venerdì 17 novembre 2017

Corriere 17.11.17
Rivelazioni
Heidegger filosofo del Reich fino al 1942
Per otto anni partecipò a una commissione ufficiale presieduta dal criminale di guerra Hans Frank
di Antonio Carioti

Durante il Terzo Reich, anche dopo le sue dimissioni da rettore dell’Università di Friburgo il 27 aprile 1934, Martin Heidegger non rimase affatto estraneo al regime. Anzi partecipò per almeno otto anni, fino al luglio 1942, a una commissione per la filosofia del diritto che ebbe un ruolo di rilievo nella nazificazione del sistema giuridico. Un organismo presieduto dal famigerato Hans Frank, futuro governatore della Polonia occupata durante la guerra, di cui facevano parte figure come Alfred Rosenberg, ideologo antisemita, e il famoso giurista Carl Schmitt.
La circostanza non era ignota, ma ora un lavoro della studiosa tedesca Miriam Wildenauer sul nazismo degli accademici, in uscita il prossimo anno, approfondisce la questione. In particolare emerge che Heidegger era ancora membro della commissione (i cui verbali non sono stati reperiti) nell’estate del 1942, quando era già stata avviata la Soluzione finale del problema ebraico attraverso lo sterminio.
«Non si tratta di un dettaglio biografico, ma di una notizia molto rilevante», osserva Donatella Di Cesare, autrice del libro Heidegger e gli ebrei (Bollati Boringhieri), in cui denuncia l’orientamento antisemita del pensatore analizzando i suoi Quaderni neri , taccuini filosofici rimasti a lungo inediti. La coincidenza tra la stesura di quegli appunti e la partecipazione alla commissione, a suo parere, è assai significativa: «Non si può più descrivere Heidegger come un apolitico, perché emerge chiaramente che era coinvolto appieno nell’ambiente intellettuale da cui vennero elaborate le leggi razziali di Norimberga del 1935, premessa necessaria della Shoah. Le sue responsabilità non sono quindi minori rispetto a quelle di Schmitt, che a differenza di lui venne messo sotto accusa dopo la guerra».
Il problema, secondo Donatella Di Cesare, riguarda anche la storiografia: «Colpisce che un fatto così grave venga alla luce soltanto adesso: mi domando come mai in Germania per tanti anni nessuno abbia svolto ricerche sull’argomento».

il manifesto 17.11.17
Libera scelta in libera chiesa. Il Papa ridefinisce il fine vita
Vaticano/Italia. Sì alla sospensione dei trattamenti, autodeterminazione e ultima parola al malato. Bergoglio cambia la «prospettiva» sul biotestamento. I pro-life vanno in tilt ma la legge ancora attende.
di Eleonora Martini

No all’eutanasia e no all’accanimento terapeutico. Non dice nulla di rivoluzionario, Papa Francesco: concetti già espressi almeno dal suo predecessore Benedetto XVI. Nulla di nuovo, se non fosse che il diavolo si nasconde nei dettagli. Con grande tempismo e senso politico, Bergoglio, nella lettera inviata alla Pontificia Accademia per la Vita e al Meeting europeo della World medical association, usa infatti parole risolutive su due o tre punti sostanziali sui quali invece il Parlamento – non certo la società italiana e neppure la chiesa dei credenti – è impantanato almeno dai tempi di Eluana Englaro.
Sì alla sospensione dei trattamenti; tutti, anche di nutrizione e idratazione artificiale («interventi sul corpo umano che possono sostenere funzioni biologiche divenute insufficienti o addirittura sostituirle»); accento sull’autodeterminazione del paziente, che ha l’ultima parola rispetto al medico (ed è questa una sostanziale differenza con l’approccio di Ratzinger); differenza tra caso e caso («dimensione personale e relazionale della vita»), come dire: ciascuno ha il proprio concetto di dignità.
PAPA FRANCESCO CITA la «Dichiarazione sull’eutanasia» dell’ex Sant’Uffizio del 1980 ma anche Pio XII che nel 1957 considerò «lecito astenersi in casi ben determinati» dalle cure «potenzialmente disponibili». Il Pontefice chiede «un supplemento di saggezza», perché «gli interventi sul corpo umano diventano sempre più efficaci, ma non sempre sono risolutivi: possono sostenere funzioni biologiche divenute insufficienti, o addirittura sostituirle, ma questo non equivale a promuovere la salute». È «dunque moralmente lecito rinunciare all’applicazione di mezzi terapeutici, o sospenderli, quando il loro impiego non corrisponde a quel criterio etico e umanistico che verrà definito proporzionalità delle cure».
È una «differenza di prospettiva», quella che propone Bergoglio, che «assume responsabilmente il limite della condizione umana mortale, nel momento in cui prende atto di non poterlo più contrastare». «Vediamo bene, infatti – spiega – che non attivare mezzi sproporzionati o sospenderne l’uso, equivale a evitare l’accanimento terapeutico, cioè compiere un’azione che ha un significato etico completamente diverso dall’eutanasia, che rimane sempre illecita».
MA A CHI SPETTA L’ULTIMA decisione? Qui le parole del Papa sudamericano segnano la discontinuità con il suo predecessore tedesco. Per Ratzinger infatti «è innegabile che si debba rispettare l’autodeterminazione del paziente» ma la «specifica competenza» del medico «lo mette in grado di valutare la situazione meglio del paziente stesso» (discorso alla Società italiana di chirurgia, ottobre 2008). In ogni caso, Benedetto XVI, un mese dopo, nella Pastorale ai bambini malati, spiegava che va sempre raggiunto «un giusto equilibrio tra insistenza e desistenza terapeutica».
Secondo Bergoglio invece «le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità». È «anzitutto lui che ha titolo, ovviamente in dialogo con i medici, di valutare i trattamenti che gli vengono proposti e giudicare sulla loro effettiva proporzionalità nella situazione concreta». Per stabilire «se un intervento medico clinicamente appropriato sia effettivamente proporzionato non è sufficiente applicare in modo meccanico una regola generale. Occorre un attento discernimento che consideri l’oggetto morale, le circostanze e le intenzioni dei soggetti coinvolti. La dimensione personale e relazionale della vita – e del morire stesso, che è pur sempre un momento estremo del vivere – deve avere, nella cura e nell’accompagnamento del malato, uno spazio adeguato alla dignità dell’essere umano».
CONCETTI CHE HANNO SCATENATO la reazione scomposta («no alla strumentalizzazione», da un lato, e «la legge va contro le parole del Papa», dall’altro) di destre, ultra cattolici e “pro-life”, impegnati a bloccare in Senato il blando testo di legge sul fine vita licenziato nell’aprile scorso dalla Camera, con centinaia di emendamenti ostruzionistici che hanno costretto la relatrice in commissione Emilia Di Biasi (Pd) a dimettersi nel tentativo di portare il testo direttamente il Aula per approvarlo entro la fine della legislatura.
Ma la calendarizzazione è nelle mani della Conferenza dei capigruppo, e in attesa che il partito di Renzi concluda sul biotestamento, come sullo ius soli, la propria trattativa.
Il ministro Martina, vicesegretario del Pd, coglie l’occasione per invitare (non è chiaro chi) ad affrettare l’iter legislativo. Mentre a Firenze nasce il comitato #fatepresto che ha lanciato un appello al presidente del Senato e ai capigruppo sottoscritto, tra le oltre cento personalità, da Bersani, Bindi, Saviano, Civati, Farina Coscioni, Fratoianni, Speranza e molti altri.
Ma in Parlamento giace da 4 anni anche una legge sottoscritta da 68 mila cittadini. È dei Radicali italiani e dell’Associazione Coscioni, e legalizza l’eutanasia.

