martedì 14 novembre 2017

Corriere 14.10.17
Naufragio con 300 vittime Il gip respinge l’archiviazione
di Ilaria Sacchettoni

ROMA Per oltre quattro ore e mezza, dopo l’allarme lanciato da un barcone di migranti, la nave della Marina italiana «Libra» si limitò a pattugliare il mare proseguendo nella sua «missione di vigilanza». Benché avvisati che un’imbarcazione carica di donne e bambini stava per capovolgersi, gli ufficiali non intervennero. «Al contrario — scrive ora il gip Giovanni Giorgianni— gli ordini impartiti dalla sala operativa della Marina militare e che si ascoltano nelle registrazioni dei colloqui erano quelli di non convergere sul punto in cui si trovava il barcone, di continuare il pattugliamento e di mantenersi a una distanza di circa un’ora dall’imbarcazione dei migranti». A 4 anni dalla strage che sollevò un’ondata di emozione in Europa, il gip respinge la richiesta di archiviazione dei pm e dispone l’imputazione coatta di Luca Lucciardi, ufficiale della Marina che coordinava la nave «Libra», e Leopoldo Manna, responsabile della centrale operativa della Guardia Costiera, per i reati di omicidio colposo e rifiuto di atti d’ufficio. In più prescrive nuove verifiche sul ruolo del comandante Catia Pellegrino e sul motivo per il quale dalla «Libra» nessuno rispose alle segnalazioni inviate da un elicottero maltese sul canale riservato all’emergenze. «In quel naufragio — dicono gli avvocati Arturo Salerni e Alessandra Ballerini — i nostri clienti videro annegare i loro figli. Oggi gli viene restituita almeno la fiducia nella giustizia italiana».

Repubblica 14.10.17
Svolta sul naufragio dei bambini “A processo gli ufficiali italiani”
Il gip nega l’archiviazione per la strage di migranti dell’11 ottobre 2013 Smentita la versione della Marina: “Non ordinò alla Libra d’intervenire”
di Fabrizio Gatti

Tra le accuse l’omicidio colposo. Chieste ulteriori indagini per la comandante Pellegrino
268 I morti nel naufragio dell’11 ottobre 2013: 60 erano bambini in fuga dalla Siria
Catia Pellegrino, all’epoca dei fatti comandante della Libra: il gip Giorgianni ha chiesto nuove indagini sulle chiamate che avrebbe ricevuto dal pilota maltese

SUL naufragio dei bambini c’erano due verità. Quella riferita dalla Marina militare al Parlamento. E quella dei papà sopravvissuti al massacro, raccontata nel film-inchiesta “Un unico destino”, prodotto da Espresso e Repubblica con 42° Parallelo e Sky. Ieri mattina il giudice per le indagini preliminari di Roma, Giovanni Giorgianni, ha dimostrato che la versione consegnata dai militari alla massima istituzione della Repubblica non è vera.
È l’effetto più evidente della decisione del Tribunale, che ha respinto la richiesta di archiviazione della Procura e accolto gran parte del ricorso degli avvocati delle vittime, Alessandra Ballerini, Emiliano Benzi e Arturo Salerni: le 268 persone annegate nel naufragio dell’11 ottobre 2013, tra cui sessanta bimbi in fuga dalla Siria, potevano e dovevano essere salvate. Per questo il giudice ha stabilito l’imputazione coatta, cioè la necessità di un processo, per due alti ufficiali in servizio quel giorno e un supplemento di indagini per la comandante di nave Libra, l’allora tenente di vascello Catia Pellegrino, 41 anni, famoso volto immagine della Marina. Omicidio colposo e omissione d’atti d’ufficio, i reati contestati. Una decisione inevitabile, che riaccende le preoccupazioni su quanto sta ora accadendo in mare tra la Libia, Malta e l’Italia: le regole d’ingaggio sono praticamente le stesse.
Sono passati quattro anni dal naufragio dell’11 ottobre. Ma i muri di gomma costruiti intorno a quel pomeriggio hanno rinviato a oggi la resa dei conti giudiziaria. La ministra della Difesa, Roberta Pinotti, ha assicurato massima collaborazione e trasparenza alle indagini. E così si è espresso l’attuale capo di Stato maggiore della Marina, Valter Girardelli. Ma nella lunga catena di comando fino al mare, non tutti i sottoposti condividono la linea. Questa era infatti la versione ufficiale comunicata al Parlamento il 17 maggio scorso: «La Marina riferisce che, appena informata dalla centrale operativa del comando generale del Corpo delle capitanerie di porto delle attività di ricerca e soccorso in atto, a cura del centro di coordinamento del soccorso marittimo maltese, ha disposto di propria iniziativa che nave Libra, distante circa quindici miglia nautiche dal natante in difficoltà, si dirigesse verso il punto segnalato».
Il provvedimento del giudice Giorgianni depositato ieri, dopo l’udienza tra le parti del 27 ottobre, dimostra una realtà molto diversa: dalle 16.22 di quel giorno la Marina militare e la Guardia costiera non solo non hanno disposto ma hanno respinto le richieste telefoniche e via fax di Malta che sollecitava l’impiego immediato del pattugliatore comandato da Catia Pellegrino. La Libra era la nave più vicina: 15 miglia corrispondono a meno di un’ora di navigazione. «È evidente », scrive il gip, «come un ordine immediato di procedere alla massima velocità in direzione del barcone dei migranti... emesso subito dopo la ricezione del fax delle 16.22 avrebbe permesso a nave Libra di giungere sul punto in cui si trovava il barcone con ogni probabilità anche prima del suo ribaltamento o, in ogni caso, in un momento che avrebbe consentito di contenere quanto più possibile le devastanti conseguenze». La Libra, pur essendo a meno di venti miglia, è arrivata alle 18, ormai al tramonto: cinquantatré minuti dopo il rovesciamento e 5 ore e 34 minuti dopo la prima richiesta di soccorso. Nel frattempo, dei 480 passeggeri finiti in acqua, 268 sono annegati.
L’ordine alla Procura perché formuli la richiesta di rinvio a giudizio è stato disposto nei confronti dell’allora comandante della centrale operativa della Squadra navale della Marina, il capitano di fregata Luca Licciardi, 47 anni: è l’ufficiale che si sente ordinare alla Libra di allontanarsi perché, letterale, «non deve stare tra i coglioni quando arrivano le motovedette» maltesi. Il secondo ufficiale per cui si chiede il processo è il responsabile della sala operativa della Guardia costiera, il capitano di vascello Leopoldo Manna, 56 anni: «Dopo la espressa richiesta di utilizzo di nave Libra da parte di Malta, non emette l’ordine di far intervenire la nave da guerra italiana». Supplemento d’indagini per la comandante Pellegrino: il gip ordina alla Procura di valutare le testimonianze dei piloti dell’aereo militare maltese che avrebbero supplicato la Libra sul canale radio delle emergenze, senza ottenere risposta. Accolta l’archiviazione per gli ufficiali della Guardia costiera, Clarissa Torturo e Antonio Miniero, per il capitano di fregata Nicola Giannotta, diretto sottoposto di Licciardi, e per l’allora comandante in capo della Squadra navale, ammiraglio Filippo Maria Foffi. Da adesso l’inchiesta ha un nuovo inizio.

