Al 3 novembre di quest’anno sono infatti 111.716 le persone arrivate via mare in Italia, rispetto alle 159.534 dello stesso periodo del 2016, con un calo di quasi il 30%. Sempre quest’anno sono 14.579 i minori stranieri non accompagnati giunti sulle nostre coste. I porti più sotto pressione restano quelli siciliani, a partire da Catania con oltre 15mila sbarchi, seguita da Augusta, Pozzallo, Lampedusa. Quanto alle nazionalità, si conferma il record di nigeriani con oltre 17mila arrivi, seguiti dai migranti della Guinea (oltre 9mila), Costa d’Avorio (oltre 8mila), Bangladesh (8mila) e Mali (6mila).
«Il problema è che tutta la partita degli sbarchi si gioca oggi con attori libici ben poco controllabili — spiega Christopher Hein, docente di diritto e politiche dell’immigrazione alla Luiss e già direttore del Consiglio italiano rifugiati — non c’è infatti nessuna certezza che il calo degli arrivi via mare che si registra da luglio scorso sia strutturale, proprio perché è frutto della collaborazione dell’Italia e dell’Unione europea con comunità, municipalità e milizie libiche che si muovono in modo assai poco istituzionale e non garantiscono dunque una situazione stabile».

Repubblica 5.11.17
I trafficanti tornano al business “In 20mila pronti a imbarcarsi”
Voltafaccia delle bande che avevano fermato i viaggi: vacilla il patto Minniti-Sarraj
di Alessandra Ziniti

LE motovedette libiche corrono avanti e indietro lungo la costa ma il dispositivo di ricerca e soccorso fa acqua da tutte le parti. La flotta delle ong si è dimezzata, le navi militari dell’operazione Sophia pattugliano lontano dal limite delle acque territoriali libiche e, soprattutto, i trafficanti di uomini hanno rimodulato il loro business: non più “lanci multipli” di barchini e gommoni sgonfi dalle spiagge di Sabratha, Zuara e Zawyah, ma partenze diversificate da molti porti su un tratto di costa lungo 350 chilometri, fino a Misurata, Al-Kums, Garabulli, Sirte dove il controllo dei guardiacoste è inesistente e i gommoni, adesso più grandi, con carichi di 100 e più persone, riescono a “bucare” i pattugliamenti con la consapevolezza di dover di nuovo affrontare un viaggio lungo e rischioso verso le coste italiane.
I numeri degli arrivi di questa settimana in Italia (più di 2.500) sommati a quelli della Guardia costiera libica (che ha riportato indietro altre 2.000 persone) confermano le previsioni contenute nell’ultimo rapporto di Frontex che annunciava la ripresa degli sbarchi a causa di «inquietudine sociale, insicurezza e prospettive future incerte». Ma soprattutto i numeri, che per la prima volta da luglio, in questa settimana, hanno fatto registrare un segno positivo sugli sbarchi in Italia rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, rivelano che la tenuta del patto siglato tra il ministro dell’Interno Marco Minniti e il governo di Al Sarraj (che ha portato a un meno 30 per cento il saldo degli arrivi dalla rotta libica)è decisamente a rischio.
La diga costruita da Al Sarraj con l’aiuto delle milizie di Al Dabbashi sta cedendo sotto i colpi dell’offensiva militare su Sabratha di Operations Room collegata al colonnello Haftar ed è sempre più evidente che gli interlocutori con i quali il Viminale aveva stretto il patto sono oggi assai più deboli di qualche mese fa.
Nel caos e nell’instabilità di una Sabratha devastata dalla fame e dalle bombe, come spesso accade in Libia, i “ladri” trasformatisi in “guardie” avrebbero ricominciato a fare i “ladri”. In altre parole, quegli stessi trafficanti che, dopo gli accordi tra Minniti e Al Sarraj, avevano trovato più “conveniente” schierarsi con il governo per fermare il flusso delle partenze, avrebbero cominciato a spostare migliaia di persone ad est di Tripoli, in una zona più sicura e meno controllata, da dove rilanciare il business.
Secondo fonti della nostra intelligence ci sarebbero almeno ventimila persone pronte ad imbarcarsi per affrontare la traversata verso l’Italia tornata ad essere improvvisamente più lunga e dunque più rischiosa e – a quanto sembra – anche più costosa tra tariffe in rialzo e centinaia di rapimenti per strada di migranti costretti a chiedere altri soldi alle famiglie nei paesi d’origine.
Lo confermano le prime testimonianze dei migranti sbarcati in queste ore in Italia, tra i quali tornano a contarsi molte famiglie siriane con bambini al seguito e, per la prima volta, diverse decine di libici, anche loro in fuga dagli scontri, dalla fame e dalle violenze che stanno devastando le loro città.
Stefano Argenziano, coordinatore dei progetti di migrazione di Medici senza frontiere, la vede nera. «C’è da attendersi un autunno di naufragi importanti. Purtroppo è l’inevitabile conseguenza della soluzione destabilizzante trovata dal governo italiano nel tentativo di arginare i flussi. Era evidente sin dall’inizio che non poteva risolvere la situazione, che a breve termine avrebbe prodotto ulteriori rischi per chi intraprende la traversata e aumentato la fragilità di chi è bloccato in Libia. Adesso il tempo è ancora relativamente buono, ma da qui a dicembre c’è da temere il peggio».
L’ultimo report dalla Libia di Unhcr racconta di 18.000 migranti prigionieri scoperti a Sabratha in diversi centri di detenzione e ora registrati nel campo di Dahman dove l’arrivo di venti camion di aiuti umanitari ha alleviato solo minimamente le condizioni di bambini, donne e uomini segnati da mesi di atroci violenze e letteralmente affamati. Per 918 di loro, i più fragili, Unhcr è riuscita ad ottenere la liberazione. Ma altri 6.000 migranti, tra cui moltissimi donne e bambini, sono ancora detenuti nei centri controllati dai trafficanti. E ogni notte, colonne di mezzi scortati da miliziani armati fino ai denti, trasporterebbero le persone in “connection house” nel Nord est del paese, nuova roccaforte delle organizzazioni di trafficanti che starebbero ampliando il loro business organizzando anche le partenze dei libici (oltre 100.000 gli sfollati interni che vivono in condizioni drammatiche nell’area attorno a Bengasi dove Iom e Unhcr hanno intrapreso una nuova missione).
La situazione, nella zona di Sabratha, è fuori controllo dunque ormai da più di un mese. Allora perché la ripresa in grande stile delle partenze in questi ultimi giorni? Che il nuovo allarme possa suonare come un elemento di pressione sul governo italiano alla vigilia di un appuntamento rilevante nel panorama politico italiano come le elezioni siciliane è più di un sospetto. E non è un caso che, nell’indicare i porti di sbarco dei 2.500 migranti approdati in Italia in questi giorni, il Viminale abbia accuratamente escluso quelli dell’Isola.

La Stampa 5.11.17
Nella Sicilia che va alle urne l’ultimo scontro è sui migranti
Il dibattito ha scordato gli sbarchi. Ma Forza Italia: in Calabria per ragioni elettorali
di Amedeo La Mattina

Uno strano fenomeno si sta verificando in questi giorni, in queste ore. Sarà pure una coincidenza, ma è un fatto che siano ripresi alla grande i viaggi dei migranti. Le navi di salvataggio, però, circumnavigano la Sicilia e vanno altrove. E sono migliaia gli africani che stanno arrivando proprio in queste ore nei porti pugliesi e calabresi. Si calcola che siano circa duemila. Poche notizie, poca pubblicità anche dei vari morti che sono stati trovati a bordo. A cosa è dovuto il fatto che la Sicilia viene «scavalcata»? C’è chi insinua che ci siano di mezzo le elezioni regionali. La Sicilia è sempre stata la prima terra degli approdi dei migranti, migliaia e migliaia sbarcati sulle coste clandestinamente o portati e soccorsi a Lampedusa, Pozzallo, Catania, Palermo. Centri di accoglienza affollati, il Cara di Mineo al centro di un’inchiesta giudiziaria con risvolti politici.
Eppure la campagna elettorale per le regionali siciliane non è stata combattuta su questo tema. Pochi i riferimenti nei comizi, altrettanti pochi nei programmi dei candidati alla presidenza. Comunque non al primo posto. Anche Matteo Salvini e la stessa Giorgia Meloni, che a livello nazionale hanno costruito sull’immigrazione le loro «fortune» politiche, non hanno calcato la mano più di tanto. Nei suoi cinque giorni nell’isola il leader leghista ha fatto tappa solo a Villa Sikania, a Siculiana, un resort trasformato in hotspot. Per non parlare degli altri candidati. Quelli di sinistra, Micari e Fava, il tema migranti non l’hanno nemmeno sfiorato.
Nello Musumeci, dalle chiare radici missine e di destra, non ha posizioni radicali in proposito. È più accogliente, come il resto dei siciliani. Tuttavia il candidato presidente del centrodestra ha detto che, quando e se verrà eletto, chiederà al governo di essere nominato commissionario straordinario per l’emergenza migranti, con potere relativo anche allo smistamento. La stessa richiesta la farà Giancarlo Cancelleri, il candidato dei 5 Stelle, che al problema ha dedicato poche parole. Come se il tema fosse dimenticato, complice il fatto che di sbarchi in Sicilia non ce ne sono più stati. Appunto.
Da più di un mese nell’isola sbarchi praticamente azzerati, pochissimi, quasi niente. È vero che le partenze dalla Libia sono diminuite drasticamente, ma è anche vero che negli ultimissimi giorni di migranti ne sono arrivati circa due mila. Non se n’è saputo molto, poche immagini televisive, scarsa attenzione al fenomeno (con l’unica eccezione di Radio Radicale) che ha avuto invece una ripresa consistente. Solo che queste migliaia di persone non state portate in Trinacria: sono tutte dirottate altrove. Oggi una nave spagnola è approdata a Salerno con 400 disperati a bordo e una ventina di salme. Ieri a Reggio Calabria la «Diciotti» ha portato 5 donne e 3 uomini morti e oltre 765 naufraghi, tutti recuperati al largo delle coste libiche. Ancora, 588 persone sono state trasportate nelle ultime ore a Vibo Valentia dalla nave Ong Aquarius. Altri 322 sono sbarcati a Taranto dalla tedesca Mecklemburg. OpenArms ha trasportato 380 migranti a Crotone.
Forse non si è voluto interferire con la competizione elettorale, cercando di tenere alla larga dall’isola i disperati che vengono dall’Africa avvolti nelle coperte termiche? A non avere alcun dubbio che di questo si tratti è Gregorio Fontana di Forza Italia, componente della Commissione parlamentare d’inchiesta sui migranti. Dice che «contrariamente a quanto annunciato dal governo, gli sbarchi sono ripresi in grande stile. Solo che vengono dirottati dalla Sicilia verso le coste pugliesi e calabresi per evitare che l’ennesimo fallimento dell’esecutivo vada ad interferire con le elezioni siciliane». Il punto è che avrebbe forse dovuto favorire il candidato del Pd Micari, che non sembra invece in grande spolvero. Bene che vada arriverà terzo. «Servirebbe uno sforzo immediato per arginare gli arrivi - ha detto il parlamentare europeo di Forza Italia Stefano Maullu - ma evidentemente il governo ha altro di cui occuparsi: dopotutto ci troviamo a poche ore da un appuntamento elettorale che potrebbe affossare definitivamente le speranze del Pd di riconfermarsi alla guida del Paese, per cui tutta l’attenzione dell’esecutivo dev’essere concentrata sulla Sicilia, nella vana speranza di salvare il partito di Renzi da una figuraccia colossale e ormai inevitabile».
Nel frattempo gli sbarchi continuano, la Guardia Costiera è sotto pressione, e il Corpo Soccorso dell’Ordine di Malta (i cui staff medici operano ufficialmente a bordo delle navi della GC) ha affidato a un tweet la sua lettura degli eventi in queste ore: «Non basta il silenzio per ignorare la morte degli invisibili».


Il Fatto 5.11.17
Lecce, prete indagato per abusi. La Curia lo lascia al suo posto

Una madre e un sacerdote sono indagati rispettivamente per favoreggiamento personale e violenza sessuale aggravata. La vittima degli abusi, avvenuti in una parrocchia vicino Lecce, è una ragazza di 14 anni. La madre, che sarebbe stata a conoscenza di tutto, avrebbe scelto di tacere sull’orrore imposto alla figlia dal prete. Per questo l’accusa di favoreggiamento personale. Le indagini, coordinate dal sostituto procuratore Stefania Mininni, sono partite grazie alla denuncia di un familiare della ragazzina. Lei ha raccontato degli abusi in presenza di una psicologa. Poi è stata allontanata dalla madre e portata in una struttura protetta su disposizione del Tribunale per i minorenni di Lecce. Secondo le prime ricostruzioni, anche se le indagini sono coperte da massimo riserbo, le violenze sarebbero cominciate all’inizio del 2017 e si sarebbero consumate nei locali di una chiesa alle porte di Lecce. Non solo molestie e palpeggiamenti. La ragazzina avrebbe infatti raccontato anche di rapporti sessuali completi con il sacerdote. La Curia già respinge ogni accusa nei confronti del sacerdote definendole “diffamanti e ingiustificate”: il prete non solo non è stato allontanato dalla parrocchia, ma è ancora in servizio.

La Stampa 5.11.17
Sacerdote indagato per abusi su una 12enne
I pm: la madre sapeva
di Elisa Forte

La madre, il prete e la figlia. Loro due amanti e la ragazzina dodicenne che avrebbe subito abusi dal sacerdote. Ecco gli ingredienti di questa terribile storia che arriva dal Salento profondo. E non basta: la mamma sapeva e non l’avrebbe protetta. Ora i due adulti sono indagati (il prelato per violenza sessuale aggravata e la donna per favoreggiamento personale) mentre la ragazzina è stata allontanata dalla famiglia. Il tribunale per i minorenni di Lecce l’ha affidata ad una struttura protetta. Il prete, da settembre, è stato allontanato da una piccola frazione di Vernole, a pochi chilometri da Lecce, dove secondo l’accusa si sarebbe consumata questa storia. Non celebra più messe, ma insegna religione.
E’ proprio a settembre che alla Procura arriva la denuncia della zia della ragazzina. L’aveva ospitata in estate a Napoli per permetterle di vedere il padre. Un ex poliziotto sospeso dal servizio, in carcere perché sta scontando una pena per aver rubato – dopo esser finito sul lastrico - una mitraglietta nell’armeria della questura dove prestava servizio e per averla venduta a un picciotto della Sacra Corona Unita per duemila euro. Le indagini dei carabinieri, coordinate dal sostituto procuratore Stefania Mininni, partono immediatamente. Le visite ginecologiche avrebbero escluso violenze. Lei però avrebbe raccontato di abusi e palpeggiamenti: si cercano riscontri anche nei telefonini. Lo scenario in cui si muovono gli inquirenti è di grave disagio sociale. Il padre, ludopatico, accusa la madre della dodicenne (hanno anche un altro figlio, già maggiorenne) di avere una relazione con il prete che è stato per anni amico di famiglia. Con la separazione arrivano conflitti, liti, denunce, si arriva ai pignoramenti. La ragazzina mal sopporta la storia d’amore della madre, che è oramai sulla bocca di tutti. Non accetta la separazione dei genitori e la loro conflittualità. Le violenze da parte del prete sarebbero state compiute in più occasioni all’inizio del 2017 nei locali della parrocchia. Ma vengono denunciate (dal padre e da sua sorella) solo dopo l’estate 2017 quando la ragazzina torna in Puglia dopo aver trascorso le vacanze a casa della zia paterna a Napoli. E non è escluso che alla fine si scoprirà che la ragazzina è stata solo la vittima sacrificale di una squallida resa dei conti tra familiari consumatasi con scambi di accuse feroci.

Il Fatto 5.11.17
Scalfari-Calvino, l’anello mancante
Il duello - Delle lettere tra i due sono note solo quelle (furibonde contro la scelta “littoria” dell’amico) firmate dallo scrittore. Il giornalista ora potrebbe pubblicare le proprie, sciogliendo il “segreto” delle risposte

Tutte le lettere di Calvino a Scalfari furono pubblicate in Lettere 1940-1985 da Mondadori nel 2000. Ammontano a 36, raggruppabili in tre blocchi: il primo di 14 lettere risalenti all’autunno-primavera 1941-42 (primo anno di università per entrambi, Eugenio a Roma e Italo a Torino); il secondo di 15 risalenti all’autunno-primavera 1942-43; il terzo di sette inviate tra l’estate 1943 e l’inizio del 1947.
Prima del 2000, sette lettere erano state pubblicate su La Repubblica dell’11 marzo 1989 dal destinatario stesso, che su L’Espresso del 15 settembre 2015 ha chiarito: “Volli pubblicarne un paio e dovetti chiedere il permesso alla moglie, un’argentina che aveva un suo carattere. Prima disse no. Poi acconsentì, a patto di sceglierne lei due. Le più sciocche. Le ritelefonai dicendo che ero interessato a una terza. ‘No, quella no. Voglio fare io una pubblicazione’. ‘Sì, ma delle mie dovrò darti io il consenso: dobbiamo venire a un accordo’. Disse sì”. Scalfari la spuntò e scelse calibrando il numero sulle esigenze tipografiche del quotidiano. L’altra ovvia restrizione era che le lettere uscissero integralmente, poiché ogni omissis avrebbe tolto verità al tutto. Ne selezionò quattro del primo blocco, una del secondo e due del terzo. Già da una scorsa, il criterio seguito risulta chiaro. Attenendomi alle 14 lettere del primo blocco:
– delle tre sciocche (sugli ex-compagni sanremesi di liceo, datate 21 novembre 1941, 4 febbraio e 11 maggio 1942) non ne seleziona nessuna.
– delle sei letterarie (sulla vocazione del futuro scrittore, datate 1 e 27 marzo, 21 e 29 aprile, 21 maggio e 11 giugno 1942) ne seleziona quattro (datando erroneamente l’ultima “11 giugno 1941” – quando erano al liceo – e piazzandola perciò per prima).
– delle cinque politiche (sulle peripezie romane del destinatario, datate 16 dicembre 1941, 12 febbraio, 7 marzo, 10 e 21 giugno 1942) non ne seleziona nessuna.
Ora, mentre le sciocche non contengono nulla di politico, quattro letterarie (due scartate e due selezionate) sì. Qui sotto riporto in ordine cronologico stralci delle lettere politiche e i brani politici delle letterarie (in corsivo quelli tratti dalle due selezionate):
– 16 dicembre: “In una cameretta immersa nella più suggestiva penombra, dorme un giovinetto. Alle pareti pendono le sacre immagini di eminenti personaggi occupanti alte cariche al Ministero Cultura Popolare, immagini che il giovinetto, con religioso zelo, va ogni giorno adornando con ghirlande di fiori di campo. Sparsi ovunque, su scaffali e leggii, importanti volumi rilegati su cui spiccano i titoli: Voglio più bene al tripartit [Asse Roma-Berlino-Tokio] che a mia zia!, Alfredo Oriani, quello sì che era un maschione, Fondamenti etici del razionamento dei legumi, Menenio Agrippa, precursore della lotta contro la dem… ecc. Italocalvino, diafano e silente come un spettro, si apposta dietro il capezzale e […]: ‘Come sei potuto scendere tanto in basso? Non capisci tu, innocente creatura, che questi volumi che tu ingenuamente mostri d’apprezzare sono frutto non di fede né di coscienza ma di avidità di cariche e di pecunia?’”.
– 12 febbraio: “Stai diventando un fanatico, ragazzo mio, stai attento. Ti stai esaltando di queste idee, tanto da montarti la testa. Curati. Distraiti”.
– 1 marzo: Dunque tu, Eugenioscalfari, scrivi su riviste letterarie giovanili? Scrivi articoletti sull’arte novissima, eh? Sei capitato in un vivaio giovanile? Ma che bravo!
– 7 marzo, sovratitolata “epistola polemica”: “È triste pensare che uno che si è forgiato alla mia scuola cada tanto in basso. Mah, la vita! A ogni modo se sei entrato nell’ambiente fatti sotto. Riescono tante testedicazzo… […] Quando la finirai di pronunciare al mio cospetto frasi come queste: ‘tutti i mezzi son buoni pur di riuscire’ ‘seguire la corrente’ ‘adeguarsi ai tempi’? Sono queste le idee di un giovane che dovrebbe affacciarsi alla vita con purezza d’intenti e serenità d’ideali? […] Ogni idea che ti viene, tu ne diventi un feticista”.
– 21 aprile, all’annuncio che Eugenio avrebbe pubblicato su Gioventù Italica e su Roma Fascista: “Quello che rimane per me un gran mistero è come facciano a vivere le varie Gioventù & Progenie, Roma & Ischirogeno, che pullulano dalle tue parti. E, quel che più conta, dove piglino i soldi da dare a degli sciagurati come te”.
– 29 aprile: il più noto scrittore contemporaneo, quello che scrive nientedimeno che su Conquiste d’Impero. […] Ci scrive anche Giuseppe [Bottai], ma sì, proprio Giuseppe, sono colleghi, “il mio Peppino” lo chiama Scalfari.
– 21 maggio, all’annuncio della nomina a redattore politico di Roma Fascista: «Per quanto io aspiri a un “modo di salire” e tu a un “salire ad ogni modo”, l’esempio dell’amico mi sarà certo di sprone».
– 10 giugno, davanti al primo articolo su Roma Fascista: “Nella merda fino a quel punto non ti credevo. Il giornale fa pietà […]. Ti conoscevamo come uno disposto a tutto pur di riuscire, ma cominci a fare un po’ schifo. Speriamo che un po’ di soggiorno sanremese risvegli in te un po’ di ideale, di dignità”.
– 21 giugno, firmata “L’ex-amico”, davanti al secondo articolo su Roma Fascista: “Me ne frego che tu ti offenda e mi risponda con lettere aspramente risentite (oltre che scemo sei pure diventato permaloso) quello che ho da dirti (e te lo dico per il tuo bene) si compendia in una sola parola: PAGLIACCIO!”.
Tornando alla dichiarazione scalfariana sull’Espresso, la dinamica della contrattazione fu questa: intendendo pubblicare alcune lettere di Calvino, Scalfari chiede il consenso alla vedova; costei accetta a condizione di sceglierle lei; Scalfari risponde che allora userà lo stesso metro, ossia le consentirà di pubblicare delle sue lettere a Calvino solo quelle che sceglierà lui; la vedova allora gli consente di pubblicare le lettere di Calvino che sceglierà lui, in cambio del consenso di Scalfari a che lei pubblichi a sua scelta lettere di lui. Così nel 1989 Scalfari pubblicò sette lettere di Calvino, e nel 2000 la vedova pubblicò tutte le lettere di… Calvino – e ciò per il semplice fatto che il contrattato consenso reciproco prevedeva a maggior ragione che ciascuno dei due contraenti potesse pubblicare le proprie. In un’intervista rilasciata a Pietrangelo Buttafuoco su Il Foglio del 28 maggio 2008, Scalfari esordiva: “Ho l’abitudine di non aggiustarli, i ricordi. Almeno i miei ricordi io non li accomodo”. Se dunque Scalfari non ha ancora pubblicato tutte le sue lettere a Calvino, può essere solo perché non reputa sufficientemente interessanti per il pubblico italiano né le proprie lettere né la propria persona. Ma su questo punto è doveroso smentirlo: come Calvino, egli ha svolto un ruolo di primaria importanza nella storia italiana del XX secolo. E pertanto pubblicamente gli chiedo di pubblicarle, confermando così la sua abitudine e confermandoci nella sua buonafede.