Repubblica 17.11.17
Beppino Englaro.
“Parole che scuotono fondamentalisti e portatori di verità assolute”
Il padre di Eluana “Il Papa è andato più avanti di tutti”
di Piero Colaprico

MILANO. Signor Beppino Englaro, sembra un po’ spiazzato anche lei dalle parole di papa Francesco… «È che abbiamo sempre chiesto a tutti, dall’inizio della vicenda umana, medica e giudiziaria di nostra figlia Eluana di “andare oltre”. Adesso si scopre che più oltre di tutti è andato lui, il Papa».
E chi altro avranno scosso a suo parere le parole del Papa?
«Spero tutti i granitici, i fondamentalisti, quelli che si credono portatori di verità assolute. Come chi accumulava le bottigliette dell’acqua davanti alla clinica di Udine, mentre Eluana non poteva avere alcuno stimolo di sete. E a questi e ad altri oltranzisti, anche su altre posizioni, che il Papa dice che è arrivato il momento di aprirsi alla coscienza personale. Magari di capire che lasciar morire non nasce da una cultura della morte, ma dal suo contrario, dall’amore per la vita».
Non so se sia proprio preciso questo
concetto di coscienza personale, signor Englaro, ma… «Ma la sollecitazione a tutti ad andare oltre arriva da un Papa in prima persona e, scusi, era ora».
A lei non sembra che le parole del Papa sembrino riconnettersi a quelle pronunciate nella chiesa di Paluzza, dall’umile parroco don Tarcisio: “Eluana merita una grande manifestazione di affetto. La Chiesa non si è sentita estranea alla tua sofferenza (…) Sei come una stella alpina rinata sulle rocce dopo un lungo inverno”?
«Con quello che era accaduto, all’inizio non volevo nemmeno i funerali in chiesa, poi ho dovuto ricredermi quando ho ascoltato l’omelia. Ero e resto agnostico, ma c’è una chiesa che ascolta il dolore, e una che non l’ha fatto».
Poche ore fa, all’Huffington post, lei sosteneva che il Papa non avesse detto nulla di nuovo, come mai?
«In effetti, è stato solo il vostro invito a dare una lettura più attenta all’intero testo a non farmi fermare alla parte che riguardava la proporzionalità delle cure. Cioè, la proporzionalità è stata invocata troppo volte a sproposito e la conseguenza è che mi scatta una reazione di pancia. Perché noi genitori eravamo in mezzo al deserto, finché non ci sono state le sentenze della Cassazione e del Consiglio di Stato. La grandezza della problematica è tale che ha fatto dire “la sua” per la prima volta anche a un Papa».
La lettera di papa Francesco arriva in un momento in cui il centrodestra italiano gioca a rimpiattino sul fine-vita.
«Il Papa sembra togliere ogni alibi a chi va in giro a raccontare che il testamento biologico non rispetti i precetti cristiani. Più di così oggi che cosa si può attendere? Ricordo i giorni della quiete a Udine, quando c’era lo sforzo di alcuni parlamentari di approvare una legge che impedisse a Eluana di spirare in pace, ricordo gli insulti, poi Eluana si spense e la fretta finì. Era otto anni fa».
Accanto a questo, che cosa l’ha colpita della lettera?
«La richiesta di un supplemento di saggezza ai medici e la centralità della persona umana. Anche basilare il passaggio della lettera sul tema che curare troppo costituisce “un’insidiosa tentazione” e che non sempre si giova “al bene integrale della persona”. Forse sembra voler dire ai medici: se voi curaste con maggiore saggezza, anche le persone non ricorreranno all’eutanasia”.
Sembra inedito anche il fatto che il capo della chiesa cattolica rilanci la validità delle cure palliative… «È vero, che papa Francesco non abbia dimenticato la grandezza e la validità delle cure palliative è un altro gradino. Ne avevamo discusso con Giandomenico Borasio, e con Augusto Caraceni dell’Istituto dei tumori, mi risulta non ci sia un corso di laurea in cure palliative, magari adesso qualche senato accademico lo prenderà in considerazione».

il manifesto 17.11.17
Un duro colpo per i «più papisti del Papa»
Eutanasia. Le parole di Bergoglio non sono rivoluzionarie, ma sono comunque servite a rimuovere i residui alibi di chi blocca la legge per evitare contrapposizioni con il modo cattolico
di Marco Cappato

Per i «più papisti del Papa» è stato un duro colpo, tanto da doversi affrettare a specificare l’unico aspetto scontato della dichiarazione di Papa Francesco contro l’accanimento terapeutico: il no all’eutanasia.
Il problema di chi sta paralizzando la legge sul biotestamento al Senato – o esplicitamente, con migliaia di emendamenti ostruzionistici o, più furbescamente, lasciando che prevalga l’inerzia con l’avvicinarsi della fine della legislatura – è però che quel testo, approvato a larghissima maggioranza alla Camera, è centrato proprio sul principio richiamato dal Papa: la possibilità per il paziente di sospendere cure, anche quando tale sospensione conduce certamente alla morte.
In realtà è già dagli anni ’50 che la Chiesa aveva riconosciuto l’importanza di non obbligare ad accanirsi sui malati, ammettendo terapie antidolore anche quando avrebbero avuto l’effetto di accorciare la vita del paziente. Ciò non toglie che la presa di posizione di Papa Francesco sia comunque importante, anche semplicemente per il fatto di aver riconosciuto l’impatto che il tema sta acquisendo grazie al progresso medico-scientifico, in grado di prolungare la vita oltre ogni ragionevolezza.
La presa di posizione, di per sé certo non rivoluzionaria, da parte del Pontefice lo diventa quasi in un Paese come il nostro, dove la Costituzione già stabilisce il diritto a interrompere le terapie, ma manca una legge che garantisca che a tale diritto corrisponda un preciso dovere da parte del sistema sanitario. La legge bloccata al Senato prevede proprio questo. In pratica, sì recepisce la giurisprudenza dei casi Welby, Englaro e Piludu in modo che per affermare un diritto costituzionale non ci sia bisogno del tempo e dei soldi per rivolgersi a un giudice.
In Parlamento i favorevoli sulla carta sono ben più numerosi dei contrari. Negli scorsi giorni, sia Di Maio che Renzi hanno speso parole in favore dell’approvazione della legge. Eppure, le possibilità di un nulla di fatto aumentano di giorno in giorno in assenza di una decisione dei capigruppo al Senato.
È fin banale dire che se ci fosse una vera volontà politica del Pd il risultato sarebbe a portata di mano, quantomeno quello di arrivare a un voto nel quale ciascun senatore possa assumersi le proprie responsabilità.
Le dichiarazioni del Papa non erano rivolte al Parlamento, e non entravano nel dettaglio delle scelte del legislatore. Sono comunque servite a rimuovere i residui alibi che tanti hanno accampato in queste settimane, invocando la necessità di evitare contrapposizioni con il modo cattolico. L’unico confronto dal quale i «più papisti del Papa» vogliono fuggire è quello con un’opinione pubblica ormai più che favorevole a una legge persino sull’eutanasia, oltre che sulla interruzione delle terapie e il testamento biologico.

Il Fatto 17.11.17
Il Papa ai medici (e alla Chiesa): basta giochini su chi muore
Non è una svolta - ma una conferma di un filo che parte dal 1923 e da Pio XI Francesco parla a chi, nella destra clericale, ancora specula sul fine vita
di Filippo Di Giacomo

Negli anni30, durante il pontificato di Pio XI, venne posto ai teologi del Sant’Ufficio questo dubium: è lecito somministrare la morfina ai malati di blocco renale (infermità dolorosissima e, all’epoca, irrimediabile) pur sapendo che il farmaco ne avrebbe sì alleviato i dolori ma anche accelerato la morte? La risposta fu affirmative, cioè sì, si può. Allora la teologia morale funzionava così, proponendo dubia, cioè questioni spinose, al Sant’Ufficio il quale, dopo tanto segreti quanto approfonditi studi, rispondeva con un affirmative oppure negative, si oppure no, senza particolari spiegazioni. Erano poi i teologi a dover costruire percorsi esplicativi partendo da questo iniziale punto fermo, anzi fermissimo: chi lo contraddiceva, veniva scomunicato. Questo va premesso perché, tra le tante cose che la dottrina ha fatto evolvere verso cambiamenti radicali, questo iniziale sguardo sul dolore umano “confortato” dalla medicina è rimasto una delle stelle polari della teologia morale cattolica. Ed è costante nel magistero di tutti i Pontefici del XX secolo, da Pio XII a Giovanni Paolo II il quale, andrebbe ricordato, alla fine della sua corsa rifiutò il ricovero al Gemelli e si “accontentò” di essere aiutato a sopportare il dolore, nulla di più. Papa Francesco, ieri al World Medical Association sulle questioni del cosiddetto “fine-vita”, non ha innovato ma ha continuando (contrariamente a quanto dicono i “passatisti” del Web) a navigare tra i grandi testi del magistero della tradizione e del Concilio. Anzi, la frase “oggi è più insidiosa la tentazione di insistere con trattamenti che producono potenti effetti sul corpo, ma talora non giovano al bene integrale della persona” riecheggia, se non cita, quanto Paolo VI scriveva nell’Humane Vitae, l’enciclica meno letta e più odiata della storia della Chiesa. Questa, come tante altre “aperture” di Papa Francesco, sono riproposizioni di quanto la dottrina della Chiesa ha suggerito negli ultimi cinque decenni, tra l’indifferenza generale e la conseguente disistima di chi, per tanti motivi, si scontrava con la malmostosa ignoranza dei chierici. All’epoca della vicenda di Piergiorgio Welby, l’allora presidente del Pontificio consiglio della pastorale per gli operatori sanitari, il cardinale messicano Javier Lozano Barragán, tentò a più riprese di spiegare a coloro che nel Vicariato di Roma, e nei palazzi affiliati, speculavano sul dolore di Welby e dei suoi cari che quello non era un caso di eutanasia ma solo di fine “accanimento terapeutico”, del tutto lecito. Nei giornali dell’epoca, quasi nessuno raccolse la sua voce perché il gioco politico perverso ingaggiato da qualche altro ecclesiastico veniva considerato più importante.
Qualche mese dopo Giovanni Nuvoli, in Sardegna, iniziò lo sciopero della sete e della fame che lo condusse alla morte, al fianco del suo letto di dolore, e della sua compagna, la presenza del suo parroco e del suo vescovo è stata sempre costante. E nessuno ha pensato e neppure immaginato di privarlo dei funerali religiosi. Con le parole “restituire umanità all’accompagnamento del morire, senza aprire giustificazioni alla soppressione del vivere” Papa Francesco si è certamente rivolto ai medici: la scienza moderna deve ritrovare le categorie di quell’Umanesimo da cui è nata. Ma si è rivolto anche ai suoi, quando la sorte li mette di fronte a chi sceglie di lasciarsi morire: non è più tempo di danzare intorno al dolore di nessuno