La Stampa 14.11.17
Violentato quando era bambino si vendica e accoltella il pedofilo
Pordenone, il 23enne accusato di tentato omicidio ha confessato
Il ferito, in gravi condizioni, era a processo per pedopornografia
di Lorenzo Padovan

San Vito al Tagliamento Due coltellate alla schiena a quell’uomo a cui aveva voluto tanto bene, poi la fuga nella notte. Un’ora a ripensare a quello che aveva combinato, una telefonata ad una persona cara che lo avrebbe convinto ad arrendersi e la decisione di costituirsi dai carabinieri: «L’ho accoltellato io».
Per un 23enne di San Vito al Tagliamento (Pordenone), cittadino italiano ma originario di un Paese dell’Est, accusato di tentato omicidio, si sono spalancate le porte del carcere. «Solo dopo l’interrogatorio di garanzia potrà essere valutata la premeditazione», ha spiegato il Procuratore della Repubblica Raffaele Tito.
Per la vittima dell’aggressione, un medico di 48 anni, è iniziata la disperata lotta tra la vita e la morte nell’ospedale cittadino: è stato accolto in Terapia intensiva, ha subito due interventi chirurgici, ha perso molto sangue, non si sa se ce la farà.
In pochi secondi, all’interno della cucina del professionista, a mezzanotte di domenica, si sono ribaltati i ruoli. Fino a quell’istante era il ragazzo a proclamarsi vittima di molestie sessuali e il dottore era il presunto autore di episodi avvenuti quando il suo ospite era ancora minorenne. Ospite. Perché i due, in quella casa, hanno convissuto a lungo. Durante un difficile periodo famigliare, il medico si era offerto di aiutarlo e di prenderlo con sé. All’epoca faceva l’allenatore del settore giovanile della locale squadra di calcio. L’adolescente aveva bisogno di attenzioni: necessitava di un sostegno e lui glielo offrì. Un legame durato ben dieci anni, con l’uomo che ha pagato gli studi e perfino trovato un lavoro a quel ragazzetto oggi diventato uomo. Ma proprio quando è entrato nell’età adulta l’ormai ex calciatore ha formulato l’accusa infamante nei confronti di colui che doveva essere, al contrario, il suo protettore, la sua fonte di ispirazione, la salvezza da un’esistenza poco agiata.
Sulla scorta delle dichiarazioni circostanziate del ragazzo sono scattate le indagini, che hanno permesso di individuare nel computer di casa del medico del materiale pedo-pornografico. Tra le varie accuse, quella pesantissima di adescare minori via internet. Per questa ragione, l’inchiesta è stata trasferita alla Direzione distrettuale antimafia di Trieste competente per questa tipologia di crimini. Qualche settimana fa, di fronte al Gup l’indagato non ha scelto riti alternativi, convinto di poter dimostrare la propria estraneità. «Quel computer lo usavano tutti - si è difeso -: casa mia è sempre stata un approdo per tanti giovani. Non c’era password. Vi navigavano anche colui che mi accusa e i suoi amici».
La prima udienza dibattimentale è fissata per il mese di febbraio, a Pordenone. Il ragazzo che si è fatto uomo non ha saputo attendere. È tornato in quell’abitazione, ha affrontato il medico e lo ha colpito. Il ferito poteva morire dissanguato. Invece ha raggiunto il cellulare, ha composto il 112 e ai soccorritori, con un filo di voce, invocando aiuto, ha sussurrato il nome del suo aggressore, usando le quattro lettere del diminutivo con cui lo ha sempre chiamato confidenzialmente. «È stato lui».
Prima ancora che si costituisse, i carabinieri coordinati dal tenente colonnello Marco Campaldini avevano predisposto posti di blocco e circondato la casa dove il giovane abita con alcuni parenti, sempre in paese. Una comunità piccola, dove fino a ieri tutti pensavano di conoscersi. Scoprendo infine che sul medico stimato, mister di intere generazioni di baby calciatori, c’era l’ombra della pedofilia. E che quel ragazzino difficile si era trasformato in un potenziale assassino.

