Corriere 2.11.17
La temperanza dell’archeologo
Sulla
scorta dei pensatori antichi lo storico dell’arte si concede un viaggio
filosofico nell’Io in un trattato in forma di dialogo (Utet)
Andrea Carandini esplora le antinomie dell’esistenza in cerca della «vita buona»
di Pierluigi Panza
Sono
142 pensieri allineati come fossero 142 preziosi frammenti
dell’antichità da trasmettere alle future generazioni. L’antichista
Andrea Carandini, per una volta, ha messo da parte gli strumenti
dell’archeologo per dedicarsi a uno scavo nella filosofia. Ha scelto per
il suo nuovo libro la formula dialogica di 142 pensieri intorno a un
argomento che ricorda quello dei trattati dell’età umanistica sulla
«Vita sobria» (Alvise Cornaro) ben descritti nel saggio di Manlio
Brusatin Stile sobrio. Breve storia di un’utile virtù (Marsilio).
Carandini,
ottant’anni domani (è nato a Roma nel 1937), professore emerito alla
Sapienza, presidente del Fai e studioso della Roma dell’VIII secolo ha
composto in questo suo Antinomia ben temperata. Scavi nell’io e nel noi
(Utet) una sorta di trattatello sulla temperanza. Tutta la vita umana,
descrive Carandini, è uno scontrarsi di opposti. Pensiamo, anzitutto,
alle emozioni calde, capaci di condensare in un dettaglio un intero
mondo da una parte e la ragione fredda, che giudica, distingue,
allontana e organizza dall’altra. Pensiamo alla dialettica tra il
passato, la conservazione e la tradizione da un lato e la giovanile
protensione verso l’impresa e il futuro dall’altro. La vita è fatta di
queste antinomie che devono stare insieme, perché l’una senza l’altra
non può esistere: «Dal buio viene la visione — scrive Carandini —; dal
silenzio il suono; dal non pensabile il pensato, il detto e lo scritto;
dal male il bene; dalla morte la vita».
L’antinomia è il principio
un po’ schopenhaueriano e un po’ hegeliano che domina il mondo. È una
continua e inesorabile compresenza di due entità contraddittorie,
opposte, all’interno della cui dialettica l’individuo è chiamato alle
scelte. E la scelta è l’atto più difficile, quello che per gli
esistenzialisti, Sartre in particolare, gettava l’uomo nell’angoscia del
suo esserci; ma è anche l’atto dove l’uomo si distingue dagli animali
per l’esercizio di una sua consapevole e coraggiosa libertà. Ma la
scelta giusta è accettare l’antinomia, ovvero il dissidio fra il «magma
ribollente originario e la luce raziocinante del pensiero», e accettarla
attraverso lo strumento della temperanza. Ecco il punto: sulla base del
pensiero di Seneca (il padre di Carandini fu traduttore di Seneca) e di
umanisti come Leon Battista Alberti o Alvise Cornaro, Carandini
suggerisce una strada di mezzo per il raggiungimento di un’ideale «vita
buona»: agire con temperanza tra gli opposti. Giusto il contrario,
diciamo, di quanto avviene oggi nell’età dell’incessante e dell’eccesso.
Ma verso i giovani di oggi Carandini ha una «freddura» di perdono
tratta dal suo maestro, Ranuccio Bianchi Bandinelli: «Non si nasce
modesti, lo si diventa con l’esperienza».
Il ragionamento sotteso a
questo libro, simbolizzabile nell’immagine di un Giano bifronte, è
maturato in più decenni anche a partire da un’esperienza personale di
analisi con Ignacio Matte Blanco del 1978 ed è sostenuto, oltreché da
fonti di pensatori moderni (Kant, per esempio, e la sua idea che «siamo
un legno storto», Montaigne e Montesquieu fino a Vito Mancuso), anche da
dati di esperienza personale. Antinomia significa accettare gli
opposti. «Ciò che noi chiamiamo cattivo — aveva scritto Goethe in Per il
giorno onomastico di Shakespeare — non è che l’altro lato del buono».
Solo che bisogna agire con temperanza per accettare l’antinomia. E
questo significa, anzitutto, saper vivere in un contesto (tema di un
precedente libro di Carandini, La forza del contesto , Laterza) e
accettare la nostra parte nel mondo agendo con libertà, ma senza
abusarne. Ciascuno può contribuire al progresso, ma la tabula rasa , la
voglia di iniziare tutto da capo ogni volta, «è all’origine delle
brutture» (anche architettoniche e paesaggistiche). «Noi abbiamo il
libero arbitrio», ma da usare con temperanza. Temperanza vuol dire
estendere la cura che abbiamo per noi stessi agli altri, dosare
tradizione e innovazione, identità e trasformazione, otium e negotium
(un tema, quest’ultimo, proposto anche da Christine Macel nella Biennale
d’arte attualmente in corso a Venezia). Non si può uscire dall’Io verso
un SuperIo o verso una dimensione metafisica: bisogna invece coniugarlo
con il «noi», anche perché «della vita dell’ego fa parte integrante il
contesto paesaggistico e umano in cui si trova». Noi viviamo in una
«dimensione etimologicamente religiosa della realtà, in quanto essa
rilega gli innumerevoli fogli delle esistenze in un solo libro».
L’antinomia
ben temperata è anche un «catechismo» laico e pluralista, una
«bi-modalità» contro il monismo che ha caratterizzato nella storia forme
di dominio oppure di schiavitù e si pone come uno strumento di accesso,
se non alla vita felice, almeno a una buona vita, ovvero fatta di
piacere con misura.