mercoledì 22 novembre 2017

Corriere 22.11.17
Le tante guerre di Pietro Ingrao Il comunista che sapeva ascoltare
La Resistenza, il conflitto Est-Ovest, il terrorismo nella «Memoria» del 1998 che esce per Ediesse
di Paolo Franchi

Rinvenuto da Nino Cardillo tra le carte di Pietro Ingrao, spunta un inedito datato 1998, Memoria , domani in libreria, con una bella postfazione del curatore Alberto Olivetti, per i tipi della Ediesse, la casa editrice della Cgil. Dentro ci sono gli ultimi settant’anni del Novecento letti da un comunista tanto atipico quanto cocciuto. E soprattutto riflessioni, giudizi, ricordi, vividi flash, utilissimi per capirne meglio il profilo politico e intellettuale. Che emerge già dal titolo con cui Ingrao aveva inizialmente archiviato questo testo, Memorie di guerra , in chiaro riferimento alla «imperiosa inclinazione militare» assunta nel secolo scorso dallo scontro politico e sociale, e alla «lettura armata» di questo, diffusa non soltanto tra i comunisti, ma tra i comunisti, cresciuti nel mito della rivoluzione d’Ottobre, particolarmente radicata. È sulla possibilità di emanciparsene senza rinunciare a una prospettiva, o meglio a un processo di liberazione che Ingrao, contro lo spirito del tempo, testardamente si interroga.
Memoria, memorie di guerra. È sull’onda della guerra civile spagnola che il ventenne o poco più Pietro Ingrao, studente universitario annoiato ma appassionato neoiscritto al Centro sperimentale di cinematografia, incontra i comunisti, ai suoi occhi interpreti della «lotta al fascismo che rifiutava l’attesa»: sin lì, è stato fascista, «non solo ebbi la tessera, partecipai». Certo, ai Littoriali ha scoperto l’esistenza del dissenso; certo, ha visto e letto, amandoli, film e libri che con la retorica fascista non c’entrano proprio. Magari il dubbio si è già insinuato in qualche modo nella sua testa. Ma è solo di fronte all’ alzamiento di Francisco Franco, uno shock, che il cammino trova il suo sbocco: comincia il tempo della cospirazione. C’è il tempo dei «passaggi ibridati» e delle «vie tortuose e persino ambigue». E c’è il tempo delle scelte di vita.
Memoria, memorie di guerra. La Resistenza, la clandestinità, la fame. E infine la pace, la corsa all’alba per vedere i carri armati americani per le strade di Roma, l’arruolamento volontario come sergente nell’Esercito di liberazione, la miseria e le speranze di un’Italia allo stremo, «l’emozione grande di quando vedemmo ritornare dagli Usa Misha Kamenetzky, e scrivere con il nome di Ugo Stille sul “Corriere della Sera”». Ma soprattutto il Partito («allora lo scrivevamo con la maiuscola»), e «l’Unità», dove Palmiro Togliatti spedisce tanti giovani di belle speranze come lui, da Alfredo Reichlin a Luciano Barca, da Luigi Pintor a Luca Pavolini, ad inventarsi magari controvoglia giornalisti, «caricati dall’obbligo di orientare la sinistra, giorno dopo giorno, in un Paese sortito da una sconfitta storica e avviato verso un domani abbastanza ignoto». La Seconda guerra mondiale è appena terminata, se ne apre una nuova, fredda ma sempre sul punto di riscaldarsi. Per il Pci il contraccolpo è durissimo, stretto com’è «nell’angolo dal conflitto tra i due blocchi e l’adesione fatale allo stalinismo». Come tutti i partiti «fratelli», ricorre a un linguaggio e a una cultura «militari», invoca (Togliatti) una «ferrea disciplina», teorizza (Ingrao) la necessità imperiosa di stare «da una parte della barricata». Ma, a differenza di altri, resiste. Perché — questa è la tesi di Ingrao — con tutta la sua struttura gerarchica promuove una straordinaria «dilatazione della politica», che investe la quotidianità, chiamando al rapporto con gli altri anche i militanti più settari, e diventa così «l’interprete di estesi bisogni civili e, assieme, l’allusione a un rivolgimento sociale». Quando non riuscirà più a farlo, inizierà un inesorabile declino.
Memoria, memorie di guerra. Conta, eccome, il condizionamento internazionale. Quanto, lo prova l’«indimenticabile 1956», per Ingrao «il primo lampo del lento tornado che poi travolgerà» il comunismo mondiale. Prende corpo l’inimmaginabile, a cominciare dallo scontro mortale tra Mosca e Pechino. Nel 1962, in una Cuba che non gli piace neanche un po’, un emozionato Ingrao chiede al Che cosa pensi del movimento operaio europeo: «La risposta che diede mi ghiacciò: mi disse che… era perduto, stava nell’altro campo». Poi le speranze si appuntano, invano, sul Vietnam. Prima della fine i rapporti si diplomatizzano, in un dialogo tra sordi. Nel 1980 Ingrao è in Corea del Nord, per incontrare Kim il Sung: «Mi domandavo, uscendo, quale vento aveva portato a incontrarsi in quei siti imperiali un intellettuale comunista della penisola italiana e quel vecchio rivoltoso contadino di un estremo angolo dell’Asia. Ambedue in qualche modo accomunati da una storia che avevamo chiamato comunismo».
Memoria, memorie di guerra. Lo stragismo, Aldo Moro, le Brigate rosse. Ingrao è presidente della Camera. Chi sono i brigatisti? «Ricordo l’ostinata saggezza con cui mia moglie mi diceva: sei sciocco; ti fa comodo cavartela dall’impiccio in questo modo, dicendo che non è roba nostra… In qualche modo erano “nostri”, o almeno assai prossimi». Nel 1978 milita autorevolmente nel partito della fermezza. Vent’anni dopo annota: «A guardare oggi, con la calma della distanza, quelle vicende tragiche, non vedo come escludere l’ipotesi che si potesse trattare per la vita di Moro e sconfiggere i brigatisti». Domande, risposte, domande. Forse sono proprio questa capacità di ascolto e questo impenitente interrogarsi il principale lascito (smarrito) di Pietro Ingrao.

Corriere 22.11.17
Heidegger sui sentieri interrotti
Nella sua concezione la storia non progredisce in modo lineare ma è scandita da eventi
Filosofia Esce in italiano per Mimesis, a cura di Giusi Strummiello, un trattato del famoso pensatore tedesco risalente al cruciale biennio 1941-42
di Donatella Di Cesare

Mentre si continua a discutere, con toni accesi, intorno al ruolo che Martin Heidegger svolge nella filosofia contemporanea, esce in italiano, presso la casa editrice Mimesis, il suo grande trattato L’evento . Pubblicato in tedesco solo nel 2009, il volume, di oltre trecento pagine — corrispondente al numero 71 delle Opere complete —, fa parte della serie di sette trattati esoterici, inaugurata dai Contributi alla filosofia (Dall’evento) , editi in Italia da Adelphi. Lo scenario è quello della storia dell’essere; l’interrogativo riguarda l’inizio. Tutto ruota intorno all’«evento». Si intuisce allora l’importanza decisiva di questo trattato che, insieme agli altri numerosissimi inediti, era stato affidato dallo stesso Heidegger all’Archivio di Marbach am Neckar.
La copia manoscritta porta la data «1941-42». Sono gli anni della Seconda guerra mondiale, quelli in cui la Germania nazista tocca il culmine della vittoria e, sferrando l’attacco alla Russia bolscevica, si prepara al dominio del pianeta. Ma sono anche gli anni in cui d’improvviso tutto può finire nel nulla: la vittoria può mutarsi in sconfitta, l’apice può diventare abisso.
Dal suo angolo di visuale Heidegger scruta la possibilità di un altro inizio. Occorre essere avvertiti e non lasciarsi sfuggire i cenni con cui si preannuncia la nuova era tanto attesa. E, d’altronde, la filosofia non è forse anzitutto attesa? Il rischio sarebbe quello di forzare i tempi, di voler uscire da un’epoca, là dove non vi è uscita, di predisporre, programmare, pianificare. Così verrebbe meno ogni possibilità di interrogarsi e meditare.
Filosofo profondamente storico, tanto contrario alla storiografia erudita e allo storicismo asfittico, quanto attento all’andamento imprevedibile della storia, segnato com’è da svolte repentine, pieghe imponderabili, vie tortuose, Heidegger si chiede che cosa sia un «evento», un Ereignis . Perché la storia non è una marcia trionfale verso il progresso, come viene superficialmente vista nella modernità. Piuttosto è scandita da eventi.
Di volta in volta unico, l’evento si sottrae a ogni dominio e a ogni volontà di definizione. L’evento è ciò che avviene, ciò che accade. Occorre, dunque, vedere finalmente la storia non secondo un disegno globale, bensì come un accadere di eventi, che non sono controllabili a piacimento — al contrario di quel che il progresso tecnico lascia intendere. Di più: proprio perché l’evento scandisce la storia, dischiude un’epoca, siamo noi, nella nostra esistenza storica e finita, ad appartenere all’evento. Perciò l’evento appropria e insieme espropria. Compito della filosofia è pensare l’evento nella sua irriducibile originarietà — e pensarsi dall’evento, cioè come un pensiero che proviene e si dispiega in un orizzonte storico. Non stupisce, dunque, che nella celebre Lettera sull’«umanismo» (Adelphi) , pubblicata nell’immediato dopoguerra, Heidegger scriva: «Dal 1936 “evento” è la parola guida del mio pensiero».
Con toni evocativi, accenti quasi oracolari, uno stile che, fra slanci, inversioni, approfondimenti, si affida a un ritmo rapsodico e segue un percorso capace di aggirare ogni principio, Heidegger guarda all’evento che potrebbe segnare il passaggio dall’evo metafisico a un nuovo inizio della storia. Riprende e sviluppa i temi chiave della sua filosofia. Pagine significative sono dedicate alla verità, al nesso tra pensare e poetare, alla questione della differenza.
Sferzante è inoltre la critica alla modernità, che in tedesco si chiama Neuzeit , quell’epoca che si spaccia per essere nuova, neue Zeit , e che invece, pur essendo «avida di nuovo», non fa che ripetere il passato potenziandolo. Ecco ciò che è tragico: ogni evento viene cancellato sul nascere. Nella modernità una lettura «non-storica della storia» fa tutt’uno con la pianificazione del calcolo e con quell’eccesso della tecnica che si manifesta nella «eccedenza dei dispositivi del volere e nella sovrabbondanza degli armamenti».
Come nei Quaderni neri , scritti nello stesso periodo, anche nel trattato L’evento il paesaggio in cui si muove Heidegger è quello della sera e dell’attesa serale, quando il tramonto si compie, si spengono gli ultimi lumi, la notte incombe. No, nessun timore per la notte. Perché la notte è «la madre del giorno» e solo in quel tempo di oscurità — che la tecnica non tollera, illuminando e accecando 24 ore su 24 — si possono intravvedere i primi bagliori, la fiamma del nuovo inizio. L’Occidente non trapassa, non muore — come vorrebbero alcuni. Piuttosto l’Occidente è «il futuro della storia», purché sia in grado di interpretare la sua storia a partire dall’evento.
Ma nelle ultime pagine il passaggio diventa «divergenza». Così, in un suggestivo ed enigmatico paragrafo, Heidegger celebra i sentieri interrotti, quei percorsi che si addentrano nel fitto del bosco e che si fermano d’un tratto, coperti dalla vegetazione o sbarrati dai tronchi dimenticati dai taglialegna. «Queste vie sono sinistre. La divergenza è sempre su un sentiero interrotto». Divergenza filosofica? O si dovrebbe anche supporre una divergenza politica dal nazionalsocialismo che si è consegnato alla storiografia della modernità pretendendo di essere il culmine della tecnica. Dal canto suo Heidegger si prepara a fermarsi, a soggiornare sul sentiero dimenticato e interrotto, dove «non “si” va più avanti e non c’è alcun progresso». E si dispone soprattutto a sostenere il peso della divergenza.
Che significhi rivoluzione, svolta epocale o un altro inizio, «evento» è ormai parola chiave della filosofia contemporanea, senza la quale sarebbe inimmaginabile il dibattito degli ultimi anni. Nel pro e nel contro la complessa riflessione di Martin Heidegger resta però ancora da pensare nei suoi profondi risvolti, nelle inattese ripercussioni, nei molteplici effetti.

Corriere 22.11.17
Elzeviro/ Il libro di Marco Magrini
Nell’universo nulla come lui: è il cervello
di Edoardo Boncinelli
Il nostro cervello è un organo affascinante e rappresenta per noi uno degli oggetti più misteriosi dell’intero universo. Le chiacchiere da salotto e molta pubblicistica lo rendono ancora più misterioso, istillando nella nostra testa nozioni senza capo né coda, come quella che del nostro cervello noi usiamo di solito solo il 10% o che la sua parte sinistra è logica e razionale e la sua parte destra artistica e creativa. Capire il funzionamento del cervello è certamente difficile ma gli ultimi decenni hanno visto un’esplosione di analisi strumentali e di sperimentazioni scientifiche che ce lo hanno fatto comprendere un po’ di più e la disciplina corrispondente, la neurobiologia, è stata ed è una delle più grandi conquiste della scienza moderna. Naturalmente per chi lo vuole sapere, perché ci sono molte persone che hanno deciso dall’inizio che il cervello non si può comprendere e quindi non sono interessate. Per chi è interessato esistono invece libri bellissimi, anche se talvolta un po’ difficilini da digerire.
È un sollievo quindi trovare un libro molto leggibile e con un andamento leggero, che parla del cervello senza omettere niente e senza dire cose inesatte. Ecco che Cervello. Manuale dell’utente di Marco Magrini (postfazione di Tomaso Poggio, Giunti, pagine 255, e 14) si presenta come un simpatico e ambizioso candidato per ricoprire egregiamente tale ruolo.
Scritto con grande perizia e finta ingenuità, come si trattasse dell’opera di uno che si è trovato lì per caso, tocca con semplicità e completezza tutto quello che c’è da sapere della «macchina più complessa del mondo», vista, come è giusto, da fuori e da dentro, vale a dire nei suoi aspetti oggettivi e soggettivi, quasi esistenziali. Perché in fondo questo è il cervello, un organo del corpo con il suo funzionamento e le sue connessioni, che però tutti noi viviamo direttamente da dentro fin da quando siamo stati presenti a noi stessi. In questo è un oggetto unico, forse nell’universo. Lo possiamo studiare dall’esterno utilizzando tutti i ritrovati e gli strumenti della scienza, ma quello che ci viene da lui e che a lui offriamo, in tempi diversi e in condizioni diverse, lo sappiamo direttamente dall’interno, e non c’è ragione di ritenere che la nostra esperienza sia diversa da quella di chiunque altro essere umano.
È direttamente il cervello che ci permette, se vogliamo, di parlare di due culture o, meglio, di due mancanze di cultura, quella scientifica e quella letteraria o umanistica, anche se quest’ultimo aggettivo è improprio e assai fuorviante. Non è la realtà che si può osservare sia da dentro che da fuori, bensì il nostro cervello stesso. Analizzandone con passione sia il suo funzionamento, che il nostro vissuto.
«Complimenti per l’acquisto di questo prodotto esclusivo, fatto su misura per lei»: così esordisce scherzosamente il nostro autore, come se si trattasse delle parole di autopresentazione di un autentico manuale. E continua: «Il suo cervello le offre un servizio straordinario e irreplicabile, la contemporanea disponibilità di un sistema sensoriale per la percezione dell’ambiente, di un sistema nervoso per il controllo dell’apparato motorio, nonché di una coscienza integrata per discernere e decidere, le regalerà anni di continua esistenza». Questa è una simpatica e limpida descrizione dei fatti. Il punto è, casomai, che noi non ci siamo comprati proprio niente e nessuno ci ha mai fornito comunque nessun manuale d’uso. Di nessun altro organo c’è stato fornito il suddetto manuale ma gli altri organi sono meno liberi di fare ciò che vogliono, mentre il cervello ci appare liberissimo e responsabile.