Corriere 17.11.17
Politica ed etica Francesco riapre il dibattito sul biotestamento. I senatori a vita: approvare la legge
Il Papa: lecito fermare le cure
«Insidioso insistere in trattamenti che non giovano al bene della persona»
di Gian Guido Vecchi

«È moralmente lecito rinunciare all’applicazione di mezzi terapeutici, o sospenderli, quando il loro impiego non corrisponde a quel criterio etico e umanistico che verrà in seguito definito proporzionalità delle cure». A ribadirlo è papa Francesco nel convegno sul «fine vita» alla Pontificia Accademia. Parole che riaprono il dibattito sul biotestamento. I senatori a vita chiedono di approvare la legge. Secondo il Pontefice serve un «supplemento di saggezza, perché oggi è più insidiosa la tentazione di insistere con trattamenti che producono potenti effetti sul corpo, ma talora non giovano al bene integrale della persona».

CITTÀ DEL VATICANO «Chiariamo una cosa: il rifiuto dell’accanimento terapeutico, e quindi la sospensione delle cure sproporzionate, è ormai una dottrina consolidata della Chiesa». L’arcivescovo Vincenzo Paglia è presidente della pontificia Accademia per la vita, il testo del Papa era indirizzato a lui. «Su questi temi, da Pio XII alla Evangelium vitae di Giovanni Paolo II fino al Catechismo, non c’è documento papale che non lo abbia ricordato».
Però Francesco invita a considerare il «bene integrale della persona» e fa una notazione interessante: oggi lo sviluppo della tecnica permette di prolungare la vita in modi inimmaginabili anni fa e quindi occorre un «supplemento di saggezza». Distinguere tra accanimento e eutanasia è divenuto più complicato, no?
«Per questo il Papa parla di discernimento delle situazioni concrete. La novità del progresso tecnologico è evidente. Il rischio è che la medicina si trasformi solo in tecnica e alla fine la macchina diventi l’assoluto, sia quasi divinizzata».
Il filosofo cattolico Giovanni Reale disse allora che considerare eutanasia i casi di Eluana e Welby era un «errore ermeneutico». Oggi la Chiesa farebbe considerazioni diverse su queste vicende?
«Per dare un giudizio adeguato, i singoli casi vanno giudicati nel loro tempo e nella realtà concreta, non in astratto e a posteriori. Sono convinto che non si debba mai abbandonare nessuno, né prima né durante né dopo. Per questo, personalmente, celebro i funerali a tutti».
Ma che insegnamento si può trarre, da storie simili?
«Che bisogna evitare, tutti, di fare una battaglia ideologica in nome della verità. Talvolta prevale la rigidità astratta. La verità non è un randello».
Su Welby, in particolare, Giovanni Reale osservava che era «ostaggio di una macchina» e ammoniva: «Guai a trasferire la sacralità della vita ad una macchina!».
«Al di là del singolo caso, il punto è questo. La tecnica rischia di disumanizzare la morte come la vita. C’è chi ha definito la tecnica una nuova religione. Pensi alla ricerca sulla crioconservazione, il tentativo di sconfiggere la morte. Bisogna discernere. Ci muoviamo su un crinale molto delicato, che comporta anche l’accettazione del limite. La morte fa parte dell’esistenza. Può sembrare paradossale, ma è il senso del mistero dell’uomo che il Papa suggerisce».
Quando dj Fabo scelse di morire, lei parlò di «una sconfitta amara per tutti».
«Tra l’accettare la morte e il darsi la morte c’è una differenza abissale, radicale. In questo senso anche il suicidio assistito, uno dei temi del congresso, viene respinto con decisione. Francesco richiama l’immagine evangelica del Samaritano e perfino Kant, l’“imperativo categorico” di non abbandonare mai il malato. Anche il linguaggio è importante: espressioni come “staccare la spina” sono del tutto inadeguate. La cura continua anche se non si può guarire: le cure palliative sono fondamentali».
E l’autodeterminazione?
«Il Papa spiega che è anzitutto il paziente ad aver titolo di decidere, ma in dialogo con i medici. Nessuno è un’isola, ci sono anche i familiari, gli amici. Ci vuole un’alleanza terapeutica. Io preferisco chiamarla alleanza d’amore».
Francesco invita ad affrontare questi argomenti «con pacatezza» e cercare, anche nelle leggi, soluzioni «condivise».
«È un passaggio importante: proprio perché si parla di situazioni complesse, che non si possono affrontare in bianco e nero, è bene che ci sia una discussione più ampia possibile anche all’interno della società civile e si ascoltino tutte le visioni, al di là delle battaglie e delle semplificazioni ideologiche. In Italia, ad esempio, è accaduto quando culture diverse hanno scritto assieme la Costituzione».
Ed ora, sul fine vita, lo stiamo facendo?
«Si è discusso, ma si potrebbe fare ancora meglio».
1 Che cos’è l’accanimento terapeutico?
È l’uso sproporzionato di mezzi terapeutici che non danno beneficio al paziente né sul piano delle prospettive di guarigione né sul controllo e il miglioramento dei sintomi. Farmaci e tecnologie oggi permettono di prolungare la vita anche quando non c’è ragionevole speranza di far regredire la malattia. Dunque il rischio di esagerare nelle cure è aumentato di pari passo con i progressi della scienza.
2 La sospensione dell’accanimento terapeutico è eutanasia?
No, la rinuncia all’uso di terapie sproporzionate lascia che la malattia faccia il suo corso e consegna il paziente alla naturalità degli eventi. Eutanasia significa invece interrompere la vita volontariamente con mezzi passivi (distacco della spina) o attivi (somministrazione veleno).
3 La posizione espressa da Francesco è una svolta?
Il Papa ha riaffermato principi sempre espressi con chiarezza dal Magistero. Nel 1956 Pio XII agli anestesisti che gli chiesero fino a che punto fosse lecito insistere con i trattamenti rispose che, se inefficaci, bisognava rinunciarvi. Dichiarò lecita anche la sedazione profonda (che interferisce con il respiro) come mezzo per eliminare il dolore.
4 Quali documenti hanno ribadito questa linea?
La richiamò nel 1980 la Dichiarazione della Congregazione della Fede, massimo custode della tradizione morale della Chiesa. Nessuno è obbligato a continuare trattamenti non efficaci che procurano ulteriore sofferenza e questo vale per pazienti e medici che non sono in contrapposizione. Lo stop ai trattamenti futili è inoltre un passaggio della nuova Carta degli operatori sanitari, aggiornata quest’anno.
5 A che punto è la legge sul testamento biologico?
Approvata dalla Camera il 20 aprile, attende di essere discussa in Senato. I capigruppo devono decidere quando andare in aula.
6 Che cosa prevede?
Il medico è tenuto al rispetto delle disposizioni anticipate di trattamento. Viene affrontato anche il tema della terapia del dolore. C’è il divieto di ostinazione irragionevole nelle cure e il rispetto della dignità nella fase finale della vita. Se il paziente è con prognosi infausta a breve termine o in imminenza di morte, il medico deve evitare cure inutili o sproporzionate. Può invece ricorrere alla sedazione palliativa profonda.
(Hanno risposto alle domande del «Corriere» Antonio Spagnolo, direttore istituto di bioetica dell’università Cattolica Gemelli, e Cinzia Caporale, membro del Comitato nazionale di bioetica).