Il Fatto 5.11.17
Voci del terrorismo, voci del complotto
di Furio Colombo

Sentono le voci. Qualunque psichiatra conosce la sindrome e prevede la fine che è quasi sempre tragica. Le voci comandano con una fermezza che esige obbedienza. Le voci sanno come guidare, ma sanno prima di tutto dove insediarsi. Può essere una tecnologia, la rete, l’indottrinamento in solitudine mentre una immensa folla di combattenti virtuali ti circonda e ti incita a combattere da terrorista cieco, per il potere di qualcuno. Se è necessario, ti dicono che è per il potere di Dio. C’è un particolare importante, che spesso non viene notato. Tutto ciò è già accaduto.
Le voci vengono sentite in una sorta di vita interiore ben mascherata, mentre fuori tutto sembra normale. Le voci intercettate hanno adesso, e avevano allora, la capacità di rivelare per tempo un complotto contro di noi. Il dottor Goebbels (un leader tedesco ai tempi del nazismo) riusciva a sentire le voci di chi, sembrando un cittadino normale, stava organizzando la fine della Germania. Sentiva quelle voci tra gli ebrei. Essi costituivano, lui ne era certo, il vero pericolo, perché erano guidati dalla trama del loro complotto. Goebbels era tra i pochi a saperlo. Ce lo ricorda Sigmund Ginzberg (La Repubblica, 2 novembre 2017), raccontando il film di propaganda nazista “Suss l’ebreo” (che nella mia scuola elementare di Torino era stato proiettato obbligatoriamente per tutta la scolaresca, con qualche taglio di scene per adulti. Pensavano forse di dare una spiegazione delle leggi razziali ai bambini). Il film era la storia (vera, dicevano agli scolari) di un imbroglione ebreo travestito da gentiluomo che si aggrega alla corte della città tedesca di Württemberg, per realizzare il complotto di una invasione ebraica. Quell’invasione travolgerà ogni buon costume locale e prenderà il controllo. Ce lo ricorda lo scrittore Vittorio Pavoncello nel suo testo “Un memorabile oblio”. Sceglie di citare per intero il manifesto italiano “Per la difesa della razza”, troppo dimenticato e però molto usato, quasi con le stesse parole, dalla nuova politica xenofoba, che finge di interpretare il presente e non paga i diritti d’autore a quel passato. Ecco il punto 6 del documento: “Esiste ormai una razza pura italiana”. Punto 7: “È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti”. Punto 8: “È necessaria una netta distinzione tra i mediterranei occidentali, da una parte, e gli orientali e africani dall’altra”. Punto 9: “Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. (…) I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli italiani non devono essere alterati in nessun modo”.
Il riferimento di Ginzberg al film “Suss l’ebreo” e la citazione del manifesto della razza ripreso con intento pedagogico da Pavoncello ci servono per dare un contesto culturale e storico a ciò che stiamo vivendo. Suss torna col nome di Soros (il miliardario ebreo che si nasconde dietro il complotto degli sbarchi per invadere l’Italia, sottomettere la nostra razza pura e realizzare lo scambio dei popoli e del sangue). Le Ong sono gli strumenti del complotto che, fingendo di salvare, trasportano chi sta per conquistare l’Italia. Ecco infatti, su un giornale italiano politicamente attento al momento, un titolo esemplare per aprire la narrazione dell’attentato alla pista ciclabile di Manhattan: “Allarme invasione” (Libero, 2 novembre 2017). È lo stesso giorno in cui il presidente del Comitato cittadino di Tor Pignattara dice all’intervistatrice che esplora il quartiere: “Il progetto di islamizzazione è cominciato qui” (La Repubblica, 2 novembre 2017). Senza saperlo, l’organizzatore bianco di quartiere ripete la teoria del complotto e della sostituzione di popoli, teorizzata prima da Goebbels e poi (come strategia per bloccare ogni movimento di “stranieri” in fuga per guerra e per fame), da Stephen Bannon e dagli alt right americani ancora accampati alla Casa Bianca, poi da tutta la destra europea e italiana e, alla fine, da quasi tutti i governi e (certo in Italia) quasi tutti i partiti – unica eccezione i Radicali – mentre le frontiere sono chiuse o si promette di chiuderle. Solitaria voce di calma percezione dei fatti è la parte di chiesa cattolica e di protestantesimo che guarda a Papa Francesco come al solo leader politico che sa di vivere una brutta vigilia. Ha un grande svantaggio: non partecipa al doppio complotto in rete, quello della invasione organizzata da Suss-Soros, e quella della guerra santa, a cui non puoi sottrarti perché sei in marcia con un immenso esercito di santi-assassini.
L’immenso esercito non lo vedi, perché fuori, nel mondo reale, avvengono solo eventi banali o politica stravolta dal cattivo uso e dalla stanchezza. Ma se resti collegato nei tuoi social network le voci non ti abbandonano, non abbandonano il complotto, che è guerra per chiudere fuori il nemico. Non abbandonano l’assassinio, per dimostrarti che, con muri e fili spinati, tieni fuori i migranti in cerca di asilo ma non i combattenti in cerca di sangue.

Repubblica 5.11.17
Leggere Primo Levi
di David Grossman

Le opere di Primo Levi mi accompagnano da quando ho letto per la prima volta Il sistema periodico. Mentre leggevo sentivo che, pagina dopo pagina, il libro di questo autore, di quest’uomo, analogamente ad altri tre o quattro, mi indicava un modo unico e particolare non solo di osservare la vita, ma di viverla.
Vorrei condividere con voi alcune riflessioni fatte di recente nel rileggere Se questo è un uomo, il primo libro di Levi, in cui racconta dei quasi dodici mesi trascorsi nel campo di sterminio di Auschwitz. Si potrebbe parlare ore e giorni di quest’opera, del turbamento che suscita nel lettore proprio a causa dello stile sobrio e limpido dello scrittore anche quando descrive gli orrori più terribili mai patiti da esseri umani, il processo di distruzione e della perdita di ogni sembianza umana non solo da parte dei nazisti e dei loro sottoposti ma anche delle vittime. Ma poiché il tempo non basterebbe, ho scelto di parlare dell’unico, cruciale, contatto umano, che Levi ebbe ad Auschwitz con un uomo di nome Lorenzo.
“La storia della mia relazione con Lorenzo”, scrive Primo Levi, “è insieme lunga e breve, piana ed enigmatica; essa è una storia di un tempo e di una condizione ormai cancellati da ogni realtà presente, e perciò non credo che potrà essere compresa altrimenti di come si comprendono oggi i fatti della leggenda e della storia più remota.
In termini concreti, essa si riduce a poca cosa: un operaio civile italiano mi portò un pezzo di pane e gli avanzi del suo rancio ogni giorno per sei mesi; mi donò una sua maglia piena di toppe; scrisse per me in Italia una cartolina, e mi fece avere la risposta. Per tutto questo, non chiese né accettò alcun compenso, perché era buono e semplice, e non pensava che si dovesse fare il bene per un compenso”.
E prosegue Levi: “Infatti, noi per i civili siamo gli intoccabili. I civili, più o meno esplicitamente, e con tutte le sfumature che stanno fra il disprezzo e la commiserazione, pensano che, per essere stati condannati a questa nostra vita, per essere ridotti a questa nostra condizione, noi dobbiamo esserci macchiati di una qualche misteriosa gravissima colpa. Ci odono parlare in molte lingue diverse, che essi non comprendono, e che suonano loro grottesche come voci animali; ci vedono ignobilmente asserviti, senza capelli, senza onore e senza nome, ogni giorno percossi, ogni giorno più abietti, e mai leggono nei nostri occhi una luce di ribellione, o di pace, o di fede. Ci conoscono ladri e malfidi, fangosi cenciosi e affamati, e, confondendo l’effetto con la causa, ci giudicano degni della nostra abiezione. Chi potrebbe distinguere i nostri visi? Per loro noi siamo Kazett, neutro singolare”.
Leggo la descrizione di Primo Levi su come le guardie, i Kapos e i civili vedevano i detenuti ebrei, e su come il semplice operaio Lorenzo vedeva lui, e penso a quanto è grande la forza dello sguardo, a quanto è cruciale il modo in cui osserviamo una persona. Una persona che potrebbe essere il nostro partner, un nostro figlio, un collega, un vicino, chiunque abbia una certa rilevanza nella nostra vita e, naturalmente, anche un perfetto sconosciuto, e talvolta persino un nemico.
Un semplice operaio italiano di nome Lorenzo guardò Primo Levi come si guarda un uomo. Si rifiutò di ignorare la sua umanità, di collaborare con coloro che la volevano cancellare e, così facendo, gli salvò la vita, niente di meno. Quanto semplice e grande fu quel suo comportamento.
Penso alla forza di uno sguardo benevolo nella vita di una persona. Non solo nelle circostanze di follia estrema di Auschwitz ma nella vita normale, di tutti i giorni. E questo mi porta a ripensare a una donna che ho conosciuto, la quale, quando chiese all’uomo di cui era innamorata di sposarla, gli promise che lo avrebbe sempre guardato con occhi benevoli: “Gli occhi di un testimone pieno d’amore”, gli disse. E l’uomo pensò che mai in vita sua gli avevano detto qualcosa di tanto bello.
Ho l’impressione che chi ha il privilegio di avere un testimone amorevole nella propria vita, o anche “ solo” un testimone che cerca il bene dentro di noi per farlo emergere, ha buone possibilità di diventare una persona migliore, forse anche un po’ più felice. Se abbiamo il privilegio di avere qualcuno nella nostra vita che ci guarda con occhi pieni d’amore ecco che quello sguardo ci dice che forse in noi c’è qualcosa di meglio di quel che pensavamo. Di quel che osavamo credere.
Un testimone amorevole ci può anche mostrare come ritornare sulla giusta via nel caso ce ne fossimo discostati, o ci fossimo un po’ persi, e, senza muovere rimproveri o accuse, ci può ricordare l’“ Io” dal quale ci siamo allontanati e il fatto che ci siamo abituati a condurre un’esistenza parallela a quella che potremmo, o vorremmo vivere.
Lorenzo, un semplice operaio italiano, insistette a guardare Primo Levi con gli occhi di un uomo, e si ritrovò davanti un uomo. Non un Muselmann privo di identità, non un morto che camminava con un numero tatuato sul braccio al posto del nome e del cognome. Lorenzo si rifiutò di assecondare la pretesa dei sovrani- tiranni di vedere i prigionieri secondo il loro punto di vista. Guardò Primo Levi come si guarda un uomo e, così facendo, stravolse la natura della situazione in cui si trovavano.
Nel momento in cui occhi benevoli, che credono in noi, ci suggeriscono una possibilità di tipo diverso, celata persino a noi perché repressa da altri, da noi stessi, o dalle circostanze avverse della vita, una possibilità nella quale non osiamo più sperare e che forse abbiamo completamente dimenticato, ci sono più probabilità che questa possibilità si trasformi in realtà. E noi abbiamo più probabilità di riscatto.
Nei Salmi 27,12 è scritto: Non darmi in balia dei miei nemici, perché sono sorti contro di me falsi testimoni. Com’è bello questo versetto. Dice semplicemente: non lasciare che io veda me stesso come mi vedono i miei nemici perché loro mi guardano con occhi di testimoni falsi, ostili.
Stranamente, infatti, e non di rado, noi stessi ci associamo a uno sguardo ostile, critico, destabilizzante e rovinoso nei nostri confronti. Uno sguardo che possiede un terribile potere distruttivo: quello di mettere in dubbio noi stessi e tutto ciò che siamo.
E Primo Levi scrive anche di questo, della collaborazione fra vittime e tiranni nel processo di annichilimento. “I personaggi di queste pagine non sono uomini. La loro umanità è sepolta, o essi stessi l’hanno sepolta, sotto l’offesa subita o inflitta altrui. Le SS malvage e stolide, i Kapos, i politici, i criminali, i prominenti grandi e piccoli, fino agli Häftlinge indifferenziati e schiavi, tutti i gradini della insana gerarchia voluta dai tedeschi, sono paradossalmente accomunati in una unitaria desolazione interna”.
Quando leggiamo questa descrizione la nostra ammirazione per il coraggio di un operaio italiano, di un uomo, e per la sua eroica rivolta contro la macchina di sterminio e di annientamento messa a punto dai nazisti, aumenta.
E si potrebbe proiettare lo spirito di rivolta di quell’operaio nella realtà della nostra epoca che, ovviamente, è del tutto diversa da quella creata dai nazisti, rivendicando così il nostro diritto a una libertà di sguardo, a un’ottica del tutto personale nei confronti degli esseri umani, sia in ambito personale che pubblico o “ nazionale”.
Eppure, benché al giorno d’oggi uno dei modi più ovvi di esercitare la nostra libertà sia quello di formulare la realtà secondo i nostri criteri e non in base a cliché e a rappresentazioni vuote e manipolatrici che governanti, politici, comandanti di eserciti o i mezzi di comunicazione di massa.

Repubblica 5.11.17
A capo dell’Anpi
Carla Nespolo, 74 anni, è la nuova presidente nazionale dell’Anpi: la prima non partigiana, la prima donna a guidare l’associazione
“Rieducare i razzisti. E basta con la sinistra equidistante”
intervista di Paolo Berizzi

MILANO. «La loro idea di patria è l’esatto contrario della nostra, e ha portato alla morte di milioni di persone. La patria per come la intendiamo noi è pace, non violenza. I fascisti si rassegnino: per il loro messaggio razzista, in democrazia, non c’è spazio». Carla Nespolo, 74 anni, è la nuova presidente nazionale dell’Anpi: la prima non partigiana, la prima donna. Succede a Carlo Smuraglia, nominato presidente emerito.
Ha visto la “marcia dei patrioti” di Forza Nuova?
«Il fatto che l’abbiano chiamata così mi consente di dirlo subito: la patria per come la intendono i fascisti non ha niente a che vedere con la nostra democrazia pluralista, con i suoi valori, le sue fondamenta, con la Costituzione italiana che è antifascista e si basa sulla giustizia sociale».
Per Forza Nuova e gli altri partiti neofascisti giustizia sociale è l’“Italia agli italiani”. Fuori gli immigrati.
«Il razzismo è sempre stato il brodo di coltura di ogni fascismo, infatti loro lanciano messaggi razzisti. La nostra giustizia sociale si basa sugli articoli 1 e 3 della Costituzione. Lavoro e niente discriminazioni di razza e socio economiche. I diritti delle persone devono, io dico, dovrebbero, essere tutelati dalla nostra Carta».
“No allo Ius soli” era uno degli slogan del corteo dell’Eur.
«Ignoranza. Parliamo di bambini nati in Italia, che parlano perfettamente l’ italiano, che vanno nelle scuole italiane. Rifiutare loro la cittadinanza è un atto di crudeltà razzista. Non mi sento di attribuire grandi colpe ai ragazzini che ripetono questi slogan a pappagallo. Le colpe le hanno quelli che li strumentalizzano. Noi però dobbiamo agire sulle nuove generazioni».
Come?
«Hai attaccato l’adesivo di Anna Frank? Adesso ti leggi il suo diario, studi la sua storia, impari. Questi fenomeni si combattono con la conoscenza, la cultura, il rispetto della memoria. Spieghiamo a questi ragazzi che dicono “Italia agli italiani” e “Europa agli europei” che l’idea di Europa è nata a Ventotene dagli antifascisti. Mi preoccupa la diffusione di nazionalismi e fascismi in Europa. Il processo di sviluppo di Europa dei popoli si è fermato».
Quanto la preoccupa l’avanzata dei movimenti neofascisti in Italia?
«Non poco. Ha sbagliato chi fino a ieri ha minimizzato. Come Anpi organizziamo campagne di informazione massicce. Spero che la politica si faccia sentire sempre di più. E spero che la magistratura faccia il suo dovere. Perchè ci vuole informazione e conoscenza, ma anche repressione ».
Può spiegare meglio?
«Sono indignata da alcuni provvedimenti dei magistrati. La spiaggia fascista di Chioggia non è una goliardata. La parata dei saluti romani del 29 aprile al cimitero Maggiore di Milano non è stata una “cerimonia funebre”. Ricordo a tutti, anche a chi deve giudicare certi episodi, che il fascismo non è un’opinione, è un crimine. Lo dicono le leggi italiane».
Perchè spesso queste leggi non vengono applicate?
«Vorrei saperlo anch’io. Mi auguro che magistrati e giudici tengano sempre a mente la nostra Costituzione».
Dopo la denuncia di “Repubblica” il ministro dell’Interno Minniti ha vietato la farsa della marcia su Roma. Che ne pensa?
«Ho apprezzato. Ma mi spaventa il silenzio di molti politici, anche di sinistra. E poi quello che succede in molti Comuni. L’equiparazione, l’equidistanza. Per la serie: intitoliamo una via a Pertini e una a Mussolini. Non va bene. Le istituzioni devono svolgere il loro ruolo democratico, agire sulla base della Costituzione. Che, ripeto, è antifascista. Lo ricordo anche a quegli amministratori che un giorno vanno a rendere omaggio ai partigiani e il giorno dopo ai caduti repubblichini. O che lasciano la cittadinanza onoraria a Benito Mussolini. I morti sono tutti uguali, è vero. Ma noi viviamo in pace da 70 anni perchè ci sono state la Resistenza e la Liberazione».
Come sarà la sua Anpi?
«Continua nel rinnovamento. Sono d’accordo con Carlo Smuraglia: dobbiamo lavorare per costruire nel Paese una coscienza collettiva antifascista. Quello che si è fatto non basta. Ai ragazzini che subiscono il fascino di CasaPound o di Forza Nuova dobbiamo spiegare la storia. Come sono andate realmente le cose. Come disse Vittorio Foa a un parlamentare missino che inneggiava al fascismo: “Vede, siccome abbiamo vinto noi lei può criticarci. Se aveste vinto voi noi saremmo in galera o in ospedale”. E’ questo il punto».

Il Fatto 5.11.17
Il Rosatellum e le bugie di chi lo ha proposto. Un breve vademecum
Legge elettorale - Come funziona, a chi conviene, cosa non va
di Marco Palombi e Silvia Truzzi

Il cosiddetto “Rosatellum” è il sistema con cui voteremo nel 2018. Funziona, all’ingrosso, così: assegna circa un terzo dei seggi in collegi uninominali e il resto in listini bloccati proporzionali (fino a 4 nomi alla Camera, fino a 8 in Senato). Non c’è, com’era per il Mattarellum, il voto disgiunto tra collegio e liste. La soglia di sbarramento per ottenere eletti è il 3% su base nazionale. Esistono anche le coalizioni, ma finte: niente simbolo, né programma, né leader. Attraverso un trucco, però, vengono incentivate le “liste civetta” per accentuare l’effetto “premio” per i grandi partiti che schierano una coalizione. Su genesi, meccanismo, scopi ed effetti del Rosatellum, i promotori (Pd, Forza Italia, Lega e Ap) fanno molta confusione. Ecco una breve verifica delle loro affermazioni.
Necessità/1. “Il Parlamento vuole avere una legge elettorale? Ora o mai più: sarebbe un dramma un Paese al voto senza legge elettorale” (Ettore Rosato, 11 ottobre) “Il senso del voto che stiamo per dare va oltre l’interesse dei nostri partiti e riguarda, invece, il funzionamento di democrazia e Parlamento, che non si può permettere la casualità di due leggi così diverse da rendere impossibile una composizione omogenea delle Camere” (Luigi Zanda, 26 ottobre).
In realtà la legge c’era già (il Consultellum) e il Rosatellum la cambia. C’era per il motivo, spiegato più volte dalla Consulta, che il Parlamento è organo necessario e dunque il Paese non può mai stare senza legge elettorale, nonostante la scelta arrogante del 2015 di fare una legge (l’Italicum) valida solo per la Camera. Ora andavano solo armonizzati i due sistemi, onde evitare di intervenire in prossimità delle elezioni (lo vieta il Consiglio d’Europa).
Necessità/2. “Il Consiglio d’Europa ci invita a non cambiare la legge elettorale prima del voto e io condivido. Ma noi non la cambiamo: la facciamo. È una necessità, non una volontà” (Rosato, 11 ottobre).
Non per necessità, ma per volontà (e convenienza) di alcuni partiti. Come ha scritto il costituzionalista Andrea Pertici si sarebbero potute armonizzare le leggi elettorali di Camera e Senato (“create” dalle sentenze con cui la Consulta bocciò prima il Porcellum e poi l’Italicum) in poche mosse: via il premio di maggioranza alla Camera; via le coalizioni in Senato; soglia di sbarramento unica; via i capilista bloccati; riduzione delle candidature plurime; collegi del Senato analoghi a quelli già indicati per la Camera.
Nominati/1. “Con il Rosatellum 2.0 sarà un Parlamento per due terzi composto da nominati? Non è vero, è un sistema che prevede i collegi e fa scegliere direttamente i cittadini” (Gennaro Migliore, 6 ottobre).
“La verità contro le menzogne: col Porcellum scelgono i capi partito, col Rosatellum scelgono gli italiani” (Emanuele Fiano, 11 ottobre, ritwitta le slide del Pd).
È pacifico che 2/3 dei parlamentari saranno eletti in liste bloccate, cioè scelti dai capi dei partiti (che in effetti sono italiani, forse intendono questo).
Nominati/2. “Niente nominati: l’elettore conosce i nomi dei candidati perché sono stampati sulla scheda e li sceglie lui. Come nel Mattarellum” (Rosato, 11 ottobre).
A che serve conoscere i nomi stampati sulla scheda nelle varie liste, se poi non si può mettere la croce su quello che si vuole eleggere? Nel Mattarellum, peraltro, le schede erano due: una per il collegio, una per il proporzionale.
Scheda. “I cittadini potranno scegliere il proprio deputato e il proprio senatore perché ci sarà una scheda in cui si sa chi si elegge” (Matteo Renzi, 19 ottobre).
In realtà non è vero neanche questo. Nel Rosatellum l’elettore ha un solo voto: se barra il nome di Tizio nel collegio maggioritario, nel proporzionale deve per forza barrare una delle liste che lo sostengono; e, se non barra alcuna lista, il voto che ha dato al candidato va automaticamente ai partiti di quella coalizione. E viceversa. Cioè il voto viene utilizzato, a insaputa dell’elettore, per mandare in Parlamento candidati che lui non ha mai indicato. Non solo: i voti di chi non conquista il collegio maggioritario se li spartiscono i candidati delle liste proporzionali. Tu credi di aver votato Tizio e invece fai eleggere Caio e Sempronio, forse persino in un altro collegio grazie ai cosiddetti “resti”.
Mattarellum. “Se non si vogliono alleanze farlocche, non si propone il voto disgiunto. Il Rosatellum per un terzo ripristina un rapporto diretto tra eletti ed elettori. Gli altri sono in lista esattamente come lo erano nel Mattarellum” (Piero Fassino, 25 ottobre).
Nel Mattarellum e nel sistema tedesco (modelli misti proporzionali-maggioritari) l’elettore dà due voti: sceglie il candidato che preferisce nel suo collegio (quota maggioritaria) e la lista che più gli aggrada nella sua circoscrizione (quota proporzionale). Nel Mattarellum il cittadino aveva due schede e, peraltro, eleggeva col maggioritario il 75% dei parlamentari, non il 25%.
Voto disgiunto. “Lo fa al massimo l’1% degli elettori. È solo un tecnicismo” (Renzi, 14 ottobre).
Da dove spunti la percentuale dell’1% è un mistero. Perché mai sarebbe un tecnicismo dare all’elettore non una, ma due scelte – com’era nel Mattarellum – anziché obbligarlo a votare il candidato di collegio e una lista che lo sostiene? Incredibile che poi Renzi sostenga: “Avevo dato la mia disponibilità a introdurlo”, solo che non s’è potuto perché “avremmo portato la guerra in casa del centrodestra”. E non sia mai che si disturbi Berlusconi.
Verdini. “Viene tirato in ballo per tutto. Se abbiamo le unioni civili è grazie a lui” (Renzi, 14 ottobre).
In realtà sulle unioni civili l’appoggio di Verdini fu superfluo e invece è stato davvero determinante in Senato per far passare la legge elettorale: senza i verdiniani sarebbe mancato il numero legale. Peraltro nel Rosatellum è finita una vecchia promessa fatta proprio a Verdini: la possibilità per i residenti in Italia di candidarsi all’estero.
Fiducia/1. “Trovo infondate e strumentali le critiche di chi mi accusa di non aver impedito al Governo di porre la fiducia” (Laura Boldrini, 13 ottobre); “La legge elettorale non è un vestito di Arlecchino: non si può togliere l’articolo 1, tenere il 2 e poi togliere il 3 perché viene fuori un pasticcio. La legge elettorale deve avere una sua organicità, non si può sottoporre al procedimento legislativo di una normale legge” (Fassino, 12 ottobre 2017).
I voti di fiducia sul Rosatellum tra Camera e Senato sono stati ben otto. Dice la Costituzione (art. 72): “La procedura normale di esame e approvazione diretta da parte della Camera è sempre adottata per i disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale.” Anche dai regolamenti parlamentari, come notano molti giuristi, si evince uno speciale trattamento per le leggi elettorali: il tempo di discussione è più ampio del normale e non può essere compresso, è vietata l’approvazione in commissione, è obbligatoria la discussione articolo per articolo (capito Fassino?). Paradossale che nelle Giunte per il Regolamento di Camera e Senato siano anche depositate proposte unanimi per vietare esplicitamente la fiducia per le leggi elettorali.
Fiducia/2. “Non penso che la fiducia possa inficiare il giudizio sulla legge. La fiducia l’ha messa De Gasperi sulla legge elettorale. Tra Di Maio e De Gasperi so da che parte stare…” (Renzi, 26 ottobre).
Come ha detto il costituzionalista Gaetano Azzariti: “La legge Acerbo non fa precedente e nemmeno la cosiddetta ‘legge truffa’ del 1953, durante il governo De Gasperi. In quel caso si dimise il presidente del Senato Giuseppe Paratore e si scrisse che quel voto non creava precedente”. C’è stato un peggioramento anche rispetto ai voti di fiducia sull’Italicum perché in quel caso la decisione fu presa “per impedire l’ostruzionismo che a sua volta impediva la votazione di una legge fondamentale. Invece la fiducia sul Rosatellum è stata posta perché la maggioranza aveva il terrore dei voti segreti e quindi ha impedito il regolamentare procedimento”. Laura Boldrini e Pietro Grasso potevano impedirlo.
Fiducia/3. “Abbiamo dovuto ricorrere allo strumento parlamentare straordinario della fiducia – legittimo, previsto dal regolamento parlamentare e approvato dalla Consulta sull’Italicum – per superare l’uso legittimo ma strumentale di un altro istituto: 120 voti segreti” (Rosato, 11 ottobre).
Leggere le sentenze prima di citarle è una buona abitudine: la Consulta non si è mai pronunciata sulla fiducia imposta dal governo sull’Italicum, tanto è vero che alcuni parlamentari hanno già presentato ricorso alla Corte proprio per l’uso della fiducia sul Rosatellum.
Referendum. “Il Rosatellum è un passo avanti. Non sono entusiasta, naturalmente, perché il 4 dicembre è stato sconfitto il nostro modello istituzionale e il ballottaggio che garantiva la governabilità” (Renzi, 14 ottobre).
Rosato non legge le sentenze e Renzi non capisce i referendum. Il 4 dicembre è stata “sconfitta” la sua riforma costituzionale, mentre il ballottaggio è stato “sconfitto” il 24 gennaio 2017 dalla Consulta che lo ha ritenuto incostituzionale.
A chi serve. “Questa legge è molto neutra: non aiuta il Pd, non moltiplica i suoi voti e non dimezza altri partiti. Trasforma solo i voti in seggi” (Rosato, 11 ottobre).
Solo il proporzionale puro trasforma i voti in seggi con passabile correttezza, tutti gli altri sistemi no. Il Rosatellum – per di più – è pensato per favorire Pd, Forza Italia e Lega e sfavorire 5 Stelle e sinistra anti-Renzi: 1)il sistema premia le coalizioni sia in sé, sia attraverso il trucco del voto unico collegi-liste bloccate 2) incentiva le liste civetta: se la soglia per ottenere seggi è il 3%, infatti, quella perché le coalizioni possano spartirsi i voti di una lista è solo l’1% (350mila voti circa). Il problema vero del Pd è che questa legge – pensata per moltiplicare i voti dei grandi partiti e consentire le larghe intese Pd-FI – potrebbe far vincere il centrodestra: Berlusconi da tempo sta creando liste civetta tipo il Partito animalista (per i sondaggi è all’1%) e Renzi invece non ha ancora alleati.