La Stampa 22.11.17
Sindone, quest’estate a Torino visita straordinaria per i giovani
L'arcivescovo Nosiglia: “Un segno di speranza”
di Maria Teresa Martinengo

A Torino, il prossimo 10 agosto sarà un giorno eccezionale: a poco più di due anni dalla chiusura dell’Ostensione 2015, la Sindone sarà nuovamente esposta, ma rimanendo nella cappella della Cattedrale dove è conservata, sotto la tribuna reale. All’evento potranno partecipare diverse migliaia di pellegrini, comunque «privilegiati»: i giovani del Piemonte e della Valle d’Aosta che la sera stessa partiranno per Roma per l’incontro dei giovani di tutte le diocesi italiane con Papa Francesco. Due i momenti: la veglia di sabato 11 e la Messa di domenica 12, oceanico appuntamento che si tiene in vista del Sinodo dei vescovi sui giovani, in autunno.
L’arcivescovo di Torino, monsignor Cesare Nosiglia, custode pontificio della Sindone, ieri ha presentato l’iniziativa, concessa in via straordinaria dalla Santa Sede: «Faremo in modo - ha detto, sorridendo - che tutti i partecipanti al pellegrinaggio, ma solo loro, possano fare questa visita contemplativa. Se i giovani prenotati saranno tanti? Un giorno ha 24 ore... Speriamo che siano tanti, anche se agosto è il mese delle vacanze».
La «contemplazione» - l’arcivescovo non vuole definirla «ostensione» - di un giorno arriverà a conclusione del cammino verso il Sinodo all’insegna del motto «L’Amore lasci il Segno», una grande occasione di meditazione e di preghiera per i giovani dai 16 ai 30 anni delle 17 Diocesi del Piemonte e della Valle d’Aosta, ma anche, se vorranno, per altri provenienti da altre regioni. Il programma dei vari appuntamenti si sta definendo, ma fin da ora alcuni punti sono fissati: il 9 agosto i giovani saranno alla Reggia di Venaria, il 10 in visita a Torino sulle orme dei Santi Sociali, nel pomeriggio e nella sera del 10 verranno accolti in Duomo dove avranno l’opportunità di fermarsi in preghiera di fronte alla Sindone. Nella notte di San Lorenzo, poi, il pellegrinaggio proseguirà verso Roma.
I discepoli
Il collegamento tra i giovani e la Sindone, Nosiglia l’ha spiegato ricordando il primo capitolo del Vangelo di Giovanni, quando Giovanni incontra Gesù insieme ad Andrea. «Incontrare Gesù riconosciuto come Messia e Salvatore. Questo discepolo amato - ha detto l’arcivescovo - è lo stesso che lo accompagnerà sotto la croce, unico tra gli altri discepoli, fino alla morte, e ne constaterà poi la risurrezione. Dunque questo giovane discepolo è modello ed esempio per ogni giovane nel cercare e incontrare il Signore e diventare suo annunciatore presso amici e coetanei». Ancora: «Per noi questa vicenda costituisce un richiamo esplicito all’Amore più grande, al mistero della salvezza incarnata da Gesù, alla speranza. La Sindone è segno di quell’amore, l’impronta visibile che conserviamo qui a Torino e che Papa Francesco due anni fa ha accarezzato».
Il direttore della Pastorale Giovanile della Diocesi, don Luca Ramello, ha ricordato che «inviti speciali saranno rivolti ai giovani delle Diocesi conosciute in occasioni particolari di gemellaggi, soprattutto di Francia, Spagna e Polonia. La venerazione della Sindone sarà possibile unicamente ai giovani - e ai loro accompagnatori - che parteciperanno almeno ad una parte del cammino. L’iscrizione è obbligatoria e sarà possibile a partire dalle prossime settimane. Sarà favorita la partecipazione dei giovani con disabilità o ammalati». Già oggi informazioni sul pellegrinaggio sono disponibili sul sito www.sinodo2018.it, mentre la mail a cui scrivere è info@sinodo2018.it

il manifesto 22.11.17
Il sindaco Pd sfila con Casapound contro «l’invasione» di 37 profughi
di Mario Di Vito

SPINETOLI (ASCOLI PICENO) Il sindaco del Pd in marcia con Casapound e Lega Nord. Succede a Spinetoli, cittadina di settemila abitanti in provincia di Ascoli Piceno, con i cittadini allarmati dal paventato arrivo di trentasette richiedenti asilo da alloggiare in un Centro di accoglienza straordinaria. Sono settimane che nel paese si discute, e qualcuno ha alzato il livello del dibattito a livelli apocalittici, tra volantini in cui si parla senza mezzi termini di «invasione» o di «quaranta profughi pronti a insidiare i nostri figli davanti alle scuole». La giustificazione finale è che Spinetoli già accoglie 22 migranti e non ne vuole altri, anche se la cooperativa che vorrebbe aprire il Cas ha vinto un regolare bando della Prefettura e ha tutte le carte in regola.
Domenica sera, alla fiaccolata «contro il business dell’immigrazione», Luciani più che un sindaco di centrosinistra sembrava un militante di estrema destra: «L’amministrazione è contraria a questa accoglienza di massa», arrivando poi a definire i 37 ragazzi da accogliere come «un numero enorme».
La sua idea, per cercare di mediare, era quella di aderire allo Sprar – cioè alla prima accoglienza, programmata e stabilita direttamente dal ministero degli Interni su base triennale – ma anche questa ipotesi non sembra aver soddisfatto la piazza di Spinetoli, fomentata dal pronto intervento di Casapound e della Lega Nord, come al solito abilissimi ad appiccare il fuoco dell’indignazione più razzista.
Così, nel silenzio assordante dei vertici locali del partito, Luciani si è ritrovato a manifestare nelle vie del suo paese insieme ad altre trecento persone, tra grida contro la «falsa accoglienza», contro «l’immigrazione di massa», contro la presunta invasione, fino ad arrivare al classico complottista della «sostituzione etnica», pure evocata dai manifestanti.
Ma non basta, il sindaco esce da questa storia anche umiliato sul piano politico: il suo intervento è stato boicottato dalla delegazione di Casapound, che se n’è andata lanciando accuse sulla eventuale futura apertura a Spinetoli di uno Sprar, definito «compromesso che apre le porte a un’invasione programmata con soldi pubblici». È un copione già visto in scena varie volte: arrivano i migranti, le perplessità vengono montate fino a farle diventare isteria collettiva, nasce un comitato «apolitico e apartitico» che magicamente finisce nelle mani dell’estrema destra. È così che, in questo caso, se Luciani non ha potuto prendere le distanze dai neofascisti, Casapound ha avuto gioco facile nel prendere le distanze dal sindaco. E il disastro è servito.
Tra la paura di non riuscire a gestire una piazza calda e il disperato tentativo di raccattare ogni voto possibile anche a destra, Luciani si è lanciato nelle terre del gentismo più esasperato, cedendo di fatto alla propaganda che Casapound e Lega sono riusciti a portare a Spinetoli, paese peraltro da sempre in mano al centrosinistra. L’istantanea del sindaco alla marcia xenofoba è la testimonianza di una tensione che tra i democrat nessuno sembra in grado di controllare, tanto è il terrore di finire al centro di una campagna di delegittimazione che spesso e volentieri si è dimostrata efficacissima. D’altra parte, non sono pochi gli esponenti del Pd che sull’immigrazione si ritrovano sulle stesse posizioni di un Matteo Salvini qualunque perché «la base la pensa come lui». Non è dato sapere quanto tutto ciò sia vero, intanto pur riuscire a tenere per sé qualche granello di un potere che sta scivolando via velocemente, con Lega e Casapound si può scendere in piazza. Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei.

La Stampa 22.11.17
I maledetti del Novecento catturati dal vortice fascista
Andrea Colombo racconta la storia di sedici intellettuali, da Céline a Pound, coinvolti in gradi diversi nell’ideologia razzista e totalitaria dell’estrema destra
di Claudio Gallo

Come l’Angelus novus di Klee, che Benjamin vedeva con lo sguardo rivolto all’indietro, l’inizio del XXI secolo resta ossessionato dagli orrori e dalle passioni del secolo precedente. In questo filone di febbrile rilettura si colloca I maledetti, dalla parte sbagliata della storia di Andrea Colombo (Lindau, pp. 262, € 21) le vicende di sedici grandi e meno grandi intellettuali contaminati dall’ombra demoniaca del ’900. La scelta dell’autore è subito chiara, niente taglio saggistico, niente note: il lettore è affidato al potere delle storie individuali attraverso una scrittura giornalistica che mentre spiega vuole intrigare.
Che cosa accomuna questi personaggi così diversi tra loro (Hamsun, Céline, Benn, Heidegger, Gentile, Lorenz, Riefenstahl, Cioran, Eliade, Sironi, Marinetti, Pound, Wyndham Lewis, Evola, Brasillach, Eliot) è suggerito da Colombo nell’introduzione: «la consapevolezza che l’800, il secolo dei buoni sentimenti, del liberalismo, delle democrazie, della speranza ottimistica in un progresso illimitato, era definitivamente tramontato. Dalle macerie della Prima guerra mondiale doveva sorgere un nuovo mondo completamente trasfigurato».
Illustrano bene quello spirito che aleggiò a più riprese sull’Europa, dall’inizio del ’900 agli Anni 40, le parole di George Valois, passato dall’anarco-sindacalismo al Faisceau, il fascismo francese, e morto anti-nazista nel lager di Bergen-Belsen. Le cita Zeev Sternhell nel classico Né destra, né sinistra: «Fascismo e Bolscevismo sono una stessa reazione contro lo spirito borghese e plutocratico. Al finanziere, al petroliere, all’allevatore di maiali che credono di essere i padroni del mondo e vogliono organizzarlo secondo la legge del denaro, secondo i bisogni dell’automobile, secondo la filosofia dei maiali, e piegare i popoli alla politica del dividendo, il bolscevico e il fascista rispondono levando la spada». Nonostante nel secondo dopoguerra i due movimenti politici siano stati talvolta collocati nella medesima categoria di totalitarismo, l’accostamento tra fascismo e comunismo sembra ancora oggi arduo, ma proprio per questo testimonia bene lo spirito insofferente dell’epoca.
L’irrazionalismo fascista e il culto della razza sfociano nell’antisemitismo che l’autore ritrova in quasi tutti i suoi protagonisti. Non si tratta di un antisemitismo granitico: ci sono sfumature e differenze importanti come faceva notare negli Anni 70 il finlandese Tarmo Kunnas nel suo La tentazione fascista. Non giustificano un’assoluzione, ma rivelano una realtà non facilmente riconducibile e categorie generali troppo nette: apparentemente, il razzismo non fa parte, ad esempio, dell’orizzonte di Ernst Jünger o di Gottfried Benn, mentre è radicato nell’irrazionalismo di Céline (una parola definitiva sul tema l’hanno detta Pierre-André Taguieff e Annick Duraffour in Céline, la race, le juif pubblicato in Francia da Fayard all’inizio dell’anno).
D’altra parte il fascismo, come reazione alla ragione positivista e all’ipocrisia borghese, si appella alla volontà, all’inconscio, a tutto un armamentario irrazionale nemico di ogni misura. Il risultato non cambia, ma talvolta leggendo Céline o Drieu La Rochelle ci si chiede se certe conclusioni aberranti non siano più imposte dal demone dello stile che dal pensiero. Ripercorrendo le vite dei proscritti di Colombo, si riflette anche sulla consistenza dell’individualità: tutt’altro che definita, nei sedici ritratti sembra un serraglio di personaggi che in ciascuna testa si alternano più o meno imprevedibilmente sul palco della coscienza. Grandezza e meschinità, angeli e demoni. Come poteva Ezra Pound, geniale architetto dei Cantos, lodare dal manicomio criminale le idee desolanti di John Kaspers, impresentabile suprematista bianco? Eppure, sia Against Usura sia gli apprezzamenti della retorica razzista stile Ku Klux Klan escono dallo stesso cervello, anche se, probabilmente, non dalla stessa persona. Ma tutto questo al giudice non importa, per la giustizia e per la morale ognuno di noi è un individuo e quello soltanto. Dimenticarlo sarebbe come minacciare l’esistenza del nostro mondo.

Il Fatto 22.11.17
L’agonia della Rai. Gabanelli approda al Corriere e a La7
Sospesa “Domenica In”, schiacciata da Barbara D’Urso Soccorso di Berlusconi: sarà ospite di Fazio, oggi ai minimi
L’agonia della Rai. Gabanelli approda al Corriere e a La7
di Gianluca Roselli

Non sono grandi giornate per mamma Rai. Dove, se da una parte si lasciano andar via i pezzi da novanta come Milena Gabanelli, dall’altra si è costretti a sospendere trasmissioni per eccesso di ribasso. È il caso di Domenica in delle sorelle Cristina e Benedetta Parodi, in grande sofferenza con il diretto concorrente Domenica live di Barbara D’Urso su Canale 5.
Ma partiamo da Gabanelli. Dopo l’addio alla tv pubblica (il 15 novembre è stato il suo ultimo giorno di lavoro), la giornalista ha annunciato ieri il suo doppio ingaggio by Urbano Cairo al Corriere della Sera e a La7. Con il Corriere la giornalista ex conduttrice di Report già collaborava e continuerà a realizzare articoli di approfondimento e inchieste, ma il nuovo incarico sarà quello di una striscia quotidiana sul sito web del quotidiano dove tratterà temi di attualità e potrà sperimentare nuove forme di comunicazione, come quelle del data journalism. Un po’ quello che aveva proposto alla Rai (una striscia tv dopo il Tg1 delle 20), salvo trovare la porta chiusa da parte del dg Mario Orfeo. In più parteciperà come ospite ai numerosi programmi di informazione del canale televisivo di Cairo. “Quello che oggi mi interessa è portare informazione di qualità su quei mezzi e piazze virtuali dove si sta formando la classe dirigente di domani. La prima battaglia, la più importante, è quella di imporre il principio della meritocrazia”, ha spiegato Gabanelli. Che così si lascerà alle spalle il duro scontro di cui è stata protagonista negli ultimi mesi con Viale Mazzini per la guida di un grande portale web, Rai24, progetto che si è arenato per i veti incrociati e l’opposizione del vertice. Da qui lo strappo e il divorzio.
Per una Gabanelli che va, però, ci sono Fazio e le sorelle Parodi che restano. L’ultima notizia è la decisione di sospendere le prossime due puntate di Domenica in, con la scusa del Gran Premio di Formula Uno per domenica prossima e non meglio specificati “eventi sportivi” per quella successiva.
In realtà l’azienda vuole rimettere mano al programma che l’anno scorso volava, grazie anche ai 4 milioni di telespettatori de L’Arena di Massimo Giletti (anche lui transitato a La7), mentre quest’anno viene sistematicamente sconfitto da Canale 5. L’ultimo dato di domenica scorsa registra le Parodi all’11% di share (circa 1 milione e 400 mila spettatori) e Barbara D’Urso al 19,2 (3 milioni e mezzo). Lo stesso Orfeo nel Cda di ieri ha ammesso che “qualcosa nel programma non funziona e va rivisto”. E così arriva lo stop di due settimane.
Lo stesso dg poi è intervenuto sulle polemiche sugli ascolti e il conseguente rischio di fuga degli inserzionisti pubblicitari. “Nei primi sei mesi dell’anno abbiamo registrato una contrazione della raccolta pubblicitaria, ma da settembre a novembre c’è stata una crescita di 2 milioni di euro rispetto all’anno scorso”, ha detto Orfeo. Aggiungendo che comunque l’andamento della raccolta “non è legato al programma di Fazio”. Anzi, aggiunge il dg, “gli ascolti di Che tempo che fa sono assolutamente in linea con le previsioni, gli articoli sui giornali che dicono il contrario sono fake news”. Fatto sta che Fazio domenica scorsa ha registrato il minimo storico e cala anche il lunedì: due sere fa ha fatto il 10,3% contro l’11,2 della settimana precedente. Ma in aiuto al conduttore ecco arrivare Silvio Berlusconi: il leader di Forza Italia domenica prossima sarà ospite a Che tempo che fa.