Corriere 17.11.17
Domande & risposte
Qual è la differenza rispetto all’eutanasia e cosa significa sedazione profonda
di Margherita De Bac

ROMA E ora «riflettere e agire», come dice il ministro dell’Agricoltura, Maurizio Martina, o «riflettere con prudenza», come chiedono i centristi? Approvare subito la legge sul fine-vita, come chiedono i M5S e la sinistra, da Rosy Bindi a Nicola Fratoianni (SI)? O ascoltare l’appello del ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, che dice «la legge va cambiata»? L’invito alla «saggezza» contro l’accanimento terapeutico, formulato ieri da papa Francesco, ha riacceso lo scontro sulla norma per il biotestamento. Con un dibattito a parti rovesciate. In cui i laici, Radicali di Riccardo Magi in testa, plaudono alla «grandezza del Pontefice», mentre i cattolici, Ap e dintorni, invitano a interpretare bene le sue parole. E in cui i senatori a vita Mario Monti, Renzo Piano e i Nobel Elena Cattaneo e Carlo Rubbia, incitano a «inserire nell’agenda politica la necessità di dare certezza alle scelte di fine vita», mentre Silvio Berlusconi, si dice «contrario alla legge sul biotestamento». E dunque? Quanto l’appello del Papa influirà sull’iter della norma? Pronta per essere discussa al Senato, aspetta solo la calendarizzazione in Aula, che potrebbe arrivare già nella prima riunione dei capigruppo disponibile appena approvata la manovra, vale a dire ai primi di dicembre. Il presidente del Senato, Pietro Grasso, si era già detto favorevole. «Sarebbe gravissimo se il ddl non fosse approvato prima della fine della legislatura», aveva affermato in risposta alla lettera-appello di Michele Gesualdi, l’allievo di don Milani, che, da malato trasformato dalla Sla in uno «scheletro immerso in una colata di cemento», scriveva: «C’è chi sostiene che rifiutare interventi invasivi sia un’offesa a Dio. Ma accettare il martirio del corpo della persona malata quando non c’è nessuna speranza né di guarigione né di miglioramento, può essere percepita come una sfida a Dio». I Radicali sperano che sia la volta giusta. E vanno oltre. Per Marco Cappato «dal Papa viene un segnale di apertura», anche sull’eutanasia. Luigi Di Maio parla di «diritto sacrosanto». Dal Pd di Matteo Renzi, arriva l’invito del ministro Martina ad «agire». E boatos di tentativi di accordo con Mdp, almeno su questo. Ma per Roccella e Quagliariello (Idea) «la legge va contro le parole del Papa». E Binetti (Udc) stigmatizza il tentativo di «manipolarle» per piegarle a un «sì» alla legge che, avverte, «manca del principio della proporzionalità e mortifica la libertà del medico». La Lorenzin, alla ricerca di «un punto di equilibrio tra curare le persone fin quando è possibile e rispettarne la volontà», chiede la modifica del ddl. Non essendoci più i tempi tecnici per il doppio passaggio parlamentare, questo significherebbe non poterlo più approvare .

Repubblica 17.11.17
La dimensione della saggezza
di Alberto Melloni

«UN SUPPLEMENTO di saggezza» davanti alla morte intesa come la soglia collocata fra due vite: quella che tutti conosciamo e quella che nessuno conosce (e che per i cristiani è rischiarata solo dal mistero di Gesù Risorto). Così con due sostantivi molto importanti Francesco è intervenuto con un messaggio alla Pontificia Accademia per la Vita su una questione che in Occidente vede confrontarsi posizioni serie e divergenti, troppo spesso contornate dalla faciloneria di chi pensa di poter roteare la propria clava ideologica nella cristalleria dell’esistenza.
Come in tutti i suoi interventi Francesco comprime in un pensiero disadorno una complessità che è facile sottovalutare: in ciò che dice e firma c’è sempre l’istinto evangelico dell’uomo di fede, la delicatezza del governo pastorale, perfino un pizzico di astuzia politica. Ed è per questo che le sue parole forniscono un riferimento essenziale nel marasma intellettuale e civile di questo tempo.
Proviamo a distinguere allora gli strati di questo intervento dalle conseguenze decisive.
Francesco è intervenuto su una
vexata quæstio. Sul tema del fine- vita il magistero s’era progressivamente chiuso. Pio XII aveva smontato con coraggio l’idea che il dolore del malato avesse un valore intrinseco e aveva ammesso (lo cita Francesco nel suo messaggio di ieri) che «non c’è obbligo di impiegare sempre tutti i mezzi terapeutici potenzialmente disponibili » e «in casi ben determinati, è lecito astenersene». Con il suo stesso corpo, poi, papa Giovanni aveva insegnato che il cristiano non ha il problema del fine-vita, ma quello di vivere la morte. Senza disumani eroismi e senza sconti aveva insegnato il senso di una antica espressione (il «pio transito»), con una esemplarità episcopale. Poi un Papa come Wojtyla, venuto dalla teologia morale, aveva affrontato lo spostamento del confronto ideologico dal terreno della vita sociale a quello del corpo: la “bioetica” aveva così fatto leva su una categoria chiave — la “vita” — che aveva permesso di mettere sullo stesso piano la battaglia contro le leggi sull’aborto e sull’eutanasia. Il catechismo degli anni Novanta aveva così conservato l’idea che esistono «procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi»: ma s’era limitato a dire che la loro interruzione «può» essere legittima; e nella formula della difesa della vita «dal suo concepimento » alla sua «fine naturale » il magistero romano aveva trovato con Ratzinger la linea di resistenza a quella «esaltazione individualistica » che secondo il Papa bavarese era la chiave della «dittatura del relativismo». Francesco ha segnato un cambio di passo e ieri ha posto il problema del vivere la morte come un diritto morale: non dice che «si può» interrompere una cura; dice che «c’è» una decisione che «si qualifica moralmente come rinuncia all’accanimento terapeutico».
Nel prendere posizione il testo del Papa ricorre a due espressioni — una di Bergson e una di Maritain — divenute familiari al magistero romano del Novecento: una è quella del “supplemento” e l’altra quella della ricerca di una dimensione “integrale”, care a Paolo VI. Davanti alla modernità e soprattutto alla modernità tecnologica che chiamiamo post-modernità, non propone una sterile mitragliata di condanne ma la convinzione che ciò che sembra minacciare la dottrina della chiesa può essere una occasione per il Vangelo.
Il “supplemento” che chiede (e qui viene la politica) non è di etica, ma di “saggezza”. Non dunque il ricorso a un meccanicismo morale o moralistico, ma la sapientia cordis che sa che anche le dimensioni etiche devono essere misurate sapendo che dietro ogni parola c’è il mistero della esistenza. Quella che insegna che il cammino verso la soglia della morte va vissuto senza poetizzarne l’angoscia e che la morte non “migliora” se viene rateizzata da una tecnologia capace di spezzettarla in mille frammenti di degrado e di sofferenza, ridotti alla banalità, quando non alla volgarità, delle macchine e delle morali.
Sono infatti agghiaccianti i lessici prevalenti: da un lato espressioni atroci come “staccare la spina” dall’altro il travestimento poetico della “dignità” del morituro. Come se bastassero macchine o volontà a dirimere l’incontro con Sorella Morte. Perciò se il cattolicesimo darà a questa discussione un contributo “di saggezza” non farà poco: e non farà poco anche per la politica italiana.
In questo momento nel Parlamento italiano il dibattito sul fine- vita o il suo rinvio alla campagna elettorale potrebbero infatti prestarsi a un gioco molto visto e molto praticato in età ruiniana: cioè lasciare a disposizione delle destre la gestione di “valori” o “principi”, rigorosamente estrapolati dal loro humus spirituale, trasformati in bandiere ideologiche, che però possono essere agitati nella propaganda elettorale e nella dinamica parlamentare.
In queste cose — l’inedia ecclesiastica davanti alla resistenza alfaniana in materia di Ius soli lo dimostra — arrivare tardi può voler dire non arrivare a nulla. Così la lettera papale sul «supplemento di saggezza» fissa un paradigma: e lo fa a una tale distanza dalle elezioni che tutti potranno giurare di non aver minimamente pensato alla situazione italiana, ma di aver solo pensato a questioni generalissime, che toccano il mondo intero.