Repubblica 5.11.17
Il fattore Gentiloni per ricucire lo strappo tra generazioni
di Eugenio Scalfari

LA STORIA e la filosofia della storia si pensano e si scrivono in vari modi. Si cerca anche di scoprire quali sono gli elementi essenziali e ricorrenti che alla storia danno un carattere, ma finora quell’elemento non è stato individuato tranne che in rare occasioni. Lo individuò a suo modo Cartesio e poi Kant e poi Hegel e Benedetto Croce. Molti altri la storia la fanno ma senza studiarne il carattere.
Quasi nessuno, ch’io sappia, ha studiato l’importanza delle generazioni, eppure quella è la vera legge che ha governato e governa l’andamento della storia. Le generazioni si succedono, il padre e la madre guidano ed educano i figli, la loro sensibilità, il loro modello di comportamento e anche la vita del loro futuro, gli studi che dovranno fare, la qualità degli amici che frequentano, la scuola dove vengono istruiti. Naturalmente i genitori, madre e padre, hanno compiti diversi ma — se la famiglia è omogenea — i figli crescono tra loro.
Il frutto di questo pensiero comincia fin dall’inizio dell’adolescenza, verso i 14, 15 anni. A quel punto figli e figlie cominciano a pensare in modo indipendente anche se in parte informati e influenzati dai genitori e anche dalla scuola. A 20 anni sono ormai del tutto autonomi e i pensieri e i comportamenti sono decisi da loro anche se i suggerimenti dei genitori continuano e vengono ascoltati. Tra i 22 e i 25 anni è ormai il loro tempo e la loro generazione comincia ad operare in modo non più guidato ma autonomamente consapevole.
ORA la domanda è questa: la nuova società rinnovata ma continuativa fino a quando sarà in grado di trasmettere alla successiva la continuità con la precedente? L’esperienza insegna che la continuità dura di solito tre o al massimo quattro generazioni, un secolo; ma più spesso mezzo secolo o poco più, cioè 50 o 60 anni al massimo. Dopo questo lasso di tempo avviene la rottura generazionale, con i suoi effetti sulla cultura ma soprattutto sulla politica: i suoi vizi ma anche le sue virtù. In teoria la società ( polis) ha il compito di fare il bene del popolo e chi governa conferma sempre che questo è il suo compito e questo il suo obiettivo. Talvolta coincide con la realtà ma più spesso no o per errori commessi da chi governa o con il desiderio di potere che induce a decisioni che spesso producono rotture inconciliabili. Bisognerebbe cambiare questa storia ma essa coincide con la storia del mondo, e cioè con la storia delle rotture, di generazione in generazione.
Sono di vario tipo queste rotture e avvengono soprattutto per lo scorrere del tempo che segna cambiamenti epocali e nuove attitudini per viverli e gestirli. Esigono anche che vi siano personalità che guidino questi mutamenti con l’intento esplicitamente dichiarato, anche se non sempre aderente alla realtà, di gestire quella rottura e le cause che l’hanno determinata. Bisognerebbe raccontarla questa storia, ma equivale alla storia del mondo. Occorre però capire in quale situazione si trova la generazione che attualmente decide le sorti del Paese. Non c’è modo migliore per l’inizio di un’epoca nuova recependo e guidando il cambiamento che la rottura ha prodotto ma assicurando nel contempo la continuità.
La cosa più singolare è che in questo momento la rottura si è verificata in tutto il mondo democratico occidentale e non soltanto nella politica ma nella vita e nella sua complessità: la famiglia, i rapporti uomo donna, la scuola per i figli, le Istituzioni che debbono governare e controllare il Paese, la propria professione, il lavoro, il futuro.
Naturalmente la rottura epocale della quale stiamo vivendo l’inizio non ha le stesse motivazioni in tutti i Paesi dell’Occidente. Noi dobbiamo comunque essere al corrente di quella prodotta nel nostro Paese e in quella Europa nella quale viviamo. Personalmente credo che la nostra rottura politica sia stata motivata dal sistema nel quale operano molti partiti. Negli altri Paesi d’Europa e d’America non è così: nella generalità dei casi esistono Parlamenti con due partiti, una destra e una sinistra che hanno in comune il sentimento democratico e cioè fare il bene del popolo, ma inteso e applicato in modi diversi. Uno dei due vince e ha quindi la maggioranza assoluta anche se l’affluenza al voto dei cittadini elettori è in costante diminuzione. A differenza degli altri Paesi, nel nostro i partiti che hanno un rilievo, anche se si distinguono tra quelli maggiori e quelli minori, sono a dir poco cinque e questa situazione determina uno stato confusionale molto elevato. Nella storia italiana c’è sempre stata, dalla caduta della Destra storica, una molteplicità di partiti dovuta al trasformismo imperante. Naturalmente questo trasformismo fu influenzato dall’avvicendarsi delle generazioni. L’Italia, proprio per questa ragione, non è mai riuscita a unirsi sostanzialmente. Esistono un Nord, un Centro, un Sud e due isole. Affermare che le condizioni di questo territorio siano comuni a tutti è un errore madornale. Lo Stato in Italia è una costruzione più formale che sostanziale. Fu fondato nel 1861 non a caso da personaggi molto diversi l’uno dall’altro: Mazzini, Garibaldi, Cavour. Fu un’operazione della massima importanza e pluralità, ma insieme all’unità formale e politica non ci fu l’unità sostanziale dei sentimenti, del lavoro, delle risorse, dei costumi. Rimasero differenti e in parte tuttora lo sono. L’unità d’Italia fu una rottura dell’equilibrio politico precedente ma, come già detto, fu istituzionale ma non sostanziale e se guardiamo all’Italia di oggi questa situazione risulta ancora più evidente.
***
Mentre leggete queste righe si sta votando in Sicilia per eleggere il governatore di quella Regione a statuto speciale e i membri del suo Parlamento. I sondaggi che precedono il voto danno la destra di Berlusconi e di Salvini in gara per il primo posto. Chi perderà sarà il secondo; la competizione al vertice è dunque tra la destra e il Movimento 5 Stelle. Il terzo — risulta dai sondaggi — sarà il Pd. Comunque l’ingovernabilità non è prevista perché, se saranno i 5 Stelle a vincere saranno loro a governare.
Le elezioni siciliane avranno una influenza negativa sul partito renziano quando si andrà alle elezioni generali nella primavera del 2018? La maggior parte dei commentatori sostiene questa tesi. Personalmente ho molti dubbi e anzi ho quasi la certezza che questa influenza negativa non ci sarà. La ragione è questa: l’influenza delle elezioni regionali o comunali dura sicuramente il primo mese e quello successivo; a volte arriva a tre mesi ma certamente non di più. Il popolo degli elettori che va a votare alle elezioni nazionali si è già scordato di quello che è avvenuto in Sicilia, è normale che avvenga così; può influenzare alcuni professionisti della politica ma non il popolo che va a votare. Tra quelle siciliane e quelle nazionali corrono quattro mesi o forse cinque secondo che il voto si faccia a febbraio o a marzo o addirittura ad aprile. Quindi non è questa la ragione che in questo momento turba fortemente il Partito democratico.
In Italia, come abbiamo già detto, la democrazia è affidata a un numero piuttosto elevato di partiti, per consistenza maggiori alcuni e minori altri ma tutti comunque operanti attivamente nella società e nelle istituzioni.
Negli altri Paesi europei questa molteplicità di partiti non esisteva o perlomeno era di scarsissima influenza rispetto alla governabilità. Adesso tuttavia la situazione in Europa è profondamente cambiata, perlomeno in alcuni Paesi: la Spagna sta vivendo una crisi addirittura di sopravvivenza unitaria; la Germania ha subito (ed anche l’Austria) un profondo mutamento. Dopo la fine dell’ultima guerra mondiale il cancelliere Adenauer governò la Germania nella sua ripresa dopo la sconfitta nazista e nel suo europeismo che peraltro non arrivò mai oltre la confederazione dei vari Stati tra di loro. Quando arrivò Merkel esisteva già l’alleanza tra il suo partito, Cdu, e il Csu bavarese. Questa alleanza, con la legge elettorale tedesca, riuscì per un periodo a governare da sola o a passare all’opposizione di fronte a una vittoria dell’Spd, il partito socialdemocratico tedesco. Successivamente però la situazione cambiò e la Cdu ebbe sì il maggior numero di parlamentari ma non la maggioranza assoluta. Cominciarono dunque le “grandi coalizioni”. Quelle più frequenti furono con il partito socialdemocratico che però ebbe un peso molto notevole sulla politica generale del Paese.
Questa volta la situazione elettorale è andata diversamente: il Partito socialdemocratico aveva già perso la sua ala sinistra (Linke) e Schulz che ne era diventato da poco tempo segretario ha dovuto registrare una perdita molto pesante nelle ultime elezioni. In conseguenza ha deciso di passare comunque all’opposizione per tentare di risollevare il suo partito e in tal modo ha messo Merkel in seria difficoltà: deve cercare alleanza alla sua destra dove i liberali- liberisti sono decisamente conservatori nell’economia del rigore e antieuropei: l’Unione confederata sì, la federazione no a nessun patto. Ora Merkel si trova in questa molto scomoda ma inevitabile situazione: il suo partito di centrodestra si allea con la destra. Il suo peso in Europa è inevitabilmente diminuito; il tandem con la Francia è diventato di fatto inesistente perché Macron si avvale della situazione tedesca e si è posto come numero uno dell’europeismo operante. Per alcuni versi la situazione italiana somiglia a quella tedesca anche se gli attori sono profondamente diversi da quelli della Germania. Esaminiamo questa situazione.
Cominciamo dal Movimento 5 Stelle nel quale si è prodotta una situazione completamente diversa da prima: il candidato premier e quindi il capo del partito è da poche settimane Di Maio il quale sta dimostrando un’attitudine a guidare un movimento ormai di fatto diventato partito, molto diversa da quella del suo predecessore. Grillo aveva in mente soltanto l’abbattimento di tutti gli altri partiti. Il fatto di raggiungere una maggioranza assoluta lo lasciava abbastanza indifferente perché non avrebbe mai raggiunto il 51 per cento da solo. Del resto, come ho già detto, a lui non interessava governare: voleva soltanto una scopa per portar fuori l’immondizia degli altri partiti; poi sarebbe accaduto quello che nessuno avrebbe potuto prevedere e tantomeno Grillo.
Di Maio è invece completamente diverso e Grillo è ormai diventato una sorta di suggeritore, ascoltato o no. Di Maio non vuole spazzar via gli altri ma vuole vincere. Sa benissimo però che quand’anche vincesse le elezioni di primavera da solo non potrebbe governare e quindi qualche alleanza dovrà pure prevederla visto che il premio esistente nella precedente legge elettorale è ormai del tutto scomparso. È pur vero che un 5 Stelle alleato direttamente con un altro partito allo stato dei fatti è imprevedibile anche perché probabilmente provocherebbe una forte diminuzione degli aderenti i quali sono grillini per protestare. Se gli domandi il programma ti rispondono che ce l’hanno ma non te lo vengono a spiattellare. Protestano e quindi sono dei protestatari, il che in qualche modo li avvicina ai populisti.
Di Maio non può certo abbandonare questa posizione ma deve in qualche modo inserirsi nella politica e non sputarle contro. Infatti ha previsto che alle prossime elezioni inviterà anche e soprattutto persone competenti nelle materie principali del governo, in economia, politica sociale, scuola, problemi europei, immigrazione. Personalità competenti e simpatizzanti anche di altri partiti. Se riuscirà in questo disegno avrà alcune alleanze indirette ma operanti e quindi il suo 25 per cento potrebbe avvicinarsi addirittura al 40. Insomma dei Verdini su misura 5 stellata. Non a caso ci sarà nei prossimi giorni un lungo incontro- scontro tra Di Maio e Renzi. Ho la vaga sensazione che l’incontro sarà più interessante dello scontro, altrimenti non ci sarebbe questo appuntamento televisivo da entrambi desiderato. Mostreranno tutti e due i muscoli al pubblico, ne parleranno tutti i giornali. Non ho ben capito quali siano le ragioni di Renzi per questo appuntamento ma si capiscono benissimo quelle di Di Maio, dunque è lui a guadagnare più dell’altro. Comunque con Di Maio i 5 Stelle, diventati ormai un partito, possono guadagnare qualche punto: dall’attuale 28 possono anche arrivare alla trentina, certo non di più.
La destra berlusconiana. Non può che chiamarsi così anche se è alleata di Salvini e di Meloni che insieme i sondaggi li prevedono al 18 per cento mentre Forza Italia di Berlusconi gira tra il 12 e il 14. Uniti insieme arrivano più o meno al 30. Ma chi è il capo? Salvini rivendica questa posizione e numericamente insieme ai Fratelli d’Italia ce l’ha, ma Berlusconi è un giovanotto di ottant’anni ancora interessante e soprattutto interessato. L’alleanza con Salvini è indispensabile per lui ma può eventualmente cercarne altre, mentre con Salvini non ci va nessuno; è lui che deve raccogliere voto per voto come ha tentato di far perfino in Sicilia. Ma, Meloni a parte, nessun altro si alleerà con Salvini al posto di Berlusconi quindi Salvini ha un percorso solitario, Berlusconi può cambiare gioco come vuole. Non a caso il primo è antieuropeista e il secondo è europeista in piena regola anche se dell’Europa non gli importa assolutamente niente ma gli è molto utile conservare l’immagine e non a caso è tuttora iscritto al partito popolare dell’Unione. Comunque l’alleanza attuale gira anch’essa intorno al 30 per cento, alla pari più o meno con i 5 Stelle.
Il Partito democratico è guidato da un Renzi che ha riscoperto, dopo la celebrazione del decennale dalla fondazione del partito, il fascino del “Comando io”. Evidentemente è un atteggiamento caratteriale dal quale non si separerà mai.
Il “Comando io” è una realtà generale nella storia dei popoli: se non c’è un leader non esiste un partito. Il tema però non è quello di mirare la leadership ma la sua struttura operativa che deve essere collegiale come è sempre stata la civiltà occidentale. C’è uno Stato Maggiore sempre e dovunque: negli eserciti, nelle comunità, nelle religioni, nei sindacati, nelle famiglie. Un leader e i suoi compagni. Il “Comando io” ce l’hanno soltanto i dittatori ma quelli ormai, almeno in Occidente, non esistono più.
Del resto il Partito democratico è percorso da crescenti fremiti: Orlando freme, Franceschini freme, tutte e due sono nel governo ma tutte e due controllano pacchetti di voto nel partito. Ma poi c’è un altro gruppo di comando di grande autorevolezza a cominciare da Veltroni, da Prodi, da Enrico Letta, che dovrebbero far parte dello Stato Maggiore. Quindi il “Comando io” è pura follia in un sistema democratico. Naturalmente c’è un Rosato, una Boschi, la presidente della Regione Friuli Venezia Giulia Serracchiani, ma quello è il giglio magico non uno Stato Maggiore.
Dopo avere esaminato i tre principali raggruppamenti politici, contornati da raggruppamenti minori, a cominciare dai dissidenti di D’Alema e di Bersani, chiudiamo parlando del governo Gentiloni. Il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, si è rivelato in pochi mesi un vero uomo di governo, fu investito di questa funzione quando Renzi la rifiutò dopo la sconfitta referendaria e indicò lui al presidente della Repubblica. Sembrava un suo sostituto messo a Palazzo Chigi e obbediente alle sue indicazioni.
Che Gentiloni sia riconoscente e quindi affettuosamente amico di Renzi è pacifico ed è dovuto, ma Gentiloni, che è persona di notevole intelligenza politica e moralità, si è immedesimato, come era ovvio e necessario fare, con la carica che gli fu affidata. L’ha condotta con indipendenza e intelligenza e ha creato un binomio con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che rappresenta uno dei punti più saldi di una situazione peraltro molto agitata. Nel suo governo ci sono alcune personalità di prim’ordine sulle quali una dominante: il ministro dell’Interno, Marco Minniti. Ne parlo perché la sua personalità politica è piuttosto rara: oltre che ministro dell’Interno lo è anche dell’Immigrazione, degli Esteri per quanto riguarda la costiera africana del Mediterraneo e perfino dell’Economia per quanto riguarda le ripercussioni migratorie. È legato soprattutto a Gentiloni ed è di fatto il suo braccio destro. Questo governo condurrà l’Italia fino alle elezioni generali di primavera, ma non è affatto escluso che Gentiloni sia il successore di se stesso. Gli uomini su cui contare per il nuovo governo li conosce benissimo. Una parte saranno di nuova provenienza politica e una parte saranno quelli riconfermati. Se Renzi formasse il suo Stato Maggiore probabilmente riguadagnerebbe punti e arriverebbe di nuovo al 30. Tre gruppi al 30 rendono il Paese ingovernabile, tanto più che una nuova generazione non è ancora operativa e quindi il popolo sovrano è ancora di vecchio stampo.
In realtà la nuova maggioranza la deve trovare Gentiloni altrimenti l’ingovernabilità non è superata. I Verdini non bastano, bisogna che il Pd cresca e non si chiami più partito renziano. Lui resti il leader ma senza Stato Maggiore è meglio che si ritiri a Pontassieve.

Repubblica 5.11.17
Le rivelazioni del legale della famiglia
Mps, ora c’è un uomo misterioso nel giallo della morte di David Rossi
di Sergio Rizzo

PERCHÉ l’avvocato Luca Goracci non abbia mai rivelato l’incontro misterioso, lo spiega egli stesso: «Era la terza o la quarta persona che si presentava millantando di sapere qualcosa sulla morte di David Rossi, poi sparita nel nulla. E non avrei mai potuto provare niente». Certo è che nell’episodio della fine violenta del capo della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena ogni particolare rischia di non essere insignificante.
LA MORTE, avvenuta mentre infuriava la bufera giudiziaria sull’acquisizione della banca Antonveneta, la sera del 6 marzo 2013 in circostanze mai chiarite, è stata archiviata due volte come suicidio. E ora è giunto il momento di raccontare anche questo episodio, per assurdo che possa apparire. Ecco allora che cosa è successo nei giorni tra la fine di febbraio e i primi di marzo del 2016 al legale che sta minuziosamente seguendo per la famiglia di Rossi questa vicenda, ostinandosi a non credere alla versione ufficiale.
«Il caso di David», rievoca Goracci, «era stato riaperto a novembre 2015. A febbraio mi telefona un tizio dicendomi che mi deve parlare del caso Rossi. Non vuole dare il numero di telefono, ma richiama sempre lui. Dopo un appuntamento mancato ci incontriamo nel mio studio: doveva essere l’inizio di marzo 2016. Sui quaranta, un metro e ottanta, distinto. Dice di essere un imprenditore che lavora nel mantovano. Dice di conoscere Rossi e di farsi vivo solo ora dopo tre anni passati all’estero, perché il caso era stato riaperto». Ma quale segreto ha da rivelare? «Mi dice », continua Goracci, «di aver fissato un incontro con David alle ore 18 del 6 marzo 2013, giorno della sua morte. Però di essere arrivato in ritardo di quasi due ore. Dice perfino di ricordare che il suo orologio, quando si trova ai Ferri di San Francesco segna dieci minuti alle otto». In quel momento David è già a terra nel vicolo. «Il mio interlocutore dice di essere arrivato proprio lì e di aver visto il corpo di Rossi. Fa per avvicinarsi, ma succede l’imprevedibile: viene assalito alle spalle da tre o quattro persone. Dopo una breve lotta si divincola e scappa, mentre sente esplodere un colpo d’arma da fuoco», ricorda l’avvocato. A questo punto Goracci gli chiede il perché di quell’appuntamento. «Ed è lì», spiega il legale della famiglia, «che lui comincia a parlare di conti correnti aperti dalla banca con l’intervento di alcuni dirigenti per i finanziamenti necessari alla sua attività imprenditoriale a Brescia e Mantova». A Mantova anche Rossi si recava spesso, visto che era vicepresidente del Centro Palazzo Te, una Fondazione culturale comunale. Nel racconto affiorano altri particolari: «Lì a Mantova, secondo il mio interlocutore, si frequentavano con cadenze quasi settimanali. E un giorno, forse verso la fine del 2012, lui si sarebbe recato con Rossi a Roma per incontrarsi con una persona che avrebbe consegnato loro una valigetta, e poi David si sarebbe fatto accompagnare all’Ospedale di Siena con quella valigetta». La storia sembra sempre più sconclusionata. Ma Goracci, dopo l’incontro, ricorda un curioso particolare riferitogli in un’occasione dal fratello di David, Ranieri. E verifica quella circostanza: un giorno del 2012 David si era effettivamente presentato in ospedale, dove il padre era ricoverato, proprio con una valigetta.
Era il 7 novembre. «La narrazione prende poi una piega strana, il tizio comincia a parlare di denaro in nero che veniva dalle fatture di operazioni immobiliari a Mantova. Pare tutto assurdo. Ci salutiamo a finisce lì. Non l’ho più visto né sentito. Ma ricordo bene che si era presentato come Antonio Muto».
Quando si pronuncia quel nome, a Mantova è automatico associarlo a quello dell’Antonio Muto processato e assolto, tanto in primo quanto in secondo grado, dall’imputazione di contiguità con le cosche mafiose che in quella zona controllano affari, politica e appalti. Oggi ha 55 anni: quando è arrivato da Cutro, nella provincia calabrese di Crotone, era appena un ragazzo che faceva il muratore. Adesso, come lo descrive la giornalista della Gazzetta di Mantova Rossella Canadè nel suo libro inchiesta “Fuoco criminale - La ‘ndrangheta nelle terre del Po”, è “il costruttore più noto e più chiacchierato della città”. A giugno scorso è finito ancora in manette con l’accusa di aver distratto fondi dalla sua società impegnata in una grande iniziativa immobiliare nel centralissimo piazzale Mondadori, poi fallita, in favore di una seconda società creata per una gigantesca speculazione nell’area vincolata di Lagocastello. Operazione che a sua volta ha originato un’inchiesta su presunte pressioni che a dire dei magistrati sarebbero state esercitate su Consiglio di Stato e ministero dei Beni culturali per far cadere quel vincolo. E l’11 dicembre il gip di Roma dovrà decidere se mandare a processo Muto insieme ad alcuni personaggi di primo piano come l’ex senatore democristiano ed ex consigliere della Finmeccanica Franco Bonferroni, l’ex presidente della Commissione Lavori pubblici del Senato Luigi Grillo e l’ex presidente del Tar Lazio Pasquale De Lise. Ma anche l’ex sindaco forzista di Mantova Nicola Sodano, architetto di origini crotonesi che gli inquirenti ritengono cointeressato con Muto nella vicenda Lagocastello. Domanda d’obbligo: che c’entra la banca senese in una vicenda così torbida? Nelle carte dell’inchiesta sulla ‘ndrangheta c’è un pentito il quale riferisce ai magistrati di aver appreso da Muto che «a Siena c’era un altissimo funzionario che sboccava i movimenti, anche se poi voleva la sua parte ». Non è un pentito qualsiasi, ma il commercialista della cosca. Vero o falso che sia, è un fatto che i soldi per piazzale Mondadori, 27 milioni e mezzo, siano arrivati proprio dal gruppo Monte dei Paschi. A Siena Muto, accompagnato da Bonferroni, ha incontrato a più riprese alcuni dirigenti: una volta pure l’ex amministratore delegato Fabrizio Viola. Quanto a Rossi, anche lui è effettivamente di casa a Mantova, dove il Monte ha rilevato molti anni prima la Banca agricola mantovana. Come detto, David è stato designato nel 2011 alla vicepresidenza del Centro Palazzo Te in rappresentanza della banca senese: lo stesso giorno in cui il sindaco Sodano ne è stato nominato presidente.
Le sorprese, però, non sono finite. Quindici giorni dopo quella misteriosa visita del sedicente imprenditore mantovano all’avvocato Goracci, il giornalista Paolo Mondani che sta conducendo un’inchiesta sui grandi debitori delle banche italiane intervista per Report su Rai3 proprio Antonio Muto. E ci manca poco che l’avvocato Goracci, davanti al teleschermo, caschi dalla sedia: «Non era la stessa persona che avevo incontrato. Decisamente un altro». Qual è allora l’identità del misterioso visitatore? Forse quella di un omonimo? «Antonio Muto costruttori edili fra Mantova e Provincia saremmo una quindicina », dice l’intervistato a Mondani. Abbiamo controllato. Di Antonio Muto iscritti al registro delle imprese ce ne sono 44, e di questi 4 operano in provincia di Mantova: due sono di Cutro, il terzo di Crotone. Quanti di loro affidati dal Monte dei Paschi?