La Stampa 14.11.17
Quel passato che non è mai passato
di Ferdinando Camon

Ha soltanto 23 anni, è poco più che un ragazzo, deve aver capito da poco tempo che da piccolo veniva abusato da un adulto, ma non ha perso tempo: è corso a casa dell’uomo, in piena notte, e l’ha accoltellato.
Chiudendo una litigata, che dalle parole è passata subito ai fatti. Per la verità a suo tempo c’era stata una denuncia contro l’adulto, per abusi sessuali, ma presentata dalla madre. Lui raccontava a lei cosa il medico gli faceva, e lei ha subito sospettato.
C’era un processo in corso, ma subito fermato e poi ripartito. Non c’è ancora una sentenza, e il medico nega le colpe. Nel frattempo il bambino è diventato ragazzo e ora è uomo. Probabilmente adesso ha capito tutto quel che da piccolo non capiva, e non ha perso tempo. Colpito dalle sue coltellate, il medico è stato operato d’urgenza due volte, e adesso sta fra la vita e la morte. Si dice: «La vendetta va servita fredda». Ma ci sono oltraggi che bruciano, e l’abuso sessuale è fra questi. Di solito sentiamo di abusi sessuali che vengono vendicati dopo tanto tempo. E c’è una differenza tra la vendetta tardiva e quella rapida. Se un uomo, diventato grande, si vendica di abusi sessuali che ha patito da minorenne, accoltellando l’abusatore, noi siamo portati a interpretare il suo gesto come una vendetta che ha questo messaggio: «Mi hai rovinato la vita. Ti punisco perché mi hai fatto del male, mi vendico oggi per il male che mi hai fatto ieri». Ma la vendetta compiuta domenica a Pordenone ha un altro significato, perché colui che si vendica è ancora molto giovane. Con la sua coltellata non dice che l’abuso gli ha rovinato la vita, ma che gliela sta rovinando adesso. Un abuso sessuale «guasta» la sessualità di colui che lo patisce. Perché, appena può ragionare, si domanda se la colpa sia anche sua, se ci sia qualcosa di sbagliato in lui, se la sua sessualità, ancora in formazione, si stia formando in modo sbagliato. Se lui sia diverso dai suoi amici. Questo 23enne non ha passato le conseguenze dell’abuso che ha patito, ma le sta passando adesso. Se ha una ragazza, entra in crisi con lei. L’abuso non è per lui un tormentoso ricordo, è una bruciante attualità. È adesso che la sua personalità si forma. Da piccolo, non sapeva cosa gli capitava, subiva le attenzioni moleste (come pare) dell’adulto senza capirle, perché non sapeva cos’è la sessualità. Adesso lo sa. Adesso capisce. E adesso si vendica.
Quando un bambino vien abusato da un adulto, patisce un inganno, perché l’adulto sa tutto e lui non sa niente. Il bambino «si rimette» alla volontà dell’adulto, che considera buona, perché l’adulto è un parente, un patrigno (a volte addirittura un padre), un prete, un amico di famiglia… Uno legato da un rapporto di amore. Quando scopre, anni dopo, di essere stato abusato, il bambino diventato adulto si sente «tradito» nell’amore. La coltellata, o le coltellate, inflitte da questo 23enne al medico 48enne sono la punizione per il tradimento. Il piccolo che si rimette a un grande è come un figlio che si rimette a un padre: da lui non si aspetta che il bene. Questo medico aveva preso in casa propria questo ragazzo, dunque vivevano insieme, era proprio un rapporto tra padre e figlio: abusandolo il padre ha tradito il figlio, accoltellandolo il figlio ha punito il padre. Non sappiamo quanti anni fa sia avvenuto l’abuso, supponiamo pochi, visto che il ragazzo ha appena 23 anni. Dunque la vendetta è scattata presto. Ma prima o poi doveva scattare, la memoria degli abusi è difficile da liquidare o tenere a bada, resta nel cervello e fermenta.

