Corriere 22.11.17
«Grandangolo» Da oggi con il quotidiano i testi che hanno segnato la storia della letteratura italiana. In tutto 35 uscite
La lezione eterna dei classici antidoto alla dittatura dell’utilitarismo
di Nuccio Ordine
«Mi
possiede una passione inestinguibile che sino a oggi non ho saputo né
voluto frenare […]. Vuoi dunque sapere la mia malattia? Non so saziarmi
di libri»: negli anni quaranta del Trecento, Francesco Petrarca
indirizza una delle sue Familiari (III-18) all’amico Giovanni
dell’Incisa. In questa famosa epistola il poeta descrive il suo amore
per la lettura. Immergersi in un’opera di Platone o di Cicerone
significa avere lo stimolo a conoscere altri autori («A chi legge non
offrono solo se stessi, ma suggeriscono anche il nome di altri e ne
stimolano il desiderio») e soprattutto a godere di un piacere «molto
profondo» che è ben più pregiato del «piacere muto e superficiale»
ricavato «dall’oro, dall’argento, dalle pietre preziose, dalle vesti di
porpora, dai palazzi di marmo». Perché «i libri ci parlano, ci danno
consigli» e «vivono insieme a noi con una loro viva e penetrante
familiarità».
Il commovente amore per i libri di Petrarca trova
quasi due secoli dopo un’ulteriore testimonianza in una lettera di un
altro illustre fiorentino: il 10 dicembre del 1513 Niccolò Machiavelli
descrive a Francesco Vettori la sua giornata-tipo nella residenza di
Sant’Andrea. In esilio, il nostro Segretario divide il suo tempo tra
l’osteria — dove, in compagnia di un «oste, un beccaio, un mugnaio, dua
fornaciai», si dedica al gioco con «mille contese e infiniti dispetti di
parole iniuriose» — e il suo scrittoio. Qui, a sera, Machiavelli si
spoglia della «veste cotidiana» e, indossando «panni reali e curiali»,
discute con gli «antichi uomini». Non si vergogna «di parlare con loro» e
di interrogarli sulla «ragione delle loro azioni». E mentre «quelli per
la loro umanità rispondono», il Segretario fiorentino non sente «per 4
ore di tempo alcuna noia» («sdimentico ogni affanno, non temo la
povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi trasferisco in loro»).
Leggendo i classici, insomma, Machiavelli si pasce di «quel cibo, che
solum è mio, e che io nacqui per lui».
Petrarca e Machiavelli —
due dei grandi autori che figurano nella nuova collana lanciata dal
«Corriere della Sera» — non solo raccontano la loro passione per i
libri, ma affermano che l’incontro con un classico può orientare
radicalmente la vita di un lettore. Basta scorrere le biografie o le
autobiografie di romanzieri e di filosofi, di poeti e di scienziati per
trovarne conferma. Non si tratta però di un’esperienza riservata a
persone eccezionali. Una poesia o un romanzo possono incidere segni
profondi in qualsiasi lettore appassionato, pronto a lasciarsi
infiammare dalle scintille che si sprigionano nel dialogo con un testo
letterario o filosofico.
Purtroppo negli ultimi decenni la vita
dei classici si è fatta difficile. La loro sopravvivenza è minacciata da
una realtà ostile sempre più governata dalle leggi del profitto. Basta
scorrere i cataloghi delle case editrici per capirlo. Molte collane di
classici sono sparite o hanno visto ridurre notevolmente il numero dei
volumi da stampare. Mentre sul fronte dell’editoria scolastica si
privilegia la cosiddetta letteratura secondaria (si moltiplicano i
manuali, i «bignamini», i commenti, i riassunti): pubblicazioni che però
rivelano la loro «utilità» solo se si pongono umilmente al servizio
dell’opera di cui parlano.
Ma se gli strumenti critici e didattici
si sostituiscono ai classici, allora si finirà per alimentare un
pericoloso paradosso: gli studenti, nelle scuole e nelle università,
sentiranno parlare di testi che non hanno mai letto per intero o, nel
peggiore dei casi, che non hanno mai avuto tra le mani. E in un contesto
così arido, sarà difficile che un amore improvviso possa nascere per
Dante o per Boccaccio, per Ariosto o per Leopardi, per De Roberto o per
Montale. Senza immergersi nella lettura diretta delle loro opere nessuna
vera scintilla potrà infiammare i nostri giovani lettori.
