Corriere 24.11.17
Giudice non ferma il suicidio assistito in Svizzera
Suicidio assistito, pm a Milano: «Fermiamolo». La giudice: non posso.
di Luigi Ferrarella
Milano
Ha titolo lo Stato, attraverso i suoi magistrati, per provare a fermare
chi, affetto da una malattia psichiatrica cronica che gli rende
intollerabile sofferenza la vita, stia per attivare una procedura di
suicidio assistito in Svizzera con lucida e accertata consapevolezza? A
Milano questa estate, senza che si sia mai saputo, la Procura ci ha
provato.
L’ha fatto nel caso di un 32enne in cura psichiatrica già
da metà della sua vita, autoisolatosi dal mondo per l’insopportabile
tortura interiore arrecatagli dall’assoluta incapacità di avere
qualunque relazione con le persone. E una volta verificata l’assenza dei
presupposti giuridici per farlo interdire, alla ricerca di una
protezione giuridica comunque limitativa della capacità dell’uomo
l’ufficio «affari civili» della Procura è arrivato a chiedere al giudice
tutelare del Tribunale civile di nominargli un «amministratore di
sostegno», che potesse affiancarlo nella cura della persona e in
percorsi terapeutici capaci di raffreddare l’idea di suicidio assistito
in Svizzera: idea che si era rafforzata da quando la sorella, pure
affetta da patologia psichiatrica, si era lanciata dalla finestra, ma,
senza riuscire a morire, era rimasta tetraplegica.
Ma dopo aver
ascoltato l’uomo e gli psichiatri, la giudice tutelare Paola Corbetta ha
respinto la richiesta del pm Luisa Baima Bollone, ritenendo non ci
fossero né condizioni né utilità di nominargli un «amministratore di
sostegno»: sia per la piena capacità di intendere e volere attestata
dagli psichiatri, sia per l’assenza di futuri miglioramenti producibili
dalle terapie già accettate e in corso. Dunque non la generale
affermazione di un diritto al suicidio, e tantomeno un’autorizzazione
del Tribunale, ma — in un singolo e specifico caso — la presa d’atto di
una autodeterminazione in mancanza delle condizioni giuridiche per
comprimerla.
Esaurita questa imprevista procedura che lo aveva
molto irritato — perché da lui vissuta prima quasi come un «tradimento»
del proprio medico (che in un dilaniante dilemma di coscienza aveva
ritenuto di segnalare in Procura i sentori della trasferta elvetica
anticipatigli da un familiare), e poi come una prepotente ingerenza
della magistratura nell’intimo della propria scelta —, a cavallo
dell’estate il giovane si è davvero recato in una clinica Svizzera. E lì
ha completato il proprio suicidio assistito.
Evocato
all’Università Statale dal pm in un confronto scientifico con il
giurista Luciano Eusebi e i medici Alfredo Anzani e Mario Riccio su «La
morte sfida il diritto», l’uomo arrivava da 15 anni di cura nel centro
psicosociale di un ospedale lombardo, che qui non si indicherà (come
altri dati) per impedire l’identificazione dei familiari. L’invalidità
civile del 100%, tra le conseguenze della diagnosi di «grave disturbo
schizoaffettivo in una struttura di personalità con tratti borderline e
antisociali», era il meno: il vero macigno della malattia, da cui si
sentiva schiacciato, era una «condizione psicopatologica di alienazione e
grave ritiro sociale». L’assoluta incapacità di avere relazioni con il
mondo e, a causa di essa, «la profonda sofferenza» che ne martoriava
l’intimo in ogni attimo nel quale «gli impediva di compiere anche gli
atti quotidiani» e rendeva «necessaria una assistenza continua».