La Stampa 14.11.17
“Non ce la facevo più
L’ho aggredito perché ero esasperato”
La giustificazione del giovane con i carabinieri Il difensore dell’uomo: “Ci sono motivi economici”

«Ero esasperato, non ce la facevo più». Così il 23enne si è giustificato con i carabinieri quando si è consegnato alle forze dell’ordine.
Poi frasi sconnesse, le mani sporche di sangue portate al volto, vaghe indicazioni su dove aveva abbandonato il coltello e alcuni indumenti. Dichiarazioni confuse che non hanno nemmeno permesso di rinvenire l’arma del delitto.
«Il mio assistito attraversa una fase di fragilità - si è limitata a far sapere l’avvocato difensore Geni Drigo, che stamani parteciperà all’udienza di convalida del fermo -: Ricordiamo che stiamo parlando della vittima di molestie sessuali. Proteggiamo la sua identità: ha già sofferto troppo».
Di parere opposto il legale del medico, che è persuaso che la vera vittima sia il proprio assistito: «Non abbiamo scelto riti alternativi di fronte al Gup perché siamo certi che la verità verrà a galla - ha ricordato l’avvocato Giuseppe Bavaresco -. E mi riferisco solo alle accuse relative al possesso del materiale pedo-pornografico, perché per le molestie il contesto descritto è inverosimile e gli addebiti contestati non potranno reggere».
La vicenda giudiziaria è iniziata lo scorso marzo, dopo mesi di indagini anche telematiche degli esperti dell’Arma e della Polizia postale. L’uomo era finito agli arresti domiciliari e sospeso dall’Azienda sanitaria di Pordenone: lavorava in un ospedale della zona. Mai un sospetto: in ambulatorio un esempio di correttezza. Il provvedimento che impediva al professionista di varcare la soglia del nosocomio era stato superato dalla disposizione del giudice che lo aveva reintegrato, consentendogli di esercitare anche durante il periodo di restrizione della libertà personale. Dopo alcune settimane, la condizione dell’indagato mutò nuovamente: gli fu imposto solo l’obbligo di dimora nella sua casa di San Vito al Tagliamento, disposizione ancora in vigore.
Per l’avvocato difensore del presunto pedofilo, all’origine dell’aggressione potrebbero esserci altre motivazioni, che prescindono dalla vicenda giudiziaria e da quelle terribili accuse. «Il giovane aveva chiesto più volte del denaro - ha spiegato il legale dell’uomo ferito -: non posso escludere che anche in questa circostanza sia accaduta una cosa del genere e la situazione sia trascesa».
Tra i conoscenti delle due persone coinvolte nella vicenda, c’è chi crede alla versione e alla buona fede dell’adulto. «Quel giorno in cui ha deciso di fare del bene ha firmato la propria condanna - ha fatto sapere un dirigente della squadra di pallone dove il medico allenava i ragazzini -: il suo stato civile di single, la sua innata generosità e la sua proverbiale disponibilità con i ragazzi hanno alimentato i sospetti. Fino a quella denuncia che lo aveva devastato, ma che voleva combattere in tribunale».
[lor. pad.]

il manifesto 14.11.17
I civici contro i partiti: «Lista unitaria non ci sono le condizioni, ci fermiamo»
Sinistra/ Sconvocata l'assemblea. Rifondazione: noi avanti con lo stesso spirito. Fratoianni: sulle liste nessuna spartizione. Quelli del Brancaccio: non possiamo garantire il confronto democratico. Accuse a Prc, Mdp e Si
di Daniela Preziosi