Corriere 22.11.17
La striscia quotidiana
Milena Gabanelli riparte al Corriere
di Paolo Conti

Milena Gabanelli torna a collaborare stabilmente con il Corriere della Sera con un progetto innovativo: una video-striscia quotidiana su Corriere.it dove ogni giorno, in cinque minuti circa, la giornalista analizzerà un argomento con numeri, mappe, infografiche, video-animazioni, ovvero con gli strumenti del data journalism. Contemporaneamente Gabanelli approderà a La7 come ospite nelle trasmissioni di approfondimento della Rete. L’accordo è stato annunciato ieri da Rcs.
«Il Corriere della Sera è la casa del giornalismo italiano e Milena Gabanelli è una grandissima giornalista, una fuoriclasse, perché incarna il giornalismo che ci piace, fatto di contenuti chiari, utili e di servizio — ha detto Urbano Cairo, presidente e amministratore delegato di Rcs MediaGroup e presidente di La7 —. È con particolare soddisfazione che le do il bentornato al Corriere della Sera e il benvenuto a La7, dove parteciperà come ospite alle nostre trasmissioni di approfondimento». Luciano Fontana, direttore del Corriere della Sera : «Siamo molto orgogliosi di dare voce a Milena tra le grandi firme del nostro giornale. Con forza, capacità d’analisi e profondità d’inchiesta, sperimenteremo insieme una nuova frontiera del giornalismo e del data journalism, esplorando anche nuovi format di fruizione e di linguaggio, aprendo insieme nuove strade per il futuro della nostra professione».
Commenta Milena Gabanelli, che ha dato addio alla Rai il 15 novembre dopo aver annunciato le dimissioni da viale Mazzini il 31 ottobre: «Ormai non mi interessa più la visibilità televisiva. Mi interessa invece, e molto, lavorare sulle piazze virtuali, lì dove si formano le classi dirigenti di domani e dove scarseggia l’informazione di qualità. Le fake news si combattono solo con le news verificate, dunque autentiche, e approfondite». L’idea di Gabanelli è riuscire a ridurre, nello spazio di cinque minuti quotidiani, le caratteristiche di una notizia complessa permettendo al lettore di raggiungere rapidamente i necessari link per gli approfondimenti. Dunque una formulazione agile ma che nasconde dentro di sé una grande quantità di informazioni e di arricchimenti. Milena Gabanelli interverrà naturalmente anche sulla tradizionale versione cartacea del giornale con inchieste e approfondimenti. In più — spiega la giornalista diventata famosa con l’esperienza televisiva di «Report», il programma che ha condotto per dieci anni — il frutto di questo lavoro irrobustirà ogni giorno un «data base» destinato ad essere continuamente aggiornato dal lavoro quotidiano di tutti i giornalisti del Corriere . Il contratto, spiega la giornalista, partirà il 1 dicembre prossimo e l’esordio della striscia quotidiana avverrà a gennaio. «Realizzerò per il Corriere della Sera quella striscia quotidiana serale che avevo proposto alla Rai e che l’azienda ha respinto», spiega Gabanelli: «Dopo anni passati ad indagare temi trasversali, c’è la necessità e il dovere di proporre anche soluzioni, là dove si intravedono. La prima battaglia, la più importante, è quella di imporre il principio della meritocrazia. È proprio l’assenza di competenza e senso di responsabilità alla base dei tanti problemi del nostro Paese». Non solo giornalismo di denuncia, dunque, ma anche strumento di conoscenza e di possibile crescita per il sistema Paese.
Milena Gabanelli aveva lasciato la Rai dopo aver rifiutato l’offerta finale di una condirezione di Rainews 24 al fianco di Antonio Di Bella. La giornalista aveva spiegato che la sua scelta nasceva dalla fine del progetto iniziale per il quale era stata assunta dall’allora direttore generale Rai Antonio Campo Dall’Orto: ovvero la realizzazione di un innovativo Portale Web della Rai che potesse ricorrere al contributo di tutti i giornalisti dell’azienda.

Il Fatto 22.11.17
Caccia alle fonti dei cronisti. Libertà di stampa in pericolo
La carica delle Procure - Redazioni e case private perquisite, l’ultimo caso è Nicola Borzi del Sole24Ore: autore di un’inchiesta sui soldi dei Servizi segreti
di Giorgio Meletti

Una serie di decisioni illegittime di diverse procure della Repubblica stanno di fatto abrogando il segreto professionale dei giornalisti. Basta il semplice sospetto di una minima violazione di segreto d’ufficio e scatta la perquisizione per scoprire le fonti del giornalista. È una pratica più volte censurata dalla Cassazione e ancor più energicamente condannata da norme e sentenze europee. Eppure accade sempre più spesso.
Il fenomeno si traduce, al di là della buona fede dei singoli magistrati, in una pressione per tutti i giornalisti. Il messaggio è chiaro: se scrivi una parola di troppo puoi trovarti gente in divisa che fruga tra i giocattoli dei tuoi bambini o che si prende il tuo telefonino e cartografa comodamente tutte le tue relazioni e tutte le tue fonti. Anche chi si affida al segreto professionale del giornalista, imposto dalla legge e tutelato anche dal codice di procedura penale, è avvertito: se vai a raccontare qualcosa anche senza commettere niente di illecito, sappi che prima o poi potrebbe esserci un carabiniere, un poliziotto o un magistrato che potrà ricostruire tutti i tuoi contatti con il giornalista.
L’ultimo caso risale alla sera di venerdì 17 novembre. Gli uomini della Guardia di Finanza, su ordine del procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone, si sono presentati nella redazione del Sole 24 Ore a Milano, con un decreto di acquisizione di documenti per il giornalista Nicola Borzi. Quella mattina il giornale aveva pubblicato il secondo di due articoli di Borzi sui movimenti dei conti correnti dei Servizi segreti presso la Banca Popolare di Vicenza. Secondo Pignatone chi ha fornito i documenti al giornalista (che non è indagato ma solo testimone) ha violato il segreto di Stato, un grave reato che può costare fino a dieci anni di carcere. Borzi ha consegnato i documenti richiesti in una chiavetta, ma i finanzieri per maggior sicurezza hanno smontato il disco rigido del suo computer sequestrandogli tutto il suo archivio, le sue email, insomma tutti gli strumenti di lavoro.
La stessa sera del 17 novembre, a Roma, trattamento simile ha ricevuto Francesco Bonazzi, giornalista de La Verità, che aveva scritto sullo stesso argomento il giorno prima di Borzi. Bonazzi però se l’è cavata consegnando una chiavetta con i documenti richiesti e sottoponendosi a un lungo interrogatorio da testimone non indagato. Per entrambi i giornalisti il solito trattamento, la richiesta in nome della legge di violare la legge che vieta di rivelare le fonti.
Colpisce il silenzio che ha circondato anche l’ultimo di una lunga serie di episodi. Neppure il direttore del Sole 24 Ore Guido Gentili ha fatto alcun commento. Borzi è una delle principali fonti d’accusa nell’inchiesta sul falso in bilancio del Sole 24 Ore, per la quale ha presentato numerosi esposti.
Eppure l’Ordine nazionale dei giornalisti non ha speso una parola, limitandosi a riprendere sul suo sito la protesta dell’Ordine della Lombardia, come se fosse una vicenda di interesse regionale. Salvo poi indicare come focus di principale interesse nazionale la libertà di stampa a Ostia. Il racconto confezionato da giornali e telegiornali considera il lavoro giornalistico messo a repentaglio più che altro dalla testata al giornalista precario della Rai Daniele Piervincenzi, dalle minacce mafiose a Paolo Borrometi dell’Agenzia Italia o dal disprezzo di Beppe Grillo per i “giornalisti da 10 euro al pezzo”. Fatti gravissimi. Tuttavia essi non sono causa ma effetto di un fatto molto più grave: se la libertà di stampa è messa in discussione dalla magistratura a chi potremo rivolgerci per difenderla?
Purtroppo una politica capace di evocare a vanvera la “emergenza democratica” si gira dall’altra parte. Purtroppo molti credono che la libertà di stampa, il cui principale baluardo è la segretezza delle fonti, sia un privilegio dei giornalisti e non una garanzia per tutti.
Peggio ancora, molti giornalisti, quando viene perquisita una redazione concorrente, pensano che la cosa non li riguardi. E ci sono quelli che non reagiscono neppure quando viene perquisita la scrivania accanto alla loro. Così, quando il 30 giugno scorso la Procura di Napoli ha ordinato illegittimamente la perquisizione a tappeto di tutta la famiglia del vicedirettore del Fatto Marco Lillo, molti, soprattutto i garantisti a 24 carati, hanno pensato che gli stava bene. Blande reazioni anche il 21 luglio, quando la Guardia di Finanza si è presentata a casa di Gianluca Paolucci de La Stampa. Il suo racconto: “Restano in casa per due ore frugando dappertutto, tra i giocattoli dei bambini, nella culla, negli effetti personali della mia compagna (…) Sequestrano cd, chiavette Usb, vecchi telefonini in disuso”. Due settimane dopo, il procuratore capo di Torino Armando Spataro scrive una lettera di scuse a La Stampa: la denuncia dell’Unipol da cui era scaturito il blitz era sbagliata, le intercettazioni erano state rese pubbliche non da un reato del giornalista ma dall’errore di un magistrato.
Anche le intercettazioni tra Matteo Renzi e il generale della Gdf Michele Adinolfi, due anni fa, costarono a Vincenzo Iurillo del Fatto l’acquisizione da parte degli inquirenti di tutto il contenuto del suo computer, salvo poi scoprire che l’unico atto illegittimo era stato l’attacco alla memoria informatica del giornalista.

Corriere 22.11.17
Fassino insiste, il muro dei bersaniani
Il pontiere dem sente Speranza, che chiude alla possibile intesa
E oggi incontrerà i suoi emissari
di Monica Guerzoni

ROMA «La speranza è l’ultima a morire», sospira Piero Fassino. E, per quanto stremato da giorni di incontri e decine di telefonate, il costruttore di ponti tra il Nazareno e il cantiere della nuova sinistra ancora non si arrende. Diritti del lavoro, diseguaglianze, ius soli, legge di bilancio? Basta trovare «le misure e gli strumenti» e il gioco è fatto. Il pontiere ha chiamato Roberto Speranza e ha intonato ancora un appello all’unità. Ma il coordinatore di Mdp non gli ha lasciato margine di manovra e si è limitato a promettere «la cordialità di un incontro».
La mini-delegazione che oggi a metà mattinata vedrà Fassino alla Camera sarà formata da Giulio Marcon per Sinistra italiana e Possibile e da Cecilia Guerra per Mdp. L’ex sindaco chiederà «un confronto senza tabù», ma la presidente dei senatori bersaniani ha ben chiare «le enormi differenze di merito tra le nostre proposte e quelle del Pd». D’altronde domenica Speranza ha detto no a ogni possibile trattativa e la sua relazione è stata approvata all’unanimità: «Siamo di una fermezza granitica. Andiamo dritti come un sol uomo verso l’assemblea costituente del 3 dicembre, poi si vedrà».
Un’altra porta in faccia. Eppure gli appelli di Prodi e Veltroni hanno acceso qualche scintilla di ripensamento tra i parlamentari della sinistra. «Bersani dice di rivederci dopo il voto? Se si vuole far sul serio, c’è ancora tempo da ambo le parti prima delle elezioni», ha dichiarato Rosy Bindi a Radio Capital. Dentro Mdp c’è chi teme uno smarcamento da parte di Pietro Grasso, chi ha paura di perdere il seggio e chi sa che la spaccatura del centrosinistra ha un prezzo.
«È chiaro che alle elezioni si prevede un esito non positivo — ammette Alfredo D’Attorre —. Ma se ci ammucchiassimo senza un cambiamento profondo il bilancio del voto sarebbe più negativo ancora». Non teme di restare senza scranno? «Se siglassimo un accordo di convenienza non ci voterebbe nessuno. Per cambiare strategia deve succedere qualcosa di profondo». Il senatore Federico Fornaro riconosce che la sirena di Prodi non lo ha lasciato insensibile: «Guardiamo a lui con molto rispetto. Ma dov’erano i pontieri mentre Renzi approvava una legge elettorale senza voto disgiunto?». Per Nico Stumpo «nulla può più cambiare, la scaletta del 3 dicembre è pronta». Per quella data ci sarà anche il nome della lista, da scegliere tra «La sinistra», «Libertà e uguaglianza», «Eguaglianza», o «Liberi ed eguali».
A Rtl Bersani dice di non avere «alcuna chiusura nei confronti di Renzi», però gli dà appuntamento al 5 marzo. Il tempo dunque è scaduto, ma non per Fassino. «Io insisto, incontrarsi dopo le elezioni per raccontarsi che le abbiamo perse non mi pare una grande idea». Una mozione unitaria che tra i dirigenti della nuova sinistra non fa breccia, anzi. Quando gli riferiscono dell’ultimo appello di Fassino, Bersani si blocca sulla soglia dell’Aula di Montecitorio: «Stoppano la nostra proposta sull’articolo 18 e poi ci invitano al confronto? Non scherziamo, qui non ci danno nemmeno la dignità della discussione sul problema cruciale dei prossimi 15 anni, cioè il lavoro».
Una coalizione vincente fatica a nascere, ma sul piano della comunicazione la mossa di Renzi di affidare la mediazione ai padri nobili ha funzionato. Dalemiani e bersaniani hanno capito che saranno loro a restare con il cerino in mano, eppure non torneranno indietro, a costo di incassare attacchi un po’ scomposti. Monica Cirinnà affonda: «Mdp? Solo reduci». Un’uscita che Miguel Gotor spiega con «il nervosismo» di chi ha fiutato la batosta: «Dichiarazioni grette, che contraddicono lo spirito dell’iniziativa di Fassino». Avanti così, consapevoli di farsi (reciprocamente) del male.

Corriere 22.11.17
Ultimi appelli, ma la guerra a sinistra è già partita
di Massimo Franco

A meno di sorprese, l’epilogo delle trattative a sinistra sembra segnato. Ci sarà un’area egemonizzata dal Pd di Matteo Renzi; e un «cartello» alternativo col presidente del Senato, Piero Grasso, nel ruolo di guida. Soprattutto, l’impressione è che si assisterà a uno scontro per conquistare ogni singolo voto nello stesso serbatoio elettorale. I tentativi di mediazione sono arrivati fuori tempo massimo. E la riproposizione dell’unità in versione Ulivo è stata disdegnata troppo a lungo per farla apparire credibile. La richiesta a Romano Prodi di intercedere è avvenuta dopo avere frustrato i suoi tentativi a giugno.
E la sfilata di padri più o meno nobili chiamati a compiere appelli unitari ha finito più per sottolineare la nemesi dei cosiddetti «rottamati» che per inaugurare una nuova fase. D’altronde, il sistema elettorale approvato sa più di proporzionale che di maggioritario. Favorisce le coalizioni, ma anche le ambizioni di ogni partito. E un Pd convinto fino a qualche settimana fa di piegare le forze minori, ora è costretto a inseguire Giuliano Pisapia, Emma Bonino, Angelino Alfano; a offrire garanzie per rompere l’isolamento e ridimensionare il possibile impatto dell’«altra sinistra»: tutto nell’indifferenza dell’opinione pubblica.
Viene il sospetto che il Pd non avesse preso in considerazione la possibilità di un accordo nell’area della sinistra antirenziana. E quando si è accorto che prendeva corpo, ha giocato tutte le sue carte per bloccarlo. Sarà interessante osservare chi, alla fine, aderirà all’operazione che ha Grasso come leader. In particolare, se Mdp e Si riusciranno a strapparsi di dosso l’etichetta di reduci della vecchia sinistra. Sotto questo aspetto, la figura del presidente del Senato diventa essenziale.
Quanto al versante dem, bisognerà capire chi pagherà il conto degli errori di questi mesi; e vedere le implicazioni di una riforma elettorale che promette di falcidiare gli attuali gruppi parlamentari del Pd e creerà tensioni nella formazione delle liste elettorali. Il segretario, Matteo Renzi, ammette che «pur lasciando la porta aperta, non vedo segnali incoraggianti per rimettere insieme il centrosinistra». Eppure insiste che «il Pd sarà il baricentro della prossima legislatura. La sommatoria tra i collegi e i listini» sarà fondamentale. E vuole sperare in un miracolo, di qui al 3 dicembre.
È la data della fondazione di una nuova formazione a sinistra: solo una decina di giorni, che il vertice del Pd ritiene sufficienti per convincere Mdp a ripensarci. Si tratta di un’ipotesi, a oggi, improbabile. Si sono accumulati troppi rancori personali, prima che politici, per pensare di scioglierli . La prospettiva più verosimile è di assistere nelle prossime settimane a una dura recriminazione reciproca; e a polemiche destinate a investire anche i vertici delle istituzioni parlamentari: di sicuro, la presidenza del Senato.