il manifesto 5.11.17
Banche, Casini incontra Renzi faccia a faccia tra le polemiche
A poche ore dalle elezioni in Sicilia. Colloquio a Firenze sulla commissione d’inchiesta e le elezioni 2018: protestano tutti. Movimento 5 Stelle: «Si fa dettare l’agenda dal Pd?» Sinistra Italiana: «Siamo ai pizzini mediatici»
di Roberto Ciccarelli

La photo opportunity di Pier Ferdinando Casini, presidente della commissione bilaterale sulle banche, con il segretario del Pd Matteo Renzi al consiglio regionale della Toscana ieri è apparsa inopportuna e ha sollevato un vespaio di polemiche su una vicenda – l’offensiva contro Bankitalia e sulle banche venete e i tentativi di rovesciare l’immagine del Pd sul caso Banca Etruria-Boschi – sulla quale gravano pesanti incognite elettorali. Secondo alcune indiscrezioni, in un incontro privato di 20 minuti, Casini e Renzi avrebbero parlato della commissione e sulle future alleanze in vista delle elezioni del 2018. «Che ci fa lì Casini? Si fa dettare un’agenda a uso e consumo del segretario Pd?» hanno protestato i Cinque Stelle. Per Giovanni Paglia (Sinistra Italiana) «praticamente siamo ai pizzini mediatici, dov’è il rispetto per la credibilità delle istituzioni?». «Chiederemo conto a Casini nella prossima seduta» ha annunciato Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia). Casini, a Firenze per la presentazione di un libro, ha risposto: «Stiano sereni, un incontro riservato non si fa di fronte a cento persone». Ciò non vuol dire che incontrare chi, come Renzi, ha molto investito sulla commissione che si presiede sia la cosa migliore da fare a poche ore prima dell’apertura delle urne in Sicilia.
DALLE ELEZIONI SICILIANE Renzi si aspetta brutte sorprese. Una vittoria del centro-destra, o degli stessi Cinque Stelle, potrebbe azzoppare la non proprio trionfale campagna elettorale nazionale partita sul treno con «destinazione Italia», ma invisibile ai più. Potrebbe aprirsi un fronte interno al Pd. In vista delle elezioni politiche di primavera, sono settimane che ci si esercita nella previsione di una resa dei conti in casa Dem. Si ritiene, infatti, che un «cappotto» siciliano possa incoraggiare i malpancisti del Nazareno a lanciare il cuore tremebondo oltre l’ostacolo, mettendo in discussione la leadership di Renzi. Con Gentiloni (Minniti, Franceschini o Delrio) candidati nel 2018 al suo posto, sembra che sarà più facile ricomporre la famiglia piddina da poco scissa. A cominciare da Mdp, si specula. Ma non tutto è così semplice come il retroscena vuole. Roberto Speranza (Mdp) trova «intollerabile l’idea di buttare Bankitalia e le banche in una campagna elettorale scomposta».
AL DI LÀ DEL DIBATTITO sulla coalizione di «centro-sinistra», o circoscritta ai nanetti, è proprio quello che Renzi sembra intenzionato a fare. Se è così, lo si potrebbre vedere già giovedì quando la commissione tornerà a riunirsi a palazzo San Mancuto con un nuovo confronto con il capo della sorveglianza di Bankitalia, Carmelo Barbagallo, e Angelo Apponi della Consob. La prima audizione dei due non ha convinto i 40 parlamentari. Casini ha ricordato che sono emerse «incongruenze» dalle rispettive ricostruzioni sulle banche venete. Bankitalia e Consob hanno contrattaccato, sostenendo la tesi della responsabilità dei bancari. Fino a ieri tra le battaglie che si stanno giocando attorno alla commissione c’è stata quella di trascinare i lavori oltre la fine della legislatura, in regime di «prorogatio», a campagna elettorale inoltrata. L’intento del Pd avrebbe dovuto essere quello di usare il tema banche in chiave populista, in diretta concorrenza con i Cinque Stelle, contro i «poteri forti», fino a colpire il governatore Visco e, indirettamente, Mario Draghi (Bce) che ha voluto la riconferma del governatore. Sono ormai in molti a vedere quest’ultimo, tra un paio d’anni, a palazzo Chigi, nella poltrona dove Renzi vorrebbe tornare a sedersi.
CONTRO L’IMPROBABILE proroga elettorale della commissione si era espresso Casini. A dargli man forte ieri sono arrivate le lettere dei presidenti del Senato e della Camera. Piero Grasso e Laura Boldrini hanno confermato l’ovvio: a fine legislatura tutte le commissioni, dunque anche quella che preme a Renzi, si astengono da qualsiasi attività «inquirente». Possono stilare una relazione sull’attività svolta. Grasso e Boldrini hanno soddisfatto un’altra richiesta di Casini: i commissari potranno partecipare ai lavori in concomitanza del voto nei due rami del parlamento. Saranno considerati «in missione» quando sarà calcolato il numero legale in aula.
LA STRATEGIA di spremere elettoralmente la commissione, anche oltre la fine del mandato, sembra essersi così arenata. Considerato il clima da ring politico che la circonda non è escluso che sarà architettato un altro marchingegno procedurale, senza escludere colpi di teatro di ogni tipo. Forse, anche per questo, Casini avrebbe fatto meglio a scegliere un’altra meta per passare il suo week-end. Pur avendo sollecitato l’intervento di Grasso e Boldrini, così ha prestato il fianco alle polemiche mettendo in ombra la sua posizione «super partes», mentre, è quasi certo, che Renzi punterà ad alzare il tiro e ad accelerare il passo prima che la legislatura si chiuda definitivamente.

Il Fatto 5.11.17
Il Pd Roma non cambia mai. La carica dei soliti cacicchi
Il gattopardismo di Orfini nella Capitale
di Andrea Managò

Il volto del governatore del Lazio Nicola Zingaretti, tra i 27 nomi su cui la Procura di Roma potrebbe aprire un’indagine con l’ipotesi di falsa testimonianza per la loro deposizione al processo su Mafia Capitale, è forse quello più conosciuto del Pd romano. Dietro di lui però si muove una federazione cittadina che ha superato l’indagine e le condanne in primo grado per l’inchiesta sul “Mondo di mezzo” sostanzialmente facendo finta di nulla.
Perché nonostante il lungo commissariamento dei dem cittadini, guidato da Matteo Orfini, sia partito subito dopo i primi avvisi di garanzia a dicembre 2014, capicorrente e portatori di voti sono rimasti in buona parte gli stessi. Qualcuno si è ritagliato un ruolo più defilato, altri hanno rivendicato il loro operato integerrimo ma di volti nuovi non se ne vedono ed i pochi giovani che provano a cambiare sparito, come alcuni ex presidenti di Municipio o i ragazzi impegnati nella campagna elettorale di Ostia, vengono spesso tenuti ai margini. Di fatto a tenere le redini del Pd romano sono ancora le seconde file della lunga stagione di governo del centrosinistra in Campidoglio, guidata prima da Francesco Rutelli e poi da Walter Veltroni: funzionari di partito poveri di idee ma ricchi di preferenze. Almeno fino a qualche anno fa.
A svuotarsi sono state soprattutto le urne, con una prova elettorale assai modesta alle comunali dello scorso anno e la prospettiva di arrivare addirittura quarti al primo turno delle elezioni di oggi per il Municipio di Ostia, sciolto per infiltrazioni mafiose da oltre due anni dopo la consiliatura a guida dem del presidente Andrea Tassone, condannato a 5 anni in primo grado nel processo sul Mondo di mezzo. Il commissariamento partì col piede giusto con la relazione, durissima, di Fabrizio Barca, che ha mappato 27 circoli giudicati “dannosi”, sorretti da un tesseramento gonfiato. Ma è proseguito nel peggiore dei modi: una faida fatta di accuse sui circoli chiusi per indebolire questa o quella corrente. Uno scenario balcanizzato in cui Matteo Orfini, forte di un accordo con i renziani capitolini, si è trovato a gestire la pulizia delle correnti pur essendone lui stesso uno dei leader.
Dato il contesto non c’è da stupirsi se il gruppo Pd in Campidoglio, che pure conta 8 consiglieri ma nessun leader capace di una nuova visione della Capitale, rimanga spesso a guardare l’opposizione alla giunta 5 Stelle guidata perlopiù da Fratelli d’Italia. O se ad Ostia l’unico disposto a candidarsi è stato Athos De Luca, ex senatore che gode di una stima bipartisan ma ha costruito la sua carriera politica lontano dal litorale. Per tacere dell’assenza di una reale discussione sulla defenestrazione dell’ultimo sindaco dem, Ignazio Marino, sfiduciato via notaio due anni fa dagli stessi luogotenenti che ancora dominano il partito.
Nessun condannato, sia chiaro, ma basta scorrere gli eletti nelle istituzioni locali, nazionali e comunitarie per farsi un’idea. Ecco spuntare il popolare Enrico Gasbarra, ex presidente della Provincia di Roma, defilato a Bruxelles dopo un’elezione forte del sostegno dell’area che fa capo al deputato Umberto Marroni. Erano vicini ai marroniani Daniele Ozzimo, condannato in appello a 2 anni e 6 mesi in uno dei filoni del maxiprocesso della Procura di Roma, così come Pierpaolo Pedetti (7 anni in primo grado per Mafia Capitale). O Micaela Campana, adesso transitata nella corrente del ministro Maurizio Martina, anche lei tra i 27 per cui potrebbe arrivare un supplemento di indagine, deputata salita agli onori delle cronache per i suoi 37 “non ricordo” durante la deposizione nel processo a Salvatore Buzzi e Massimo Carminati. In Senato siede invece uno dei Mr preferenze dei Castelli romani, Bruno Astorre. Tra gli uomini a lui vicini c’è Daniele Leodori, presidente del Consiglio regionale del Lazio: anche lui figura nella lista di nomi mandata dal tribunale alla procura. Astorre fa parte dei 16 rinviati a giudizio per la gestione dei fondi del gruppo regionale nella legislatura di Renata Polverini: con lui anche il senatore Claudio Moscardelli, il deputato Marco Di Stefano e l’orfiniano Claudio Mancini ora in lizza per un posto in Parlamento.
Le indagini vanno avanti, il Pd romano meno. E la segreteria cittadina, guidata dal giovane Andrea Casu, appare debole: la condizione migliore per proseguire col predominio dei vecchi capibastone.

il manifesto 5.11.17
A Ostia sono i 5 Stelle a temere rabbia e sfiducia
Ostia (Roma). Nel municipio del litorale romano, 230 mila abitanti, si vota oggi per il primo turno. L'incognita Casapound. Il ruolo del clan Spada, che cambia cavallo
Ostia, la chiusura della campagna elettorale della candidata M5S Giuliana Di Pillo
Giuliano Santoro

ROMA A Ostia, 230 mila abitanti, si vota oggi per il primo turno delle elezioni municipali. C’è un’analogia, al momento, tra il contemporaneo voto siciliano e quello del municipio del litorale romano: i sondaggi dicono che si contendono la vittoria il centrodestra e il Movimento 5 Stelle. Il Pd è fuori gioco con la candidatura poco più che di bandiera di Athos De Luca, uomo di un’altra stagione, quella delle giunte di Rutelli e Veltroni, che appare quanto mai fuori luogo.
IL CENTRODESTRA si presenta unito. Sostiene la consigliera municipale uscente Monica Picca. I grillini sono dati in calo rispetto al 43 per cento delle comunali di un anno e mezzo fa. Hanno scelto di candidare Giuliana Di Pillo, anche lei già consigliera municipale, molto vicina a Virginia Raggi. «L’astensionismo è il vero nemico da battere. Parlate con i vicini e ditegli di andare a votare», dice ai suoi la sindaca di Roma, osservando le piazze non proprio piene dei comizi finali. Tutte le piazze apparivano sguarnite.
Il non voto è l’incognita che potrebbe creare diverse anomalie. La prima è il successo, annunciato come una profezia che si autoavvera, dell’estrema destra di CasaPound. I «fascisti del terzo millennio» hanno il volto del trentaduenne Luca Marsella. Hanno investito molto sul quartiere di Nuova Ostia, altro luogo che racconta Roma e l’Italia intera. Qui si trovano le case popolari costruite per ospitare i vecchi baraccati, un terzo delle quale sarebbero abitate da «abusivi». All’epoca questi palazzi erano una conquista che presagiva condizioni migliori. Ma le piazze in cui le sinistre sfondavano sono diventate ghetti dove costruire egemonia con la forza oppure praticare quello che Marsella chiama «sindacalismo del popolo». Assieme ai suoi camerati ha condotto una campagna elettorale sul modello di Alba Dorata in Grecia, fatta di raid squadristici in nome del decoro, distribuzione di alimenti ai più poveri e campagne contro i migranti esemplificate nella ossessiva richiesta di sgombero della colonia Vittorio Emanuele, occupata dai movimenti per la casa. Soprattutto, quelli di CasaPound sono accusati di relazioni pericolose con personaggi scomodi della malavita locale, culminate nell’appello al voto di Roberto Spada, fratello di Carmine, quel «Romoletto» considerato uno dei capi del clan che secondo le sentenze avrebbe portato una mafia autoctona nella capitale. L’Alba Dorata all’italiana e le attività degli Spada convergono nella costruzione di una forma perversa di welfare, all’interno del quale, dicono le sentenze sulle attività del clan, funzionerebbe il racket delle case popolari e la loro illecita assegnazione a soggetti compiacenti. Risulterebbe intestata alla moglie di Roberto, ad esempio, la palestra attiva abusivamente in spazi comunali che negli anni scorsi ha organizzato eventi assieme a CasaPound.
VA DETTO CHE LO STESSO Roberto Spada due anni fa si era schierato con il M5S. Il suo spostamento politico è emblematico. Ai tempi della trionfale elezione di Raggi ci fu l’assedio delle ridotte del centro storico da parte dei municipi periferici conquistati dai grillini. Fu fatta facile sociologia e vennero disegnate mappe improvvisate. In quell’occasione i margini affidarono la loro vendetta ai grillini. Grazie a questa vittoria disincantata e volatile, il baricentro politico si spostò su Raggi e sul suo inner circle. A guardare la composizione sociale di quel voto, accadde che la voglia di riscatto delle periferie finì in mano alla piccola avvocatura in cerca di rivincite. Ostia parrebbe dirci che quella delega è scaduta. Questo grande lembo di periferia sud occidentale potrebbe regalare un successo alle destre e alle loro versioni più estreme, forze che nulla hanno a che vedere con la retorica dell’onestà.
FORSE PER LA PRIMA VOLTA, i grillini si misurano con una rabbia che non riescono a captare. Temono la disillusione e la sfiducia verso la politica più degli altri partiti. Silvio Berlusconi, arrivato da queste parti, si è rivolto proprio «alle persone deluse, scoraggiate, scettiche», tentando di vendere al prossimo l’ennesima magia. Matteo Renzi ha scelto di non farsi vedere.
Prova a sparigliare, ed ecco l’altra anomalia, Franco De Donno. Il prete della Caritas locale si è messo in testa di colmare il divario che separa «la strada dalle istituzioni». Accanto a lui nella lista che prende il nome di Laboratorio civico ci sono tutte le forze a sinistra del Pd. «In questa campagna elettorale ho visto edifici pubblici in abbandono, beni preziosi che non si possono far decadere. Dobbiamo puntare sulla valorizzazione del territorio, sull’archeologia, le risorse naturali, le spiagge, il verde», ha detto De Donno alla volata finale.

La Stampa 5.11.17
Ostia si arrende al degrado
E i clan votano CasaPound
Oggi il voto nel quartiere alle porte di Roma: “Qui niente accade per caso”
di Federico Capurso

Il bastone ben puntato a terra, il piede si solleva a fatica per scavalcare un residuo di plastica rimasto sull’asfalto, annerito dal fuoco. «Ne sono andati a fuoco una trentina di cassonetti l’altra notte» - «Qui non c’è quasi mai nulla che brucia per caso». Bruno e Gastone, pensionati, passeggiano nella foschia mattutina che avvolge il litorale romano, sul lungomare di Ostia, «arresi» al degrado e all’illegalità che da anni ormai li circonda.
Alle loro spalle, in attesa di essere smontati, si stagliano gli scheletri di tre palchi, l’uno a poche centinaia di metri dall’altro, sui quali la sera prima si sono svolti gli ultimi comizi elettorali. Dovrebbero simboleggiare il baluardo della politica contro l’illegalità, ma qui, a poche ore dal voto, al riscatto di Ostia ci credono in pochi; nonostante queste elezioni segnino la fine, dopo due anni, di un pesante commissariamento per mafia. Già, perché oggi non c’è solo la Sicilia, terra di conquista politica fondamentale per il suo valore simbolico in vista delle politiche nazionali. Chi osserva con attenzione questa tornata elettorale, guarda anche a Ostia. Cuore del decimo municipio di Roma, con i suoi 230mila abitanti ha la forza di una vera e propria città e si candida ad essere la possibile cartina di tornasole di più ampi sviluppi politici.
Ostia è il mare della Capitale, ma solo per tre mesi l’anno. Il resto del tempo, quando terminano le file per prendere un lettino e i locali sulla spiaggia si spengono, torna ad essere il laboratorio della mafia romana. Le famiglie Falciani, Spada e Triassi si spartiscono da anni territorio e potere, tra estorsioni, spaccio di droga, affari imprenditoriali e sparatorie in strada alla luce del giorno. Gli Spada avevano pensato di candidare alla presidenza del municipio il reggente della famiglia, Roberto Spada. Dopo le passate simpatie espresse pubblicamente per il Movimento 5 stelle, lo stesso Roberto Spada ha deciso di appoggiare il candidato di CasaPound. Il movimento di estrema destra a Ostia è ben radicato e si è fatto portabandiera, negli ultimi anni, della battaglia per il diritto alla casa. Un mondo su cui, non a caso, pesano gli interessi degli stessi Spada, che hanno già subito sette arresti e altrettante condanne in primo grado per il racket degli alloggi popolari del litorale romano. Il consenso di CasaPound, però, cresce. «I miei ex alunni votano quasi tutti CasaPound o Movimento 5 stelle, lo vedo dalle loro bacheche di Facebook», racconta Elsa, professoressa di liceo che ha raggiunto Bruno e Gastone al tavolo del bar di fronte al lungomare. I Cinque stelle, che alle elezioni del 2016 per il sindaco di Roma a Ostia hanno conquistato il 44% dei consensi, rimangono i favoriti, ma dovranno pesare la probabile emorragia di voti post-Raggi. I cavalli di battaglia grillini dell’«onestà» e della «legalità», poi, sono diventati le parole d’ordine di tutti i candidati, dal Pd - che ha visto il suo ex presidente di municipio arrestato causando il commissariamento per mafia - fino al centrodestra, che si presenta unito (ma con comizi categoricamente separati) e viene accreditato come probabile sfidante del M5S per la vittoria finale. In tanti, però, pensano di non andare a votare, estremizzando nell’astensionismo anche quel voto di protesta che aveva portato al trionfo Virginia Raggi.
Questo, d’altronde, è il quartiere più complesso di una città come Roma, che viene considerata a sua volta la più difficile da amministrare d’Italia. È un quartiere sul mare dove, per assurdo, il mare non si vede, oscurato da un muro infinito, costruito calpestando con noncuranza la legge. Ostia è l’unico municipio in cui un tribunale ha accertato la presenza di mafia e dove, al tempo stesso, il distaccamento del Tribunale di Roma è stato chiuso. Dove l’eroina non se ne è mai andata, e viaggia tra gli strip club, le slot machine, la prostituzione, proprio come nella serie televisiva «Suburra». Con i neon che nella notte danno sfoggio di una città malata, mentre il commissariato di polizia, fino a poco tempo fa, poteva contare solo su una volante da mettere in strada a ogni turno. Insomma, una terra di sperimentazione distruttiva in cui, all’alba del voto, ha già vinto la dilagante sfiducia di chi si è arreso.