Il Fatto 17.11.17
Donne, basta hashtag: andate in procura
di Luisella Costamagna

Confusione, clima da caccia alle streghe, derive sessuofobiche. Un problema così maledettamente grave e delicato come le violenze e le molestie sessuali avrebbe bisogno di chiarezza, sostegno alle vittime, esempio da parte delle cosiddette vip. Invece si è creato un gran polverone in cui rischiano di mescolarsi piani profondamente diversi: semplici avance confuse con abusi; drammi veri con ricerca di visibilità, vendette personali, alibi per i propri fallimenti professionali; stupri con forme di prostituzione; si è puntato il dito verso Hollywood, ma guai a toccare le star nostrane; si sono lanciate accuse in tv ma senza nomi né denunce vere alla magistratura.
Ora però basta: ora che le vicende Weinstein e Brizzi assumono contorni sempre più inquietanti, smettiamola di confondere le acque, trasformare tutto in molestia col rischio che alla fine non lo sia più nulla, indignarci solo sui media col rischio che presto tutto torni come prima. Guardiamo davvero in faccia la realtà, sfruttiamo l’indignazione collettiva per cambiare concretamente le cose, per le tante, troppe, vittime di violenza (vip e non).
Una realtà, quella italiana, in cui i femminicidi sono in aumento negli ultimi anni, mentre tutti gli altri reati calano; in cui le molestie sessuali – quelle per cui tanto c’indigniamo adesso – non sono manco disciplinate dal codice penale, ma ricondotte alle molestie in generale, con sanzioni ridicole come una multa fino a 516 euro; in cui l’uomo che a luglio uccise la fidanzata è a casa dopo due mesi e il padre che violentò la figlia da quando aveva 8 anni (8 anni!), “prestandola” anche agli amici, non farà un solo giorno di carcere. Un Paese in cui le istituzioni che ora solidarizzano – giustamente – con Asia Argento, alle ragazze stuprate a Firenze dai carabinieri avevano fatto la ramanzina (“Firenze non è Disneyland, eh”) e che, mentre promettono – domani – più soldi per i centri antiviolenza, approvano – oggi – una legge vergognosa sui risarcimenti alle vittime. Sapete quanto valgono per lo Stato italiano? 8.200 euro ai figli di una donna uccisa e 4.800 a chi viene stuprata. Un Paese in cui chi subisce violenza sessuale ha solo 6 mesi di tempo per denunciare – contro i 10 anni degli Usa – altrimenti il reato non è perseguibile. Se rielaborare una violenza richiede anni – ammesso e non concesso che poi ci si riesca – come si fa a denunciare in 6 mesi? Chiediamo di cambiare questa e le altre leggi e, nel frattempo, le (presunte) vittime di Brizzi (difeso anche dalla moglie) lo denuncino per violenza privata, che consente più tempo, come spiegava l’altro giorno al Fatto l’avv. Giulia Bongiorno. Certo, la violenza dovrà essere dimostrata, perché il regista nega qualunque rapporto “non consenziente”, ma è indubbio che i loro racconti sono molto circostanziati e simili (oltreché schifosi) e potrebbero aggiungersi altre ragazze, con nuovi elementi.
Ora basta indignazioni mediatiche, hashtag #Metoo sui social: servono fatti. Nuove leggi, fondi e denunce non in tv ma in Procura: per fermare gli orchi, evitare nuove vittime e spingere altre donne a denunciare. O vogliamo accontentarci del nome cancellato dal cartellone dell’ultimo film per mere ragioni economiche e di dissociazioni di circostanza che, in definitiva, paiono perfetti strumenti di promozione?

Il Fatto 17.11.17
“Help”: l’email di Rossi cancellata due giorni dopo la sua morte
La rivelazione dell’allora segretaria dell’Ad: “Era destinata proprio a Viola, io la lessi al mio capo. Poi sparì dal server”
di Davide Vecchi

Non solo più di una persona in Mps aveva letto l’email con la quale due giorni prima di morire David Rossi chiedeva aiuto a Fabrizio Viola, ma tra quei pochi che avevano accesso alla casella di posta elettronica dell’amministratore delegato qualcuno si è premurato di cancellarla subito dopo la scomparsa del capo della comunicazione della banca. È l’ultimo sconcertante elemento che emerge in merito alla vicenda Rossi. A svelare il particolare è stata Lorenza Pieraccini, all’epoca dei fatti segretaria di Viola, interrogata soltanto l’8 novembre scorso dal pubblico ministero, Serena Minicucci. Pieraccini al pm conferma di aver letto il 4 marzo 2013 la prima – quella con oggetto “help” – delle circa 30 email scambiate tra Rossi e Viola dal testo drammatico: “Stasera mi suicido sul serio. Aiutatemi!!!”. Poi aggiunge: “Dopo tre o quattro giorni” e comunque “dopo il decesso di Rossi – avvenuto il 6 marzo – per curiosità ho fatto l’accesso alla posta di Viola e, cercando l’email con l’oggetto help, non l’ho trovata”. Quindi qualcuno l’ha cancellata. Chi? Chiede il pm. “Non lo so, sicuramente non io”. Chi avrebbe potuto cestinare le email di Viola? “Non mi ricordo se per cancellarle fosse necessario andare nella sua postazione o se si potesse farlo anche dalle postazioni di chi come me aveva l’accesso”. E chi aveva accesso all’email? “Lo staff era composto da 7-8 persone” e “oltre a me poteva leggerla sicuramente Fanti e qualcun altro ma non so dirle chi”. Il dottor Fanti è Valentino Fanti, capo dello staff della segreteria del Cda quindi anche di quella di Viola e superiore di Pieraccini. Il 4 marzo, prosegue la donna, “poiché l’email era stata già aperta anche io la aprii e la lessi.
Non posso dire chi prima di me avesse aperto l’email, se Viola o Fanti. Sicuramente l’email era aperta. Quando la lessi, la stampai e la portai subito da Fanti e gliela feci vedere dicendogli ‘Guardi cosa è arrivato’. Poi io sono andata via portando con me la stampa dell’email che distrussi nel tritadocumenti rientrando nella mia stanza”. Qualcuno l’ha poi cancellata definitivamente dal server della banca. Infatti quell’email non comparirà nei primi atti dell’indagine sulla morte di Rossi aperta nel marzo 2013 e assegnata ai pm Nicola Marini e Aldo Natalini, ma sarà allegata solamente mesi dopo e individuata esclusivamente nel cellulare di Rossi nella posta inviata: da qui nessuno aveva potuto cancellarla. Dai server di Mps invece sì. Ma si scopre solamente ora. E si scopre grazie alla testimonianza di una persona che all’interno della banca aveva un ruolo chiave ma che è stata raccolta a distanza di quattro anni dai fatti: addirittura nel secondo decreto di archiviazione per suicidio il gip scrive che Pieraccini era stata sentita su input dei familiari di David, ma non corrisponde al vero.
La donna inoltre già a giugno aveva rivelato a Pierangelo Maurizio di Quarto Grado di essersi accorta che l’email era stata letta da qualcuno. Poi poche settimane fa ha ripetuto quanto accaduto a Le Iene aggiungendo di averla “stampata e consegnata a Fanti”, ha detto al giornalista Antonino Monteleone. Infine l’8 novembre, sentita dal pm, ha ricordato un altro elemento: “Dopo la sua morte l’email era sparita”.
Lo stesso giorno, l’8 novembre, il pm ha sentito anche Fanti. L’ex capo della segreteria, oggi in pensione, conferma il racconto fatto dalla donna. “Venne nel mio ufficio e mi mostrò la stampa dell’email” con oggetto “help”. Prima di quel momento, dice Fanti, non l’aveva letto. Poi però decide, “non con superficialità, di dare un’occhiata alla posta elettronica del dottor Viola potendo accedervi, avendo la posta condivisa”. E aggiunge un dettaglio importante: “Per quanto a mia conoscenza, soltanto io e la Pieraccini potevamo leggere la posta del dottor Viola”. E chi avrebbe potuto cancellarla? Questo non gli viene chiesto. E non potrà essere accertato facilmente perché, come molti altri aspetti, anche questo è stato ritenuto inutile dagli inquirenti e oggi è impossibile acquisire gli accessi ai pc dell’ufficio di Viola e ricostruire chi l’ha cancellata. Cosa che invece, se fatta nell’immediato, avrebbe portato almeno a individuare il responsabile.
Sono passati quasi cinque anni da quelle email, pubblicate per la prima volta sul Fatto il 5 luglio 2013. Email con le quali Rossi annunciava la volontà di andare dai pm e quella con la quale chiedeva aiuto. Tutte inviate il 4 marzo. Solo ora sappiamo che qualcuno le aveva lette, viste, stampate. Che qualcuno avrebbe potuto intervenire. Pieraccini avvisa Fanti, gli dice “bisogna seguirlo. Faccia qualcosa. Lo chiami. Parli con Rossi. Vediamo in che condizioni è”. Fanti come reagisce? Lo racconta al pm. “Quando la Pieraccini uscì dalla mia stanza feci alcune riflessioni: la prima riguardava la natura dell’email. L’email come è noto è un fatto privato, strettamente personale, ancor di più quella che mi veniva mostrata”.
La seconda “era che qualche giorno prima della lettura dell’email, avevo incontrato Rossi e mi fece presente il suo stato d’animo. Mi disse che era cambiato in negativo dopo la nota perquisizione” subita il 19 febbraio 2013. “Io gli chiesi se avesse avuto qualcosa da temere e lui rispose tranquillamente di no”.
La terza e “ultima riflessione che feci era quella che comunque io mi riconobbi in lui perché anche io stavo vivendo un momento difficile. Io intravedevo in David lo stesso malessere che affliggeva me”. Così, dopo aver letto l’email e fatto queste riflessioni “decisi di dare un’occhiata alla posta elettronica di Viola (…) e vedendo lo scambio delle ultime email mi tranquillizzai”. Perché “Rossi a un certo punto scrive a Viola ‘forse sto esagerando’ e mi ricordo anche la frase con cui chiude lo scambio delle email: ‘Scusa la rottura’. Questo mi tranquillizzò”, dice Fanti. “Quindi mi convincevo di non assumere alcuna iniziativa né di parlare con Rossi”. Era il 4 marzo 2013 quando David chiese aiuto. Lamentandosi anche con il presidente Alessandro Profumo di essere stato tradito da un amico. Di voler parlare con i pm. Di voler raccontare “tutto, ho lavorato con Piccini, con Mussari”. Due giorni dopo viene trovato morto nel vicolo sotto la finestra del suo ufficio. E l’email viene cancellata da qualcuno nella banca.