«Non ci sono le condizioni minime di lealtà e serenità per garantirvi che l’assemblea non si trasformi in un campo di battaglia tra iscritti a diversi partiti». Tomaso Montanari, frontman dei civici che si sono autoconvocati lo scorso 18 giugno nel teatro romano del Brancaccio, cancella l’appuntamento del 18 novembre al cui ordine del giorno c’è l’adesione alla lista con Mdp, Si e Possibile. Tutto sbagliato, non se ne fa più niente. Con tante scuse. E in effetti di scuse ce ne vogliono tante: non solo per i tanti biglietti di treno e aereo dei militanti che vanno buttati.
LO STOP IN REALTÀ non è un fulmine a ciel sereno. L’ultima settimana è stata un precipitare di dissensi e malumori. Il 7 novembre Mdp e Sinistra italiana anticipano alla stampa un documento «di intenti» per la lista unitaria. A stilarlo ha contribuito anche Montanari. Che però non può annunciare l’adesione formale a nome dei suoi prima dell’assemblea. I tre partiti vanno avanti e convocano l’assemblea del 2 dicembre per lanciare la lista. Su Montanari e Anna Falcone, l’altra rappresentante del Brancaccio, piovono le critiche severe del Prc, questioni di merito e di metodo, come si usa dire a sinistra.
INTANTO A TORINO E A FIRENZE si celebrano assemblee tormentate. Montanari e Falcone si spiegano. Chat, telefonate, mailing list riservatissime. Si difendono (l’avvocata anche con un’intervista sul manifesto). Ma ancora sabato sera troppe cose non tornano: da una parte la ‘narrazione’ del percorso «dal basso», dall’altra le accuse di scarsa comunicazione e trasparenza. E quella di subalternità verso la Ditta Bersani&D’Alema, dopo le tante critiche ai governi blairisti e di centrosinistra. Per di più la democrazia partecipativa deve essere però organizzata: non è chiara ancora la ’base elettorale’ dell’assemblea, non si rende pubblico il numero di iscritti.
LUNEDÌ MATTINA i due decidono lo stop. Stop alla convergenza nella lista unitaria, obiettivo delle 98 assemblee svolte in tutta Italia. Lo storico dell’arte firma, da solo, un documento indignato. Nessuna autocritica, è tutta colpa dei partiti della sinistra, tutti: «Hanno deciso che non vogliono questa unione più vasta possibile», si sono scelti un leader dal vertice, cioè il presidente Grasso. E hanno deciso «una spartizione di delegati tra partiti», «un teatro che copre l’obiettivo reale: rieleggere la fetta più grande possibile degli attuali gruppi parlamentari». Ce n’è anche per il Prc: «Dopo aver sostanzialmente preso in ostaggio l’assemblea provinciale del Brancaccio a Torino, ha fatto capire di voler fare altrettanto con quella del 18 a Roma: ‘prendiamoci il Brancaccio’, si è letto sui social». E allora «un’assemblea senza più nulla da decidere sarebbe solo un rissoso palcoscenico offerto all’impeto autodistruttivo dell’ultimo partito rimasto». Insomma bisogna evitare che l’assemblea scelga per «una piccola lista di Rifondazione riverniciata di civismo», considerato un eventuale «tradimento» delle premesse del Brancaccio, Montanari scende «dall’autobus». Niente liste, semmai si continua un’associazione.
«ABBIAMO RICEVUTO accuse e pressioni inaccettabili. Le rigettiamo tutte, come persone libere, prima che come garanti di questo percorso», scrive Anna Falcone su facebook,e rivendica di aver stoppato i riti verticisti che già l’avevano scottata con la lista Ingroia nel 2013: «Se vi odiate continuate a farlo fuori da qui». Annuncia che le offerte di seggi non saranno accettate e smentisce divergenze con Montanari: «Non ci separiamo, andiamo avanti insieme con la nostra associazione».
I PARTITI MESSI SUL BANCO degli accusati evitano di far volare gli stracci, ma si difendono: «Non mi rassegno al fatto che non si continui un percorso che in larghissima parte abbiamo condiviso», dice Nicola Fratoianni, leader di Sinistra italiana, impegnato anche a smentire la spartizione delle liste. «Alle liste non stiamo ancora pensando. Abbiamo condiviso tutti i passaggi politici. Considero questa contrapposizione fra partiti e civici davvero anacronistica. Mi rivolgo a tutti i protagonisti del Brancaccio: vengano a contribuire all’assemblea del 2 dicembre». Maurizio Acerbo, segretario Prc, esprime amarezza per il triste finale della vicenda e se la prende con i tre partiti della lista: «Invece di investire sul Brancaccio, cioè la creazione di una lista unica a sinistra davvero innovativa, hanno preferito un accordo di vertice su un profilo ambiguo». Il Prc annuncia una lista «della sinistra antiliberista», «nello spirito del Brancaccio». Ma naturalmente non tutti i comunisti sono d’accordo: per Marco Ferrando, dei trozkisti del Pcl, il fallimento del Brancaccio «non è un incidente, ma la fine annunciata di un equivoco. Iscrivere alla sinistra che c’è D’Alema e Bersani, primi responsabili della distruzione della sinistra ha reso quel paradosso insostenibile». Massimo Torelli, dell’Altra Europa, associazione che pure aveva criticato i due, ora chiede «rispetto» per loro, e di non partecipare «allo scaricabarile o al tiro al bersaglio, abbiamo perso tutte e tutti».

Il Fatto 14.11.17
“Così non va, non cediamo ai nominati dalle segreterie”
Tomaso Montanari - Il leader dei Comitati per il No: “Hanno calato un leader dell’alto e pensano solo ai posti, è la fine del Brancaccio”
“Così non va, non cediamo ai nominati dalle segreterie”
di Luca De Carolis