Repubblica 5.11.17
Pierluigi Bersani.
Il leader di Mdp: “Grasso con noi ci starebbe da dio, ma non gli tiriamo la giacca”
“Non credo alla svolta dentro i democratici Matteo non cambierà neanche se perde”
intervista di Giovanna Casadio

MARSALA. «Nelle nostre file, con Mdp, Pietro Grasso ci starebbe da dio… ma ora nessuno di noi tira il presidente del Senato per la giacchetta». Pierluigi Bersani ha chiuso venerdì sera la campagna elettorale siciliana a Marsala e ora, giù dal palco, l’ex segretario del Pd guarda oltre la Sicilia, al voto politico. Ma non vede le condizioni né per un’alleanza col Pd, né per un ribaltone dentro ai dem. Piuttosto un ultimo appello a Pisapia: «Non ho perso la speranza di una unità con Giuliano, ma non possiamo immaginare continuità con le politiche di questi anni, dal Jobs Act alla scuola, se no gli elettori del centrosinistra che già si sono nascosti nel bosco, ne escono ma col bastone in mano».
Bersani, il test di queste regionali in Sicilia quale lezione politica consegna? Cosa prevede che cambi?
«Per Mdp è un abbrivio. Per noi si tratta di un punto di inizio, di una partenza: ma su tutto il resto, in particolare sull’ipotesi che il Pd cambi linea, che Renzi impari la lezione, francamente non ci credo affatto ».
Però il segretario dem ha aperto alla coalizione di centrosinistra e quindi a una nuova strategia politica.
«Non mi pare ci siano le condizioni per cui un netto risultato negativo in Sicilia porti a un ribaltone nel Pd, come magari pensano alcuni».
Si riferisce a Andrea Orlando e alla sinistra dem?
«Dico solo che ho visto sconfitte del Pd dal 2015 in poi che non sono state neppure oggetto di una riunione. Non abbiamo usato le regionali siciliane per barattare cose sul piano nazionale. Chissà poi chi gliel’avrà detto a Renzi che con Alfano si stravinceva… si sono aggiustati un sacco di cose, compresa la legge elettorale, con l’alleanza siciliana».
Renzi non ci ha messo la faccia in questa campagna elettorale siciliana, secondo lei perché?
«Beh, tira un’aria pesante qui per lui».
In vista del voto politico del 2018 non spera in un cambio di linea politica dem?
«Ripeto non è nello stile di Renzi riconoscere gli errori. Piuttosto io vedo, settimana dopo settimana, una attenzione crescente da parte della gente del centrosinistra che sta cercando un’altra strada. Gente che viene con noi ce n’è stata e ce ne sarà, ma non credo che questo indurrà a cambiamenti veri nel Pd».
Ma se non fosse più Renzi il leader del centrosinistra potreste rivedere la linea di Mdp?
«Non abbiamo il problema di Renzi, il nostro problema è correggere le politiche sbagliate di questi cinque anni. Non siamo interessati a manovre di Palazzo e non poniamo questioni personali. Chiediamo al Pd: vuoi cambiare strada?».
Con la divisione a sinistra date un forte vantaggio alla destra.
«Ora si dice: c’ è la destra. Ma noi lo dicevamo da tre anni e si faceva finta di non vedere, stando zitti. Oppure si sono scimmiottati i 5Stelle. Come non si è voluta vedere la fuga degli elettori. Se tanti elettori del centrosinistra non vanno più a votare è perché non possono riconoscersi nelle politiche di un centrosinistra a trazione Pd e di un Pd a traino renziano. Senza quella gente chi può pensare davvero di fronteggiare la destra?».
Allora nasce una “Cosa rossa”?
«Non stiamo affatto parlando di una Cosa rossa: puntiamo a una sinistra ampia, di forze civiche, di cattolici democratici».
Però Pisapia farà probabilmente una sua lista con Radicali e Verdi.
Avete perso molti mesi a discutere. La rottura ormai è consumata?
«Ma no, vediamo. Spero che ci sia ancora la possibilità perché noi andiamo avanti e ci candidiamo ad essere una sinistra aperta. Ognuno fa le scelte che ritiene ma noi siamo aperti a un confronto, non ci possono essere preclusioni a sinistra, di nessuno da parte di nessuno».
Come leader lei pensa a Grasso?
«Non si tira per la giacchetta la seconda carica dello Stato, ma quando non lo sarà più, è chiaro che nella sinistra che vogliamo ci starebbe da dio…».

Repubblica 5.11.17
Intercettazioni, i cronisti rischiano tre anni
Con la nuova legge si può contestare al giornalista la rivelazione di segreto. Allarme Fnsi: modificare il decreto
di Liana Milella

ROMA. Fino a tre anni di carcere. È questo il primo frutto avvelenato del decreto sulle intercettazioni. Da sei mesi a tre anni per il giornalista che, facendo il suo lavoro, troverà e deciderà di pubblicare una registrazione considerata «irrilevante» dal pubblico ministero per il suo processo, ma rilevantissima invece per la notizia che contiene. Un documento con la classificazione di segretezza – come esplicitamente è scritto nel decreto del Guardasigilli Andrea Orlando – che però è stato temporaneamente escluso dal fascicolo processuale. Troppo facile quindi, per chi vuole incriminare il giornalista, non contestargli l’articolo 684 del codice penale, cioè “la pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale”, arresto fino a 30 giorni o ammenda da 51 a 258 euro, quindi oblabile. Visto che il documento è segreto e in quel momento è “fuori”, anche se temporaneamente, dal procedimento penale, si può contestare al giornalista, in concorso con il pubblico ufficiale che gli ha dato la notizia, l’articolo 326 del codice penale, “rivelazioni di segreti d’ufficio”. Un reato pesante, punito appunto con la reclusione da sei mesi a tre anni.
Proprio nelle stesse ore in cui la Federazione nazionale della stampa chiede al governo «di rivedere la proposta sulle intercettazioni» e sollecita al Parlamento «radicali modifiche», tra i magistrati e gli esperti di diritto dell’informazione serpeggia l’allarme sul rischio delle manette per i cronisti.
Basta leggere il testo del decreto all’articolo 3 e seguire i passaggi. «Gli atti e i verbali relativi a comunicazioni e conversazioni non acquisite sono immediatamente restituiti al pm per la conservazione nell’archivio riservato e sono coperti da segreto». E ancora: «Non sono coperti da segreto i verbali e le registrazioni acquisite al fascicolo processuale».
Quindi i nastri scartati dai magistrati e chiusi nella cassaforte ad alta sicurezza le cui chiavi e la cui responsabilità sono nelle mani del solo capo della procura, in questa fase non sono inseriti nel fascicolo processuale, nel quale invece figurano tutti gli altri atti e le registrazioni che hanno avuto il via libera del pm perché considerati utili e necessari per provare il reato.
È ovvio che non si potranno più applicare le stesse regole se il cronista pubblica gli atti del procedimento penale, che contiene le carte sdoganate e ammesse dal pm, o se invece diffonde il materiale divenuto top secret ed escluso proprio per questa ragione dal fascicolo. Nel primo caso si continuerà a contestare l’articolo 684, la “pubblicazione arbitraria degli atti di un procedimento penale”, nel secondo scatterà la rivelazione di un segreto d’ufficio.
Sia il premier Gentiloni che il Guardasigilli Orlando, presentando il decreto a palazzo Chigi, hanno insistito sul fatto che il diritto di cronaca «è salvo». È vero che il decreto non interviene sulle pene per chi pubblica gli atti. Ma questo non deve stupire perché proprio il 326, la rivelazione di segreti d’ufficio in concorso con il pubblico ufficiale, è stata più volte utilizzata per colpire e intimidire i cronisti. E si trattava di atti sì segreti, ma che non erano stati espressamente esclusi dal fascicolo del processo e inseriti volontariamente in una sorta di limbo di segretezza. Proprio come avviene adesso con la nascita dell’archivio riservato che, dopo 180 giorni dalla piena entrata in vigore del decreto, giusto il tempo per le procure di organizzarsi, diventerà obbligatorio per ogni ufficio.
È evidente allora che il mestiere del cronista si complica e diventa ancora più a rischio. Non solo, come scrive la Fnsi, ci sarà l’obbligo per le toghe di utilizzare «quando è necessario solo i brani essenziali delle intercettazioni» che spingerà nella zona grigia del segreto notizie che magari non hanno rilevanza penale, ma ne hanno dal punto di vista giornalistico. Ma per di più pubblicare quelle carte diventerà estremamente rischioso, con la prospettiva concreta di finire in cella per aver rivelato intercettazioni segrete che soprattutto la politica non vuole vedere sui giornali.

il manifesto 5.11.17
Il Tpi: «Gli Usa in Afghanistan colpevoli di crimini di guerra»
Abusi. La Corte penale internazionale accusa la Cia: «Tortura, trattamento crudele, stupro». Sotto tiro anche le responsabilità degli 007 di Kabul e per i talebani solo l’ala Haqqani
di Emanuele Giordana

«La situazione nella Repubblica Islamica d’Afghanistan è stata assegnata a una Camera preliminare della Corte Penale Internazionale (Icc) dopo la mia decisione di chiedere l’autorizzazione ad avviare un’inchiesta sui reati che si suppone siano stati commessi in relazione al conflitto armato».
La dichiarazione della procuratrice capo del Tribunale penale internazionale Fatou Bensouda rimbalza nelle agenzie di stampa nella notte di venerdi, giorno della partenza diTrump per il suo viaggio in Asia, il più lungo – recita la velina della Casa Bianca – che un presidente americano abbia fatto nell’ultima quarto di secolo.
Ma Trump non andrà in Afghanistan e del resto la tegola era attesa da circa un anno: da quando, a metà novembre 2016, la giurista del Gambia a capo della Corte dal 2012, aveva annunciato nel suo Rapporto preliminare di attività che il dito era puntato anche contro gli Stati Uniti per i quali c’erano «ragionevoli basi» per procedere contro soldati e agenti americani che in Afghanistan avrebbero commesso «torture» e altri «crimini di guerra».
Con loro, sotto la lente, polizia e 007 afghani e parte dei talebani. Ma adesso il passo è diventato formale e dunque esecutivo, con una richiesta di autorizzazione a procedere per le accuse di crimini di guerra in Afghanistan dopo l’invasione guidata dagli Usa 17 anni fa.
L’indagine, col mandato alla procura di sentire testimoni, interrogare vittime, avere accesso a informazioni riservate (almeno in teoria anche perché né gli Usa né i talebani riconoscono l’autorità dell’Icc), riguarda le attività della Rete Haqqani (la componente più radicale del movimento talebano); la polizia e l’agenzia di intelligence di Kabul (Nds); militari e agenti americane.
Il testo del rapporto preliminare diceva che l’indagine per crimini di guerra riguarda «tortura e relativi maltrattamenti da parte delle forze militari degli Stati Uniti schierate in Afghanistan e in centri di detenzione segreti gestiti dalla Cia, principalmente nel periodo 2003-2004, anche se presumibilmente sarebbero continuati, in alcuni casi, sino al 2014», in sostanza fino al passaggio di consegne agli afghani dei prigionieri detenuti nella base Usa di Bagram.
Se per i talebani (nella dichiarazione non si si specifica se l’indagine riguarderà altre ali del movimento diretto da mullah Akhundzada) le accuse di crimini di guerra non sono una novità, per Washington e Kabul la questione è seria, al netto della possibile collaborazione tra le due intelligence.
Bensouda sostiene che durante gli interrogatori segreti, personale militare e agenti della Cia avrebbero fatto ricorso a tecniche ascrivibili a crimini di guerra: «Tortura, trattamento crudele, mortificazione della dignità personale, stupro».
Nello specifico si citavano i casi di 61 soldati che avrebbero praticato la tortura e altre violenze tra il maggio 2003 e il 31 dicembre 2004 e di membri della Cia che avrebbero sottoposto almeno 27 detenuti a torture, trattamenti crudeli, umiliazioni della dignità e/o violenza carnale, sia in Afghanistan sia in altri Paesi come Polonia, Romania e Lituania .
Probabilmente, nell’anno intercorso tra il rapporto preliminare e la richiesta formale di indagine, la procura deve averne esaminati assai di più e comunque già un anno fa si chiariva che i crimini presunti «non sono stati abusi di pochi individui isolati (ma)… commessi nell’ambito di tecniche d’interrogatorio approvate, nel tentativo di estrarre informazioni dai detenuti… (con) una base ragionevole per credere che questi presunti crimini siano stati commessi a sostegno di una politica o di politiche volte a ottenere informazioni attraverso l’uso di tecniche di interrogatorio che coinvolgono metodi crudeli…».
Quanto a polizia e intelligence afghani, la tortura sarebbe un fatto sistematico: tra il 35 e il 50% dei detenuti vi sarebbero stati sottoposti.
Adesso la Procura deve convincere i giudici della Camera preliminare della fondatezza delle accuse. Poi toccherà ai magistrati dare l’ultimo via libera che, considerata l’ampiezza delle prove raccolte in un arco di tempo sufficiente a non correre rischi, pare scontata.
Una volta terminato l’iter, toccherà allora alla procuratrice formulare le accuse e chiamare alla sbarra i responsabili. Sarà quello il momento più difficile ma sembra ormai solo questione di tempo.

Il Fatto 5.11.17
Molestie sessuali, cade anche Giovanna D’Arco
Il Front di Le Pen si riconosce nell’eroina ma ignora le denunce delle sue impiegate
di Andrea Valdambrini

Il simbolo del partito è Giovanna D’Arco, la leader indiscussa è Marine Le Pen. Ma neppure questa declinazione al femminile ha impedito che nell’estrema destra francese si manifestassero violenze e intimidazioni da parte di dirigenti ai danni di giovani assistenti. Le rivelazioni arrivano da un’inchiesta del quotidiano Le Monde, secondo la quale la direzione del Front National e la sua stessa leader ha ignorato le accuse di molestie sollevate al suo interno.
L’inchiesta di Le Monde entra nei dettagli e riporta il caso di una collaboratrice del Consiglio della regione Ile de France, che preferisce restare anonima: ha lasciato l’incarico nel luglio 2016. La donna fa il nome del consigliere regionale Axel Loustau, dal quale, dopo la fine della loro relazione, avrebbe ricevuto chiamate insistenti, sms e minacce, e perfino una pallottola trovata nel cestino nel suo ufficio, su cui ora sta indagando la polizia. Il fatto è che Lestau è uomo di fiducia di Marine, tanto da essere tesoriere dell’associazione politica Jeanne, che fa capo proprio alla leader del Front. “La questione riguarda la vita privata delle persone coinvolte”, taglia corto Marine.
A Londra erano già emersi numerosi casi di sospetti abusi e il ministro della Difesa britannico Michael Fallon ha rassegnato le sue dimissioni sull’onda di un vecchio caso di presunte molestie. Ieri un altro conservatore, il parlamentare Charlie Elphicke, 46 anni, è stato sospeso dal partito che ha valutato “serie” le accuse rivolte contro di lui, di cui tuttavia non è stata rivelata la fonte né la natura. Sull’altro fronte politico, il parlamentare laburista, Clive Lewis è oggetto di un’inchiesta interna del partito perché sospettato di palpeggiamenti su una ragazza durante la conferenza annuale del Labour, mentre Kelvin Hopkins, anche lui parlamentare della sinistra, è stato sospeso per aver “abbracciato in modo inappropriato” una attivista nel 2014.
I tre esponenti politici hanno categoricamente negato i fatti a loro attribuiti. “Non affrettiamo il giudizio, se non abbiamo prove. Altrimenti diventa una caccia alle streghe”, ha ragionato durante un’intervista a Bbc Radio il conservatore Sir Roger Gale. Affermazione che non è piaciuta alla laburista Harriet Harman: “Secondo alcuni uomini, si sta andando fuori misura. Non c’è nessuna caccia alle streghe, penso piuttosto che siamo molto in ritardo”.
In Austria, l’ex leader dei Verdi e oggi a guida di una lista autonoma Peter Pilz, 63 anni, è finito sotto accusa per presunte molestie su una ragazza nel 2013. Il settimanale Falter ha pubblicato il racconto di una donna secondo la quale il politico, durante il congresso annuale del partito, le avrebbe “messo le mani ovunque”. Pilz, che in seguito alle accuse ha lasciato la guida del gruppo politico, ha detto di non ricordare l’episodio, ma ha aggiunto: “Ho sempre combattuto per standard severi e tali standard si devono applicare anche a me”. Dimissioni anche in Scozia: il ministro per l’assistenza all’infanzia Mark McDonald ha lasciato l’incarico: in una nota si è scusato “incondizionatamente nei confronti di tutte le persone che sono rimaste sconvolte” e nei confronti di chiunque abbia trovato il suo “comportamento inappropriato”.
Sul fronte del mondo dello spettacolo Kevin Spacey protagonista di House of Cards è stato scaricato da Netflix, che ha bloccato la produzione e un film sullo scrittore Gore Vidal. Mentre a Londra la polizia indaga su Spacey per una presunta aggressione sessuale nei confronti di un giovane attore nel 2008, a New York gli investigatori valutano l’arresto di Harvey Weinstein. Contro di lui arrivano nuove rivelazioni, stavolta dall’attrice Julianna Margoulis, protagonista fra l’altro della serie The good wife, che chiama in causa anche l’attore Steven Seagal: entrambi avrebbero provato a molestarla nel 1996, quando l’attrice aveva 23 anni.

il manifesto 5.11.17
Joseph Stiglitz: «Non usciremo dalla crisi senza una vera politica redistributiva»
Disuguaglianze. All'Istituto Cattaneo a Bologna, dopo la laurea honoris causa al Politecnico delle Marche. E' intervenuto anche Romano Prodi: «Non vedo in giro progetti credibili per invertire questa tendenza»
di Bruno Perini

BOLOGNA Una diagnosi spietata e assai colta sulle cause della diseguaglianza nel mondo ma anche una constatazione di impotenza verso lo strapotere delle multinazionali, verso la globalizzazione e verso l’avanzare della tecnologia, fonte della prima delle diseguaglianze: la disoccupazione. Dunque una sorta di funerale, se mai ce ne fosse bisogno, delle politiche del welfare, unica cura possibile per frenare la diseguaglianza, divenuta d’altronde un arma che i governi preferiscono non usare malgrado, sono in molti a ricordarlo, sia stata la cura che sanato il capitalismo mondiale dopo la crisi del ‘29.
IL TEMA oggetto della conferenza organizzata dall’Istituto Cattaneo di Bologna è tra i più drammatici della nostra epoca perché si presenta in modo violento sia tra Nord e Sud del mondo, sia all’interno dei paesi dell’occidente. E viene ben sintetizzato da un’ormai nota analisi di Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia e professore alla Columbia University: «L’1 per cento della popolazione controlla il 90 per cento della ricchezza mondiale». Sul palco della tavola rotonda assieme a Stiglitz, ci sono Romano Prodi, l’economista Paolo Onofri, l’ex presidente dell’Istat Enrico Giovannini, Robereto Tonini di Bankitalia e Marco Mira D’Ercole dell’Ocse.
A FUSTIGARE IL LIBERISMO imperante ci pensa proprio Stiglitz. Il premio Nobel non ha dubbi a proposito della crisi: «Non usciremo dalla depressione se no ci sarà una vera politica redistributiva che passi anche attraverso la tassazione delle rendite. Da questo punto di vista il ruolo dello Stato è cruciale. La cosa drammatica è che in un epoca di finanziarizzazione dell’economia mondiale e una globalizzazione spinta, le politiche economiche, uniche in grado di gestire una redistribuzione della ricchezza, sono impotenti di fronte alla crisi, i capitali si spostano con rapidità e fuggono dalle politiche dei governi. Non solo. I privati in alcuni casi preferiscono la diseguaglianza perché per loro un basso salario si traduce in minori costi».
ANCHE ROMANO PRODI non è tenero nella sua analisi: «Io non sono uno specialista di statistica ma conosco la storia e mi risulta che le diseguaglianze siano create dalle pestilenze e dalle guerre. Questa è la realtà. Soltanto nel secondo dopoguerra le diseguaglianze si sono attenuate ma quella era un’eccezione. Negli anni successivi i divari sono cresciuti in modo impressionante. Io credo che ci sarebbe bisogno di un organismo mondiale in grado di redistribuire le risorse ma da questo punto di vista sono tutt’altro che ottimista. Le difficoltà che si incontrano ad esempio nel tassare le nuove multinazionali come Google e Apple sono significative. Comunque penso che spetti alla politica, ai governi invertire questo trend. Ma non mi pare che ci siano progetti credibili» (Prodi si è astenuto dal dare un giudizio sul Jobs Act). Non è tutto nero. La Cassa Depositi e Prestiti ha ad esempio dei progetti interessanti in materia di welfare ma la vera difficoltà, come hanno detto altri è che la mobilità dei capitali si sottrae ad ogni tipo di redistribuzione attraverso il fisco».
ENRICO GIOVANNINI, volendo, è stato ancora più severo nella diagnosi dello stato di salute del mercato del lavoro: «Le diseguaglianze non sono soltanto tra generazioni ma all’interno delle stesse generazioni. La cosa che più preoccupa è che non c’è una visione d’insieme per farci uscire da questo trend. Anzi, mentre noi discutiamo su come ricostruire una politica del welfare in Inghilterra si celebra la Brexit e negli Stati Uniti c’è Donald Trump». Anche Roberto Torrini di Bankitalia ha denunciato l’inadeguatezza del Welfare e ha bocciato le politiche economiche dei governi europei ma anche lui ha partecipato alle onoranza funebri del welfare sostenendo che sotto accusa non è l’alibi della globalizzazione ma le scelte dei governi.
QUANDO nelle domande che hanno concesso alla stampa abbiamo sottolineato un po’ provocatoriamente che il dibattito per quanto interessante faceva emergere un impotenza latente in tutti gli interventi Romano Prodi con un sorriso ha alzato le braccia come per dire: «Non possiamo farci nulla».
*** La laurea honoris causa al Politecnico delle Marche
Joseph Stiglitz ha «aperto un nuovo campo d’indagine economica» che «si studierà al posto di quella tradizionale e cerca di risolvere i problemi della gente». Sono le motivazioni della laurea honoris causa attribuita dall’Università Politecnica delle Marche al premio Nobel per l’Economia nel 2001. Le ha pronunciate l’economista Mauro Gallegati. Stiglitz ha tenuto una lectio sulle diseguaglianze prodotte dal capitalismo Usa: «un modello economico che ha fallito».

La Stampa 5.11.17
Il fascino del socialismo ammalia i Millennials
di Paolo Mastrolilli

Sarà pure vero che a 20 anni dobbiamo essere incendiari, e a 40 diventiamo saggiamente pompieri, ma scoprire che la maggioranza dei Millennials americani preferirebbe vivere in uno stato socialista fa lo stesso un certo effetto. Non solo perché un’idea del genere è storicamente anatema negli Usa, ma anche perché forse rappresenta l’altra faccia della medaglia del populismo.
La Victims of Communism Memorial Foundation ha commissionato uno studio a YouGov, per misurare la popolarità dei sistemi politici tra gli americani. I risultati relativi alla fascia dei Millennials, cioè il folto gruppo di giovani che a breve governerà il Paese, sono stati sorprendenti: il 44% vorrebbe vivere in una società socialista, contro il 42% capitalista, il 7% comunista, e il 7% fascista. Tirando le somme, le posizioni estremistiche sono in netta maggioranza, ma i motivi di preoccupazione non si fermano qui. Il 23% degli americani compresi fra 21 e 29 anni d’età, cioè non proprio adolescenti distratti, considera Stalin un eroe, percentuale simile a quella di chi ha una percezione positiva del dittatore nucleare nordcoreano Kim Jong-un. Solo il 71% è convinto che la libertà di parola sia un bene prezioso da proteggere a ogni costo, mentre il 48% la confinerebbe nel mondo dei social media e il 45% nelle università. Fuori da questi ambiti, secondo loro sarebbe accettabile tappare la bocca a chi pronuncia verità scomode. Tali certezze, però, sono accompagnate da una discreta dose di ignoranza, perché solo un terzo degli intervistati è capace di definire con precisione i sistemi politici di cui parla.
Come abbiamo notato al principio, non è inusuale essere incendiari a vent’anni, e diventare pompieri a quaranta. Infatti se si allargano i dati dello studio all’intera popolazione Usa, le percentuali cambiano nettamente: 59% di capitalisti, contro il 34% di socialisti. Dietro alla ricerca di YouGov, però, non c’è solo l’avventatezza della gioventù. Il successo ottenuto da Bernie Sanders durante le primarie democratiche del 2016 aveva già dimostrato una nuova tendenza tra i ragazzi americani, pronti a mandare alla Casa Bianca l’unico parlamentare degli Stati Uniti che si definiva socialista. La mentalità di questo gruppo demografico è cambiata, e se non pretende la rivoluzione, certamente chiede sensibilità per temi come l’uguaglianza economica, l’accesso all’istruzione, i diritti civili, la difesa dell’ambiente, anche sul posto di lavoro. Queste spinte sono aumentate dopo l’elezione di Donald Trump, con una netta polarizzazione tra gli stessi giovani, sempre più schierati col populismo di destra o di sinistra. Ce lo ha confermato Ben Rhodes, già consigliere di Obama, durante il primo summit della fondazione dell’ex presidente, dedicata proprio alla formazione della nuove leadership: «I giovani non rifiutano la politica, il problema è che la fanno dalla parte sbagliata. A destra come a sinistra, sono attirati dall’estremismo populista. E’ una reazione alle loro ansie e insoddisfazioni, ma se non troviamo in fretta una risposta più logica e moderata, rischiamo la destabilizzazione permanente delle nostre società».