Il Fatto 22.11.17
Caso Moro, l’imbarazzante covo delle Br
Terrorismo e investigatori - La testimonianza del procuratore Mastelloni
di Carlo Mastelloni

Pubblichiamo un brano del libro del procuratore di Trieste
Il timore che Morucci potesse indicare la prigione di via Montalcini era del tutto privo di fondamento. A tale indirizzo gli inquirenti arrivarono, secondo la versione “ufficiale”, solo dopo il febbraio 1982, grazie alla presunta collaborazione di alcuni brigatisti inquisiti, fra cui Savasta (…). È invece accertato che, circa a metà giugno 1978, il dottor Noce, capo dell’Antiterrorismo, dopo un colloquio con il capo della polizia, Parlato, rientrò in ufficio portando con sé un pezzo di carta con l’indirizzo di via Montalcini 8 perché nei paraggi, tempo prima, era stata vista circolare una Renault rossa. Il dirigente, un po’ scettico, inviò sul posto un suo sottufficiale, il maresciallo Scarlino, con l’incarico di effettuare un sopralluogo dell’edificio, cui si accedeva attraverso un cancelletto e un piccolo giardino. All’interno 1, lo Scarlino vide sui campanelli posti all’esterno i nomi Altobelli e Braghetti. Di ritorno al ministero stilò un appunto che datò e firmò indirizzandolo a Noce. (…) Fu in base a questi elementi che la Braghetti fu sottoposta a pedinamento dalla squadretta dell’Antiterrorismo (…). Oggi mi sento solo di affermare che inquirenti e pedinatori si fecero sfuggire la Braghetti, entrata in clandestinità nel settembre 1978. La brigatista ebbe poi modo di partecipare all’omicidio di Vittorio Bachelet, vicepresidente del Consiglio superiore della Magistratura. Non può che essere questo il motivo di tanta ritrosia di alcuni pur validi investigatori nel parlare dell’individuazione della casa di via Montalcini, la prigione di Moro.
Si aggiunga che se la segnalazione su questa casa fosse giunta durante il periodo del sequestro, la mancata individuazione della prigione sarebbe risultata ascrivibile a una colossale prova di inefficienza e superficialità del personale e dei funzionari della Quarta divisione del Viminale. Di certo, l’ubicazione di un probabile covo brigatista in via Montalcini era a conoscenza dell’autorità politica già nell’estate 1978. Mi sembra in proposito pregnante aggiungere che Antonio Savasta nel 1982 indicò ai magistrati solo in linea probabilistica l’ubicazione della prigione di Moro, appunto, in via Montalcini: ma si trattò di una semplice deduzione logica scaturita dai suoi ricordi sulle riunioni della direzione della colonna romana dopo l’omicidio del presidente Dc. In quelle sedi si era infatti posto il problema di proteggere la Braghetti in quanto protagonista del sequestro dal 16 marzo 1978. Savasta ritenne che l’unica ragione valida del passaggio in clandestinità di un personaggio come Anna Laura a pochi mesi dal sequestro, risiedesse nel fatto che era stata coinvolta nel sequestro e nell’uccisione di Moro.

Il Fatto 22.11.17
Tullio Del Sette, ora il comandante dei carabinieri decide sui coindagati e chi lo indagò
Le promozioni - Tra i generali soggetti alla valutazione di Del Sette i colleghi coinvolti con lui nel caso Consip e nell’indagine sarda, ma anche il capo del Noe che ha fatto l’inchiesta
di Marco Lillo

Il 3 dicembre, il comandante generale Tullio Del Sette dovrà decidere i destini di generali che sono indagati con lui e di un generale che comanda il Noe, che lo ha indagato. I Carabinieri dovranno “valutare” i generali di brigata che aspirano a diventare generali di divisione. I promossi dovrebbero essere cinque o al massimo sei. La commissione di avanzamento sarà presieduta da un comandante generale indagato a Roma su input di due diverse procure: Napoli e Sassari. E già questo sarebbe inconcepibile in un paese normale. Perché è vero che per l’indagine sassarese a Roma c’è già la richiesta di archiviazione ed è vero che la presunzione di innocenza deve essere garantita a tutti ma forse al numero uno dell’Arma si può chiedere un certificato dei carichi pendenti meno fitto.
Come se non bastasse, il 3 dicembre Del Sette presiede una commissione sulla carriera e lo stipendio di due generali di brigata che sono indagati con lui: Emanuele Saltalamacchia e Antonio Bacile. Non solo. Del Sette dovrà decidere il destino di un terzo generale, Sergio Pascali, che guida un corpo (il Noe) che fino a pochi mesi fa indagava proprio su Del Sette.
Sembra di essere in un film del tipo “Il Comando più pazzo del mondo” e invece siamo nell’Italia renziana.
I generali non sono tutti uguali. Si va dal generale di brigata (una stella) al livello intermedio del generale di divisione (due stelle) fino a quello di corpo d’armata, con le sue tre stelle.
La promozione da una a due stelle produce un aumento di circa 1.200 euro al mese con riverberi sulla pensione. Il primo e il secondo in graduatoria sono due 58enni che vantano titoli notevoli e sono dati per certi: Gino Micale, capo reparto al Comando generale e Giuseppe Governale, ora capo della Dia ed ex capo del Ros. A un incollatura da Governale c’è Emanuele Saltalamacchia, amico dei Renzi e comandante della Legione Toscana. Il generale è in realtà dato in partenza da Firenze per il comando dei Carabinieri del Ministero degli Affari Esteri al fianco di Angelino Alfano, che lo stima molto.
L’incarico vicino al ministro dovrebbe aiutare un buon piazzamento per la promozione visto che quel posto è stato ricoperto finora da un generale di divisione.
Saltalamacchia è però anche lui indagato con il ministro Luca Lotti e con lo stesso Tullio Del Sette con l’accusa di rivelazione di segreto e favoreggiamento. Esattamente come il comandante avrebbe spifferato ai vertici della Consip l’esistenza delle microspie del Noe, cioè dei Carabinieri.
Saltalamacchia è stato tirato in ballo (non indagato) nell’inchiesta di Massa sui carabinieri di Aulla. Il colonnello Valerio Liberatori ha raccontato ai pm che, nella sua veste di comandante regionale, avrebbe chiamato al telefono il procuratore capo di Massa per sconsigliare di usare sui carabinieri i mezzi di indagine invasivi prescelti dal sostituto procuratore, come le intercettazioni ambientali. Questo verbale, come la sua posizione nell’inchiesta Consip, non dovrebbero creargli problemi. Le valutazioni al Comando non vengono fatte con i criteri della gente comune. E al Comando tutti danno per scontato che Tullio Del Sette voterà a favore della promozione del carabiniere amico di Matteo Renzi e di Luigi Marroni, anche se è coindagato nell’inchiesta Consip.
Al quarto posto c’è Andrea Rispoli, 57 anni, comandante della Legione Lazio e in ottimi rapporti con il ministro dell’interno Minniti; quinto c’è il generale Antonio Bacile, 60 anni, ex comandante della Sardegna e coindagato con Tullio Del Sette per l’inchiesta sui trasferimenti dei carabinieri nell’isola.
A Bacile il pm di Sassari contesta come abuso di ufficio il trasferimento del capo del nucleo operativo di Bonorva. Come lo stesso pm contesta a Del Sette altri due trasferimenti di più alto livello: quello del comandante provinciale Giovanni Adamo e del tenente Francesco Giola.
Anche in questo caso sarà interessante vedere se Del Sette sentirà imbarazzo nel decidere di promuovere un generale che è accusato del suo stesso reato nella stessa inchiesta, ancorché per entrambi penda la richiesta di archiviazione.
Ancora più imbarazzante però è il sesto nome della lista: Sergio Pascali, 62 anni, comandante del Noe, corpo che ha indagato su Del Sette fino a marzo scorso quando il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone ha deciso di togliere la delega di indagine al Noe.
Il comandante Pascali allora difese i suoi uomini e scrisse una lettera a Pignatone per stigmatizzare le modalità di comunicazione della decisione. Del Sette sarà imparziale nella valutazione di un comandante che non ha assecondato una scelta a lui certamente gradita, come quella di sfilare dalle mani del Noe, e di Gianpaolo Scafarto in particolare, le indagini? Sarebbe sufficiente l’astensione da questa sola pratica visto che le altre pratiche sono connesse?
Non sfugge l’asssurdità della situazione nella quale si troveranno per la prima volta il 3 dicembre i Carabinieri per colpa del ministro della difesa Roberta Pinotti, del premier Paolo Gentiloni e del presidente Sergio Mattarella. Il 15 gennaio hanno deciso di prorogare per un anno Tullio Del Sette. Eppure era indagato dalla Procura di Napoli con un’accusa grave per un comandante generale, come quella di avere tradito i suoi uomini spifferando l’esistenza delle intercettazioni ai vertici Consip. Eppure Il Fatto lo aveva già scritto da tre settimane. Ora i nodi vengono al pettine.

Corriere 22.11.17
Servono 200 milioni
Polizia, mancano i soldi
di Fiorenza Sarzanini

Servono 200 milioni per pagare i poliziotti. I fondi necessari a garantire le indennità e gli straordinari a volanti, scorte e antiterrorismo. I sindacati protestano per quella che definiscono «una vergogna contro chi, nonostante gli stipendi bassissimi, è sempre impegnato a garantire la sicurezza del Paese». La trattativa con il ministero dell’Economia va avanti ormai da settimane senza sbloccarsi.

ROMA Nelle casse del Viminale mancano 200 milioni di euro per pagare i poliziotti. Denaro destinato alle indennità e agli straordinari degli agenti impiegati in servizi strategici come l’Antiterrorismo e il controllo del territorio. La trattativa con il ministero dell’Economia va avanti ormai da settimane e i sindacati protestano per quella che definiscono «una vergogna contro chi, nonostante gli stipendi bassissimi, è sempre impegnato a garantire la sicurezza del Paese». Anche perché hanno appena ricevuto un “no” al versamento degli “straordinari” svolti nel 2016. Una situazione paradossale nel momento in cui l’attività di prevenzione viene ritenuta una priorità proprio per la minaccia terroristica tuttora in atto e la necessità di continuare a garantire un impegno che va ben oltre la normale routine.
La lettera sui “ritardi”
La conferma sulla mancanza di fondi arriva venerdì scorso con una lettera spedita dal prefetto delegato ai rapporti sindacali alle organizzazioni che avevano sollecitato il versamento degli straordinari svolti negli ultimi due anni oltre «le canoniche 55 ore mensili». L’accordo prevede infatti che questo tetto non debba essere superato, ma per la maggior parte dei poliziotti rimanere sotto il limite è impossibile proprio per le attività che sono obbligati a svolgere. Scrive il prefetto: «Riguardo al pagamento delle ore di lavoro “in supero” effettuate in particolare dai Reparti Mobili, Prevenzione Crimine, Uffici Scorte e Squadre Mobili, la direzione per le Risorse Umane ha rappresentato che al momento non risulta possibile autorizzare integrazioni al monte ore mensile». Linguaggio burocratico per confermare che in cassa non ci sono soldi. E infatti viene specificato che «le prestazioni di lavoro straordinario in “supero”» riguardanti le “missioni” come il Sisma e il vertice G7 «verranno ammesse al pagamento all’esito positivo delle iniziative intraprese», vale a dire un emendamento alla legge di Bilancio.
Antiterrorismo e scorte
Si tratta di circa 20 milioni di euro. In realtà la mancanza di fondi è ben più grave. Secondo i calcoli effettuati dalla delegazione del ministero dell’Interno e già consegnati all’Economia, per garantire la funzionalità di tutti i settori indispensabili per far fronte alla minaccia del fondamentalismo islamico ed effettuare il controllo del territorio, ma anche le scorte e le vigilanze, servono almeno 200 milioni di euro. «Soldi — spiegano al Viminale — indispensabili per far lavorare gli agenti e gli specialisti in maniera dignitosa». Per avere un’idea, basti pensare che i turni dei poliziotti sono di 6 ore giornaliere ma praticamente nessuno riesce a rispettarli e la maggior parte sfora anche quelle 55 mensili fissate dal contratto.
La protesta
Daniele Tissone, segretario del Silp Cgil fornisce dati eloquenti: «Nelle questure, nei reparti e negli uffici della Polizia di Stato in tutta Italia operano 99.630 unità di personale. L’organico previsto nel 1989 era di 117.200 unità di personale. Da allora, nonostante la crescita dei reati, i poliziotti sono diminuiti fino ad arrivare al meno 14,5 per cento di oggi. Le esigenze di sicurezza sono aumentate e noi siamo sempre meno e sempre più anziani. Gli ultimi concorsi sono una boccata di ossigeno, ma il sistema è al collasso da anni. E le lavoratrici e i lavoratori in divisa sono umiliati da quasi un decennio di mancati aumenti contrattuali. Servono risorse per incrementare gli stipendi in maniera dignitosa e per garantire il pagamento delle cosiddette indennità accessorie». Duro anche Felice Romano del Siulp che sottolinea: «Noi svolgiamo servizi utili per i cittadini, ma senza denaro non possiamo migliorare il servizio. Tutto quello che viene svolto è fatto “a credito”, per questo chiediamo al ministro Minniti di farsi portavoce delle nostre richieste».

il manifesto 22.11.17
Chiara Saraceno: «Impossibile lavorare fino a 75 anni. Servono garanzie per i giovani»
Pensioni: quelli senza. Intervista a Chiara Saraceno, sociologa, autrice di "Il lavoro non basta": «La previdenza complementare non è una soluzione per chi è precario. Se i giovani non hanno un'occupazione regolare, un reddito buono e sicuro, come fanno a iniziare un programma di contribuzione extra con i contratti che durano qualche mese? Come garantire un reddito alle nuove generazioni che entrano tardi nel mercato del lavoro?»
di Roberto Ciccarelli

«È importante fare un’attenta valutazione dei lavori usuranti, chi li fa ha una speranza di vita inferiore. È altrettanto importante considerare le differenze tra persone con alta e bassa istruzione. Andare tardi in pensione è stato un privilegio di classe, per altri è una condanna perché è pagato poco – afferma la sociologa e filosofa Chiara Saraceno – Ma mi è sembrato improprio introdurre nella trattativa sull’innalzamento automatico dell’età pensionabile problemi più ampi».
Quali?
La garanzia di una pensione ai giovani che, diventando vecchi, non avranno un assegno minimo adeguato. Il tema è: come garantirgli un reddito visto che dopo tanti anni di storie precarie non avranno i requisiti? La riflessione è seria, ma non può essere fatta all’ultimo momento, alla fine della legislatura e all’interno della discussione sulla legge di stabilità.
Il governo aveva promesso una «fase due» per parlare delle pensioni dei giovani. Ma non se ne è fatto nulla, salvo una generica disponibilità al dialogo. E la Cgil lamenta l’assenza di una misura per la pensione di garanzia per loro. Tutti parlano del loro futuro, ma nessuno fa nulla. Come lo spiega?
Quella italiana è una popolazione di anziani, e gli anziani sono un elettorato più forte dei giovani. Ma questo non basta per limitare la discussione solo a un aspetto del problema.
Tutti i nati dagli anni Settanta in poi, e coloro che hanno iniziato a lavorare dopo la riforma delle pensioni del 1995, dovranno essere attivi fino a 75 anni come dice il presidente dell’Inps Boeri?
È impossibile pensarlo. È vero che aumenta la durata di vita, succede dal Dopoguerra. Però bisogna guardare non solo a quanti anni si vive in più, ma a quanti anni di buona salute si vivono. Le donne vivono più a lungo degli uomini, ma hanno più anni di cattiva salute. Quest’ultimo è un dato fondamentale, purtroppo si continua a vedere solo il dato dell’aumento della durata della vita.
La condizione dei giovani e di tutti i lavoratori precari o autonomi è risolvibile con lo sviluppo della previdenza complementare?
Viene da ridere. Se i giovani non hanno un’occupazione regolare, un reddito buono e sicuro, come fanno a iniziare un programma di contribuzione extra con i contratti che durano qualche mese? In più devono pagare bollette e affitti, investire per farsi una famiglia. I modelli che ispirano queste soluzioni potevano andare bene con un mercato del lavoro stabile, quello che ha vissuto la mia generazione e quella successiva dei 50enni che non hanno perso il lavoro. Ma non vale per i giovani che ci mettono tanto tempo per entrare e fanno una vita che è una corsa ad ostacoli. Conosco molti genitori, me compresa, che da anni hanno aperto un’assicurazione privata per i figli. Una possibilità riservata solo a chi può permetterselo.
Se è così per i figli, cosa accadrà ai nipoti?
A me hanno consigliato di aprire un piano pensionistico per i nipoti di 7 e 13 anni. Invece di pensare ai loro studi, alla loro vita, si pensa alla pensione che non avranno. Questa è una stortura, è proprio sbagliato.
Dal punto di vista del Welfare, ritiene che il reddito di inclusione (Rei) istituito dal governo Gentiloni sia la soluzione adatta?
È la prima volta che in Italia la questione della povertà è entrata nell’agenda politica, anche se con molto ritardo. Il «Rei» è un embrione di reddito minimo. Ma è solo un embrione perché non riesce a coprire tutti i poveri assoluti e eroga un reddito bassissimo. Una famiglia numerosa prenderà meno di una pensione sociale riservata a una persona. Per i poveri si spende molto meno per gli 80 euro che vanno anche a lavoratori con famiglie abbienti.
Il reddito di base è una soluzione?
ll reddito di base, per come lo ha pensato Philippe Van Parijs, o Anthony Atkinson che parla di «reddito di partecipazione», è concettualmente attraente perché è individuale, è dato a tutti a prescindere dal reddito, è meno costoso dal punto di vista amministrativo. L’idea è che aumenti la libertà e chi è ricco lo restituirà, ma ha bisogno di un grande ripensamento del Welfare. Visto che stiamo andando verso un mondo dove la domanda di lavoro diminuisce e la produttività aumenta, dobbiamo pensare a redistribuire il lavoro e il reddito. Mi sembra molto difficile che possa essere introdotto in Italia e non vedo imminente una campagna per la sua introduzione. Quello che i Cinque Stelle chiamano «reddito di cittadinanza» non è diverso dal «Rei», è solo molto più generoso. A me basterebbe in questa fase cominciare a pensare un reddito sufficiente per i poveri, che possa diventare un’integrazione per chi lavora e non riesce a guadagnare abbastanza per sostenere la famiglia.
Cosa risponde all’obiezione sui costi troppo alti per le misure ispirate al reddito?
Si spendono più di 8 miliardi per gli 80 euro, si è tolto l’Imu alle persone ricche, sono state annullate le tasse ereditarie. Mettiamo in fila queste tre cose e troviamo i fondi. Si è tanto sprecato in questi anni, basterebbe un sistema più razionale per iniziare a sostenere i lavoratori poveri con i figli.