Il Fatto 17.11.17
“Nessun contatto tra vertici della banca e massoneria”

Non è emerso alcun tipo di contatto “dei vertici di Mps con organizzazioni segrete, come la massoneria, nella vicenda dell’acquisizione Antonveneta o in altri aspetti della crisi della banca”. Così ieri il pm di Siena Antonino Nastasi ha risposto a una domanda in Commissione d’inchiesta sulle banche dove è stato sentito insieme al procuratore capo, Salvatore Vitello. Nastasi era uno dei tre pm titolari del fascicolo sulla crisi della banca insieme a Giuseppe Grosso e Aldo Natalini. Nel corso dell’audizione Nastasi ha detto inoltre che dalle indagini non è emerso nulla di penalmente rilevante nei rapporti fra la comunità locale, quindi la politica, Mps e la Fondazione Mps. Il magistrato ha voluto poi sottolineare quanto “leale, proficua e approfondita” sia stata la collaborazione con gli organismi di vigilanza. “Chiedemmo alla Banca d’Italia di trasmettere tutta la documentazione relativa all’acquisizione di Banca Antonveneta dal 2007 fino a ottobre 2008 e ci trasmise tutto”. Dichiarazione che ha strappato qualche sorriso ironico ad alcuni dei membri della commissione d’inchiesta. Cosa avrebbe dovuto fare, Bankitalia?

Il Fatto 17.11.17
Fassino finge sull’art. 18 la sinistra non abbocca
Il “pontiere” pranza con Prodi e apre sul tema lavoro, ma alla Camera il Pd chiude
di Luca De Carolis

Piero Fassino esploratore incontra e promette. A Bologna pranza con Romano Prodi e giura che il professore “condivide la strategia del Pd”. Entro la settimana vedrà anche Giuliano Pisapia, chissà quando invece i vertici di Mdp, e comunque lui è disposto a discutere su tutto: “anche del Jobs Act” assicura al Corriere della Sera. Poi però dopo gli auspici per la riunione delle sinistre arrivano i fatti. E raccontano come tra il Pd ancora renziano e la sinistra non più dem ci sia un fossato: largo soprattutto sul tema dei temi, il lavoro, e sull’articolo 18, cuore dello Statuto dei lavoratori.
Già, perché i bersaniani di Articolo Uno, quello della Carta (“l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”) e Sinistra italiana invocano il ripristino della norma, piallata dal Jobs Act. Anzi, ne vogliono una versione rafforzata, con l’estensione del reintegro obbligatorio dei licenziati in modo illegittimo anche alle imprese sopra i 5 dipendenti, e non più “solo” a quelle con più di 15. Così prevede il disegno di legge che ha come primo firmatario Francesco Laforgia, capogruppo di Mdp alla Camera, e che riprende l’identica proposta della Cgil. Dopo una lunga serie di rinvii, il testo approderà in aula lunedì. Ma potrebbe restarci poche ore, visto che il Pd vuole rispedirlo subito indietro, in commissione Lavoro, a morire. Perché di un disegno di legge del genere non vuole saperne. “Però non diremo di no in Aula, perché vogliamo dare un segnale di attenzione politica” spiega al Fatto la relatrice di maggioranza del testo, la dem Titti Di Salvo. Ex Sel ed ex sindacalista della Cgil, soppesa le parole: “In commissione ho detto che non c’erano le condizioni per un parere positivo al testo.
Mdp e Si ritengono che l’articolo 18 sia ancora l’architrave per un sistema di diritti, ma io non sono d’accordo: nel 2017 la precarietà la combatti con il diritto all’informazione, all’equo compenso e al salario minimo”. Ma qui si parla di licenziamenti, onorevole… “Certamente, e noi ne vogliamo discutere, anche perché il Jobs Act prevede un monitoraggio dei suoi risultati. Ma il ddl Laforgia non è la via giusta per farlo, e poi non ci sarebbero i tempi per approvarlo prima della fine della legislatura”. E allora, che si fa? “La mia proposta è disincentivare i licenziamenti aumentandone il costo per i datori di lavoro, portando l’indennizzo per i licenziati a un massimo di 36 mensilità invece delle attuali 24. E poi abbiamo già raddoppiato la tassa per chi licenzia, nella legge di Bilancio”.
La distanza rimane enorme… “La nostra proposta non è un espediente tattico. E tra me e persone come Guglielmo Epifani e Giorgio Airaudo c’è molta meno distanza che con colleghi come Renato Brunetta”. Qualche metro più in là in Transatlantico c’è proprio Airaudo, anche lui ex sindacalista Cgil, ora in SI. Ed è duro: “Il nostro ddl si ispira a una proposta su cui la Cgil ha raccolto oltre un milione di firme, e il Pd ci risponde con l’aumento dei risarcimenti. Ma i diritti non si monetizzano, e la loro proposta è una mercificazione inaccettabile, che non tutela affatto i lavoratori. Mentre la nostra non vogliono neanche discuterla”. E ora? “Io leggo che Fassino telefona a tutti e promette di voler discutere anche sul Jobs Act, però poi lo si rilancia: alla faccia dell’apertura. Questa volontà di dialogo non c’è, nei fatti”.
Sullo sfondo i 5Stelle, che avrebbero votato un ritorno al vecchio articolo 18, e a cui la sinistra rossa tende da tempo la mano. Ancora Airaudo: “Avremmo potuto confrontarci sulle soglie, in aula. E comunque hanno promesso che proveranno a evitare il ritorno del testo in commissione, come noi. Ci sarà battaglia”. Fuori, retroscena e sussurri. Sempre su Fassino, che ai “rossi” vuole promettere anche l’approvazione dello ius soli. Mentre Massimo D’Alema, che lo ha schivato, precisa: “Ho solo detto che doveva parlare con i vertici di Mdp”. Ma da Articolo 1 a SI, lo scetticismo domina: “Non c’è nulla in agenda con Fassino”. E la linea resta quella di Bersani: “Uniti si perde”.