Del
resto, lo spirito «aziendalistico» che condiziona il futuro
dell’istruzione orienta leggi e riforme verso la stella polare del
mercato. Gli allievi degli istituti secondari e delle università vengono
indotti a credere che sia necessario studiare per imparare un mestiere,
per conseguire una laurea da spendere nel mondo del lavoro. L’idea che
le scuole e le università si debbano frequentare perché offrono
un’occasione per diventare migliori e per imparare a ragionare
criticamente sembra occupare un posto marginale nel nostro sistema
educativo. Oggi più che mai il compito di un buon professore è quello di
far capire ai ragazzi che la letteratura e le scienze non si studiano
per prendere un voto, o solo per esercitare una professione, ma
innanzitutto perché ci aiutano a vivere.
Non a caso assistiamo da
decenni al progressivo depotenziamento delle discipline umanistiche che,
su scala planetaria, vengono considerate «inutili», marginalizzate non
solo nei programmi ma soprattutto nelle voci dei bilanci statali e nelle
risorse di enti privati e fondazioni. Perché impegnare denaro in un
ambito condannato a non produrre profitto? Perché destinare fondi a
saperi che non apportano una rapida e tangibile utilità economica?
Ora,
all’interno di un contesto così brutale fondato esclusivamente sulla
necessità di pesare e misurare ogni cosa in base a criteri che
privilegiano la quantità, proprio la letteratura e i classici (ma lo
stesso discorso potrebbe valere per altri saperi umanistici: la
filosofia, l’arte, la musica) possono invece assumere una funzione
fondamentale: già il loro essere immuni da qualsiasi aspirazione al
profitto potrebbe porsi, di per sé, come forma di resistenza agli
egoismi del presente, come antidoto alla dittatura dell’utilitarismo che
è arrivata perfino a corrompere le nostre relazioni sociali e i nostri
affetti più intimi. L’esistenza stessa della letteratura e dei classici,
infatti, richiama l’attenzione sulla «gratuità» e sul «disinteresse»,
valori ormai considerati controcorrente e fuori moda.
Non c’è modo
migliore per ridicolizzare gli attuali teorici dello scontro di civiltà
tra cristiani e musulmani che far leggere loro qualche canto dell’
Orlando furioso . Ludovico Ariosto, con la sua sottile ironia, mostra
che dietro le etichette di «pagani» e di «cristiani» si nascondono
esseri umani che hanno le stesse debolezze, gli stessi difetti, le
stesse virtù. Si tratta di cavalieri «erranti» che — mossi dal desiderio
di vincere sfide militari e amorose — ci svelano l’impossibilità di
separare in maniera netta bene e male, saggezza e follia, amore e odio,
realtà e apparenza. Con un colpo di spugna, il poema spazza via
qualsiasi pretesa di offrire verità assolute, mostrando come la
complessità della natura umana non possa essere compresa senza un sano
relativismo e senza la coscienza che ogni nostra conquista è pur sempre
provvisoria e fragile. Non a caso l’Ariosto ha fatto coincidere
l’origine della famiglia d’Este di Ferrara con il matrimonio tra
Bradamante (valorosa paladina di Francia) e Ruggiero (eroico guerriero
pagano poi convertitosi al cristianesimo): un’unione felice e fruttuosa,
insomma, tra una cristiana e un ex musulmano (un extracomunitario, per
dirlo con le stesse parole con cui quei cinici politici «imprenditori
della paura» definiscono oggi gli esseri umani sventurati che fuggono
dalle guerre, dalla fame e da una vita senza futuro). Una lezione di
cui, in maniera diversa, farà tesoro più tardi anche Miguel de
Cervantes, svelandoci che il vero autore del Don Chisciotte — uno dei
pilastri della letteratura occidentale — non è uno scrittore spagnolo,
ma lo storico arabo Cide Hamete Benengeli.
Alla stessa maniera,
basterebbe rileggere i versi della Ginestra di Leopardi per capire che
la solidarietà umana è l’unica strada da percorrere per fronteggiare le
«calamità naturali» e, nello stesso tempo, per cancellare (o almeno
attenuare) le ingiustizie che travolgono i deboli e gli indifesi. Solo
attraverso la creazione di una «social catena» — fondata su una
un’umanità «confederata» — gli uomini potranno uscire dalle tenebre in
cui sono immersi per abbracciare la luce. Di questo nobile messaggio è
simbolo la «fiera-umiltà» della ginestra: cosciente della precarietà
della sua esistenza vive dignitosamente, abbracciata ai suoi simili, la
sua condizione periferica di fiore odoroso in un arido deserto
vulcanico.
Ecco perché fondare una biblioteca di classici o
incoraggiare a leggerli significa, come ricordava l’imperatore Adriano
nel romanzo di Marguerite Yourcenar, «costruire granai pubblici,
ammassare riserve» per tentare di difendersi dall’«inverno dello
spirito».