Corriere 22.11.17
Le sfide del nascere e del dopo: il conclave degli avvocati
di Cesare Rimini

Le cronache, la stampa, la televisione, la radio si occupano dell’assegno divorzile e dell’ormai mitica sentenza della Corte di cassazione che ha escluso il riferimento al tenore di vita che la coppia ha avuto durante il matrimonio. Tutti pensano ai casi celebri: la gioia di chi non deve più pagare ciclopici assegni alla ex moglie e le doglianze di quelle signore che hanno dedicato per anni la loro cura alla famiglia e soprattutto ai figli, con fatale perdita o riduzione dell’impegno nel mondo del lavoro.
In questo contesto il 24 e 25 novembre 2017 si svolge a Roma il congresso nazionale della Associazione Avvocati matrimonialisti italiani (Ami), ma il tema ha un profilo molto più ampio: Nascere, morire e curarsi: quando decido io? Riflessioni di biodiritto al tempo delle biotecnologie . Su questi argomenti fondamentali si dividono le coscienze ed è necessario discutere con serenità.
Due giorni di lavori per parlare della vita, delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, di ciò che da una parte sostiene la scienza medica e dall’altra la legge. E poi ancora: il testamento biologico, la scelta del cittadino di porre fine alla propria vita attraverso il rifiuto di terapie mediche del tutto inutili. Infine le questioni giuridiche e morali relative all’eutanasia diretta ed indiretta, al suicidio assistito (come accade in Svizzera).
Esiste il diritto di nascere e vivere, ma anche quello di morire quando la vita è diventata solo un battito del cuore e niente più. Gli avvocati dunque vogliono aprire le finestre, o meglio le porte, alle tematiche angoscianti dell’impossibilità a procreare, del rifiuto delle cure quando sono solo palliativi per chi è alla fine della vita. Anche le parole del Papa («Oggi è più insidiosa la tentazione di insistere con trattamenti che producono potenti effetti sul corpo, ma talora non giovano al bene integrale della persona») saranno sicuramente nel pensiero di tutti.
All’Ami bisogna riconoscere la volontà di allargare sempre di più i confini del compito degli avvocati che si occupano del diritto di famiglia ma anche del diritto di vivere e del diritto di morire. Il loro compito, al di là dei grandi problemi tecnici, richiede anche una sensibilità psicologica soprattutto quando le scelte di vita riguardano i minori.

il manifesto 22.11.17
Non Una Di Meno: «Abbiamo un piano ed è femminista»
25 novembre. Verso la manifestazione di sabato, a Roma e in altre piazze. Presentata la sintesi «contro tutte le forme di violenza di genere». I punti principali: centri antiviolenza, educazione, formazione, reddito garantito
di Alessandra Pigliaru

In contemporanea a Roma e Milano, ieri sera Non Una Di Meno ha presentato il primo «Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e tutte le forme di violenza di genere». Si tratta di una sintesi articolata in numerosi punti di cui conosceremo la più articolata stesura il 25 di novembre. In occasione della giornata internazionale contro la violenza sulle donne, Non Una Di Meno – oltre ad aver annunciato la manifestazione di piazza (forte del grande riscontro dell’anno scorso) – renderà nota la versione completa.
SAREBBE tuttavia ingeneroso leggere questa primo confronto pubblico avvenuto ieri come una mera anticipazione poiché dal testo si evincono già, e si chiariscono, molti dei punti programmatici del progetto politico originario, inteso come articolata scommessa di tenere insieme più linguaggi, più pratiche politiche e – soprattutto – più esperienze intergenerazionali. Il focus, oggi come allora, ruota intorno ai centri antiviolenza, «luoghi di elaborazione politica, autonomi, laici e femministi al cui interno operano esclusivamente donne e il cui obiettivo principale è attivare processi di trasformazione culturale e politica e intervenire sulle dinamiche strutturali da cui origina la violenza maschile e di genere sulle donne».
Tutto, già allora, disposto in modo da sperimentare questo genere di scrittura collettiva (le mani si sentono diverse dalla elaborazione dei punti) che tuttavia è una delle forze del soggetto politico di Non Una Di Meno. Se negli ultimi mesi vi sono state delle frizioni, spesso virtuali, ciò che ha resistito in questo lungo anno di lavoro sono state le decine di assemblee in più di 70 città, i 5 incontri nazionali, lo sciopero globale dello scorso 8 marzo, l’ostinazione di tenere tra le mani gli esiti dei tavoli tematici. È infatti da questi ultimi che emergono i nove punti, ciascuno dei quali è preceduto da un hashtag eloquente: #LIBERE DI. La sintesi si apre con alcune considerazioni su femminismo e scuola, luogo d’elezione – insieme all’Università – in cui primariamente si può attivare quel processo educativo di contrasto alla violenza maschile contro le donne; insieme all’ «abolizione della Legge 107/15 e della riforma Gelmini e apertura di un processo dal basso di scrittura delle riforme di scuola e università, che preveda anche la rimodulazione dei contenuti e dei programmi». Uno spazio anche per ricordare quanto siano importanti i finanziamenti pubblici e strutturali.
IL DOCUMENTO prosegue con la formazione «permanente e multidisciplinare» interna ai centri antiviolenza (figure professionali e qualsiasi elemento coinvolto dagli avvocati agli insegnanti eccetera). La formazione si allarga ad altre professioni, «dai media all’industria culturale», per cominciare a decostruire «narrazioni tossiche» e analfabetismi discriminatori altrettanto noti. Del resto anche la rappresentazione dello stesso modo di narrare è dirimente; lo sa anche Non Una Di Meno che infatti poco dopo ritorna sulla parola «tossica» per definire alcune storture produttrici di storie a sfondo sessista quando non addirittura del tutto incidentali (pensiamo ai casi di femminicidio). La violenza, specificano, è invece strutturale perché «nasce dalla disparità di potere, non è amore, è trasversale e avviene principalmente in famiglia e nelle relazioni di prossimità. (…) La violenza non divide tra “donne per bene” e “donne per male”, e gli uomini che agiscono violenza non sono mostri, belve, pazzi, depressi. Questi ed altri principi confluiranno in una carta deontologica rivolta agli operatori ed operatrici del sistema informativo e mediatico». Il terzo punto si concentra invece sulla libertà di autodeterminarsi e di disporre della propria salute, sia psichica che fisica, sessuale e sociale. Dopo un necessario focus sulla piaga dell’obiezione di coscienza che ancora imperversa nel servizio sanitario nazionale, la seconda questione è relativa alla violenza ostetrica come una delle forme di violenza contro le donne. Sfruttamento e precarietà rappresentano invece i due poli dello sguardo sulla violenza economica; si leggono richieste tipo: «Chiediamo salario minimo europeo e reddito di base incondizionato e universale come strumenti di liberazione dalla violenza, dalle molestie e dalla precarietà» e ancora «Vogliamo un welfare universale, garantito e accessibile, politiche a sostegno della maternità e della genitorialità condivisa».
QUALCHE importante riga, di carattere più teorico, è dedicata alla violenza biocida, ovvero quella ambientale e contro i viventi. L’adeguamento alle varie direttive europee in tema di violenza o la possibilità di accedere – per le donne che hanno subito violenza e stanno facendo un percorso di fuoriuscita – alla casa o a corsie preferenziali per i procedimenti civili o penali, è un altro punto. Appuntamento al 25 novembre per sapere il resto.

Il Fatto 22.11.17
Tocca a noi fermare il Fascistellum
di Alfiero Grandi

Il rischio è che ci sia assuefazione alla legge elettorale approvata con ben 8 voti di fiducia per impedire che i parlamentari si prendessero la libertà di avere un’opinione. Questa forzatura è servita a creare un fatto compiuto e nel nostro Paese questo spesso vuol dire assuefazione. Invece no, occorre contrastare la politica del fatto compiuto e dell’assuefazione facile. Questa legge elettorale probabilmente sarà quella con cui si voterà nelle prossime elezioni, se la Corte non accetterà prima del voto i rilievi di costituzionalità che sono stati presentati in diversi tribunali dagli avvocati del Comitato democrazia costituzionale. Dopo il voto solo un’iniziativa forte dei cittadini potrà sbloccare la situazione allucinante che questa legge provocherà.
Resta in parte un mistero perchè il Pd abbia voluto questa legge fino a spingere il governo a mettere voti di fiducia a ripetizione. Si intuisce che è una legge studiata per fermare i 5 Stelle e stroncare sul nascere la sinistra che ha rotto con il Pd. Ma proprio al Pd questa legge non porterà benefici, anche moltiplicando le liste civetta, perchè il problema del Pd non è aumentare i richiami ma le elettrici e gli elettori che non perdonano scelte politiche sbagliate. Invece il centro destra avrà benefici importanti, al punto che anzichè un nuovo patto del Nazareno potrebbe ricomparire in grande spolvero un nuovo palazzo Grazioli.
Comunque sia è evidente che la maggioranza dei partiti che occuperanno le Camere con i loro parlamentari nominati non rimetteranno in discussione questa legge elettorale. È già accaduto con il “Porcellum” voluto dal centrodestra e che il centrosinistra non ha cambiato quando avrebbe potuto e dovuto, perchè la tentazione di decidere chi verrà eletto in Parlamento per i capi partito è troppo forte, inarrestabile. La questione di chi elegge i rappresentanti non è un’astratta questione di principio ma un concreto problema costituzionale. La nostra è una Repubblica parlamentare, così afferma con forza la nostra Costituzione. Se il parlamento viene ridotto a mero votificio, viene intaccato un caposaldo del nostro assetto costituzionale. Da questa atrofizzazione del ruolo del Parlamento è inevitabile che si arrivi a un accentramento del potere in poche mani, a una democrazia sbrigativa e decisionista. In sostanza si finirebbe con lo scivolare, prima o poi, verso qualche forma di presidenzialismo, come del resto era già implicito nelle modifiche costituzionali di Renzi, per fortuna bocciate il 4 dicembre 2016.
Può essere che il colpo di mano dei voti di fiducia a raffica impedisca di votare tra pochi mesi con una legge elettorale degna di questo nome, ma non deve accadere che ci teniamo questo infernale meccanismo elettorale per sempre. Non sarà dal Parlamento che verranno modifiche positive. Ancora una volta sarà solo dalla volontà attiva dei cittadini che potrà venire la spallata per cambiare, completando il percorso iniziato con il referendum costituzionale. È opportuno provare a smuovere la Corte costituzionale con le iniziative degli avvocati. Ci sono punti su cui è possibile ottenere risposte, ad esempio sul voto per i candidati nei collegi uninominali della Camera e del Senato che portano con sé l’elezione conseguente di altri parlamentari e potrebbero perfino aiutare l’elezione di candidati in aree molto lontane. La costrizione creata dal voto unico crea un problema di libertà del voto dell’elettore.
Anche se le istanze degli avvocati trovassero ascolto presso la Corte, come è auspicabile, ci sono aspetti della legge elettorale che per questa via difficilmente verrebbero risolti perché richiedono scelte politiche più impegnative. Quindi è inevitabile che per modificare la legge elettorale si arrivi a porsi il problema di usare lo strumento del referendum abrogativo. I cittadini debbono rialzare la testa e, come nei momenti decisivi della nostra storia, debbono porsi il problema di modificare la legge elettorale per riportare i parlamentari a un rapporto diretto con gli elettori e non ad una sorta di carriera per cooptazione dall’alto.
Non ci sono alternative. Se non vogliamo tenerci questa schifezza occorre spiegare, mobilitare, arrivare ad una prova di forza referendaria che obblighi a cambiare. La qualità del parlamento è decisiva per le scelte concrete che ci aspettano. Fateci eleggere i nostri rappresentanti, questa era la sintesi della nostra critica alla legge elettorale e resta la parola d’ordine fondamentale. Senza trascurare che questa legge elettorale potrebbe rivelarsi una pentola diabolica ma senza coperchio e quindi la prossima legislatura potrebbe non avere vita lunga e un’iniziativa referendaria che inizia il suo percorso dopo il voto potrebbe rivelarsi provvidenziale. È aperta una grande questione democratica, la risposta deve essere una risposta di massa.

Repubblica 22.11.17
La “cinghia” fuori tempo e la lezione di Trentin
di Massimo Giannini

“Un inferno dentro di me”, e “tanti opportunismi intorno a me”. E poi, “miseria di Amato”, “miseria di Del Turco”, “miseria degli altri sindacati”, “miseria delle reazioni elettoralistiche del Pds…”. Bruno Trentin lo scriveva nei suoi Diari nel luglio ‘92, quando firmò un accordo sul costo del lavoro che non condivideva. Lo fece “per salvare la Cgil”, e subito dopo si dimise. Oggi non c’s bisogno di decisioni così estreme. Ma con tutto il rispetto: la scelta di Susanna Camusso che rompe sulle pensioni s fuori tempo e fuori luogo. Il problema non s il tabù dell’unità sindacale, ormai violato da un pezzo. E nemmeno il merito, sul quale il dissenso s legittimo. La legge Fornero ha tamponato le falle. Ma a costi sociali altissimi: il sistema regge per stabilità finanziaria, non per equità generazionale.
La previdenza resta una giungla: si salvano i forti, soccombono i deboli. L’adeguamento alle aspettative di vita che porta l’età pensionabile a 67 anni s un eccesso (nonostante l’età “effettiva” sia più bassa). Le deroghe previste per i lavoratori “usurati” sono insufficienti.
L’Ape Social non basta, l’Ape volontaria non s un anticipo pensionistico vantaggioso ma un prestito bancario oneroso.
Gli assegni al minimo sono una miseria vergognosa per centinaia di migliaia di pensionati che non hanno altro, e un lusso insopportabile per altrettanti pensionati con coniugi straricchi. Non ci sono soldi per i giovani che entrano nel mondo del lavoro oggi e andranno in pensione a 75 anni con 1.200 euro, mentre i pensionati baby usciti dal lavoro dal ‘78 costano 9 miliardi l’anno.
Di fronte a tanta macelleria sociale, s evidente che Gentiloni e Poletti hanno messo sul tavolo un piatto di lenticchie. I 300 milioni per salvare altri 20 mila lavoratori dallo “scalone” del 2019 sono quasi niente. Ma dire no adesso, e annunciare una mobilitazione per il 2 dicembre, serve a un “quasi niente” uguale e contrario. Il sindacato, tutto il sindacato, avrebbe dovuto mobilitarsi quand’era il momento. Ma le tre ore di sciopero a fine turno contro la legge Fornero, il 12 dicembre 2011, passarono inosservate ai più, come la manifestazione delle sole Cgil e Uil del 25 ottobre 2014 a piazza San Giovanni, e poi il timido sciopero successivo.
Oggi contro chi si mobilita, la Cgil? La legislatura s finita. Il governo s al capolinea, per politica e aritmetica (non ha più una maggioranza in Parlamento, non ha più un euro in cassa).
Anche volendo, non ci sono i margini per inserire il rinvio di “quota 67” in Legge di Stabilità.
Per questo Camusso sbaglia due volte. Abbaia alla luna, e in campagna elettorale rischia l’eterogenesi dei fini. Se lancia una rivendicazione giusta nella fase sbagliata finisce per snaturarne il significato. Con la sinistra divisa sulla frontiera dei diritti, questo strappo riespone la Cgil, suo malgrado, al vecchio teorema della “cinghia di trasmissione”. Trentin si starà rivoltando nella tomba.