Repubblica 17.11.17
Quella sinistra divisa da programmi e poltrone
di Piero Ignazi

BASTAVA forse una telefonata per evitare il probabile disastro della sinistra alle prossime elezioni. Una telefonata ben prima di quelle che sta compulsivamente facendo Piero Fassino in questi giorni. Per evitare la scissione che ora, in vista delle elezioni, tanti danni adduce al Pd, forse bastava quella chiamata che Renzi non volle mai fare, come rivelò Delrio. A risentire l’intervento del segretario alla direzione Pd del febbraio scorso, quella che provocò la fuoriuscita dei bersaniani, non ci sono dubbi sulla sua volontà di liberarsi di fastidiosi oppositori. Quando disse che non era disponibile «a subire ricatti », cioè a ridiscutere la linea politica, era evidente che o l’opposizione mangiava quella minestra — Jobs act, Buona scuola, riforma costituzionale, e tutto quanto era stato fatto nei mille giorni — o saltava dalla finestra. E Renzi nemmeno si curò di intervenire con una replica, attesa dalla minoranza prima di decidere l’uscita. Meglio farli accomodare fuori.
Adesso affiora qualche timido ripensamento. Perché l’isolamento del Pd non è più circonfuso dagli allori del 40% ma oscurato dal rischio di una brutale sconfitta. Per questo si porgono (ipotetici) ramoscelli di ulivo ai fuoriusciti. Certo, ritrovare un terreno di intesa otto mesi dopo lo strappo è impresa ardua che nemmeno il volenteroso e tenace Fassino riuscirà a portare a termine. Non solo per la distanza tra le posizioni ma, più semplicemente, perché mancano gli “incentivi” per l’Mdp.
L’altro giorno, il segretario ha scandito chiaro e forte che di «abiure» non se ne fanno. Tutto è andato per il verso giusto: solo la sfortuna o qualche accidente astrale ha prodotto il declino precipitoso dei consensi del Pd. Sembra che nessuno dalle parti del Nazareno si sia accorto della perdita di Regioni e città capoluogo, del 37% di votanti in Emilia-Romagna, della chiusura a ripetizione delle feste dell’Unità, del declino degli iscritti, e, per finire, della batosta storica in Sicilia. Di fronte a questo spettacolo di rovine (il 25% bersaniano del 2013 rischia di essere un sogno, l’anno prossimo), qualche riflessione autocritica — non abiure galileiane, per carità — sarebbe stata utile a riallacciare il dialogo. Invece, l’orgoglio prevale.
E quindi una ipotetica alleanza è declinata solo in negativo: una
union sacrée contro il nemico alle porte. Ci si affida al comune sentimento di alterità rispetto alla destra e ai grillini. Come incentivo non è granché. Se allora lasciamo da parte il richiamo sentimentale e identitario, e ragioniamo invece in termini di costi e benefici, per quale motivo l’Mdp dovrebbe aderire all’alleanza?
Per rispondere a questo interrogativo scendiamo sul “concreto”, e cioè sulla assegnazione delle candidature. In base al nuovo sistema elettorale l’Mdp da solo, con tutta probabilità, non eleggerebbe nessun deputato o senatore al maggioritario (forse due o tre, al massimo), ma al proporzionale con un 5% porterebbe alla Camera una pattuglia di una ventina di parlamentari (e una dozzina al Senato). Qualora si alleasse con il Pd, per avere garanzia di una rappresentanza analoga, dovrebbe ottenere dai democratici una adeguata presenza in collegi sicuri al maggioritario, e il primo posto in circoscrizioni altrettanto sicure al proporzionale. Il Pd dovrebbe sacrificare legioni di suoi eletti, anche perché non c’è solo l’Mdp da accontentare: altri alleati minori vorranno la loro parte, così come l’opposizione interna. Un bagno di sangue per il partito e la maggioranza renziana in particolare. È plausibile tutto ciò?
A questo ostacolo — di bassa lega se vogliamo, benché tutt’altro che irrilevante — si aggiunge poi la necessità di una intesa politico- programmatica. Il fossato tra il blairismo fuori tempo dei renziani e il (tentativo di) recupero di una identità di sinistra classica da parte degli scissionisti è andato allargandosi sempre di più. La frattura ideologica è profonda e la ricomposizione non è alle viste. Il partito maggiore, il Pd, ha tutte le ragioni nel voler mantenere il punto. Ma se insiste nell’orgoglio dei “mille giorni” del governo Renzi, rischia di finire nei “cento giorni” di Napoleone: con l’esito che sappiamo, a Waterloo.

La Stampa 17.11.17
Negato a 50 mila studenti il diritto a borse di studio
In Italia solo un misero 2% del totale riceve sostegno economico. Nel nuovo anno, aumentano del 10% gli “idonei non beneficiari”
di Nadia Ferrigo

Ai «capaci e meritevoli» la nostra Costituzione garantisce il diritto allo studio con borse e servizi, dall’alloggio alla mensa. O meglio, dovrebbe garantire. In Italia solo poco più del 2% del totale degli studenti riceve un sostegno economico contro il 20% di Francia, Germania e Spagna, lontanissimi dall’80% di Svezia e Danimarca. Essere gli ultimi in classifica ancora non basta: l’anno accademico appena inaugurato registra un aumento di oltre il 10% degli studenti «idonei non beneficiari», cioè che per reddito e merito dovrebbero avere una borsa, ma non riceveranno nulla. Erano 45.090 ragazzi nel 2011, 49.444 nel 2015 e la buona notizia dell’aumento delle immatricolazioni nell’ultimo anno accademico porterà a un altro balzo in avanti.
Una vergogna tutta italiana che ancora una volta fotografa un Paese spaccato in due: le Regioni più ricche come Veneto, Friuli e Toscana riescono a integrare con risorse proprie il fondo statale, mentre Campania, Calabria, Puglia, Sicilia e Sardegna rischiano di non soddisfare nemmeno la metà delle richieste.
«Con le risorse a nostra disposizione copriamo il 42% delle borse, così la Regione si è impegnata per un finanziamento straordinario - continua Luigino Filice, pro rettore dell’Università della Calabria -. Ai nostri “idonei non beneficiari” è l’università a garantire l’esenzione dalle tasse e un contributo per l’alloggio». «In Lazio gli idonei sono passati da 16.780 dello scorso anno a 20.790. Considerando che alle Regioni tocca coprire il 40% e al fondo statale il 60%, l’aumento previsto di 10 milioni di euro non può bastare per tutti - spiega Carmelo Ursino, presidente dell’Andisu, che rappresenta tutti gli enti iper il diritto allo studio -. Secondo le nostre stime servirebbero altri 60 milioni. Poi c’è la drammatica situazione dei posti letto: se ne chiedono sempre di più, ma il posto non c’è».
A casa con mamma e papà
Otto universitari su dieci vivono a casa con mamma e papà. Cinque anni fa, come rileva il rapporto di Eurostudent sulle condizioni sociali ed economiche degli studenti europei, erano sette su dieci. Le famiglie che possono permettersi di pagare un affitto diminuiscono, così crescono le richieste per le residenze universitarie. Anche in questo caso i posti non bastano per tutti. Tra strutture degli enti universitari regionali, collegi e alloggi messi a disposizione dalle università in Italia ci sono poco più di 45 mila posti letto, circa 10 mila in più di quindici anni fa, la maggior parte nel Nord. «In Piemonte abbiamo duemila posti, assolutamente insufficienti - spiega Marta Levi, presidente Edisu -. Quest’anno resteranno fuori 1.500 ragazzi. Stiamo aspettando l’autorizzazione per un nuovo studentato, 90 posti». Ancora troppo pochi, proprio come nella virtuosa Toscana.
«Abbiamo richieste per 7 mila posti letto, riusciremo a garantirne 5 mila. A chi è in attesa proveremo a dare un contributo per l’alloggio - spiega Marco Moretti, presidente Dsu Toscana -. Quest’anno c’è una difficoltà in più: il cambio del regime dell’Iva sui servizi in vigore dall’estate ricade sugli studenti». Gli enti potevano infatti chiedere una compensazione all’Agenzia delle Entrate per l’imposta sui servizi per gli studenti, dalla metà di giugno si è passati all’esenzioni: si traduce in una perdita di milioni di euro per gli enti regionali, che hanno chiesto al Ministero un fondo straordinario per ammortizzare la spesa. A spulciare le classifiche europee, l’Italia è tra i peggiori anche sugli importi delle borse. «Saremo in piazza a fine novembre per chiedere di invertire la rotta - conclude Andrea Torti, portavoce del sindacato studentesco Link -. Investire in università e ricerca non è un vantaggio per gli studenti, ma per tutto il Paese».

