Corriere 14.11.17
Il gioco del cerino
di Antonio Polito
Diciamoci
la verità: non è solo colpa di Renzi lo stato pietoso dei rapporti a
sinistra. Oggi ricordiamo quella di Veltroni come un’età dell’oro per
l’unità del centrosinistra; ma anche dieci anni fa, agli albori del Pd,
la sinistra radicale ruppe con il nuovo partito, andò da sola e disperse
quasi due milioni di voti. Il Pd fece il suo massimo storico, 33,2%, e
non servì a nulla. Né è solo colpa di Renzi se lo schieramento
progressista parte indietro nella gara elettorale. Dalla nascita della
Seconda Repubblica, nel 1994, il centrodestra è quasi sempre stato
maggioranza nel Paese, anche quando ha perso perché si è disunito. La
sinistra italiana, al suo meglio, rappresenta un terzo dell’elettorato
(Berlinguer nel 1976, Veltroni nel 2008). Al suo peggio, un quarto (come
è adesso il Pd nei sondaggi, o come fu per Bersani cinque anni fa).
Sempre molto lontana dunque da quel 38-40% che nei sistemi bipolari può
portare alla vittoria: figuriamoci ora che il sistema è tripolare, e
bisogna fare i conti con un M5S di pari forza elettorale.
Si potrebbe insomma dire che il centrosinistra rischierebbe di perdere le prossime elezioni anche se fosse unito.
Gli
appelli allo stare insieme, al «volemose bene» in nome della vittoria
comune, sono perciò spesso puri artifici retorici. Così come l’apertura
fatta ieri da Renzi agli scissionisti di Mdp, applaudita anche da molti
avversari interni, non sembra destinata a produrre risultati concreti, e
sa più di gioco del cerino pre-elettorale, per passare all’altro la
responsabilità della rottura.
Non è dunque tutta colpa di Renzi.
Ma certo Renzi ci ha messo del suo, in questi anni. Quando in un famoso
fuorionda Delrio si lamentò del fatto che i renziani sembravano tutti
felici della scissione a sinistra nella convinzione di avere così più
seggi da spartirsi, aveva ragione. Il danno che quella rottura arrecò al
Pd va infatti ben oltre i voti effettivi che Bersani e D’Alema si
porteranno via (vedremo quanti sono); perché colpì al cuore la
credibilità di un partito che era nato presentandosi come un contenitore
di tutto il centrosinistra, e che invece finisce la legislatura con i
due presidenti delle Camere già in campagna elettorale con lo slogan
«mai con il Pd».
Con tutto il rispetto per Emma Bonino, per gli
alfaniani, e perfino per Pisapia, i tre forni evocati ieri dal
segretario del Pd per metter su una coalizione, difficilmente basteranno
a ricostruire ciò che è andato distrutto. Ma fin qui siamo alla
tattica. Renzi se ne potrebbe pure infischiare se avesse ancora la
spinta propulsiva degli inizi, o quella del Veltroni di dieci anni fa. E
la ragione per cui non ce l’ha più non è tanto il suo carattere o la
sua presunta antipatia (quattro anni fa era simpaticissimo a tutti
proprio per il suo carattere); sta piuttosto nel fatto che il Renzi di
oggi ha già dato la sua prova di governo, anche lunga, guida un partito
che è stato al potere per l’intera legislatura, e dunque non può più
promettere un nuovo inizio come se niente fosse. Ancora ieri, mentre in
Direzione pronunciava la sua «apertura» a sinistra, il leader era
giustamente preoccupato di aggiungere un attimo dopo: «ma senza abiure
della nostra opera di governo». Il guaio è che quell’opera è oggi
giudicata male dall’elettorato esterno al Pd anche al di là dei suoi
demeriti, forse proprio per l’eccesso di aspettative che aveva creato.
Un solo esempio: il Jobs act è stata una buona legge per rinnovare il
mercato del lavoro, forse la migliore riforma del quinquennio; ma se la
presenti come il toccasana che crea occupazione stabile e poi il
precariato giovanile torna appena finiscono gli incentivi, ti si ritorce
contro, e toglie credibilità anche alle altre riforme che annunci, in
una specie di spirale che si è avvitata fino alla sconfitta
referendaria.
Renzi avverte questo problema. E infatti da qualche
mese sembra tentato di chiedere voti non come il continuatore dell’opera
sua e di quella di Gentiloni; ma come il «nuovo» che torna, come l’uomo
che riparte daccapo, e perciò prende in prestito temi classici del
populismo, per esempio l’attacco all’Europa o a Bankitalia. Ma proprio
mentre lui insegue i Cinquestelle, accade che il centrodestra risorge
dalla sue ceneri in una versione «governista» che assomiglia sempre di
più a Tajani, a Zaia, a Maroni, a Musumeci, come la forza che può
fermare il populismo grillino. Il tripolarismo è un ambiente già di per
sé molto ostile per un partito riformista; se poi lo stringe come in una
morsa, da destra e da sinistra, rischia di stritolarlo.
Forse è
già tardi per riparare. Ma qualsiasi tentativo di rilanciare il
centrosinistra non può che passare da una rilettura onesta e critica
degli anni del governo, finora da Renzi sempre rifiutata, perfino dopo
la disfatta referendaria. Non un’abiura, certo; ma un discorso di
verità, dopo tanto spin.