Repubblica 22.11.17
Camusso in piazza apripista di Mdp “Conta il lavoro nessuno scambio”
Il 2 dicembre manifestazione della Cgil, alla vigilia della convention di bersaniani e Sinistra Italiana Landini: nemico comune l’egemonia del mercato
di Roberto Mania

Roma Due dicembre, piazza rossa. Piazza della Cgil, ma anche della nuova Cosa rossa che nascerà il giorno dopo al Palaeur di Roma con l’incoronazione di Pietro Grasso alla guida della lista della sinistra prodotto della fusione tra Movimento democratico e progressista, Sinistra italiana e Possibile. Prova semi muscolare per contarsi ma anche per mostrare le dimensioni potenziali del movimento che vuole collocarsi a sinistra del Pd di Renzi. « Ma noi non facciamo la sponda di alcun partito » , avverte Susanna Camusso. E poi: « La Cgil è troppo grande per essere assimilata al solo centrosinistra, figuriamoci a una sola formazione » . Comunque si parte con le pensioni e i pensionati per arrivare al lavoro, al Jobs act, alla precarietà, ai giovani. Sarà piazza del Popolo, però, non piazza San Giovanni, storico luogo romano della adunate un tempo oceaniche della sinistra che fu anche comunista o del sindacato social- comunista. Tutto è cambiato, anche la direzione delle cinghie di trasmissione. Non più partito- sindacato ma il contrario, perché — salvo rare eccezioni — i partiti quando ci sono si sono alleggeriti, e quando non ci sono si chiamano più vagamente movimenti o altro ancora, personalizzati e senza radici identitarie e culturali. Assemblati elettorali. Il sindacato ha retto: con la sua pesante struttura burocratica, i suoi riti novecenteschi, il suo linguaggio, la sua cultura, i suoi iscritti, tanti tra i pensionati e sempre meno tra gli attivi. Questa volta è soprattutto il sindacato che serve alla politica.
Dunque quella del due dicembre sarà una piazza a trazione Cgil, con Camusso in testa, lei che fortemente e ripetutamente nega qualsiasi tentazione politica. Certo è un ribaltamento per ragioni di rapporti di forza. E la sinistra che nasce ha bisogno della Cgil, dopo l’autocritica pubblica cui si sono sottoposti gli scissionisti del Pd rinnegando le scelte fatte prima: dalla legge Fornero al Jobs Act fino alla Buona scuola. Contraddizioni che in Cgil non sfuggono affatto. «Ma — dice Maurizio Landini, segretario confederale di Corso d’Italia dopo aver coltivato da leader della Fiom il progetto ( abortito) della Coalizione sociale — quando incontri una persona non ti chiedi da dove viene ma dove va». Andare insieme, allora. Cgil non più isolata. Almeno così sostiene Guglielmo Epifani, oggi parlamentare di Mdp, ma predecessore di Camusso al vertice della Cgil. E lui ha un ruolo importante nel collegamento tra il sindacato e il partito nascente. Ed è lui che sta scrivendo il programma elettorale per il nuovo partito. «In questi anni — spiega — la Cgil ha sofferto di solitudine, in particolare quando Renzi ha irriso alla concertazione. Oggi tra noi e la Cgil non c’è alcun coordinamento, alcuna regia, alcun rapporto organico. C’è un asse politico che ha il lavoro al centro». Ed è il lavoro che svolge la duplice funzione nella nuova alleanza: diventa il collante dell’anti- renzismo e la ragione identitaria del movimento nascente. Dice ancora Landini: «La Cgil non ha bisogno di usare Mdp; ha bisogno che la cultura del lavoro e dei diritti diventi egemone almeno a sinistra. Finora così non è stato. Finora l’egemonia della cultura del mercato è prevalsa anche a sinistra, senza alcuna rappresentanza politica riservata al lavoro. Quel che serve, sul versante politico, non è la somma di quel che già esiste, una sorta di testimonianza. Serve qualcosa di più ambizioso, qualcosa di nuovo su cui far lievitare l’attenzione sul lavoro anche per riportare al voto quel 50 per cento di italiani che ormai non lo fa più » . Che poi possano essere voti per i post- Pd lo si vedrà. Intanto si propone di ripristinare l’articolo 18, anche se il ddl sarà rinviato oggi dall’Aula di Montecitorio alla Commissione e “ insabbiato”; di cambiare i contratti a tempo determinato; di riformulare gli ammortizzatori sociali e di introdurre la pensione di garanzia per i giovani. Il programma della Cgil. Sostenuto, da una parte, con l’iniziativa senza precedenti e molto politica di un referendum abrogativo (quello sui voucher e sull’articolo 18) e poi, dall’altra, con la presentazione di una proposta di legge per cambiare le regole del lavoro. La Cosa rossa si sta adeguando. E nella Cosa rossa c’è anche quel Massimo D’Alema i cui seguaci in Cgil sono sempre stati minoranza. Ma quando era a Palazzo Chigi voleva fare come Tony Blair. Le cose sono cambiate.

Repubblica 22.11.17
Jürgen Habermas
“Niente elezioni Ora la Spd governi con la cancelliera”
di Antonello Guerrera

Jürgen Habermas, il grande filosofo tedesco, maestro della “Scuola di Francoforte” e tra i massimi intellettuali viventi, è da sempre devoto all’idea di un’Europa più unita e solidale.
Per questo in passato ha criticato la “timida” Merkel, elogiando su Repubblica la sonora chiamata europeista di Macron (accolta con freddezza in Germania).
Raramente Habermas, 88 anni, rilascia interviste, questa volta però fa un’eccezione: lo stallo politico tedesco lo preoccupa in ottica europea. Perciò, per il filosofo, la Spd, il centrosinistra, deve darsi una scossa e non perdere questa chance per cambiare la Germania e l’Europa.
Professor Habermas, come giudica questa inusuale instabilità politica in Germania?
«La situazione nella quale in Germania ci stiamo trovando è sicuramente una prima volta, ma non la considero preoccupante, soprattutto se la raffrontiamo all’esperienza italiana nella difficile formazione di un governo. Se invece prendiamo in considerazione le riforme ancora incompiute in Europa, sarebbe ovviamente auspicabile un nuovo governo in Germania».
Ma un nuovo governo con chi? Merkel è arrivata davvero al capolinea?
«In un modo o nell’altro Angela Merkel sarà la prossima cancelliera. Il suo partito, la Cdu, la sostiene ancora. Anche se si andasse a nuove elezioni, non credo ci possano essere altre maggioranze di governo possibili».
E se Merkel cadesse?
Lascerebbe un vuoto a lungo incolmabile in Germania?
«È difficile prevedere che cosa succederà una volta che la Germania si ritroverà senza Merkel. Ma al momento, non vedo minacce alla stabilità politica da parte di movimenti della destra populista».
Quale può essere la soluzione adesso? Nuove elezioni? O un’altra Grande Coalizione tra Merkel e i socialdemocratici Spd?
«Tornare al voto favorirebbe solo i populisti di destra, anche se non da alterare in maniera significativa i rapporti di forza con gli altri partiti. A questo punto, preferirei un governo di minoranza guidato da Merkel, almeno rivitalizzerebbe il dibattito in Parlamento. Credo sia sempre un bene quando vengano sperimentate nuove situazioni, dalle quali possiamo imparare».
Quali saranno le conseguenze di questo stallo per l’Europa? La chiamata europeista di Macron andrà a vuoto?
«Per l’Europa era auspicabile che le trattative della coalizione Giamaica finissero male, visto che era coinvolto un partito espressamente antieuropeista come la Fdp (i liberali, ndr). Il mio desiderio, invece, sarebbe che la Spd facesse un grosso sforzo e avviasse le trattative per formare una coalizione. In questo modo, i socialdemocratici potrebbero conquistare una posizione molto influente nello scenario politico e rivendicare persino il ministero delle Finanze (sinora gestito da Wolfgang Schaeuble, ndr), che di fatto è il ministero competente per la stessa Europa. In questo modo, la Spd potrebbe persino costringere una maggioranza di governo guidata dalla Cdu a superare le esitazioni verso le proposte di Macron per una nuova Europa. E con una simile visione del futuro, per la prima volta dopo molto tempo la Spd potrebbe riconquistare l’entusiasmo dei giovani e differenziarsi in maniera chiara dagli altri partiti del “cosiddetto” centro. Se rimanesse all’opposizione, invece, la Spd potrebbe essere tentata dal volersi differenziare in un altro modo, e cioè svoltando verso un nazionalismo di sinistra che — come capita da voi in Italia con i Cinquestelle o altri gruppi di sinistra — è limitato in un’ottusa chiave nazionale. Queste persone non riescono a capire che le cause delle crescenti disuguaglianze sociali nei nostri Paesi oggi si possono combattere solo a livello globale. E questo è possibile solo con un’Unione europea capace di agire a livello politico».

La Stampa 22.11.17
Il populismo che azzoppa i parlamenti
di Giovanni Sabbatucci

È facile oggi elencare gli errori di Angela Merkel e metterla sotto accusa per gli stessi motivi (le politiche migratorie) per cui era stata tanto lodata fino a ieri. Ed è inutile stupirsi più di tanto per le traversie in cui si dibatte in questi giorni il sistema politico tedesco, celebrato dai più come modello di stabilità e di funzionalità democratica. Né ha molto senso preoccuparsi per il destino della autorevolissima cancelliera, che non riesce a costruire una maggioranza, ma ha ancora buone probabilità di succedere a se stessa, magari attraverso un nuovo passaggio elettorale. La verità è che la Germania sta sperimentando sulla propria pelle difficoltà comuni a tutti i sistemi parlamentari europei; e che il suo modello politico-istituzionale, buono nell’epoca della guerra fredda e della divisione del Paese, non basta da solo a preservarla dagli scossoni che hanno compromesso in questi ultimi anni la governabilità di altri Paesi membri dell’Unione.
È appena il caso di ricordare che il Belgio (fra il 2010 e il 2012), la Spagna (fra il 2013 e il 2014) e da ultimo l’Olanda (2017) sono rimasti affidati per lunghi mesi o per interi anni a governi in carica «per gli affari correnti», in assenza di vere maggioranze politiche; e che la stessa Italia rischia di trovarsi da qui a qualche mese in una situazione analoga. I problemi nascono dalla combinazione di due fattori: il primo, strutturale, riguarda le regole dei sistemi parlamentari; il secondo, congiunturale, rinvia alle trasformazioni economiche e sociali che hanno segnato questo inizio di millennio.
Partiamo dal sistema parlamentare. Lo inventarono gli inglesi nel Settecento, per assicurarsi contro possibili tentazioni assolutiste della corona (cui la teoria di Montesquieu attribuiva la titolarità del potere esecutivo) e per sancire il primato degli organismi rappresentativi. Quella prassi subordina infatti l’esistenza del governo alla fiducia del Parlamento e dunque lo lega indissolubilmente agli equilibri che si creano nelle assemblee legislative. Perché il sistema funzioni occorre ovviamente che ci sia una maggioranza. E occorre che questa maggioranza non minacci i fondamenti costituzionali dello Stato, le sue scelte internazionali di fondo e i suoi valori condivisi: che si muova insomma all’interno di un’area della legittimità, oggi in larga parte coincidente con quella della fedeltà alle istituzioni europee e agli ideali europeisti.
Che cosa accade invece in Europa? Accade - e qui veniamo al fattore congiunturale - che le paure e i risentimenti suscitati dalla crisi economica e dalle ondate migratorie creino condizioni favorevoli allo sviluppo di movimenti populisti, nazionalisti, sovranisti, più o meno esplicitamente ostili alla Ue, ma spesso anche estranei ai valori e alle pratiche del pluralismo e della democrazia rappresentativa. In alcuni Paesi dell’Est (Ungheria e Polonia soprattutto) movimenti così connotati sono diventati forze di governo o parte delle maggioranze. In Europa occidentale quei gruppi restano lontani dalla possibilità di competere per il potere centrale (l’eccezione, stando ai sondaggi, potrebbe essere proprio l’Italia). Il fattore P (come «populismo») agisce ancora come elemento discriminante per segnare i confini dell’area della legittimità. Ma è l’intera area a restringersi pericolosamente, causa i successi elettorali delle forze anti-sistema. E dentro quest’area può non esserci spazio per una maggioranza solida, men che meno per due maggioranze che si alternino in base ai verdetti delle elezioni. Neanche il ricorso alle grandi coalizioni sembra peraltro praticabile nel momento in cui i socialisti, come sta accadendo in Germania, si sottraggono a esperienze di governo per loro logoranti e costose in termini di consensi. Quanto ai governi di minoranza o governi del presidente, si tratta di formule nominalistiche che aggirano il problema senza risolverlo (un voto di fiducia qualcuno dovrà pur darlo), in assenza di un capo dello Stato dotato di poteri straordinari.
Se e quando si uscirà dall’impasse non è dato sapere. Sarebbe però opportuno cominciare fin d’ora a riflettere su come allontanare per il futuro lo scenario weimariano dell’ingovernabilità e del ricorso ripetuto alle urne. Il sistema tedesco - lo abbiamo visto - non basta allo scopo. Quello, nuovo di zecca, con cui andremo a votare fra pochi mesi, non è accreditato al momento di grandi effetti stabilizzatori. L’unico dispositivo elettorale capace di costringere gli elettori a una scelta e a indicare comunque un vincitore è quello basato su un doppio turno (nazionale e non solo di collegio) che costringa gli elettori a una scelta finale. Non è forse un caso se oggi la Francia, con tutti i suoi problemi, può vantare il più alto tasso di stabilità politica di tutta l’Europa occidentale.

Il Fatto 22.11.17
Il caso Lorettu-Nivoli
Falsi verbali d’esame: gli psichiatri di Sassari rinviati a giudizio

La famiglia allargata di Giancarlo Nivoli, a capo della clinica e della scuola di specializzazione in psichiatria dell’università di Sassari, dovrà presentarsi il 10 aprile 2018 in tribunale: ieri la gup Carmela Serra ha rinviato a giudizio Nivoli, oggi in pensione, la moglie Noemi Sanna peraltro ex consigliera regionale di An, la loro figlia Alessandra, entrambe ricercatrici, e la direttrice di clinica e scuola Liliana Lorettu, già assessore regionale ai trasporti nella giunta regionale sarda di centrodestra di Ugo Cappellacci e legata sentimentalmente a Nivoli, principale imputata. A giudizio anche Paolo Milia, vice di Lorettu, e Donato Posadinu. Tutti avrebbero contribuito a falsificare l’esito degli esami di una specializzanda, Jasna Coiana, per cacciarla dalla scuola, in seguito alle sue denunce di irregolarità. La Procura e ieri anche il gup hanno confermato la sostanza delle accuse (i pazienti psichiatrici affidati agli specializzandi, la trasformazione dei giovani medici in hostess e steward per congressi) e la falsificazione dei verbali di esame. Antonello Cosseddu, legale di Coiana, chiederà al Tar Sardegna di riammetterla alla scuola di specializzazione.