Corriere 5.10.17
Una sponda cinese per Trump
di Guido Santevecchi

Giappone, Sud Corea, Cina, Vietnam e Filippine: cinque Paesi in 12 giorni. Partito da Pearl Harbor, Donald Trump oggi inizia la sua missione in Asia: il tour più lungo di un presidente Usa nella regione da un quarto di secolo. Tema dominante: contenere la Corea del Nord. Il fattore Kim serve anche come arma di distrazione di massa dalle vicende interne di Trump che aveva giurato di riportare in patria posti di lavoro e riequilibrare la bilancia commerciale.
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
PECHINO Donald Trump ha usato Pearl Harbor come trampolino di lancio per la sua missione in Asia. Ha visitato il memoriale delle navi affondate dai giapponesi nell’attacco a sorpresa il 7 dicembre del 1941: «Ne avevo letto, ne avevo sentito parlare, avevo studiato, ora ho visto», ha detto il presidente. Poi è risalito sull’Air Force One. Cinque Paesi in 12 giorni, il tour più lungo di un presidente americano nella regione asiatica da un quarto di secolo. Oggi è in Giappone, poi Sud Corea (7-8), Cina (8-10), Vietnam (10-11) e Filippine (11-14). Una missione dominata dalla crisi nordcoreana.
Il volo del Boeing presidenziale è stato preceduto giovedì da quello di due bombardieri strategici B1-B della US Air Force, che si sono spinti nuovamente sulla Sud Corea, scortati da caccia giapponesi e sudcoreani. Pyongyang ha reagito a parole definendo l’azione «una prova di attacco nucleare a sorpresa da parte dei gangster imperialisti». E ieri ha ribadito di non avere alcun interesse a negoziare sulle sue armi nucleari, la polizza d’assicurazione sulla vita di Kim Jong-un.
La Casa Bianca ha annunciato che Trump durante la tappa a Seul non andrà sul 38° Parallelo a scrutare il nemico con il binocolo: «Problemi di tempi stretti» e poi ormai queste visite «sono un cliché». Forse il presidente ha anche valutato che è meglio non provocare una reazione di Kim. Avrebbe ricevuto nella migliore delle ipotesi una serie di insulti dai megafoni piazzati dai nordcoreani sulla Zona demilitarizzata, nella peggiore un missile sopra la testa. Ma vista l’imprevedibilità di The Donald, un cambiamento d’idea non è mai da escludere. E anche un test «dimostrativo» di Kim è sempre nell’aria.
La minaccia nordcoreana sarà comunque il tema dominante, sia nei colloqui a Tokyo e Seul, sia a Pechino. E il fattore Kim serve anche come arma di distrazione di massa dalle vicende interne per Trump. Ha vinto le elezioni giurando di riportare in patria posti di lavoro persi per la delocalizzazione industriale in Asia e di riequilibrare la bilancia commerciale. Gli Usa hanno un deficit di 347 miliardi di dollari con la Cina («imbarazzante e orribile»), di 69 con il Giappone e di 28 con la Sud Corea. E qualche promessa di miglioramento il presidente dovrà riceverla.
A Tokyo il premier Shinzo Abe oggi lo porterà a giocare a golf, per discutere di affari e alleanza militare. Dietro questa diplomazia del «green» Abe vuole seppellire la costituzione pacifista, della sosta di Trump a Pearl Harbor, simbolo «dell’infamia» giapponese come disse Roosevelt nel ’41. D’altra parte i tweet infiniti dell’ospite sono una delle incognite di questa visita in Asia, dove i politici sono abituati a celare le emozioni. Con Abe l’asse in funzione nordcoreana è comunque assicurato.
A Seul invece il presidente Moon Jae-in chiederà a Trump di essere consultato prima di qualsiasi azione contro la Nord Corea, per evitare che la penisola diventi un campo di battaglia.
A Pechino la partita più delicata, perché la Cina è la nuova potenza con cui bisogna fare i conti. Trump si è congratulato per la «straordinaria elevazione» di Xi Jinping nel Congresso comunista appena concluso, con l’iscrizione del «Pensiero di Xi» nella costituzione del Partito. Riceverà il massimo degli onori formali, visiterà la Città Proibita e la Grande Muraglia, ma rischia di far perdere posizioni agli Stati Uniti nella corsa con la Cina.
Il leader di Pechino si muove veloce e con un obiettivo geopolitico definito. Dopo un anno di sanzioni non dichiarate ma costose per punire la Corea del Sud che ha accolto il sistema antimissile americano Thaad, la Cina ha improvvisamente seppellito l’ascia di guerra. Disgelo con Seul, annuncio di un vertice tra Xi e Moon nei prossimi giorni.
Dice al Corriere il professor Shi Yinhong, della Renmin di Pechino: «Dopo gli insulti della campagna, Trump ha cominciato a elogiare Xi, certo dire bene è sempre meglio che dire male, ma l’essenza della strategia americana non cambia: Washington preme perché la Cina faccia di più con la Nord Corea e vuole ottenere vantaggi commerciali».

Il Fatto 5.11.17
Grosso guaio a Kiev. La democrazia è solo una promessa
Ucraina - Lo spirito della rivolta di Maidan è svanito: contrasti in Parlamento su leggi anti-corruzione e la fine dell’immunità
di Roberta Zunini

Sono tornate ad agitarsi le bandiere a Kiev, e sono ricominciati i sit-in davanti al Parlamento e alla Banca Centrale. Un flusso di anziani sbuca dalla metropolitana e passa attraverso il memoriale della “rivoluzione della dignità”, a piazza Maidan, facendosi il segno della croce. Non si fermano: sono già le nove e devono sbrigarsi a raggiungere i santuari del potere per protestare e tentare di afferrare per i capelli quel che resta dello spirito rivoluzionario filo europeista.
All’interno della Rada (l’assemblea parlamentare) si stanno votando alcune leggi di riforma: ormai dal 17 ottobre sono in discussione quelle relative al sistema previdenziale, alle forze di sicurezza e intelligence, oltre alla legge per l’istituzione di una corte penale anti corruzione, sul sistema elettorale e sulla revoca anticipata dell’immunità parlamentare e presidenziale.
La Rada fa quadrato
Le ultime tre sono quelle più attese dall’opinione pubblica e più avversate dal nuovo establishment. Poco lontano, assieme ai ritratti dei 100 morti sotto i colpi dei cecchini nel febbraio del 2014, a piazza Maidan si stagliano le gigantografie di alcuni dei soldati caduti sul fronte del Donbass in questi tre anni di conflitto. Se fossero ancora vivi, forse continuerebbero a combattere per tenere il Donbass entro i confini ucraini e strapparlo ai separatisti filo Mosca. Ma non di certo per la nuova e vecchia classe politica, che stanno agendo di concerto, secondo la gente, ancora una volta, per non perdere i privilegi di casta. Le manifestazioni non sono, per ora, come quelle di Maidan. Ogni mattina ci sono in media non più di duemila persone. “Il presidente Poroshenko non solo ha mantenuto aperte le sue fabbriche in Russia, pagando così le tasse e dando lavoro a chi ci sta facendo la guerra nel Donbass; se ora non farà votare ai suoi parlamentari e agli alleati la legge per togliere l’immunità al presidente e ai deputati, non staremo qui a guardare”, dicono in gruppo alcuni studenti universitari.
Nel Donbass si spara ancora
Intanto, dopo l’annessione unilaterale, nel marzo del 2014, della Crimea, da parte di Mosca, i separatisti filo russi tengono accesa a bassa intensità nell’est una operazione di destabilizzazione del paese che ha causato migliaia di morti tra la popolazione e i soldati dell’esercito ucraino. Nonostante gli accordi di Minsk, la destabilizzazione è tuttora in corso con scambi di artiglieria a cadenza settimanale.
È tuttavia un dato di fatto che l’Ucraina post Maidan non sia più la stessa di prima della cacciata di Yanukovich. Ma ciò che è stato finora ottenuto dai rivoluzionari non è sufficiente, soprattutto per la maggior parte della popolazione – 43 milioni di abitanti – sfiancata dalla costante flessione al ribasso della valuta e dall’aumento altrettanto drammatico del costo della vita, incluse spese per l’elettricità, riscaldamento e acqua. Inoltre, secondo alcuni analisti è di fatto già in atto una contro rivoluzione.
Contro rivoluzione in atto
Uno dei deputati che lo denuncia da mesi è Mustafa Nayyem, 36 anni, nato in Afghanistan due anni dopo l’invasione sovietica. Era il 1981. Dopo essere stato uno dei più noti e coraggiosi giornalisti investigativi per Kommersant, divenne noto in tutto il mondo per l’intervista televisiva all’allora presidente filo russo Yanukovich durante la quale lo accusò di corruzione. Era il 2012, l’anno precedente la rivolta di Maidan, di cui Nayyem è stato una delle anime con il collega Yegor Sobolev, uno dei deputati del partito Samopomich, che protesta fuori dal Parlamento per sostenere le riforme. “Dobbiamo far sentire la nostra voce anche fuori dal Parlamento. Dobbiamo stare in mezzo a questa gente che ha rischiato la vita a Maidan per la rivoluzione della dignità, anche se io sono un deputato del blocco-Poroshenko”, dice Nayyem mentre entriamo nel suo ufficio. “È chiaro che se queste riforme non otterranno l’approvazione, la contro rivoluzione in atto da parte dell’establishment, sarà conclamata” . Per Nayyem, come per Sobolev e altri ex giornalisti la decisione di candidarsi non è stata certo presa per una questione economica o di gloria.
Poroshenko, la moglie e il magnate
“Noi deputati guadagniamo l’equivalente di 700 euro, uno stipendio medio qua in Ucraina. Come editorialista e giornalista guadagnavo tre volte tanto. Per non parlare della gente che ti ferma per strada per protestare, facendo di tutta l’erba un fascio. Ma la capisco, perché i cittadini non sono tenuti a fare distinzioni. Guardano al risultato finale. Questa è una lotta difficile anche perché gli oligarchi si sostengono tra loro. Pensi che la moglie di Poroshenko lavora per i media di Rinat Akhmetov, uno degli industriali più ricchi del mondo e il più potente del Donbass anche sotto il profilo politico”. Fu proprio Rinat Akhmetov a sostenere la candidatura del presidente defenestrato Yanukovich e fu lui a presentargli il suo ultimo consigliere. Quel Paul Manafort che è stato il penultimo responsabile della campagna elettorale di Donald Trump, e che qualche giorno fa si è costituito all’Fbi nell’ambito dell’inchiesta Russiagate. Nayyem, a questo proposito conclude: “Noi ucraini sappiamo qual è il nemico che ci impedisce di entrare a far parte delle democrazie europee, mentre voi europei e anche gli americani finora non l’avete ben focalizzato. Si tratta di Putin che non vuole un’Europa unita e di carattere socialdemocratico e ha voluto un presidente degli Stati Uniti a sua immagine e somiglianza”.

Repubblica 5.11.17
“Se questo è un uomo” oggi è un capolavoro universale, ha venduto milioni di copie in tutto il mondo. Eppure nel 1946 fu rifiutato dai maggiori editori dell’epoca. Storia di un caso letterario
di Marco Belpoliti

In una delle ultime interviste, concessa a Roberto Di Caro prima di quel tragico 11 aprile 1987, Primo Levi ricorda come il successo di un autore sia del tutto casuale. Usa la parola “stocastico”, che significa aleatorio, termine introdotto dal matematico Bruno de Finetti, studioso di probabilità. Tutta la storia di Levi è legata all’elemento aleatorio, a partire da quella parola, “fortuna”, con cui si apre il suo libro più famoso, Se questo è un uomo: “Per mia fortuna sono stato deportato ad Auschwitz solo nel 1944”. Senza quell’avverbio — solo — la frase cambierebbe totalmente il suo significato. Ma è andata proprio così: Levi ha avuto la fortuna di essere deportato ad Auschwitz. L’ha detto in un’altra intervista, quella con Philip Roth, dove ha citato una frase di un amico: l’anno ad Auschwitz è stato in technicolor, il resto della sua vita in bianco e nero. Solo se partiamo da qui, dal dono avvelenato di Auschwitz, dal fatto che il Lager gli ha donato “ cosa” scrivere, si può capire l’aspetto aleatorio che ha dominato la vicenda dello scrittore Primo Levi. Oggi è facile, dall’alto dei due milioni e seicentomila copie vendute solo in Italia da Einaudi ( e il dato non include le altre migliaia vendute in edizioni scolastiche e quelle allegate ai giornali), dire che si tratta di un successo senza pari.
Tuttavia Levi non è stato proprio fortunato con quel primo fondamentale libro. Einaudi, ma anche le Edizioni di Comunità e probabilmente Mondadori, glielo rifiutano. Lo pubblica una piccola casa editrice torinese, De Silva, nel 1947, ed è un flop. Se ne stampano duemila e cinquecento copie e se ne vendono forse mille, mille e cinquecento, tutte a Torino e in Piemonte. Fine del sogno di diventare scrittore, nonostante le recensioni di Arrigo Cajumi e Italo Calvino, e anche se ha già cominciato a pensare al racconto del suo periglioso ritorno a casa che uscirà sedici anni dopo. Intanto scrive poesie e racconti fantastici. Sarà chimico, presso la Siva a Settimo Torinese, per quasi trent’anni. Poi nel 1955, a dieci anni dalla fine del Secondo conflitto mondiale, cambia nell’opinione pubblica l’atteggiamento verso la deportazione; dopo la rimozione generale del primo decennio, lo sterminio ebraico è ora un tema importante. Come ricorda Ian Thomson nella sua documentatissima biografia in uscita da Utet ( Primo Levi, traduzione di Eleonora Gallinelli), nel 1954 viene pubblicato il Diario di Anna Frank; poi il libro di Lord Russell, Il flagello della svastica, presso Feltrinelli, che si domanda: com’è stato possibile che la Germania di Goethe, Beethoven, Schiller, Schubert abbia prodotto Auschwitz e Buchenwald. In quegli anni Levi è chiamato a parlare in pubblico della sua esperienza: i giovani vogliono sapere cosa sono stati i Lager. Cambio di stagione. Si passa dall’epopea della Resistenza come Secondo Risorgimento d’Italia del Partito comunista al tema dei campi di sterminio. In Einaudi c’è un nuovo team che ha preso il posto di Cesare Pavese e Natalia Ginzburg: Luciano Foà, che propone di pubblicare il Diario di Anna Frank, e Paolo Boringhieri. Poi Paolo Serini, che ha amato Se questo è un uomo nel 1947, e lo stesso Calvino, che reputa Levi un vero scrittore. Giulio Einaudi dubita; alla fine prevale il parere favorevole. Esce nel 1958. Si tratta di un libro diverso, con trenta pagine in più. Levi ci ha lavorato tre anni. Pian piano il volume comincia a circolare. Il prestigio della casa editrice, il suo legame con il Partito comunista e socialista, funzionano. Levi ha cambiato la prima pagina: non si parla più solo degli ebrei rinchiusi a Fossoli, ma della sua breve esperienza partigiana in Val d’Aosta. La prima edizione si esaurisce ben presto e cominciano le ristampe. Nel giro di cinque anni Levi diventa la voce dei deportati, sia quelli politici sia dei deportati ebrei, e persino di quelli militari — Alessandro Natta, futuro segretario del Pci, ha scritto un libro sui deportati militari in Germania ma la casa editrice del partito non lo pubblica. Sono ancora piccoli numeri, eppure significativi.
Il primo vero passaggio verso il long seller avviene con la pubblicazione di La tregua nel 1963: va allo Strega, non lo vince, però ottiene il premio Campiello alla sua prima edizione. Questo successo farà da traino al primo libro. Due anni dopo La tregua entra nelle scuole con la collana einaudiana “Letture per la scuola media”. Solo nel 1973 ci sarà una versione scolastica della sua prima opera. Questa sarà la vera svolta nella diffusione di Se questo è un uomo: lo leggono gli studenti nelle scuole. Saranno i ragazzi e i loro insegnanti democratici a decretare il successo dello scrittore torinese. Altro fatto stocastico: Levi è diventato ora l’emblema dell’antifascismo militante. Siamo nel periodo del terrorismo neofascista, nel decennio nero della storia italiana, e l’attività di testimone nelle scuole, in televisione, alla radio (la riduzione radiofonica del libro è del 1964) accresce l’attenzione dei lettori. Nel 1974 un programma in tre puntate della Rai, Il mestiere di raccontare, celebra Primo Levi. Poi ci sarà il nuovo paradigma storico dominante: Shoah e Olocausto, da testimone dell’antifascismo a testimone dello sterminio ebraico. Ma siamo già negli anni Ottanta. Levi scrittore ebreo è l’ultima trasformazione nella lettura del suo libro. Questo tra i lettori comuni. C’è poi anche la storia di come la critica letteraria l’ha accolto: male, benino, benissimo. La fortuna è cieca, si dice. Ma anche i critici letterari, che non l’hanno considerato uno scrittore fino agli anni Ottanta. Ci sono le eccezioni, come quella di Cesare Cases suo primo recensore. In Quaderni piacentini, la rivista gauchiste di Bellocchio, Cherchi, Fofi, Jervis e Fortini, hanno messo il libro di racconti fantascientifici di Levi, Storie naturali, nella lista dei “ Libri da non leggere”. Nell’aprile del 1967 Cases lo difende dalla stroncatura. Il suo pezzo, Difesa di un cretino, spiega perché Storie naturali stia bene con Se questo è un uomo, e se anche Primo Levi non è un rivoluzionario, e forse simpatizza per il centrosinistra, non può stare nella lista di proscrizione. Fortunato sì, ma sempre affidato all’alea del momento: “ l’organizzazione culturale è sommamente stocastica”, ha detto in quell’intervista. Aveva davvero ragione.

Repubblica 5.11.17
A occhi chiusi nela tragedia
In un’intervista inedita del 1982 pubblicata oggi su “Riga” la figura del padre, le letture giovanili e la memoria del Lager. “Il disastro imminente?
Vivevamo come se non fosse”
di Pier Mario Fasanotti e Massimo Dini

Primo Levi ragazzo com’era?
« Un ragazzo molto timido, molto afflitto da un complesso di inferiorità poiché ero il più magro e più minuto della mia classe; avevo amici robusti e non ebrei, per cui ritenevano ovvio che un ragazzo ebreo non potesse fare il salto in lungo, per esempio, e io mi sforzavo invece di farlo, cercavo di guadagnare terreno su questo terreno, quello dell’attività fisica, anche se con risultati nulli (...). A scuola tutto si capovolgeva, ero il primo della classe; scadente come attività fisica, come aspetto, mi sentivo brutto, ma a scuola ero bravo pressoché in tutto, avevo la vita facile ancora. Ho avuto dei professori brava gente; il D’Azeglio era stata una cittadella antifascista, al mio tempo c’era già stato il colpo di falce, avevano mandato in prigione o al confino o comunque espulso molti… Monti, Zini; insomma era stato messo sotto silenzio, sia come allievi che come professori, non era più un liceo di contestatori».
Rimpianti della Torino di allora?
«Il fatto di conoscersi tutti, che non fosse una grande città, ma una città piccola, un grande villaggio, era tranquillizzante. Io sono uno strano piemontese, rimpiango di non saper parlare il dialetto, che non ho mai imparato e mi piacerebbe poterlo parlare; io allora trovavo divertente che mia madre andando a fare la spesa parlasse piemontese, mio padre anche, anzi, mio padre parlava prevalentemente piemontese, la sua madrelingua non era l’italiano, era il piemontese, benché parlasse anche il tedesco, il francese e l’ungherese; era poliglotta, però la sua lingua era il piemontese».
Cosa voleva dire essere ebrei a Torino?
«C’era qualche voce sionista, che io ascoltavo distrattamente; c’era stato un tentativo qui a Torino, poco prima delle leggi razziali, un segmento della comunità ebraica torinese aveva fondato un giornale, La nostra bandiera, che era un giornale collaborazionista, cioè parafascista, che tendeva a dimostrare che gli ebrei erano ed erano sempre stati cittadini italiani, dei fascisti a pieno titolo e questo giornale era malvisto qui; mio padre, che era agnostico politicamente, lo vedeva molto male, intuiva che non era cosa pulita insomma. A Torino c’era un filone ebraico antifascista importante, che faceva capo a Vittorio Foa, a Mario Levi e così via; prevaleva la corrente antifascista, per molti motivi, per motivi intellettuali soprattutto, gli ebrei torinesi erano in massima parte antifascisti, non militanti, ma serissimi; così anche mio padre, che aveva la camicia nera, ma che però se la sentiva prudere addosso, aveva dovuto iscriversi al partito come tanti, come tutti, per non aver intralci nel suo lavoro, però ricordo le sofferenze, irritato quando se la doveva mettere la domenica, per andare a votare; non era un leone neppure lui, non se la sentiva di fare attività antifascista aperta o di spingere me a farlo».
Suo padre com’era?
«Parlava il tedesco correntemente, il francese correntemente e abbastanza bene l’ungherese, perché aveva lavorato a lungo a Budapest — lui sì che girava — anche se era abbastanza sedentario, ma il destino lo aveva scaraventato a Budapest, non so bene per quale motivo; lui s’era laureato qui a Torino come ingegnere, aveva lavorato a prosciugare il bacino del Fucino in Abruzzo e raccontava di questo lavoro, di questa sua avventura abruzzese, con molto calore; dopodiché gli avevano offerto, non so in che modo, un posto in una grossa industria ungherese — a quel tempo era ancora austro-ungarica — prima della Prima guerra mondiale, gli avevano offerto un posto a Budapest, proprio in quella grande industria meccanica dove è nata la rivolta del ’56; era un’industria, a quei tempi, tedesca, dove si parlava ungherese ma prevalentemente tedesco. Aveva lavorato come ingegnere progettista a Budapest per parecchi anni e poi era stato costretto a tornarsene in Italia quando è scoppiata la Prima guerra mondiale».
La letteratura che ruolo ha avuto per lei in quegli anni?
«(...) Ero un lettore instancabile allora; mio padre pure era un grande lettore, si faceva fare delle giacche apposta dal sarto che avessero due tasche laterali capaci ciascuna di un libro, e aveva sempre il suo libro in tasca, lo leggeva camminando addirittura (...). Comprava moltissimi libri e li portava a casa e li lasciava a disposizione mia e di mia sorella senza limite, salvo per Salgari. Salgari non poteva vederlo, diceva che non era serio, che era un pasticcione, uno scrittore impreciso, volgare. Io leggevo tutto, leggevo gli scrittori ungheresi, che allora erano di gran moda, Molnár, Dos Passos, Céline, quelli che mio padre comprava li leggevo».
Come si è rapportato con l’ambiente letterario?
«Gli ambienti letterari li frequento poco e per obbligo; naturalmente nutro una certa gratitudine sia per il circolo Bellonci, sia per il circolo La Primavera, per il Viareggio, etc. ci vado, ho una amicizia abbastanza profonda con alcuni, come Rigoni Stern, con Tomizza, ho stima per altri, per Sciascia, per esempio, che però non ho mai incontrato; non mi sento in competizione con nessuno; con Calvino ci siamo visti tante volte presso Einaudi, quando lui era qui a Torino o altrimenti nell’orbita Einaudi; ho una simpatia profonda per Sgorlon, che pure conosco poco, ci siamo visti soltanto in occasione di uno Strega e di un Campiello (...). Amicizia la sento per Rigoni Stern e Nuto Revelli, perché siamo colleghi in senso profondo, siamo persone quasi coetanee e tutti e tre siamo stati spinti a scrivere…».
E la percezione della tragedia immensa in arrivo…?
« Non è facile dire quando sia stato il momento preciso di questa percezione, non soltanto per quanto riguarda me, ma per l’intera generazione; che dovesse coinvolgerci è una percezione che io, come molti altri, abbiamo rimosso, l’abbiamo subita solo a colpi e poi l’abbiamo rimossa più volte, per parecchi episodi. L’entrata in guerra dell’Italia per noi è stato uno choc, le notizie che ci pervenivano così, a intervalli, di quello che capitava agli ebrei nell’Europa occupata ci arrivavano a onde e dopo ogni onda c’era un lavorio interiore in ciascuno di noi (anche in mio padre, che era ancora vivo) di palese rimozione, cercavamo di chiudere gli occhi, cercavamo di vivere “ come se non fosse”, finché era possibile — dopo l’8 settembre non era più possibile in nessun modo, la scelta diventava obbligatoria, non c’era più modo di fare come se nulla fosse».
La sua esperienza del Lager: la memoria ha modificato qualche cosa, è un’esperienza che per lei è ancora di drammaticità viva, intensa oppure è qualcosa di lontano?
«È qualcosa di lontano nel tempo e non mi ferisce più. La sognavo sovente e ora non la sogno più da molti anni. Però la percepisco ancora come l’avvenimento fondamentale della mia esistenza, dalla quale non si può prescindere, senza la quale sarei diverso; per un altro verso, l’averne scritto è stato per me un’altra avventura, altrettanto grossa, altrettanto ingombrante e stranamente le due esperienze si compensano e si mescolano: il fatto negativo del Lager e il fatto positivo di averne scritto e di essermi arricchito scrivendone, di aver fornito una documentazione, aver fatto una testimonianza. Questa esperienza è positiva e va a compensare l’altra e si è anche, in un certo modo, sostituita all’altra come una specie di memoria artificiale. Mi funge da memoria. Proprio adesso sto cercando di rielaborare queste esperienze in senso generale, scrivere una serie di saggi su alcuni aspetti del fenomeno deportazione, che mi sembrano un po’ trascurati dalla letteratura, non solo dalla mia, da quella che ho scritto io, ma anche dagli altri (...). Un tema è quello del fatale costituirsi; quando vado in giro per le scuole in generale i ragazzi — me ne accorgo — hanno percepito quell’esperienza in termini manichei, cioè di bianco e di nero: quello che loro chiamano gli aguzzini da una parte e i prigionieri dall’altra. E questo modo di vedere non è corretto, non è storico; tra i due, tra gli aguzzini e i prigionieri c’era un gruppo di persone che erano a un tempo sofferenti e provocatori di sofferenza, e che erano collaboratori in parte, anche costretti a collaborare, su cui il giudizio rimane sospeso».
C’è qualcosa del passato che ancora le fa paura?
«E come no, fa paura a tutti; non è che abbia paure differenti dagli altri, la paura della bomba atomica ce l’ho anche io come tutti (forse un po’ meno degli altri però), non so perché, ma finisce che non ci credo tanto; mi trovo per lo più tranquillo e più ottimista dei miei interlocutori giovani (...); è molto difficile prendere una posizione razionale davanti a queste cose; può darsi benissimo che la mia posizione di uomo tranquillo e tranquillizzante sia la stessa rimozione che avevo allora, come dicevo prima; a quel tempo la trappola stava chiudendosi…; questo processo di rimozione era un fatto tipico degli ebrei italiani; comunque era una rimozione e può darsi che sia in atto un’altra rimozione, speriamo di no; non si può avere paura per tutta la vita, la paura sparisce con gli affetti, con il lavoro, con la vita quotidiana».
Come concilia questo dichiararsi non religioso e nello stesso tempo geloso della propria identità ebraica?
« È una cultura importante, antica, degna, stramba, anomala, ma come possedere una riserva di caccia, almeno a me dà questa impressione. Capisco Mario Rigoni Stern che scrive solo di Asiago, perché lui è uno scrittore di Asiago; scrittori ebrei siamo parecchi, ma non tutti sono interessati a… per esempio, Natalia Ginzburg è ebrea come me ma sensibile, non le interessa… In fondo la solidarietà che c’è fra Rigoni Stern e me consiste in questo: lui ha l’altopiano, io ho il piano ideale, che mi interessa, come ripeto, come riserva di caccia, un mondo che interessa a me e so che interessa anche ai lettori, mi sembrerebbe una sciocchezza e un peccato buttarla via, coltivare un altro filone dal momento che posseggo questo, che mi è famigliare».

