La Stampa 2.11.17
Abraham Yehoshua
“La Rivoluzione ha fallito ma alcune sue idee reggono”
Lo
scrittore israeliano ebbe una breve esperienza nel kibbutz: “Al
contrario del socialismo, il comunismo non può andare d’accordo con la
democrazia”
intervista di Francesca Paci
Correvano
i tumultuosi Anni 50, Israele aveva visto la luce da poco, il comunismo
seduceva come altrove i più idealisti tra i giovani, soprattutto nel
movimento kibbutzim. Il grande scrittore israeliano Abraham Yehoshua era
un ex militare pieno di sogni civili, segnato dalla Shoah ma proiettato
verso il futuro. Dall’appartamento di Tel Aviv, dove ha traslocato per
godersi i sei nipoti rinunciando all’amata Haifa, ripensa a quella
stagione contraddittoria, una metafora del complesso rapporto tra il suo
Paese e l’utopia sociale figlia della Rivoluzione d’Ottobre.
Quanta Unione Sovietica c’è nei primi kibbutz?
«Parte
degli ebrei russi, laici e sionisti giunti in Israele prima della
rivoluzione e quelli che arrivarono subito dopo riuscirono ad adattare i
valori del comunismo alla nuova realtà sociale d’Israele. Non parlo
solo dei kibbutz del “da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno
secondo le sue necessità”, alcuni dei quali sono ancora allineati. Ma
penso agli altri, quelli che hanno optato per la privatizzazione e sono
rimasti fedeli ad alcune idee socialiste. Fino alla destalinizzazione di
Krusciov si consumò un duro scontro ideologico tra i kibbutzim di
estrema sinistra che chiamavano l’Urss “seconda patria” e i meno
ortodossi. Anche i socialisti israeliani, alla guida del Paese fino al
1977, vedevano positivamente i princìpi dell’Urss nonostante le
delusioni avute. Poi, negli anni, con il rafforzamento dei legami tra
Israele e l’America, il tema ha diviso i partiti socialdemocratici da
quelli più estremisti fino a indebolire i movimenti operai e spianare la
strada alla destra nazionalista e religiosa».
Conosce l’esperienza dei kibbutz?
«Appena
lasciato l’esercito andai a stare a Hatzerim, nel Negev, un kibbutz di
successo ma, secondo lo stile dell’epoca, molto rigido
nell’organizzazione interna. Non faceva per me, né sul piano individuale
né su quello sociale, ero giovane e volevo studiare, mentre lì la
priorità era il lavoro. Durai pochi mesi. Anche il comunismo non mi ha
mai sedotto, ho sempre sentito che, diversamente dal socialismo, non
poteva andare d’accordo con la democrazia».
Fin quando si è sentito in Israele l’eco della rivoluzione del 1917?
«Sono
del 1936 e sin dall’adolescenza ho provato grande ammirazione per
l’Urss, l’Armata Rossa ci aveva liberato da Auschwitz e aveva salvato
l’Europa da Hitler. La repressione, di cui pure si sapeva, pesava meno.
Inoltre negli Anni 50 le democrazie erano poche, l’orrore era “meno
orribile”. Avevamo buoni rapporti con l’Urss, il suo sostegno alla
nascita d’Israele nel 1947 era stato per noi una sorta di riparazione
all’antisemitismo patito in Russia per secoli. All’epoca poi Mosca non
s’interessava al Medio Oriente e tra i comunisti si contavano pochi
arabi, soprattutto cristiani. Per questo il fatto che all’apice della
Guerra fredda il ministro degli Esteri russo Gromyko si spendesse per
noi all’Onu servì da base ideologica perché anche il cauto partito
comunista palestinese accettasse il piano di spartizione tra ebrei e
arabi del ’48».
C’erano molti ebrei tra i bolscevichi, Trockij compreso. Come spiega la successiva ostilità del regime sovietico?
«È
comprensibile che gli ebrei russi, vissuti sotto la discriminazione
zarista, promuovessero la rivoluzione comunista. L’involuzione
successiva ha diverse ragioni. Gli ebrei non erano un popolo
territoriale come gli altri, perciò non disponevano di un contesto
concreto entro cui integrarsi culturalmente nell’ambito dell’Urss. Erano
legati sul piano religioso agli ebrei sparsi nel mondo e recavano
dunque a priori quel marchio di cosmopolitismo che divenne presto uno
dei reati peggiori. Nel nome dell’oppio dei popoli Mosca fece guerra
alle religioni, ma dato che quella ebraica era per molti la base
dell’identità nazionale lo scontro fu più aspro. Infine, la chiusura
delle frontiere sovietiche gravò doppiamente sugli ebrei dell’Europa
orientale che scappavano in Occidente sin dal XIX secolo: quando la
Germania invase il Paese si trovarono in trappola. È stato un rapporto
duro. Secondo voci affidabili Stalin, prima di morire, progettava una
sorta di “soluzione finale”, voleva esiliare gli ebrei in Siberia».
Quando è cominciato l’esodo degli ebrei dall’Urss verso Israele?
«A
metà degli Anni 50 ero segretario generale dell’Unione mondiale degli
studenti ebrei a Parigi e mi battei perché potessero emigrare. Prima non
c’erano informazioni su quanto avveniva oltre-Cortina e gli stessi
ebrei russi non volevano partire, non erano sionisti, si sentivano grati
all’Urss. Iniziarono ad arrivare intorno al 1960, poi sempre di più. Ma
nonostante l’esodo non ricordo critiche nei confronti dell’Urss in
Israele, resisteva il mito antinazista, enfatizzammo la causa degli
ebrei ridimensionando un po’ gli altri oppressi».
Il passaggio dell’Urss al fronte arabo nel 1967 influenzò l’allontanamento delle sinistre mondiali da Israele?
«Il
’67 cambiò tutto. Ma più dell’Urss, sui partiti comunisti occidentali
pesarono l’occupazione israeliana e le colonie. Tra l’altro una parte
della sinistra internazionale era sempre stata antisionista, penso a
Primo Levi e Natalia Ginzburg».
Cosa resta a cento anni dall’assalto al Palazzo d’Inverno?
«Se
il comunismo voleva creare nel mondo un ordine nuovo, ha fallito. Ma se
lo esaminiamo come un’istanza ideologica nata per rimediare alla
condizione sociale instauratasi in Europa dopo la Rivoluzione francese,
beh, allora mantiene un valore. Le idee fondamentali del comunismo,
esulando dai Paesi dove hanno imperato come dittatura, reggono. Mi
chiedo se rispetto al capitalismo globale e senza limiti, al radicalismo
religioso in espansione ovunque o al post-modernismo privo di valori
dell’estrema sinistra nichilista, non convenga forse tornare ad alcuni
vecchi e umani valori presenti nell’originale solidarismo comunista».