Il Fatto 22.11.17
Srebrenica ultimo atto: lo scorpione Ratko Mladic e la sentenza “fatale”
di Michela A. G. Iaccarino

Il boia di Srebrenica non si è mai pentito: “Ho difeso il mio paese”. Al processo voleva presentarsi con la sua uniforme con le stellette sulle spalle, come quando comandava la sua unità, gli “Scorpioni”. Dopo 4 anni di udienze e 300 testimoni, i giudici del Tribunale Penale Internazionale dell’Aja pronunceranno oggi la sentenza di 1° grado a carico di Ratko Mladic. Le madri dei morti del massacro di Srebrenica saranno dietro al vetro a vedere quale l’espressione comparirà sul volto di quello che era lo spietato generale serbo bosniaco ed è oggi un vecchio stordito, con metà del corpo paralizzato, lo sguardo svuotato da 16 anni di latitanza e tre ictus. Milosevic è morto nel 2006 in cella, senza sentenza. Per l’Aia e per la storia d’Europa, ora i giudici devono condannare Mladic, 74 anni, prima che lo faccia il tempo. I suoi avvocati, che hanno tentato di evitare il processo con 11 capi d’imputazione, tra cui deportazione, genocidio, persecuzione, crimini contro l’umanità, dicono che il vecchio generale che rischia l’ergastolo, non ha più le capacità per capire cosa stia succedendo e rischia di morire al momento della lettura della sentenza.
Alla guida del 9° corpo d’armata jugoslavo contro i croati, poi al comando del secondo distretto militare a Sarajevo, Mladic diventò comandante dell’esercito serbo di Bosnia nel 1992. Durante i 44 mesi d’assedio di Sarajevo, l’11 luglio 1995, i suoi uomini presero il controllo di Srebrenica e l’ufficiale scelto da Karazic, il temuto Mladic, ordinò di prendere in ostaggio 200 caschi blu, prima di procedere al massacro di 8.000 musulmani. Alain Tieger (Aja), ha detto che le stragi di civili e “la pulizia etnica non erano conseguenza della guerra, ma il suo obiettivo”.
Se in Bosnia Mladic è sinonimo di genocidio, in Serbia lo è di liberazione. A ovest la sua faccia incarna le atrocità del conflitto, nei murales di Belgrado è ancora l’icona simbolo della resistenza serba. Vladimir Vukcevic, che ha arrestato Mladic nel 2011, dice che “ogni nazione ha ancora la sua personale versione della verità, finché sarà così, non ci sarà riconciliazione”.

Corriere 22.11.17
Antisemitismo in Francia
Il grande esodo degli ebrei di Parigi «Aggrediti e costretti ad andare via»
di Stefano Montefiori

Minacce e violenze nelle periferie a maggioranza araba. Dei 350 mila residenti, 60 mila si sono rifugiati altrove. Alcuni in Israele. Molti si stanno trasferendo in un unico quartiere della capitale, accanto alla sinagoga in costruzione. Il rischio di un nuovo ghetto
Poco lontano dal celebre ristorante kasher tunisino Nini e dallo Schwartz’s Deli di ispirazione newyorchese, sta nascendo in rue de Courcelles il grande «Centro europeo dell’ebraismo», uno spazio di 5000 metri quadrati che ospiterà una sinagoga da 600 posti e sale per spettacoli ed esposizioni. Il centro aprirà entro la Pasqua ebraica e sancisce il ruolo del XVII arrondissement di Parigi, nel nordovest della capitale, come nuovo cuore dell’ebraismo francese ed europeo accanto all’antica presenza nel Marais. Dei 350 mila ebrei della regione parigina, circa 60 mila negli ultimi anni hanno traslocato. Molti hanno abbandonato i quartieri più difficili delle periferie per trasferirsi nella nuova «piccola Gerusalemme» del XVII ème , o nel triangolo d’oro Le Raincy-Villemomble-Gagny appena fuori la capitale.
Un esodo interno discreto, qualche volta segno di successo e ascensione sociale, più spesso provocato dagli atti di antisemitismo che a Saint Denis, Bondy, La Courneuve, Sarcelles, Stains e altri comuni del Grand Paris sono cominciati con la seconda Intifada dei primi anni Duemila e si sono intensificati dopo le stragi di Merah a Tolosa e gli attentati islamisti a Parigi.
Tanti ebrei francesi spinti dall’insicurezza hanno fatto la loro aliya e sono andati a vivere in Israele: nel 2015 sono stati oltre 8000, i più numerosi al mondo per il secondo anno consecutivo. Molti altri che continuano a considerare la Francia come il loro Paese scelgono di cambiare zona e di vivere raggruppati.
La vitalità ebraica del XVIIesimo e di altri quartieri è frutto anche di una realtà drammatica: violenze e aggressioni costringono gli ebrei francesi a vivere sempre più tra di loro, per proteggersi, 500 anni dopo la nascita a Venezia del primo ghetto al mondo.
«Siete ebrei quindi siete ricchi», ripetevano i tre aggressori che l’8 settembre sono entrati nella casa della famiglia Pinto a Livry-Gargan, nel dipartimento Seine-Saint-Denis, quel «93» simbolo suo malgrado della banlieue degradata. «Avrebbero potuto derubarci mentre non c’eravamo, perché abbiamo passato l’estate fuori Parigi — dice Roger Pinto, 78 anni, al telefono da Israele —. Invece sono arrivati proprio il giorno dopo il nostro rientro. Mi hanno buttato per terra prendendomi a calci fino a farmi svenire, gridavano ”se non ci date i soldi vi ammazziamo, lo sappiamo che li avete, ebrei”». Roger, la moglie Mireille e il figlio David forse si trasferiranno nel XVIIesimo, «ma resteremo in Francia — dice Pinto, presidente dell’associazione Siona —. Sono in terapia dallo psicologo, appena starò meglio rientreremo. Il governo francese deve garantire la nostra sicurezza».
Dopo che il terrorista islamico Amedy Coulibaly il 9 gennaio 2015 scelse il supermercato kasher di Vincennes per uccidere quattro ebrei, «la protezione è aumentata e gli attacchi contro le sinagoghe, le scuole e i centri culturali sono diminuiti», dice Sammy Ghozlan, un commissario di polizia in pensione a capo del Bnvca ( Bureau national de vigilance contre l’antisémitisme ). «L’operazione Sentinelle con i militari di pattuglia funziona per i luoghi pubblici, ma le violenze hanno cambiato bersaglio e ora colpiscono i privati cittadini, soprattutto in certe parti del dipartimento Seine-Saint-Denis, dove il radicalismo islamico è più forte».
La mattina del 13 maggio 2017, poco dopo le 7, la signora Françoise (il nome è stato cambiato su sua richiesta) è scesa di casa con la figlia a Romainville. In un caffè di Les Lilas, il comune poco lontano dove abita adesso, mostra alcune fotografie. «Sulla portiera della mia Opel c’erano strisce bianche, per istinto ho provato a toglierle con la mano ma mia figlia se ne è accorta subito: “Mamma, è una scritta”». La grande parola «Juif», ebreo, incisa sulla fiancata. Con l’auto così marchiata Françoise ha comunque percorso la tangenziale per andare a lavorare, tra i colpi di clacson degli altri automobilisti. «Appena due mesi prima eravamo stati rapinati in casa mentre dormivamo». Cinquant’anni, un marito e tre figli, la signora lavora come hostess di accoglienza negli studi tv. «È stata la polizia a dirci di traslocare: “Vi hanno preso di mira, fareste meglio ad andarvene”». Al collo Françoise porta una stella di David, «ma quando prendo la metropolitana ormai la nascondo».
Gli atti di delinquenza comune e le liti di vicinato si mescolano all’antisemitismo. Geneviève (nome cambiato), sefardita, arrivata quarant’anni fa dal Marocco, a La-Celle-Saint-Cloud fa amicizia con la vicina algerina finché un giorno si sente dire «eppure assomigli a una ebrea». «Da allora mi perseguita, mi lancia cose dal terrazzo, lei e il figlio mi chiamano ”sporca ebrea”, danno colpi alla porta per spaventarmi». Geneviève teme di fare la fine di Sarah Halimi, ebrea 65enne, che il 4 aprile a Belleville è stata aggredita in casa dal vicino passato per il terrazzo. Sarah è stata picchiata per un’ora al grido di «Allah Akhbar», poi gettata dal terzo piano. «Ho ucciso sheitan ! (il diavolo in arabo, ndr )», gridava Kobili Traoré prima di essere internato.
Davanti alla stazione di Le Raincy incontriamo Alain Benhamou, ingegnere in pensione del gruppo Italcementi, che ha vissuto per 41 anni con la moglie a Bondy. Hanno aggredito sua figlia a scuola insultandola perché ebrea. Ha finito per trasferirsi a Villemomble dopo essere stato rapinato e avere dormito per giorni con una mazza da baseball accanto al letto. «Con il rossetto di mia moglie hanno scritto sul muro ”Sporco ebreo, viva la Palestina”. A Bondy eravamo 400 famiglie ebree, ne restano 100».
«Le sinagoghe chiudono, gli ebrei hanno paura di prendersi sputi e sassate e rinunciano a mettersi la kippa», dice Ghozlan. Solo un terzo degli ebrei francesi ormai mandano i figli alla scuola pubblica, preferiscono gli istituti ebraici o cattolici dove non subiscono intimidazioni. Accanto al sogno giusto e un po’ retorico del «vivere insieme», crescono l’antisemitismo e il rischio che la società francese si divida in comunità a sviluppo separato.

Repubblica 22.11.17
L’anniversario
La morte di Jfk ecco le tracce di Kgb e mafia nei file desecretati
A 54 anni dall’uccisione del presidente più amato i documenti rivelano nuovi dettagli. Come la frase di Ruby quel giorno: “Ci saranno fuochi d’artificio”
di Alberto Flores d’Arcais,

NEW YORK Quella mattina di 54 anni fa, due uomini erano in piedi all’angolo del Postal Annex Building, un bianco palazzo di cinque piani tra Houston Street e Commerce Street. Dall’altro lato della piazza Dealey, distante solo un paio di blocchi, Harvin Lee Oswald era già salito con il suo Carcano 91/ 38 ( il fucile usato dalla fanteria dell’esercito italiano) fino al sesto piano del Texas School Book Depository, il magazzino da cui, poco dopo, avrebbe sparato i colpi che misero fine alla vita di John Fitzgerald Kennedy.
Uno dei due uomini era Jack Ruby, l’ambiguo proprietario di night club che due giorni dopo avrebbe assassinato a sua volta Oswald, sparandogli a bruciapelo nei sotterranei della polizia di Dallas nonostante gli agenti di scorta. L’altro si chiamava Bob Vanderslice, un uomo che bazzicava il mondo delle scommesse clandestine e che era diventato un informatore del Irs ( Internal Revenue Service), l’agenzia federale delle tasse.
« Ti piacerebbe venire a guardare i fuochi d’artificio? » . Con queste parole Jack aveva invitato Bob ad accompagnarlo in quella strada di Dallas dove sarebbe passato il corteo del presidente Usa, parole curiose a rifletterci dopo l’assassinio del secolo. Vanderslice se ne ricordò anni più tardi, quando decise di raccontare tutto all’agente Irs con cui era in contatto e promettendo di spifferare quello che sapeva anche al Fbi. Aggiunse, per correttezza di cronaca, che «subito dopo la sparatoria» Ruby si diresse velocemente « e senza fiatare » verso il palazzo del Dallas Morning News, il quotidiano cittadino. Quando si rividero erano ambedue in galera ( Ruby per l’omicidio Oswald, l’informatore per crimini minori) ed ebbero modo di “ conoscersi meglio”. Fu forse allora che Vanderslice decise che tutto sommato era meglio non raccontare nulla al Fbi (cosa che fece).
La sua testimonianza fa parte di uno dei 10.744 documenti ( tutti provenienti dagli archivi Fbi) sull’assassinio Kennedy, finora “classified” (secretati) e resi pubblici in blocco venerdì scorso. Alcuni erano già in parte noti, 2.408 sono stati messi online ancora con varie ‘censure’, 144 erano totalmente sconosciuti. Si tratta di decine di migliaia di pagine, spesso copie (o anche copie di copie), una buona parte non hanno alcuna attinenza alla morte di Jfk, la maggioranza sono senza indizi e senza conclusioni, senza capo né coda, quasi fossero state ammucchiate un po’ alla buona in attesa del lavoro degli storici.
Non c’s sicuramente la smoking gun, la rivelazione a sorpresa che avrebbe fatto felici i milioni di seguaci delle varie teorie del complotto ( il 61 per cento degli americani s convinto che Oswald non abbia agito da solo). Ci sono però diverse cose che non tornano, che rendono quello che già si sapeva ( gli ambigui rapporti tra il killer di Kennedy e i sovietici, il ruolo della Cia e della mafia italo- americana) se possibile ancora più difficile da comprendere. E in molti casi non s chiaro perché siano rimasti “top secret” per oltre mezzo secolo. La posizione ufficiale di Cia e Fbi s che avrebbero messo in pericolo la vita di molti agenti e avrebbero rivelato il modo di operare delle agenzie di spionaggio Usa: ma nell’era del Russiagate e della cyber- guerra, questo tipo di scuse appare un po’ debole.
Qualche isolato ( ma prezioso) indizio in questi ultimi files si può però trovare, ad esempio, sul ruolo dell’Unione Sovietica. Stando ai nuovi documenti, al Bureau le ipotesi di un complotto per uccidere Jfk iniziano a circolare già nel 1962, quando « un individuo che si definiva autista polacco presso l’ambasciata dell’Urss » a Canberra, Australia, si mette in contatto con agenti Usa rivelandogli che il Cremlino stava finanziando un piano per assassinare il presidente Usa. La Cia non gli dà molto credito. Ma con una telefonata anonima - ricevuta il 19 ottobre 1962 (oltre un anno prima dell’uccisione di Kennedy) - un uomo, che viene «ritenuto la stessa persona», si rifà vivo. Richard Helms, che diventerà direttore della Cia, scrive ( dopo l’assassinio di Dallas) un memo indirizzato a James Lee Rankin ( il procuratore della commissione Warren, incaricata di indagare sull’omicidio Kennedy) legando la telefonata dell’autista polacco anche a quella ricevuta il 23 novembre 1963, immediatamente dopo la morte del presidente. Un uomo, che sosteneva di essere lo stesso autore della telefonata del 1962, rivelava ulteriori dettagli: una strana storia di « cinque sottomarini sovietici che portavano truppe a Cuba e 100mila dollari pronti per uccidere Jfk » . Piccoli pezzi di un grande puzzle che vede al centro il ruolo dell’ambasciata sovietica a Città del Messico (dove Oswald trascorse alcuni giorni prima di Dallas) e soprattutto quello di Yuriy Ivanovich Moskalev, “ l’uomo misterioso” che entrava e usciva da quella ambasciata e che nell’ottobre 1963 entrò ( sotto le mentite spoglie di scienziato) negli Stati Uniti. Uomo del Kgb, che «somigliava molto » a ‘ Saul’ ( il cui vero nome sarebbe Mario Tauler Sague), nato e cresciuto in Germania Est e secondo diverse fonti indicato come l’uomo che diede a Oswald il fucile di fanteria italiano Carcano 91/38. Mario Tauler Sague, secondo altre fonti, faceva invece parte del gruppo contro- rivoluzionario La Cruz che ( finanziato dalla Cia e con l’appoggio della Mafia italo- americana) entrò a Cuba nell’estate del 1960 per tentare di assassinare Fidel Castro.
Con questi intrecci tra sovietici, Cia, Mafia e centinaia di informatori di ogni genere più o meno affidabili, i nuovi documenti renderebbero la vita difficile anche a uno scrittore di spy- story. Forse qualche elemento per capire di più si avrebbe dai files che sono ancora in parte secretati: la resistenza di Cia e Fbi alla definitiva pubblicazione non fa altro che alimentare nuove teorie dei complottisti di ogni genere e qualche dubbio degli storici più seri.
Quando questa mattina a Dallas il presidente della “ Nuova Frontiera” verrà ricordato per la 54esima cerimonia, il mistero che circonda la sua morte sarà lo stesso di sempre.