Il Sole Domenica 5.11.17
Illuministi sì, ma non troppo
Il «Dictionnaire des anti-Lumières et des antiphilosophes» redige un inventario di chi, per ragioni diverse, si oppose al mainstream filosofico-enciclopedico della rivoluzione dei Lumi. Una fronda che non si limitò ad aspetti bigotti
di Domenico Scarpa

In un’epoca come la nostra, ossessionata dai talk show con cotture di vivande e omelie di cuochi, solo qualche anima isolata ricorda Grimod de la Reynière, passato tra i più la notte di Natale del 1837, a 79 anni. Nel 1803 diede alle stampe il primo Almanach des Gourmands; dal 1808 un’altra opera da lui firmata, il Manuel des amphitryons, occuperà le bibliografie gastronomiche. Autore di trovate dai ricordi indelebili, fu l’inventore delle «colazioni filosofiche», iniziate nel 1784, due anni dopo i «pranzi del mercoledì». Era amante di fastosi ricevimenti e di scherzi memorabili (in uno dei suoi déjuners philosophiques fece mettere una bara accanto alla poltrona di ogni invitato); si notava inoltre per i panciotti, su cui faceva ricamare ritratti di membri della Comédie Française. Provocatore, ribelle, maestro riconosciuto del gusto, fu avvocato (mai chiese un onorario, come allora usava la nobiltà), infine venne radiato dalla categoria per un libello contro la sua classe sociale.
Ci è sembrato naturale leggere il nome di Grimod in un’opera che intende rivelare la faccia nascosta del periodo illuminista, negli anni che vanno dal 1715 al 1815: si tratta del Dictionnaire des anti-Lumières et des antiphilosophes. Impresa realizzata con poco meno di 300 articoli (o piccoli saggi) da una sessantina di studiosi sotto la direzione di Didier Masseau, non è una ricerca per riabilitare i codini o gli spiriti ostili ai Lumi. Desidera, piuttosto, redigere un inventario di coloro che per ragioni diverse si opposero all’Illuminismo e ai suoi filosofi. Un lavoro che si rivela prezioso anche per conoscere meglio il vasto movimento che si rispecchia nell’Encyclopédie di Diderot et d’Alembert: per cogliere altri aspetti oltre quelli ripetuti da tutti, per scoprirne le polemiche interne (ed esterne), per tentare un bilancio culturale più vero.
Le reazioni non furono soltanto banali o bigotte; non tutti allora credettero alle «magnifiche sorti e progressive», su cui ironizzerà anche Giacomo Leopardi. La qualifica di «reazionario» è figlia della Rivoluzione Francese - il vocabolo réactionnaire è modellato su révolutionnaire – e le opposizioni ai Lumi si fecero sentire subito, non attesero il lavoro della ghigliottina. Il Dictionnaire des anti-Lumières et des antiphilosophes ricorda che non mancò quella della poesia (fece rumore il poema La Religion di Louis Racine, uscito nel 1742), che sviluppò anche un genere satirico. Per fare un esempio, basterà ricordare l’opera rimata anonimamente da Claude-Marie Giraud che sollevò polvere e consensi. Si trattava di una lettera scritta dal diavolo al Patriarca dei Lumi: Épître du diable à Monsieur de Voltaire, editata nel 1760 “agli Inferi, dalla stamperia di Belzebù”. Circolavano inoltre rime facili contro i nuovi filosofi: una di esse giunse tradotta in Italia. Fu utilizzata ancora nell’Ottocento nelle scuole tenute dai gesuiti: «Sono un illuminista/ del bene e del male/ conosco la pista». Eccetera.
La poesia non restò isolata. Nel Dictionnaire diretto da Masseau un articolo è dedicato al romanzo «antifilosofico», che a volte nasce in ambiti graditi agli illuministi: tra i casi, oltre la fortuna settecentesca del cristianeggiante Le avventure di Telemaco di Fénelon (uscito nel 1699), c’è Julie ou la Nouvelle Héloïse di Rousseau del 1761, «una bomba per il mondo culturale» dei Lumi. D’altra parte, Voltaire non risparmiò insulti allo stesso Rousseau: se ne leggono di grevi ai margini delle pagine de Il contratto sociale posseduto dal Patriarca, oggi conservato nella Biblioteca nazionale della Federazione Russa di San Pietroburgo (sino al ’92 portava il nome di Saltykov-Š?edrin).
Non manca il teatro. Spicca la figura di Charles Palissot de Montenoy che nella commedia Les philosophes (1760) sceglie la satira «più amara, sanguinosa e crudele che mai sia stata autorizzata» (una voce del Dictionnaire è dedicata al caso). Tuttavia, Palissot de Montenoy, che nel 1757 aveva scritto anche il libro Petites lettres sur les grands philosophes contro Rousseau e illuministi vari, stimava Voltaire; anzi nel 1778 ne pubblicò un Elogio e ne curerà anche le opere. Diderot non lo sopportava e lo satireggiò ne Il nipote di Rameau.
Buona parte della reazione all’Illuminismo giunse dagli ambienti ecclesiastici. Per citare due personaggi, le cui opere tradotte circoleranno anche nel secolo successivo, ricordiamo l’abate François André Adrien Pluquet e il teologo e sacerdote Nicolas-Sylvestre Bergier. Il primo sarà protagonista di dibattiti per il monumentale Traité philosophique et politique sur le luxe (1786), nel quale analizza – prendendo a prestito idee dei filosofi in voga - gli effetti negativi del lusso. Pluquet utilizza le loro argomentazioni per rintuzzare il dilagante materialismo, cercando di indicare la soluzione nella morale evangelica che ammonisce contro una concezione terrena della felicità: la quale, d’altra parte, ha bisogno del lusso per manifestarsi. Al nome di Pluquet è legato anche un Dizionario delle eresie, che Huysmans pone nella biblioteca del suo eroe Durtal, in Là-bas (1891). Conosce in gioventù il vivace Fontenelle, che muore qualche giorno prima di compiere cent’anni nel 1757, riuscendo tuttavia a sussurrare a un’avvenente signora, incontrata verso lo scoccare del secolo: «Ah, madame, se avessi ottant’anni…». Pluquet frequenta Helvétius, Montesquieu; i padri dell’Encyclopédie gli chiedono di collaborare con articoli, Voltaire ne sfrutta il sapere (è il caso della voce «Destino» del Dizionario filosofico). Egli resta però un «apologeta virulento». Alla voce «Abelardo», nell’opera sulle eresie, per esempio, colpisce i philosophes suoi contemporanei. Citiamo dal primo volume della traduzione italiana, uscita a Venezia in seconda edizione nel 1771: «…la Filosofia non è contraria alla Religione, se non in bocca di quei Sofisti, che sono posseduti dalla mania di rendersi celebri, e che sono incapaci di profondare in cos’alcuna, che vogliono parlar di tutto, e dire in tutto cose nuove…».
Di Bergier, che morì nel 1790, si può dire che fu apologeta del cristianesimo e polemista contro Voltaire, Rousseau e il Sistema della natura di d’Holbach, opera pubblicata anonima e considerata la «Bibbia del materialismo». Confutatore del deismo, reca la sua firma un fortunato Dizionario di teologia. Il lavoro diretto da Didier Masseau dedica una voce oltre che al personaggio a quest’ultima sua impresa.
Impossibile illustrare nei dettagli il Dictionnaire des anti-Lumières et des antiphilosophes: vi troverete i nemici ma anche incertezze e mende dei protagonisti di quella rivoluzione culturale. C’è Chateaubriand o la corrente dell’Intégrisme catholique, si nota l’articolo Voltaire contre Voltaire (numerose furono le contraddizioni del Patriarca); ecco Robespierre con il discorso del 18 floreale dell’anno II (7 maggio 1794), ricco di allusioni contro i soliti Voltaire e Diderot, amici dei “despoti”, ovvero di Federico II di Prussia e della zarina Caterina II. Ovviamente ritroverete Louis de Bonald e Joseph de Maistre. Quest’ultimo, considerato da Baudelaire un maestro, nei suoi Mélanges osserva che la ragione «non genera che dispute, mentre l’uomo per comportarsi nel mondo non ha bisogno di problemi, bensì di ferme credenze».
Ritorniamo a Grimod de la Reynière, la cui reazione ai Lumi - se così è lecito definirla – si basava sul gusto. Un giorno del 1815 decise di ritirarsi nel castello di campagna, dove allestì congegni meccanici per banchetti e per ideare burle. Voleva andarsene da questo mondo ridendo, con un tocco di lieve crudeltà, sempre viva in lui. Forse anche per tale motivo teneva un maialino domestico: lo faceva sedere nel posto d’onore della tavola, rispettando le alte regole raccomandate dal galateo per l’ospite di riguardo.

Dictionnaire des anti-Lumières et des antiphilosophes (France 1715-1815) , diretto da Didier Masseau, Editore Honoré Champion, Paris, 2 voll., pagg. 1.610, € 250
Armando TornoL’«Album» tra inediti e rarità
Le molte vite di Primo Levi
Chimico, scultore, scacchista, scalatore: il privato di un uomo dai molti talenti visto (anche) senza passare dal cancello di Auschwitz
«E la tagliarono in dodici pessi - E il più lungo era lungo così». Pessi, con doppia esse: così bisognava cantare la tragedia di Ferrero Michele «che sua moglie, e da viva, masò». Era l’autunno del 1942, a Milano. I sette ragazzi e ragazze venuti ad abitare in un appartamento in via San Martino erano tutti ebrei (notare la dicitura «di razza ebraica» che sporge nel documento d’identità), e tutti venivano da Torino. Le canzoni che cantavano di sera le avevano imparate da amici valdesi; e il dottore in chimica pura Levi Primo, di anni ventitré, tecnico nelle industrie farmaceutiche Wander, aveva l’incarico di mimare il dettaglio più truce di quella storia.
Guardiamocelo un po’ per bene, nella caricatura disegnata da Eugenio Gentili Tedeschi. Magrissimo, la chioma frisée, il grugno e l’occhiolino da duro, le dita tese a forbice, un primolevi così non ce lo aspettavamo proprio. Ed è il Primo Levi che invece ci presenterà – per trecento e passa pagine, per quattrocento e rotti immagini a colori, per un numero non ben calcolato di testi suoi rari o inediti – l’Album Primo Levi che martedì 7 esce nella collana «Saggi» di Einaudi, a cura di Roberta Mori e di chi scrive. Ideato e realizzato dal Centro internazionale di studi Primo Levi di Torino (www.primolevi.it), l’Album è un prototipo editoriale, un volume di grande formato che non ha paragoni. Un libro che non somiglia a nessuna delle tante biografie per immagini disponibili sul mercato. Che non segue in maniera lineare la cronologia della vita di Levi, anche se sempre consentirà al lettore di orientarsi. Che non entra nelle vicende di Levi dal cancello di Auschwitz, benché al Lager dedichi la più folta delle sue sei sezioni. Che ha riservato un intero capitolo pittografico, realizzato da Yosuke Taki, al racconto «Carbonio». E che fin da questa anteprima ci presenta, con assonanze non solo fra le lettere iniziali, un Levi scalatore e scultore e scacchista.
L’Album, insomma, è un’opera informata e vivace che racconta la vita di Primo Levi dividendola in sei pess i: in sei sezioni tematiche, più un’appendice che ci presenta i suoi luoghi a Torino e nel Piemonte-Valle d’Aosta, più una essenziale cronologia illustrata. Il Levi sempre giovane e con chioma appena un po’ meno elettrica, seduto alla sua scrivania di direttore tecnico della fabbrica di vernici Siva di Settimo Torinese, poco prima della sua assunzione aveva scritto una lettera (che pubblichiamo qui a fianco) al direttore del mensile «La Chimica e l’Industria». Datata novembre 1947, inedita in volume, stesa poche settimane dopo la pubblicazione di Se questo è un uomo, essa descrive sotto il profilo tecnico la fabbrica di gomma sintetica impiantata in quel sottocampo di Auschwitz III-Monowitz dove Levi trascorse undici mesi. Questa lettera ci consente di osservare la Buna con occhi nuovi, come per una prima volta: e lo stesso avviene, nell’Album, con ciascuno dei reperti che scandiscono il suo itinerario molteplice, a cominciare dalle radici di Levi, dai suoi antenati ebrei piemontesi, dei quali si narra nel primo racconto del libro Il sistema periodico: spicca fra loro Nona Màlia, «che sopravvive in figura di agghindata minuscola ammaliatrice in alcune pose di studio eseguite verso il 1870, e come una vecchietta grinzosa, stizzosa, sciatta e favolosamente sorda nei miei ricordi d’infanzia più lontani». Qui la vediamo nella sua prima incarnazione.
Chi era Primo Levi? Che cosa è stato, prima e dopo e a prescindere da ciò che i nazisti gli hanno fatto? L’immagine della scacchiera appartenente alla famiglia Levi, con una partita già configurata, e lì accanto il classico manuale di Miliani sul giuoco degli scacchi, ci offre una chiave possibile. Leggiamo un brano verso la fine di La tregua, il libro del ritorno da Auschwitz. Siamo a Monaco, su suolo germanico, e il treno degli ex-deportati si ferma in quella stazione: «Ci sembrava di avere qualcosa da dire, enormi cose da dire, ad ogni singolo tedesco, e che ogni tedesco avesse da dirne a noi: sentivamo l’urgenza di tirare le somme, di domandare, spiegare e commentare, come i giocatori di scacchi al termine della partita».
Di generazione in generazione, racconta Levi, «ogni mio antenato ha insegnato le regole al figlio, lo ha vinto per qualche anno, poi ne ha tacitamente ammesso la superiorità». Sarà capitato lo stesso non troppi anni dopo che, nel 1959, venne scattata a Gressoney la foto inedita che ci mostra Levi con il suo secondogenito Renzo sopra le spalle. Il gioco, il laboratorio intellettuale del gioco, il «pensare con le mani», sono state le attività quotidiane e imprescindibili di uno scrittore che, di là dai temi gravi che tanto spesso affrontava, amò giocare con le parole – con i loro suoni, con le loro etimologie – e che curava il reciproco tenersi in esercizio fra gli organi di senso e il pensiero. Alla Siva, per trent’anni, Levi andò inventando e sperimentando vernici, soprattutto rivestimenti per cavi metallici. Anche gli scarti di produzione venivano buoni, per farci sculture di filo di rame intrecciato. Un altro sapere di famiglia si poteva tramandare: nel 1974, in Liguria, Levi sta insegnando a sua nipote Ada come s’intreccia il filo, e chissà se quell’«istrice spettinato» lo avranno fatto poi insieme.
È così, è in questi modi sorprendenti, che l’Album Primo Levi vuole mostrare ai lettori le molte vite di uno scrittore dai molti talenti: un Levi inaspettato, un Levi che amava la montagna e per il quale lo scalare le Grigne o il Disgrazia era trasgressione, cioè scuola di pericolo e di resistenza. Lo possiamo guardare così nell'ultima immagine. Val di Cogne, aprile 1940: Levi a vent'anni, sul tetto del rifugio «Vittorio Stella», a cavalcioni del camino. È un Levi attento, allenato, con lo sguardo panoramico e che si sta divertendo. È un Levi più vivo che mai.
Album Primo Levi , a cura di Roberta Mori
e Domenico Scarpa, Collana “Saggi”, Einaudi, Torino, pagg. 352, € 60

Il Sole Domenica 5.11.17
Storia della medicina
Lister, basta feriti a morte
di Gilberto Corbellini

Centocinquanta anni fa la chirurgia moderna fece un grande passo in avanti Il medico quacchero iniziò a trattare i germi con un antisettico
Al numero 9 di St. Thomas Street, a Londra, si può salire all’attico della chiesa settecentesca del vecchio St. Thomas Hospital, e visitare un teatro operatorio ad anfiteatro autentico, del 1822, cioè funzionante prima dell’introduzione dell’anestesia e dell’antisepsi. È il più vecchio tra i teatri chirurgici sopravvissuti in Europa, e insieme agli strumenti, al tavolo operatorio e diversi mobili d’epoca, espone un grembiule abbondantemente incrostato del “sangue” di tanti poveretti che subirono quella macelleria. Il grembiule lercio, le mani sempre insanguinate e la quantità di segatura per terra erano a quel tempo simboli di efficienza, così come la velocità con cui il chirurgo sapeva eseguire gli interventi era la principale abilità del mestiere.
La storia della chirurgia è uno dei tanti capitoli, ma tra i più concreti, del progresso civile dell’umanità, e non ha bisogno della retorica o dell’autoinganno per illustrare come le cose vadano molto ma molto meglio oggi, rispetto al passato. Sottoporsi a un intervento chirurgico prima del 1870 circa comportava un rischio minimo di morire del 30%, a salire via via che l’intervento aveva caratteristiche più complesse.
Una volta risolto il problema del dolore con l’anestesia, usata dal 1850 circa, i chirurghi si fecero più arditi. E la mortalità aumentò. I pazienti morivano a causa delle infezioni delle ferite, perché non se ne conosceva la causa in modo sperimentalmente provato. Tra le operazioni chirurgiche più tragiche c’erano le fratture esposte, che avevano una mortalità anche superiore all’80%.
Nell’agosto del 1865 un abilissimo chirurgo scozzese e quacchero, Joseph Lister, sperimentò alla Glasgow Infirmary una fasciatura sulla ferita postoperatoria di un ragazzo di sette anni con una grave frattura a una gamba (praticamente maciullata dalla ruota di un carro). Lister applicò una fasciatura imbevuta di acido carbolico (fenolo). La ferita non suppurò e il ragazzo guarì rapidamente. Si era compiuta una svolta fondamentale nella medicina, e Lister stava per diventare un eroe moderno di cui si canteranno le gesta per un secolo a venire, insieme a Pasteur e Koch. A loro si deve la conquista del mondo microbico. Tra marzo e luglio del 1867 pubblicò su Lancet sei articoli sul suo metodo di trattamento delle ferite, e una potente rassegna dei suoi risultati usciva a settembre sul British Medical Journal.
Un’accattivante biografia di Lister è stata scritta dalla storica della medicina Lindsey Fitzharris. Personaggio un po’ sopra le righe e attiva sui social, la Fitzharris ha prodotto un gradevolissimo testo. Forse un po’ troppo popolare secondo certi standard storiografici e dove non si ricorda Florence Nightingale. Ma sono minuzie, rispetto all’entusiasmo e all’efficacia con cui riesce a ravvivare la biografia di un uomo che a parte il lavoro di chirurgo e la ricerca sull’antisepsi non era proprio eccitante. La dedizione di Lister al lavoro e al servizio per la comunità dei malati era totale. Con la moglie, che lo assisteva in sala operatoria, spesero la luna di miele visitando le sale operatorie dei principali ospedali europei.
Che il trattamento delle ferite fosse decisivo per ottenere la loro guarigione, piuttosto che la suppurazione o una letale gangrena, lo sapevano anche i medici antichi che usavano varie tecniche o sostanze, quasi tutte inefficaci e in alcune delle quali sono stati trovati blandi battericidi. Nel medioevo alcuni chirurghi provarono inutilmente a opporsi alla prescrizione di origine galenica che si dovesse lasciare crescere il pus nella ferita. Fino a quando non si capì la natura del pus, quasi tutti i medici lo definivano, se non puzzava, una manifestazione “lodevole” e indice di guarigione. Nel 1843 il medico e poeta di Boston, William Oliver Wendell Holmes, pubblicava un articolo intitolato The Contagiousness of Puerperal Fever, dove sosteneva che la febbre puerperale era trasmessa dai medici che visitavano le partorienti. Nessuno se lo filò, malgrado l’autorevolezza di cui godeva nel New England. Quattro anni dopo, il medico ungherese Ignaz Semmelweiss dimostrò l’ipotesi Wendell Holmes, cioè che le donne che morivano di febbre puerperale nelle cliniche viennesi erano contagiate dagli studenti che visitavano le puerpere subito dopo avere fatto autopsie, senza lavarsi le mani. È arcinoto che anche i medici di Vienna ignorarono i dati di Semmelweiss e, anzi, lo ridicolizzarono, al punto che il poveretto tornò in patria, uscì di testa e morì in manicomio per setticemia.
Anche Florence Nighthtingale, benché credesse ai miasmi, durante la sua assistenza infermieristica ai militari britannici sul fronte della Crimea, dove si recò nel 1854, introdusse alcune norme igieniche funzionali a ridurre i rischi di morte per le ferite. I grandi ospedali urbani avevano i tassi di mortalità più elevati. E le quattro infezioni più letali erano: setticemia, erisipela, gangrena e piemia. Ovviamente quasi tutti i medici credevano che la causa delle infezioni fossero miasmi presenti nell’aria. Qualcuno parlava di contagio, ma pochi erano convinti che alla base del contagio vi fossero dei microrganismi.
Come spiega bene Fitzharris, era principalmente il profondo senso di umanità di Lister, insieme a un entusiasmo per le scienze che è raro fra i chirurghi, a guidarlo. Tra l’altro il padre Joseph Jackson, mercante di vino, era un appassionato ottico e microscopista, che aveva risolto il problema delle aberrazioni acromatiche e fu eletto per le sue innovazioni tecnologiche alla Royal Society. Quando il giovane Lister arrivò all’ University College di Londra, nel 1844, possedeva uno dei microscopi di suo padre, molto superiore a quelli dei suoi insegnanti.  Dopo aver studiato per anni le ferite chirurgiche, nel 1864 Lister lesse un articolo di Louis Pasteur sul ruolo dei microrganismi nella fermentazione e putrefazione: capì che erano gli organismi trasmessi dall’aria o presenti nell’ambiente, su strumenti e vestiario, che infettavano le ferite, e che un trattamento preventivo poteva distruggerli. Dopo numerose sperimentazioni scoprì che l’acido carbolico o fenolo, usato anche per ridurre l’odore dei rifiuti, era un perfetto antisettico per gli strumenti, i vestiti e le mani e, diluito con l’olio d’oliva, per il trattamento delle ferite. Progettò inoltre un atomizzatore per mantenere una nebbia fine durante le operazioni.
Malgrado i successi, cioè l’abbattimento spettacolare della mortalità tra i suoi pazienti, la maggioranza dei chirurghi rimase contraria ai suoi metodi e lo riteneva una specie di stregone. Sul prestigioso Lancet l’influentissimo chirurgo e patologo James Paget, ritenuto il Virchow della Gran Bretagna, liquidava nel 1869 il sistema di Lister come «dannoso». La vicenda storica è uno degli esempi più eclatanti dell’esistenza e degli effetti dell’immunità ideologica, così come la letteratura contro Lister pullula di esempi di dissonanza cognitiva, cioè dell’incapacità di persone anche molto intelligenti di cambiare idea a fronte di fatti a favore di una spiegazione diversa da quella da loro coltivata. Di fatto fu l’arrivo delle nuove e mentalmente più aperte generazioni che spazzò via i dogmi dei tradizionalisti e cambiò la storia della medicina. Ma l’immunità ideologia è ancora viva, nella scienza medica ma non solo, e lotta contro di noi.
Entrambe le più importanti rivoluzioni nella chirurgia, cioè l’anestesia e l’antisepsi, devono il loro riconoscimento pubblico, alla Regina Vittoria. Dietro suggerimento del principe Alberto, Vittoria si fece anestetizzare dal medico John Snow per dare alla luce il suo ottavo figlio, Leopoldo, nel 1853. Nel 1871 si fece operare al castello di Balmoral da Lister, con successo, per un grande ascesso sotto il braccio. Nel 1876, Lister dimostrò la sua tecnica al Congresso Medico Internazionale di Philadelphia, Pennsylvania, convincendo molti scettici statunitensi. Il Massachusetts General Hospital, che aveva vietato i suoi metodi per anni, divenne il primo ospedale statunitense ad approvarne l’uso. In Gran Bretagna si scatenò a quel punto l’ossessione per la pulizia. Le fiorenti società commerciali di fine Ottocento si lanciarono su prodotti per soddisfare la tendenza, tra cui le palle di fumo carboliche (per inalazione nasale e per lavare le infezioni), fumigatori, saponi, l’antisettico americano orale Listerine, etc. L’adozione delle sue tecniche implicava l’accettazione della teoria dei germi, e contribuì a cambiare il modo di pensare in medicina. L’idea ebbe ricadute spettacolari, perché si cominciò a cercare prodotti che uccidessero i microbi anche dentro al corpo e si fecero nuove scoperte che avrebbero per esempio gettato le basi per la nascita dell’immunologia e di due applicazioni, sierologia e vaccinologia, nonché della chemioterapia.
Lindsey Fitzharris, L’arte del macello. Come Joseph Lister cambiò il mondo raccapricciante della medicina vittoriana , Bompiani, Milano,
pagg. 352, € 20