“Io spero ancora in un ripensamento, che capiscano. E comunque non si aprirà l’ennesima guerra a sinistra: non faremo certe liste civiche autonome, questo lo garantisco”. Tomaso Montanari, professore di Storia dell’arte presso l’Università di Napoli, è uno dei motori di Alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza, la sigla che porta avanti l’esperienza dei Comitati per il no. Parla con tono amareggiato, anche se mischiato a un certo sollievo: “Sono a casa mia, in mezzo ai libri”. In mattinata lui e Anna Falcone, l’altro volto dei Comitati, hanno annullato l’assemblea del 18 novembre a Roma “perché rischia di trasformarsi in uno scontro tra partiti. In questo clima esasperato, l’organizzazione leggerissima su cui possiamo contare ci avrebbe impedito di garantire un andamento democratico e sicuro di questo incontro”. Tradotto, niente accordo a sinistra tra Comitati e partiti tradizionale.
Montanari, cosa è successo?
Succede che il percorso del Brancaccio (l’assemblea del 18 giugno scorso a Roma, da cui è partita l’operazione per tenere assieme i comitati con la sinistra fuori dal Pd, ndr) si interrompe qui: almeno per ora.
Perché? Siete proprio incompatibili?
I tre leader dei partiti fuori del Pd, Giuseppe Civati, Roberto Speranza e Nicola Fratoianni, hanno convocato un’assemblea per il 2 dicembre senza spiegarci mai il metodo con cui si sarebbe tenuta. E in questi giorni abbiamo capito perché: vogliono renderla una spartizione di posti tra partiti. E all’epoca del Rosatellum o dell’Italicum il nesso tra popolo, Parlamento e capi partito è quello cruciale. Specie per chi viene dalla battaglia referendaria.
Magari si poteva aspettare l’assemblea e poi valutare.
Il problema è di fondo. Noi non volevamo e non vogliamo rinunciare ai partiti, però intendevamo includerli in un progetto su base civica. Avevamo delle richieste precise, tra cui far scegliere candidatura e leader alle assemblee. E una serie di condizioni: tenere nelle liste almeno il 50 per cento di persone mai state in Parlamento, e il 50 per cento di donne. In più, avremmo proposto a una libera assemblea di non candidare chiunque avesse avuto incarichi di governo.
Cioè Bersani e D’Alema…
Si può fare politica anche senza candidarsi. Io ho sempre detto che non mi sarei presentato, e questa è anche la mia forza. Dopodiché a decidere chi includere nelle liste dovevano essere le assemblee territoriali.
Ma le vostre richieste sono finite nel nulla, a sentirla.
Noi volevamo un progetto che partisse dal basso, e invece i partiti hanno calato un leader dall’alto. Ma se ce l’hai già, che ti riunisci a fare?
Cioè il presidente del Senato Pietro Grasso.
Con ogni evidenza.
Obiezione: un leader riconoscibile è necessario. E poi, senza gente nota come Bersani come si prendono i voti?
Bisogna cambiare elettorato di riferimento, e smetterla di pensare solo agli elettori del Pd. I miei studenti D’Alema non lo voterebbero mai.
E uno sconosciuto sì?
Bisogna innanzitutto riportare alle urne gli astenuti: e loro li convinci con un progetto civico, convincendoli che la politica può cambiare la loro vita, e che non è una professione. Non serve un Pd bonsai, ma un nuovo progetto a sinistra. E bisogna puntare a un elettorato molto più largo.
E invece i partiti…
Vogliono fare una lista arcobaleno. Ma quel modello, con dentro anche Rifondazione comunista, è stato applicato alle Regionali in Sicilia con la candidatura di Claudio Fava, e hanno preso il 6 per cento. Non mi pare granché.
Una lista civica avrebbe preso di più?
Alle Comunali di Padova una lista formata così ha preso il 23 per cento.
Ma sul piano nazionale è un’altra cosa. Si rischia di morire di elitarismo.
Noi a difesa della Costituzione abbiamo raccolto 20 milioni di voti. Le pare elitario?
Non erano solo voti vostri.
Certo, dentro c’erano anche il M5S e la destra. Ma noi abbiamo portato a votare i 18enni, abbiamo mosso giovani e gente che non votava da anni. È quella la rotta.
Cioè rubare consensi ai 5Stelle?
Dobbiamo essere competitivi con loro. E comunque la sinistra deve imparare qualcosa dallo spirito originario del M5S, secondo cui non bisogna essere professionisti per fare politica. Bisognerebbe essere più umili. Io ricordo spesso che la Costituzione l’ha scritta un’assemblea di non professionisti. E forse è per questo che è così carica di futuro.
Ma in questi giorni cosa vi siete detti con i rappresentanti dei partiti?
Diciamo che ci hanno trattato come dilettanti incapaci.
Chi?
I grandi professionisti a tutti noti. Ma l’abbiamo presa come un complimento.
Gli strappi in politica si possono ricucire.
Io mi auguro davvero che possa accadere, spero che ci ripensino.
Altrimenti, non è che farete una lista per conto vostro?
Assolutamente no, basta con il frazionismo a sinistra. Con Renzi e Berlusconi che incombono, non starò certo a polemizzare con Fratoianni o Speranza. Potrei perfino votarli.
Anna Falcone ha scritto su Facebook che continuerete con la vostra associazione. Stavate per rompere?
No, sono state solo ore molto tese. Ma ora io ho scritto un documento. E continueremo a lavorare assieme.

Corriere 14.11.17
Falcone e Montanari si bloccano Niente raduno e documenti separati

È saltato l’appuntamento fissato per sabato all’Angelicum da «quelli del Brancaccio», l’area civica di Anna Falcone e Tomaso Montanari che il 18 giugno ricevette il mandato di promuovere «una lista unica» a sinistra del Pd. Ora, anche a causa di un forte dissidio con Rifondazione comunista (Prc), i due leader «civici» hanno congelato (con due relazioni distinte, però) il processo che avrebbe dovuto portare anche il loro movimento all’assemblea del 2 dicembre, con Mdp, Possibile e Si.