Corriere 22.11.17
«Grandangolo» Da oggi con il quotidiano i testi che hanno segnato la storia della letteratura italiana. In tutto 35 uscite
La lezione eterna dei classici antidoto alla dittatura dell’utilitarismo
di Nuccio Ordine

«Mi possiede una passione inestinguibile che sino a oggi non ho saputo né voluto frenare […]. Vuoi dunque sapere la mia malattia? Non so saziarmi di libri»: negli anni quaranta del Trecento, Francesco Petrarca indirizza una delle sue Familiari (III-18) all’amico Giovanni dell’Incisa. In questa famosa epistola il poeta descrive il suo amore per la lettura. Immergersi in un’opera di Platone o di Cicerone significa avere lo stimolo a conoscere altri autori («A chi legge non offrono solo se stessi, ma suggeriscono anche il nome di altri e ne stimolano il desiderio») e soprattutto a godere di un piacere «molto profondo» che è ben più pregiato del «piacere muto e superficiale» ricavato «dall’oro, dall’argento, dalle pietre preziose, dalle vesti di porpora, dai palazzi di marmo». Perché «i libri ci parlano, ci danno consigli» e «vivono insieme a noi con una loro viva e penetrante familiarità».
Il commovente amore per i libri di Petrarca trova quasi due secoli dopo un’ulteriore testimonianza in una lettera di un altro illustre fiorentino: il 10 dicembre del 1513 Niccolò Machiavelli descrive a Francesco Vettori la sua giornata-tipo nella residenza di Sant’Andrea. In esilio, il nostro Segretario divide il suo tempo tra l’osteria — dove, in compagnia di un «oste, un beccaio, un mugnaio, dua fornaciai», si dedica al gioco con «mille contese e infiniti dispetti di parole iniuriose» — e il suo scrittoio. Qui, a sera, Machiavelli si spoglia della «veste cotidiana» e, indossando «panni reali e curiali», discute con gli «antichi uomini». Non si vergogna «di parlare con loro» e di interrogarli sulla «ragione delle loro azioni». E mentre «quelli per la loro umanità rispondono», il Segretario fiorentino non sente «per 4 ore di tempo alcuna noia» («sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi trasferisco in loro»). Leggendo i classici, insomma, Machiavelli si pasce di «quel cibo, che solum è mio, e che io nacqui per lui».
Petrarca e Machiavelli — due dei grandi autori che figurano nella nuova collana lanciata dal «Corriere della Sera» — non solo raccontano la loro passione per i libri, ma affermano che l’incontro con un classico può orientare radicalmente la vita di un lettore. Basta scorrere le biografie o le autobiografie di romanzieri e di filosofi, di poeti e di scienziati per trovarne conferma. Non si tratta però di un’esperienza riservata a persone eccezionali. Una poesia o un romanzo possono incidere segni profondi in qualsiasi lettore appassionato, pronto a lasciarsi infiammare dalle scintille che si sprigionano nel dialogo con un testo letterario o filosofico.
Purtroppo negli ultimi decenni la vita dei classici si è fatta difficile. La loro sopravvivenza è minacciata da una realtà ostile sempre più governata dalle leggi del profitto. Basta scorrere i cataloghi delle case editrici per capirlo. Molte collane di classici sono sparite o hanno visto ridurre notevolmente il numero dei volumi da stampare. Mentre sul fronte dell’editoria scolastica si privilegia la cosiddetta letteratura secondaria (si moltiplicano i manuali, i «bignamini», i commenti, i riassunti): pubblicazioni che però rivelano la loro «utilità» solo se si pongono umilmente al servizio dell’opera di cui parlano.
Ma se gli strumenti critici e didattici si sostituiscono ai classici, allora si finirà per alimentare un pericoloso paradosso: gli studenti, nelle scuole e nelle università, sentiranno parlare di testi che non hanno mai letto per intero o, nel peggiore dei casi, che non hanno mai avuto tra le mani. E in un contesto così arido, sarà difficile che un amore improvviso possa nascere per Dante o per Boccaccio, per Ariosto o per Leopardi, per De Roberto o per Montale. Senza immergersi nella lettura diretta delle loro opere nessuna vera scintilla potrà infiammare i nostri giovani lettori.
Del resto, lo spirito «aziendalistico» che condiziona il futuro dell’istruzione orienta leggi e riforme verso la stella polare del mercato. Gli allievi degli istituti secondari e delle università vengono indotti a credere che sia necessario studiare per imparare un mestiere, per conseguire una laurea da spendere nel mondo del lavoro. L’idea che le scuole e le università si debbano frequentare perché offrono un’occasione per diventare migliori e per imparare a ragionare criticamente sembra occupare un posto marginale nel nostro sistema educativo. Oggi più che mai il compito di un buon professore è quello di far capire ai ragazzi che la letteratura e le scienze non si studiano per prendere un voto, o solo per esercitare una professione, ma innanzitutto perché ci aiutano a vivere.
Non a caso assistiamo da decenni al progressivo depotenziamento delle discipline umanistiche che, su scala planetaria, vengono considerate «inutili», marginalizzate non solo nei programmi ma soprattutto nelle voci dei bilanci statali e nelle risorse di enti privati e fondazioni. Perché impegnare denaro in un ambito condannato a non produrre profitto? Perché destinare fondi a saperi che non apportano una rapida e tangibile utilità economica?
Ora, all’interno di un contesto così brutale fondato esclusivamente sulla necessità di pesare e misurare ogni cosa in base a criteri che privilegiano la quantità, proprio la letteratura e i classici (ma lo stesso discorso potrebbe valere per altri saperi umanistici: la filosofia, l’arte, la musica) possono invece assumere una funzione fondamentale: già il loro essere immuni da qualsiasi aspirazione al profitto potrebbe porsi, di per sé, come forma di resistenza agli egoismi del presente, come antidoto alla dittatura dell’utilitarismo che è arrivata perfino a corrompere le nostre relazioni sociali e i nostri affetti più intimi. L’esistenza stessa della letteratura e dei classici, infatti, richiama l’attenzione sulla «gratuità» e sul «disinteresse», valori ormai considerati controcorrente e fuori moda.
Non c’è modo migliore per ridicolizzare gli attuali teorici dello scontro di civiltà tra cristiani e musulmani che far leggere loro qualche canto dell’ Orlando furioso . Ludovico Ariosto, con la sua sottile ironia, mostra che dietro le etichette di «pagani» e di «cristiani» si nascondono esseri umani che hanno le stesse debolezze, gli stessi difetti, le stesse virtù. Si tratta di cavalieri «erranti» che — mossi dal desiderio di vincere sfide militari e amorose — ci svelano l’impossibilità di separare in maniera netta bene e male, saggezza e follia, amore e odio, realtà e apparenza. Con un colpo di spugna, il poema spazza via qualsiasi pretesa di offrire verità assolute, mostrando come la complessità della natura umana non possa essere compresa senza un sano relativismo e senza la coscienza che ogni nostra conquista è pur sempre provvisoria e fragile. Non a caso l’Ariosto ha fatto coincidere l’origine della famiglia d’Este di Ferrara con il matrimonio tra Bradamante (valorosa paladina di Francia) e Ruggiero (eroico guerriero pagano poi convertitosi al cristianesimo): un’unione felice e fruttuosa, insomma, tra una cristiana e un ex musulmano (un extracomunitario, per dirlo con le stesse parole con cui quei cinici politici «imprenditori della paura» definiscono oggi gli esseri umani sventurati che fuggono dalle guerre, dalla fame e da una vita senza futuro). Una lezione di cui, in maniera diversa, farà tesoro più tardi anche Miguel de Cervantes, svelandoci che il vero autore del Don Chisciotte — uno dei pilastri della letteratura occidentale — non è uno scrittore spagnolo, ma lo storico arabo Cide Hamete Benengeli.
Alla stessa maniera, basterebbe rileggere i versi della Ginestra di Leopardi per capire che la solidarietà umana è l’unica strada da percorrere per fronteggiare le «calamità naturali» e, nello stesso tempo, per cancellare (o almeno attenuare) le ingiustizie che travolgono i deboli e gli indifesi. Solo attraverso la creazione di una «social catena» — fondata su una un’umanità «confederata» — gli uomini potranno uscire dalle tenebre in cui sono immersi per abbracciare la luce. Di questo nobile messaggio è simbolo la «fiera-umiltà» della ginestra: cosciente della precarietà della sua esistenza vive dignitosamente, abbracciata ai suoi simili, la sua condizione periferica di fiore odoroso in un arido deserto vulcanico.
Ecco perché fondare una biblioteca di classici o incoraggiare a leggerli significa, come ricordava l’imperatore Adriano nel romanzo di Marguerite Yourcenar, «costruire granai pubblici, ammassare riserve» per tentare di difendersi dall’«inverno dello spirito».

La Stampa TuttoScienze 22.11.17
Un gigante ghiacciato sta rincorrendo i neutrini di Majorana
Nei laboratori del Gran Sasso al via l’esperimento per capire perché la materia è più dell’antimateria
di Valentina Arcovio

Geniale e misterioso come chi l’ha concepito. Il neutrino di Majorana, la particella che coincide con la sua antiparticella, fa impazzire i ricercatori da quasi un secolo. Cioè da quando, 80 anni fa, Ettore Majorana pubblicò la celebre «Teoria simmetrica dell’elettrone e del positrone».
L’articolo venne diffuso un anno prima della sua scomparsa, un giallo ancora oggi irrisolto. E un alone di mistero avvolge il suo elusivo neutrino: nessuno è riuscito a scovare alcuna traccia di questa particella. Eppure, la teoria della sua esistenza è convincente ed è riuscita a scalzare quella rivale di un altro genio, Paul Dirac. Il fisico inglese, attorno al 1930, nella sua teoria relativistica dell’elettrone predisse l’esistenza del positrone, che ha stessa massa, ma carica elettrica opposta. E i teorici pensarono che fosse questo il modo in cui devono - o dovrebbero - stare le cose: che per ogni particella dell’Universo ci debba essere un’antiparticella.
«Majorana, invece, capì che poteva esistere una particella elettricamente neutra, che sarebbe al tempo stesso la sua propria antiparticella», spiega Oliviero Cremonesi, ricercatore dell’Infn, l’Istituto nazionale di fisica nucleare, e responsabile dell’esperimento «Cuore» nei Laboratori del Gran Sasso. «Se si provasse che ciò è possibile per qualche neutrino, ci troveremmo di fronte a un risultato molto importante, che cambierebbe la nostra comprensione sull’Universo».
Il neutrino di Majorana, infatti, servirebbe a spiegare molte delle cose che possono o non possono accadere. Gioca un ruolo centrale nel funzionamento delle stelle, nell’esplosione delle supernovae e nella formazione degli elementi al momento del Big Bang. E cosa forse più importante di tutte: spiegherebbe l’asimmetria tra materia e antimateria. «Vale a dire il perché nell’Universo c’è - sottolinea Cremonesi - più materia che antimateria. E di conseguenza perché gli esseri umani, così come le stelle, sono fatti così come sono».
Nel caso ci fossero neutrini come quelli descritti da Majorana dovrebbe esistere un processo particolare: il decadimento doppio beta senza emissione di neutrini, una realtà che oltrepassa il Modello Standard delle particelle elementari e che non è mai stato osservato. «Il doppio decadimento beta - spiega Cremonesi - è un processo nel quale, all’interno di un nucleo, due neutroni si trasformano in due protoni, emettendo due elettroni e due antineutrini. Nel doppio decadimento beta senza emissione di neutrini non vi è invece emissione di neutrini, grazie al fatto che uno degli antineutrini si è trasformato in neutrino. È noto che le particelle dotate di carica elettrica non possono subire questa trasformazione, perché ciò implicherebbe la violazione di uno dei principi base che descrivono il comportamento delle particelle elementari». Ma i neutrini - aggiunge - potrebbero essere particelle davvero speciali. «Se, come ipotizzato da Majorana, i neutrini e gli antineutrini fossero due manifestazioni della stessa particella, come le facce di una stessa moneta, allora la transizione tra materia e antimateria risulterebbe possibile». Il fenomeno, seppur raro, potrebbe essere stato frequente nell’Universo primordiale e avere determinato la prevalenza - decisiva - della materia sull’antimateria.
Tuttavia, la caccia al neutrino è tutt’altro che semplice. «Nonostante il nostro corpo sia attraversato da decine di migliaia di miliardi di neutrini ogni secondo, le interazioni sono così deboli che occorrono tecnologie estremamente sensibili per rilevarli», precisa Cremonesi. «Cuore» è l’ennesimo tentativo di afferrarli e si spera che sia quello decisivo. E cioè che ci sveli se quel genio di Majorana aveva visto davvero, in prodigioso anticipo sui tempi, la verità.

La Stampa 22.11.17
L’esploratore di esopianeti Michael Gillon:
«Cari ragazzi, una rivoluzione vi aspetta»
di Nicla Panciera

«Ci sono innumerevoli Soli e innumerevoli terre, tutte ruotanti attorno ai loro soli, esattamente allo stesso modo dei sette pianeti del nostro Sistema Solare», scriveva Giordano Bruno nel 1584. Per dare conferma scientifica a quest’ipotesi visionaria sull’esistenza di pianeti orbitanti intorno a stelle come il Sole ci sono voluti tre secoli. Ma sono bastati 20 anni dalla scoperta del primo esopianeta extrasolare, 51 Pegasi b, per arrivare a contarne oltre 3 mila.
«Queste cifre suggeriscono che quasi tutte le stelle della nostra galassia e, quindi, dell’intero Universo ospitano un sistema planetario. Nei vari mondi fin qui osservati è emersa un’inaspettata diversità e ora ne stiamo studiando le diverse architetture, la loro formazione ed evoluzione», ci spiega Michael Gillon dell’Università di Liegi in Belgio. Per i suoi contributi alla fondazione della disciplina che studia gli «altri mondi», l’esoplanetologia, gli è stato assegnato il Premio Balzan 2017, riconoscimento di 750 mila franchi svizzeri. È suo il primo nome sul lavoro pubblicato da «Nature» sulla scoperta di sette pianeti simili alla Terra intorno alla nana rossa Trappist-1. Cacciatore di pianeti fin da quando ha deciso di volgere lo sguardo al cielo, il giovane ricercatore ha già incontrato molti studenti intelligenti e brillanti. A loro dice di non farsi spaventare dai piccoli ostacoli iniziali, ma di concentrarsi sulla magia dell’astrofisica: «Imbarcarsi in quest’avventura non li deluderà, viviamo in un momento entusiasmante in cui c’è spazio per grandi scoperte. La passione deve, però, essere così dirompente da sovrastare gli altri bisogni»: parola di un ex militare che ha trascorso sette anni in fanteria prima di decidere di riprendere gli studi e di dedicare il suo rigore e la sua tenacia alle battaglie scientifiche.
È molto riconoscente verso l’amata Wendy e i figli Amanda e Lucas per il supporto ricevuto e ammette di non rappresentare la norma: «Dopo il post-dottorato, a Ginevra, sono tornato a Liegi, ma la maggior parte degli scienziati si sposta per acquisire competenze da un ateneo all’altro, di continente in continente, e spesso finisce per stabilirsi molto lontano dal proprio Paese e dai propri cari».
L’astrofisica - conferma - sta vivendo un momento di grande fermento. Sta per partire il progetto che Gillon ha nominato come i celebri biscotti belgi, «Speculoos» e, nel 2019, Esa e Nasa lanceranno il gigantesco telescopio spaziale «James Webb». Intanto, in Cile, è in via di installazione il telescopio europeo E-Elt, il più grande mai realizzato finora. Assistiamo poi ad un moltiplicarsi di missioni per la ricerca di nuovi mondi: «Tess» della Nasa, al via la prossima primavera, e «Cheops» e «Plato» che l’Esa lancerà rispettivamente nel 2019 e 2025.
Le aspettative sono pari agli sforzi messi in campo: «Ci stiamo attrezzando per esplorare una terra incognita, dove mai abbiamo messo piede e neppure gettato lo sguardo», assicura il cacciatore di esopianeti e, muovendo le mani davanti a sé come afferrando una torcia, ribadisce: «Illuminiamo i territori bui con i nostri telescopi, che ci restituiranno un sacco di sorprese». Come accadde a Galileo con il suo cannocchiale: «È difficile dire che cosa otterremo dai vari programmi in partenza, in pratica tutto è possibile. A guidarci non è solo la teoria ma l’osservazione. Non puntiamo solo, come un tempo, alla conferma sperimentale delle ipotesi fisiche. Stiamo spingendo al massimo le capacità tecnologiche, che costituiscono, di fatto, i limiti delle nostre conoscenze».
E, infine, la grande questione che affascina da sempre l’umanità: la vita. «Cercando tracce chimiche di attività biologica, vogliamo scoprire la prevalenza della vita nello spazio, non avendo alcuni a priori sulla frequenza di questo evento. Questo ci aiuterà a capire meglio le nostre origini e a mettere la nostra esistenza in una prospettiva galattica. Le implicazioni vanno oltre la scienza e invadono i reami della filosofia. Sono gli aspetti sociali e culturali a rendere questo interrogativo fondamentale». Quanto ci vorrà? «Potrebbero bastare uno o due decenni. Il meglio deve ancora venire. Una rivoluzione scientifica è alle porte». La generazione di giovani scienziati che dichiarerà l’eppur c’è vita, dall’impatto travolgente come l”eppur si muove” galileiano, è già nata.