La Stampa 17.11.17
Atenei, la rivolta dei docenti a contratto
“Facciamo didattica pagati 3 euro l’ora”
Denuncia dei precari. La replica dei rettori: “Hanno un ruolo diverso dagli stabili”
di Fabrizio Assandri

«Insegno in ateneo da 13 anni e sono pagata 3,02 euro all’ora». Maria Grazia Turri tiene un corso di Linguaggi della comunicazione aziendale all’Università di Torino e, su Facebook, ha pubblicato il suo contratto, raccogliendo decine di commenti solidali e indignati da parte dei suoi studenti. Non è un caso isolato. La sua è la condizione dei «docenti a contratto», una figura non di ruolo all’interno delle università. È pensata per le collaborazioni occasionali: a insegnare a contratto dovrebbero essere professionisti, che hanno un altro lavoro, e che portano le loro competenze nel mondo universitario. In alcuni casi anche a titolo gratuito, come per direttori di musei o imprenditori. In realtà spesso questa figura contrattuale sarebbe solo un modo per mascherare la precarietà. Almeno, è quanto denuncia il coordinamento precari della Flc-Cgil, insieme con la rete precari dell’Università di Bologna, che ha organizzato un incontro sul tema e fatto un’analisi dei curricula dei professori a contratto dell’ateneo emiliano.
I numeri
Su 544 casi, 166 sono dottori di ricerca, senza altre attività lavorative che non siano le docenze a contratto. Un centinaio insegna nello stesso ateneo da oltre 10 anni. Insomma, precari per i quali questo tipo di collaborazione sottopagata è l’unica opportunità per bazzicare nei corridoi dell’ateneo. Più spesso si alterna ad altri contratti precari. «Questo identikit dimostra che in realtà quello che si fa è esternalizzare la didattica», sostiene Barbara Grüning, del coordinamento precari e docente a contratto. Lo dimostrerebbe, secondo la Cgil, anche «la crescita esponenziale: i docenti a contratto erano 16.274 nel 1998, sono saliti a 26.162 nel 2015». Lo stesso ministero ne è consapevole: il rapporto biennale sul sistema universitario del 2016, redatto dall’Anvur per il Miur, mette nero su bianco: «I contratti di insegnamento dovrebbero rappresentare una risorsa speciale e aggiuntiva del sistema. Tuttavia il personale di ruolo delle università spesso non è sufficiente a coprire l’offerta formativa; questo ha portato al ricorso, cospicuo, a personale con contratti di diritto privato», si legge. L’Anvur dice anche i docenti a contratto sono il 25,5% del totale (va detto che la loro presenza è molto più forte nelle università non statali).
I compensi
È vero, ogni ora di lezione frontale in aula viene pagata da un minimo di 25 a un massimo di 100 euro, a discrezione del dipartimento, ma nulla è previsto per gli esami, il ricevimento studenti, le tesi che pure si è tenuti a seguire. «Per questo ogni ora effettiva ci viene pagata in media meno di dieci euro, ma anche molto, molto meno», protesta Grüning.
«Ci sono differenze tra i professori di ruolo e i docenti a contratto. I primi entrano per concorso e fanno ricerca e didattica basata su di essa i secondi mettono a disposizione degli studenti la loro esperienza professionale e ciò è un valore aggiunto» spiega Elisabetta Barberis, prorettrice dell’Università di Torino, dove quest’anno le ore «a contratto» sono state 52495 (1557 contratti, per 1014 teste). «È prevista una forbice ampia nei compensi che permette di ricompensare in modo differenziato la didattica per i corsi di laurea, master o scuole di specialità, e anche in dipendenza del numero di studenti da seguire. Il compenso e la quantità di lavoro richiesti sono noti in anticipo a chi fa domanda. I singoli atenei non possono intervenire sulla forbice, è prevista dalla legge». La docente Turri, quella che ha fatto la denuncia sui social, obietta che Management, il dipartimento di Torino in cui lei insegna, «si regge sui docenti a contratto». E dal coordinamento precari protestano chiedendo di essere equiparati alle altre figure accademiche, almeno nei compensi. «Per trenta ore di didattica frontale - dice Grüning - ai ricercatori vengono riconosciute 200 ore di didattica, a noi solo quelle effettivamente di lezione». E in programma hanno iniziative di protesta, a partire da un questionario sulle loro condizioni, per iniziare a compattarsi.

Repubblica 17.11.17
Patto per il Medio Oriente così Israele apre ai sauditi
Capo di Stato maggiore: pronti a condividere informazioni con Riad Intesa anti Iran, dopo incontri segreti e missioni del genero di Trump
di Francesca Caferri

«L’UNICO problema che abbiamo con Israele è la questione palestinese. E per questo stiamo lavorando con l’Amministrazione Trump: una volta individuata una soluzione per quello, siamo pronti a collaborare dal punto di vista politico ed economico». Le parole pronunciate a Riad qualche settimana fa da una qualificata fonte della Corte reale saudita dicevano già tutto. Ma il fatto che a confermarle sia stato ieri il Capo di Stato maggiore dell’Esercito israeliano, in più in un’intervista concessa – ed è la prima volta - ad un giornale saudita dà al nuovo asse mediorientale il timbro di un’ufficialità che fino a questo momento mancava. «L’Iran – ha spiegato il generale Gadi Eisenkot al giornale on line Elaph – è la più grande e reale minaccia della regione. Quando si parla dell’asse iraniano, c’è un’intesa totale tra noi e l’Arabia Saudita. Ho partecipato a un incontro di responsabili militari a Washington, e quando ho sentito il rappresentante saudita parlare, ho trovato che la sua visione sull’Iran era completamente allineata con la mia». Eisenkot è andato oltre: Israele è pronta a «scambiare informazioni, comprese quelle d’intelligence, con i Paesi arabi moderati per affrontare l’Iran. Ci sono molti interessi condivisi tra noi e l’Arabia Saudita». Eisenkot ha poi però voluto sottolineare che Israele non combatterà le guerre dell’ArabiaSaudita, in riferimento alla crisi in Libano.
Le parole del generale segnano il punto più avanzato di un avvicinamento fra i due Paesi che va avanti da mesi e che il piano di pace che Riad sta mettendo a punto insieme a Washington potrebbe presto portare allo scoperto. A settembre i media israeliani avevano raccontato della visita in incognito nel Paese di un principe saudita di alto livello: dopo qualche giorno di mistero, il quadro si era chiarito. Ad atterrare a Tel Aviv e incontrare il primo ministro Benjaminyn Nethanyahu era stato Mohammed Bin Salman (MBS)in persona, il principe ereditario che nei fatti oggi guida l’Arabia Saudita. La visita era stata smentita dalla Corte di Riad, ma confermata da diverse fonti israeliane ai media internazionali. Al centro dell’incontro – facilitato con tutta probabilità da Jared Kushner, genero del presidente Usa Trump e amico del premier israeliano – le azioni nei confronti del nemico comune Iran e lo stallo delle trattative con i palestinesi.
L’incontro era stato il motore di un nuovo sforzo diplomatico: tre settimane fa a Riad era arrivato lo stesso Kushner e con Mohammed Bin Salman aveva discusso del piano di pace israelo-palestinese poi anticipato dal New York Times.
Ma a rafforzare l’asse sancito ieri dall’intervista del generale Eisenkot erano stati gli eventi successivi a quell’incontro: le dimissioni del premier libanese Saad Hariri in polemica contro gli sciiti di Hezbollah, suoi alleati di governo. I duri attacchi all’Iran partiti da Riad dopo che un missile lanciato dallo Yemen era stato intercettato nei pressi dell’aeroporto della capitale saudita. L’aumento fortissimo della retorica anti-Teheran in tutta la regione. Da dieci giorni i giornali israeliani non fanno che pubblicare analisi sull’Arabia Saudita e i suoi obiettivi, così vicini a quelli nazionali. Ieri ciò che tutti sapevano è apparso chiaro alla luce del sole.