Repubblica 14.11.17
Mancava solo la scissione dei civici, eccola
Falcone e Montanari annullano la convention nazionale del Brancaccio e dicono no a Grasso e Bersani: “vecchi riti di partito”

ROMA. Scissione continua. Non bastasse la frattura tra il Pd e il resto della sinistra, ecco anche quella tra il resto della sinistra e i civici. A esplodere e staccarsi dal progetto della listone anti renziana è infatti il movimento di Anna Falcone e Tomaso Montanari. Quelli del Brancaccio, insomma, dal nome del teatro romano in cui si erano autoconvocati la prima volta per lanciare la proposta di un cartello elettorale di tutta l’area anti-dem. Ora però che quasi tutti i componenti di questo cartello sono sulla via dell’unificazione - Mdp, SI, Civati e forse Pisapia - a smarcarsi sono proprio loro, Falcone e Montanari.
L’annuncio arriva con un comunicato online in cui si avvertono compagni, amici e simpatizzanti che «l’assemblea nazionale del 18 novembre al teatro Brancaccio è annullata». Non problemi logistici e organizzativi, ma politici, perché la convention «in un simile clima esasperato rischia di trasformarsi in uno scontro tra partiti e rende ormai irraggiungibile la costruzione di una lista unica a sinistra».
Quindi, indietro tutta. Anche se Montanari, che posta un suo documento (cui seguirà oggi quello di Anna Falcone), scrive: «Il Brancaccio si ferma. Per ripartire ». Divisioni anche tra i due? Almeno questo no. Su Facebook Falcone chiarisce: «Per la gioia dei più io e Montanari non ci separiamo ma andiamo avanti insieme ». Insieme in un’associazione che si chiamerà “Democrazia e uguaglianza”. Si candideranno comunque con una loro lista? «Ridicolo - chiariscono per ora - pensare che abbiamo in mente le poltrone ».
La delusione è politica, l’analisi dura: si parla di spartizione e di vecchi riti. Montanari si scusa «con tutti coloro che non di rado con sacrificio hanno già acquistato il biglietto del treno o dell’aereo e con tutti i cittadini che sarebbero venuti a discutere la redazione finale di un progetto per il paese».
Il j’accuse non lascia spazio a ripensamenti. Dice Montanari: «Sento il dovere di denunciare pubblicamente che i vertici dei partiti della sinistra hanno deciso che non vogliono questa alleanza con chi sta fuori dal loro controllo». Ovvero lui e Falcone. E ancora: «I segretari di Mdp, Possibile e Sinistra italiana hanno scelto un leader e questo ha risolto tutti i problemi: nella migliore tradizione messianica italiana». Il leader al quale allude Montanari è Pietro Grasso, presidente del Senato, che ai civici di sinistra non piace proprio. «Stanno lanciando - attacca ancora Montanari - un’assemblea costruita con una spartizione di delegati dei partiti, con equilibri attentamente determinati».
Non si salva neppure Rifondazione comunista, sulla cui struttura organizzativa il movimento civico si era appoggiato: «Il partito che è stato lasciato fuori dall’accordo, Rifondazione comunista, ha reagito in modo identico ». E anche qui, parole dure: «Dopo avere preso in ostaggio l’assemblea provinciale del Brancaccio a Torino, Rifondazione ha fatto capire di volere fare altrettanto con quella del 18 a Roma». Perciò, niente convention. L’appello adesso è: «Costruire una sinistra dal basso, una coalizione sociale e civica». Non in tempo, forse, per il voto del 2018. ( g. c.)

