mercoledì 22 novembre 2017

Corriere 22.11.17
Le tante guerre di Pietro Ingrao Il comunista che sapeva ascoltare
La Resistenza, il conflitto Est-Ovest, il terrorismo nella «Memoria» del 1998 che esce per Ediesse
di Paolo Franchi

Rinvenuto da Nino Cardillo tra le carte di Pietro Ingrao, spunta un inedito datato 1998, Memoria , domani in libreria, con una bella postfazione del curatore Alberto Olivetti, per i tipi della Ediesse, la casa editrice della Cgil. Dentro ci sono gli ultimi settant’anni del Novecento letti da un comunista tanto atipico quanto cocciuto. E soprattutto riflessioni, giudizi, ricordi, vividi flash, utilissimi per capirne meglio il profilo politico e intellettuale. Che emerge già dal titolo con cui Ingrao aveva inizialmente archiviato questo testo, Memorie di guerra , in chiaro riferimento alla «imperiosa inclinazione militare» assunta nel secolo scorso dallo scontro politico e sociale, e alla «lettura armata» di questo, diffusa non soltanto tra i comunisti, ma tra i comunisti, cresciuti nel mito della rivoluzione d’Ottobre, particolarmente radicata. È sulla possibilità di emanciparsene senza rinunciare a una prospettiva, o meglio a un processo di liberazione che Ingrao, contro lo spirito del tempo, testardamente si interroga.
Memoria, memorie di guerra. È sull’onda della guerra civile spagnola che il ventenne o poco più Pietro Ingrao, studente universitario annoiato ma appassionato neoiscritto al Centro sperimentale di cinematografia, incontra i comunisti, ai suoi occhi interpreti della «lotta al fascismo che rifiutava l’attesa»: sin lì, è stato fascista, «non solo ebbi la tessera, partecipai». Certo, ai Littoriali ha scoperto l’esistenza del dissenso; certo, ha visto e letto, amandoli, film e libri che con la retorica fascista non c’entrano proprio. Magari il dubbio si è già insinuato in qualche modo nella sua testa. Ma è solo di fronte all’ alzamiento di Francisco Franco, uno shock, che il cammino trova il suo sbocco: comincia il tempo della cospirazione. C’è il tempo dei «passaggi ibridati» e delle «vie tortuose e persino ambigue». E c’è il tempo delle scelte di vita.
Memoria, memorie di guerra. La Resistenza, la clandestinità, la fame. E infine la pace, la corsa all’alba per vedere i carri armati americani per le strade di Roma, l’arruolamento volontario come sergente nell’Esercito di liberazione, la miseria e le speranze di un’Italia allo stremo, «l’emozione grande di quando vedemmo ritornare dagli Usa Misha Kamenetzky, e scrivere con il nome di Ugo Stille sul “Corriere della Sera”». Ma soprattutto il Partito («allora lo scrivevamo con la maiuscola»), e «l’Unità», dove Palmiro Togliatti spedisce tanti giovani di belle speranze come lui, da Alfredo Reichlin a Luciano Barca, da Luigi Pintor a Luca Pavolini, ad inventarsi magari controvoglia giornalisti, «caricati dall’obbligo di orientare la sinistra, giorno dopo giorno, in un Paese sortito da una sconfitta storica e avviato verso un domani abbastanza ignoto». La Seconda guerra mondiale è appena terminata, se ne apre una nuova, fredda ma sempre sul punto di riscaldarsi. Per il Pci il contraccolpo è durissimo, stretto com’è «nell’angolo dal conflitto tra i due blocchi e l’adesione fatale allo stalinismo». Come tutti i partiti «fratelli», ricorre a un linguaggio e a una cultura «militari», invoca (Togliatti) una «ferrea disciplina», teorizza (Ingrao) la necessità imperiosa di stare «da una parte della barricata». Ma, a differenza di altri, resiste. Perché — questa è la tesi di Ingrao — con tutta la sua struttura gerarchica promuove una straordinaria «dilatazione della politica», che investe la quotidianità, chiamando al rapporto con gli altri anche i militanti più settari, e diventa così «l’interprete di estesi bisogni civili e, assieme, l’allusione a un rivolgimento sociale». Quando non riuscirà più a farlo, inizierà un inesorabile declino.
Memoria, memorie di guerra. Conta, eccome, il condizionamento internazionale. Quanto, lo prova l’«indimenticabile 1956», per Ingrao «il primo lampo del lento tornado che poi travolgerà» il comunismo mondiale. Prende corpo l’inimmaginabile, a cominciare dallo scontro mortale tra Mosca e Pechino. Nel 1962, in una Cuba che non gli piace neanche un po’, un emozionato Ingrao chiede al Che cosa pensi del movimento operaio europeo: «La risposta che diede mi ghiacciò: mi disse che… era perduto, stava nell’altro campo». Poi le speranze si appuntano, invano, sul Vietnam. Prima della fine i rapporti si diplomatizzano, in un dialogo tra sordi. Nel 1980 Ingrao è in Corea del Nord, per incontrare Kim il Sung: «Mi domandavo, uscendo, quale vento aveva portato a incontrarsi in quei siti imperiali un intellettuale comunista della penisola italiana e quel vecchio rivoltoso contadino di un estremo angolo dell’Asia. Ambedue in qualche modo accomunati da una storia che avevamo chiamato comunismo».
Memoria, memorie di guerra. Lo stragismo, Aldo Moro, le Brigate rosse. Ingrao è presidente della Camera. Chi sono i brigatisti? «Ricordo l’ostinata saggezza con cui mia moglie mi diceva: sei sciocco; ti fa comodo cavartela dall’impiccio in questo modo, dicendo che non è roba nostra… In qualche modo erano “nostri”, o almeno assai prossimi». Nel 1978 milita autorevolmente nel partito della fermezza. Vent’anni dopo annota: «A guardare oggi, con la calma della distanza, quelle vicende tragiche, non vedo come escludere l’ipotesi che si potesse trattare per la vita di Moro e sconfiggere i brigatisti». Domande, risposte, domande. Forse sono proprio questa capacità di ascolto e questo impenitente interrogarsi il principale lascito (smarrito) di Pietro Ingrao.