Il Sole Domenica 5.11.17
Marie Curie (1867-1934)
Signora della radioattività
Nasceva 150 anni fa la più grande scienziata del Novecento, prima donna insignita del Nobel Una vicenda scientifica e umana straordinaria
di Vincenzo Barone

Alla fine del 1891 una ragazza polacca di nome Maria Salomea Sklodowska arriva a Parigi con l’intenzione di studiare scienze alla Sorbona. Proveniente da una famiglia borghese di Varsavia, si è formata in un ambiente culturale positivista, permeato di fiducia nel progresso scientifico e di valori democratici ed egualitari. Per accedere all’università è costretta a emigrare, perché in Polonia le donne non sono ancora ammesse agli studi superiori. Nella capitale francese, in meno di due anni, si laurea in fisica, risultando prima in graduatoria, e poi anche in matematica. Inizialmente il suo proposito è di tornare in patria, ma la passione per la ricerca e l’amore per un uomo le fanno cambiare idea. Sposando nel 1895 Pierre Curie, uno scienziato parigino di qualche anno più grande di lei, ne assume il cognome e francesizza il proprio nome in Marie. Inizia così una vicenda umana e scientifica straordinaria, dai contorni mitici.
Il centocinquantesimo anniversario della nascita di Marie Curie, che verrà celebrato il 7 novembre, è l’occasione per ripercorrere la vita e l’opera di questa donna eccezionale, la più grande scienziata del Novecento. Ci aiuta un’agile e bella biografia scritta dallo storico della scienza Marco Ciardi, che ha il merito di mettere in luce, accanto alle conquiste scientifiche di Madame Curie, i tratti fondamentali della sua figura: la tenacia, l’integrità intellettuale, la modernità di pensiero. Marie Curie è stata la scienziata dei primati: la prima donna insignita del Nobel (nel 1903, assieme a Pierre) e la prima persona ad averne ricevuti due (il secondo, da sola, nel 1911). La morte, sopraggiunta nel 1934, la privò della soddisfazione di vedere premiata a Stoccolma, l’anno seguente, un’altra coppia di coniugi scienziati, entrambi suoi allievi: la figlia Irène e il genero Frédéric Joliot. Il suo ultimo primato, postumo, risale al 1995, quando è diventata la prima donna a essere sepolta al Panthéon di Parigi, tra i Grandi di Francia. Ma proprio il suo essere donna (per di più di origine straniera) le costò caro, sbarrandole le porte dell’Accademia delle Scienze e rallentando la sua carriera universitaria (divenne titolare di cattedra alla Sorbona solo nel 1908, ben cinque anni dopo il Nobel). Ai pregiudizi e alle ostilità rispose sempre con un’arma formidabile, la determinazione, e con l'esempio di una totale dedizione al lavoro scientifico.
La fama di Marie Curie è legata allo studio della radioattività e alla scoperta del radio e del polonio, frutto di un lavoro metodico di ricerca condotto assieme a Pierre con mezzi limitatissimi (il loro laboratorio, un capannone semispoglio, diventerà il simbolo di una scienza romantica ormai in via di estinzione). Tre anni dopo l’alloro del Nobel, nel 1906, l’équipe famigliare dei Curie si sciolse drammaticamente, a causa della morte di Pierre in un incidente. Marie si ritrovò da sola, con due bambine, e senza ancora un posto stabile in università. Proseguì con ostinazione le ricerche, cominciò a sviluppare le applicazioni mediche della radioattività, educò le figlie alla scienza con un approccio innovativo – poche nozioni e molti esperimenti.
Nel 1911 partecipò al primo Convegno Solvay a Bruxelles e in quell’occasione conobbe Albert Einstein: lei già famosissima, lui al suo esordio nella comunità scientifica internazionale. Fu l’inizio di una grande amicizia, tra due personaggi per molti aspetti simili e destinati a diventare le icone scientifiche del secolo. Subito dopo il congresso, Marie ricevette la notizia del secondo Nobel, ma la gioia fu oscurata da una violenta campagna denigratoria messa in atto da alcuni giornali conservatori, che erano venuti in possesso della sua corrispondenza privata con il fisico Paul Langevin, con cui aveva avuto una breve relazione. Gli ambienti bigotti e xenofobi la attaccarono vergognosamente e un autorevole accademico di Stoccolma, il chimico Svante Arrhenius, le chiese addirittura di rinunciare al Nobel. Ma gli amici (e lo stesso fratello di Pierre, Jacques) fecero quadrato attorno a lei e la difesero strenuamente. Einstein le inviò una lettera affettuosa invitandola a ignorare le infamie dei giornali e a lasciarle «ai rettili per cui sono state concepite».
Ciardi dà il dovuto spazio anche ad aspetti meno noti della biografia di Madame Curie, per esempio il suo rapporto con i colleghi italiani. Un episodio, in particolare, ha una certa rilevanza: la visita della grande scienziata in Italia nell’estate del 1918, a guerra ancora in corso (su invito di Vito Volterra). Nel corso di alcune settimane, Madame Curie esaminò le sorgenti radioattive del nostro Paese, dal Piemonte alla Campania, e ebbe modo di incontrare Orso Mario Corbino, direttore dell'Istituto di Fisica di Roma. Qualche anno dopo, Corbino, divenuto ministro dell’Economia, istituì in via Panisperna l’Ufficio del radio, che si sarebbe rivelato determinante per le ricerche di Fermi e collaboratori sulla radioattività artificiale.
Memore delle ristrettezze in cui lei e Pierre avevano dovuto operare al tempo dei loro primi studi, Marie Curie si sforzò in tutti i modi di sostenere il lavoro dei giovani ricercatori, affinché non fossero costretti, per conquistare i mezzi strettamente necessari, «a sprecare la loro giovinezza e le loro forze affannandosi quotidianamente». «Qual è l’interesse della società?», scrisse negli anni Venti. «Non deve forse favorire lo schiudersi delle vocazioni scientifiche? È dunque tanto ricca da poter sacrificare ciò che le viene offerto? Io credo piuttosto che l’insieme delle attitudini richieste da una vera vocazione scientifica sia una cosa infinitamente preziosa e delicata, un raro tesoro che è criminale e assurdo perdere e sul quale bisogna vegliare con sollecitudine, al fine di dargli tutte le possibilità per potersi schiudere». Parole che suonano quanto mai attuali. Ed è opportunamente intitolato alla scienziata franco-polacca il programma europeo di sostegno alla ricerca che ogni anno consente a migliaia di giovani di dedicarsi a quella stessa missione a cui Marie Sklodowska-Curie consacrò tutta la sua vita.
Marco Ciardi, Marie Curie. La signora
dei mondi invisibili , Hoepli, Milano,
pagg. 152 , € 12,90

Il Sole Domenica 5.11.17
Reggio Emilia
Kandinsky-Cage, sonata a colori
Nel XX anniversario della Fondazione Palazzo Magnani, una mostra indaga il rapporto tra musica, arte e spirito
di Martina Mazzotta

La musica si vede? Cosa succede quando un pittore, uno scultore, vogliono superare i limiti dello spazio, della simultaneità e estendere la propria opera nel tempo, facendola vibrare magicamente nel nostro spirito, così come solo la musica sa fare?
Per scoprirlo occorre visitare la mostra Kandinsky?Cage. Musica e Spirituale nell’arte. La freccia nel titolo indica la direzione per compiere un viaggio polisensoriale attraverso un capitolo importante della storia dell’arte. Arte-musica-spirito si allineano in un percorso che, oltre ai maggiori nuclei dedicati ai due artisti nel titolo, presenta le opere e le vite di protagonisti dell’arte e della musica che con loro si sono venute a intrecciare. L’occasione è offerta dalla celebrazione del ventesimo anniversario della Fondazione Palazzo Magnani, a Reggio Emilia, in quella che fu la dimora di città del collezionista, filantropo e musicologo Luigi Magnani, autore fra l’altro di libri bellissimi e fondamentali come Proust e la Musica o Goethe, Beethoven e il demonico. Questa mostra-viaggio permette di contemplare con l’occhio alcuni capolavori e al contempo di attivare l’orecchio nell’ascolto delle musiche ad essi abbinate, ovvero si è invitati a connettere in maniera intuitiva suoni e visioni sostando sotto “campane sonore” che avvolgono come in un cilindro acustico il visitatore; in alcuni casi, la sinestesia si può sperimentare anche in maniera tattile (alcune opere sono state realizzate in copia per essere toccate, in collaborazione con l’UICI), oppure addentrandosi in vere e proprie stanze che offrono installazioni immersive. Tanti inoltre gli eventi collaterali a far da corredo alla mostra con concerti, laboratori e conferenze diffusi su tutto il territorio.
Se ci si pensa bene, non vi è grande artista visuale del XX secolo che non abbia in qualche modo dialogato con la musica, l’arte senza oggetto e spirituale per eccellenza. Il processo di distruzione delle tonalità, d’altra parte, si è sviluppato in parallelo con la nascita dell’arte astratta che ha riguardato simultaneamente più centri in Europa, nonchè Mosca e poi gli USA. Il contesto da cui questa mostra prende le mosse è quello dell’astrazione spirituale portata avanti da Wassily Kandinsky che nel 1912 pubblicava il famoso libro Lo spirituale nell’arte. Tra ’800 e ’900, in particolare nei paesi di lingua tedesca, il culto di Goethe, il wagnerismo, le scoperte scientifiche (dalla disgregazione dell’atomo alla teoria della relatività ristretta), la teosofia, la filosofia di Schopenhauer e di Nietzsche fanno da sfondo a un clima culturale unico e irripetibile. Il ricorso alla tradizione mistica, occidentale come orientale, pare accomunare molti ambiti del sapere. Si assiste infatti a una vera e propria spiritualizzazione dell’arte che pone in primo piano la dimensione dell’interiorità dell’individuo e elegge nelle arti, nella loro unione, la sede privilegiata di idee universali. La mostra introduce a Kandinsky attraverso il suo rapporto con Wagner, con i lubok, con Klinger e con ?iurlionis - lo straordinario e misterioso musicista e artista lituano che è molto raro poter vedere dal vivo - fino alla presenza imprescindibile dell’amico Schönberg, divenuto in seguito maestro di Cage. I rapporti tra le arti, la musica e la spiritualità vengono letti in Kandinsky – di cui sono presenti una cinquantina di opere – attraverso la teoria dell’Empatia (Einfühlung), che allora come oggi invita lo spettatore ad attivarsi a livello psico-fisico di fronte all’opera e a divenire ri-creativo. Anche dopo il trauma della guerra, seppur in termini diversi, queste istanze restano feconde: la straordinaria serie degli acquerelli per Quadri di un’esposizione, per esempio, racconta come dalla musica di Musorgskij, ispirata a propria volta dalla visita di una mostra d’arte, Kandinsky avesse potuto realizzare nel 1928 uno spettacolo teatrale astratto. Due grandi compagni del Blaue Reiter particolarmente legati alla musica sono qui celebrati: si tratta di Paul Klee e di Marianne Werefkin, la gran dama di questo viaggio, di cui siamo orgogliosi di ospitare opere bellissime. Si passa poi al Dopoguerra: oltre alla scultura in musica di Melotti e alla pittura jazz di De Stael (entrambi cari a Magnani), si riscopre dopo 33 anni lo spettacolo con musiche di Berio Moduli in viola. Omaggio a Kandinsky di Giulio Turcato (e anche qui emergerà un legame con Cage). Un’altra inedita scoperta è rappresentata da Oskar Fischinger, pittore e cineasta, autore negli anni ’30 di opere “pre-pop” che intrecciano Kandinsky con Walt Disney, nonché con alcuni dei capitoli più belli di quel capolavoro del cinema d’animazione che fu Fantasia, del 1940 (nell’episodio della Toccata con fuga di Bach si possono rintracciare tante suggestioni care a questa mostra). A Fischinger, divenuto in seguito maestro di Cage, si attribuisce l’affermazione secondo cui «nei suoni si cela l'anima degli oggetti inanimati». L’ampia sezione finale dedicata a John Cage vuole illustrare la parabola creativa del geniale musicista, artista, poeta e pensatore. Consonanze e dissonanze collegano le sue opere allo spirituale nell’arte così come formulato da Kandinsky e dagli altri protagonisti. Si potrà sperimentare il ritorno all’armonia dell’artista immergendosi in una ricostruzione in miniatura del Teatro Valli che ospita lo spettacolo con danza Ocean. Se ne potrà rivivere la poetica del silenzio, legata ai quei famosi 4'33'' che ancora oggi destano scalpore, immergendosi in una vera e propria stanza anecoica e priva di cromie (dove troneggia una tela bianca dell’amico Rauschenberg), nella quale non potremo che fermarci in un tempo zero e ascoltare il nostro respiro, il nostro sangue che circola, i battiti del nostro cuore. La si può ben illustrare con questi passi de Lo spirituale nell’arte di Kandinsky: Il bianco ha il suono di un silenzio che improvvisamente riusciamo a comprendere. È la giovinezza del nulla, o meglio un nulla prima dell’origine, prima della nascita. Forse la terra risuonava così, nel tempo bianco dell’era glaciale.

Il Sole Domenica 5.11.17
Grandi mistici
Vita tra Fiamme e Cantici
La biografia di San Giovanni della Croce,
scritta nel 1924 dal filosofo e storico della religione francese Jean Baruzi e ora tradotta e introdotta da Domenico Bosco
di Gianfranco Ravasi s.j.

È nota la progressiva cecità che colpì Borges. Per questo un giorno, incontrando un cieco nato, lo interrogò sulla sua concezione del vedere. La risposta fu stupefacente: «I vedenti sono persone dotate di un senso che permette loro di toccare le cose da lontano». La rappresentazione della visione si modellava sulla sua percezione della realtà che era tattile. Simile era la confessione incisa sulla lapide di una cieca nel cimitero del Midwest americano ove è ambientata l’Antologia di Spoon River: quella donna sapeva tenere linda e perfetta la sua abitazione più di altre padrone di casa perché confessava di avere altrettante pupille nei polpastrelli delle dita. Si potrebbe continuare smentendo vari stereotipi, persino quello della talpa che già s. Girolamo additava come emblema di cecità, perché in realtà essa si orienta e scava nel buio del sottosuolo guidata da una specie di sonar, il suo odorato finissimo.
Siamo partiti da lontano perché questa volta vorremmo parlare della “visione” in senso trascendente, cioè mistico, un processo analogo a quello sensoriale ma condotto su un altro canale di conoscenza, un po’ come accade negli esempi appena citati. Ora, uno dei termini con cui nella Bibbia è indicato il profeta è appunto “il veggente” e, al riguardo, c’è un soggetto veramente sorprendente. Si tratta di Balaam, un “veggente” pagano che si trasforma in profeta d’Israele. Ora, nel testo ebraico del libro dei Numeri (24,3) in cui entra in scena, egli è definito come «un uomo dall’occhio chiuso (shetum)». L’antica versione greca della Bibbia detta “dei Settanta”, imbarazzata per questo profilo inadatto, aveva corretto l’ebraico in shettam, “perfetto”, e aveva tradotto in greco alethinôs, “veritiero, penetrante”. In realtà, l’intuizione originaria era geniale: proprio perché “chiuso” all’esteriorità, lo sguardo di questo profeta biblico “laico” era capace di perforare la superficie della storia e di coglierne il senso profondo.
Il percorso conoscitivo spirituale non esclude la sensorialità ma la tende verso un oltre e un altro rispetto alla sua funzione primaria, proprio come accade al tatto del cieco che può raggiungere vette di perfezione, ad esempio, suonando un organo e ricostruendo tastiere e pedali attraverso una visione tattile a noi vedenti vietata. Per questo i mistici spesso sono persone fortemente “carnali”, capaci però di passare dal sensoriale al sensitivo fino alle vette dello Spirito. Tutto questo appare, ad esempio, in una figura dalla femminilità molto marcata e fin aggressiva, s. Teresa d’Avila, come attestano i suoi scritti dotati non di rado di un realismo che, però, è in grado di ascendere a picchi e a profondità che solo le aquile riescono a scoprire, per continuare a usare gli stereotipi del “vedere” (già nell'Iliade questo uccello era celebrato per la sua acutezza visiva).
Un inatteso aspetto di questa “sinestesia” nella quale i campi sensoriali si sfrangiano e si accavallano (chi non ricorda il «pigolio di stelle» pascoliano o il «silenzio verde» di una pianura di Carducci?) è da cercare nell’eros, apparentemente ossimorico rispetto all’ascesi. Senza ricorrere alla celebre Estasi di s. Teresa di Bernini, capolavoro in cui l’angelo Cupido scocca la sua freccia nel corpo mollemente e sensualmente inebriato della santa, possiamo, invece, seguire le pagine di un altro mistico coevo, quel s. Giovanni della Croce (1542-1591) che costituisce uno dei vertici della poesia spagnola del siglo de oro. Basta lasciarci condurre dal ritmo musicale mirabile dei versi del suo Cantico spirituale che celebra il transito allegorico del Cantico dei cantici biblico verso i cieli del mistero divino, senza però perdere nulla dell'eros corporeo di base.
È ciò che osservava un filosofo e storico della religione parigino, Jean Baruzi (1881-1953), conquistato dalla figura di Giovanni della Croce, tanto da dedicargli un’imponente biografia, pubblicata nel 1924. Egli notava che nel Cantico spirituale di Giovanni e nella sua Fiamma d’amor viva «l’immagine è scacciata dall’immagine poiché il vero simbolo aderisce all’esperienza. Non è figura dell’esperienza». Questa pienezza, che esorcizza ogni stereotipo della mistica come etereo e sospiroso anelito o stravaganza esoterica – purtroppo modelli contrabbandati da vari santoni e guru per allocchi o per vagabondi esploratori del paranormale –, è illustrata per il mistico spagnolo da Baruzi anche in un saggio più sintetico. Il testo è ora tradotto e introdotto in modo esemplare da Domenico Bosco, che riesce a disegnare nella sua premessa un proprio ritratto del mistico autentico (una sfida già raccolta da personaggi del livello di Blondel, Bergson, Maritain, Brémond, Maréchal e così via).
Egli lo fa proprio attraverso il contributo di questo parterre filosofico così nobile, per approdare infine alla lettura del mistico castigliano condotta da Baruzi che, per confermare quanto sorprendenti siano gli incroci epistemologici, era anche uno dei maggiori studiosi di Leibniz. Attraverso il linguaggio simbolico spirituale, infatti, il razionale non è umiliato ma esaltato, l’effabile si riveste di ineffabilità, la fisicità si trasfigura in “meta-fisica”, il finito conduce all’infinito e il temporale all'eterno, la “notte oscura” (celebre metafora giovannita) si schiude alla luce, la vista diventa visione, il silenzio si colma di parole supreme inesprimibili, l’eros si trasforma in amore. A proposito di quest’ultima esperienza, Baruzi cita «l’ammirabile definizione» che Giovanni della Croce ci ha lasciato in un’altra delle sue opere ardue eppure affascinanti, la Salita al monte Carmelo (egli era un frate carmelitano): «L’amore è impegnarsi a spogliarsi e a denudarsi per Dio di tutto ciò che non è Dio», ma col risultato di possedere tutto, anzi, il Tutto. E Bosco alla fine conclude: «Giovanni lasciava intendere di aver sperimentato e cantato, per quel che è possibile, l’Infinito».
Al breve ma denso saggio, che Baruzi aveva composto per l’Histoire générale des religions (1947) e che qui è tradotto, vengono allegate anche le due prefazioni che lo stesso autore appose alle edizioni del 1924 e del 1931 del suo opus magnum sul mistico spagnolo, Saint Jean de la Croix et le problème de l'expérience mystique. Certo è che, alla fine, l’attrezzatura esegetica che è qui abbondantemente offerta, pur necessaria, impallidisce quando ci si accosta al canto di questo frate affacciato sull’«abisso della Fede in cui tutto il resto si assorbe», come egli afferma nella citata Salita al monte Carmelo. Il nostro ultimo invito è, allora, quello di accostarsi direttamente a una delle tante versioni italiane di singole opere e dell’integrale degli scritti di questo cantore solare e notturno della bellezza: «Io vedrò te, o Dio, nella tua bellezza e tu vedrai me nella tua bellezza e tu ti vedrai in me nella tua bellezza e io mi vedrò in te nella tua bellezza».
Jean Baruzi, Giovanni della Croce , a cura di Domenico Bosco, Morcelliana, Brescia, pagg. 240, € 18
Si veda anche Giovanni della Croce, Opere , testo spagnolo a fronte, a cura di Pier Luigi Boracco, Bompiani, Milano 2010, pagg. 2330, € 45