Corriere 14.11.17
Il gioco del cerino
di Antonio Polito

Diciamoci la verità: non è solo colpa di Renzi lo stato pietoso dei rapporti a sinistra. Oggi ricordiamo quella di Veltroni come un’età dell’oro per l’unità del centrosinistra; ma anche dieci anni fa, agli albori del Pd, la sinistra radicale ruppe con il nuovo partito, andò da sola e disperse quasi due milioni di voti. Il Pd fece il suo massimo storico, 33,2%, e non servì a nulla. Né è solo colpa di Renzi se lo schieramento progressista parte indietro nella gara elettorale. Dalla nascita della Seconda Repubblica, nel 1994, il centrodestra è quasi sempre stato maggioranza nel Paese, anche quando ha perso perché si è disunito. La sinistra italiana, al suo meglio, rappresenta un terzo dell’elettorato (Berlinguer nel 1976, Veltroni nel 2008). Al suo peggio, un quarto (come è adesso il Pd nei sondaggi, o come fu per Bersani cinque anni fa). Sempre molto lontana dunque da quel 38-40% che nei sistemi bipolari può portare alla vittoria: figuriamoci ora che il sistema è tripolare, e bisogna fare i conti con un M5S di pari forza elettorale.
Si potrebbe insomma dire che il centrosinistra rischierebbe di perdere le prossime elezioni anche se fosse unito.
Gli appelli allo stare insieme, al «volemose bene» in nome della vittoria comune, sono perciò spesso puri artifici retorici. Così come l’apertura fatta ieri da Renzi agli scissionisti di Mdp, applaudita anche da molti avversari interni, non sembra destinata a produrre risultati concreti, e sa più di gioco del cerino pre-elettorale, per passare all’altro la responsabilità della rottura.
Non è dunque tutta colpa di Renzi. Ma certo Renzi ci ha messo del suo, in questi anni. Quando in un famoso fuorionda Delrio si lamentò del fatto che i renziani sembravano tutti felici della scissione a sinistra nella convinzione di avere così più seggi da spartirsi, aveva ragione. Il danno che quella rottura arrecò al Pd va infatti ben oltre i voti effettivi che Bersani e D’Alema si porteranno via (vedremo quanti sono); perché colpì al cuore la credibilità di un partito che era nato presentandosi come un contenitore di tutto il centrosinistra, e che invece finisce la legislatura con i due presidenti delle Camere già in campagna elettorale con lo slogan «mai con il Pd».
Con tutto il rispetto per Emma Bonino, per gli alfaniani, e perfino per Pisapia, i tre forni evocati ieri dal segretario del Pd per metter su una coalizione, difficilmente basteranno a ricostruire ciò che è andato distrutto. Ma fin qui siamo alla tattica. Renzi se ne potrebbe pure infischiare se avesse ancora la spinta propulsiva degli inizi, o quella del Veltroni di dieci anni fa. E la ragione per cui non ce l’ha più non è tanto il suo carattere o la sua presunta antipatia (quattro anni fa era simpaticissimo a tutti proprio per il suo carattere); sta piuttosto nel fatto che il Renzi di oggi ha già dato la sua prova di governo, anche lunga, guida un partito che è stato al potere per l’intera legislatura, e dunque non può più promettere un nuovo inizio come se niente fosse. Ancora ieri, mentre in Direzione pronunciava la sua «apertura» a sinistra, il leader era giustamente preoccupato di aggiungere un attimo dopo: «ma senza abiure della nostra opera di governo». Il guaio è che quell’opera è oggi giudicata male dall’elettorato esterno al Pd anche al di là dei suoi demeriti, forse proprio per l’eccesso di aspettative che aveva creato. Un solo esempio: il Jobs act è stata una buona legge per rinnovare il mercato del lavoro, forse la migliore riforma del quinquennio; ma se la presenti come il toccasana che crea occupazione stabile e poi il precariato giovanile torna appena finiscono gli incentivi, ti si ritorce contro, e toglie credibilità anche alle altre riforme che annunci, in una specie di spirale che si è avvitata fino alla sconfitta referendaria.
Renzi avverte questo problema. E infatti da qualche mese sembra tentato di chiedere voti non come il continuatore dell’opera sua e di quella di Gentiloni; ma come il «nuovo» che torna, come l’uomo che riparte daccapo, e perciò prende in prestito temi classici del populismo, per esempio l’attacco all’Europa o a Bankitalia. Ma proprio mentre lui insegue i Cinquestelle, accade che il centrodestra risorge dalla sue ceneri in una versione «governista» che assomiglia sempre di più a Tajani, a Zaia, a Maroni, a Musumeci, come la forza che può fermare il populismo grillino. Il tripolarismo è un ambiente già di per sé molto ostile per un partito riformista; se poi lo stringe come in una morsa, da destra e da sinistra, rischia di stritolarlo.
Forse è già tardi per riparare. Ma qualsiasi tentativo di rilanciare il centrosinistra non può che passare da una rilettura onesta e critica degli anni del governo, finora da Renzi sempre rifiutata, perfino dopo la disfatta referendaria. Non un’abiura, certo; ma un discorso di verità, dopo tanto spin.

Corriere 14.11.17
Un dialogo impossibile che anticipa la resa dei conti
di Massimo Franco

Le sinistre rimarranno divise almeno fino alle elezioni politiche. E forse anche dopo. Il modo in cui il Pd ha rivendicato gli ultimi tre anni e mezzo conferma la volontà di andare avanti come prima, sotto la guida di Matteo Renzi. Dalla Direzione di ieri è arrivata solo la disponibilità di principio ad allargare la coalizione di centrosinistra, «senza veti né abiure». D’altronde, non poteva andare in modo diverso. Renzi non era disposto a un’autocritica radicale, mentre l’area che si sta compattando intorno al presidente del Senato, Pietro Grasso, voleva qualcosa di simile.
Il risultato è una divergenza che prepara mesi di scontro; e promette di acuire la tentazione dell’astensionismo a sinistra. D’altronde, al vertice dem premeva compattare la nomenklatura e non dare un’immagine di incertezza. Sotto questo aspetto, l’operazione è riuscita. Voleva anche dimostrare di non chiudersi a riccio. E, almeno a parole, il risultato Renzi lo ha ottenuto, viste le reazioni di ministri come Dario Franceschini e governatori come Michele Emiliano, guardati in precedenza come critici. È come se avesse comunicato ad alleati e avversari: nessuna autocritica, partiamo da un bilancio positivo.
È questo a rendere velleitario un dialogo già difficile. Il punto di partenza reciproco è troppo distante. Le prossime elezioni non serviranno dunque a misurare la consistenza di una sinistra unita. Saranno invece l’occasione di una conta, con lo spettro dell’opposizione: sebbene il Pd si senta ancora in grado di raggiungere un terzo dei voti; e ritenga di farcela creando «liste d’appoggio» con i centristi da una parte, e i radicali di Emma Bonino. È l’unico modo per sperare che il sistema elettorale non gli si ritorca contro.
Renzi vuole costruire un simulacro di coalizione con partiti che non abbiano né la voglia né la forza di contestarlo. Il Pd non può subire una lettura degli anni renziani che gli ricordi la sconfitta referendaria del 4 dicembre; quelle alle elezioni locali degli ultimi due anni; e alcuni provvedimenti del suo governo, che ora l’«altra sinistra» considera sciagurati. Di fatto, significherebbe andare alle urne con una leadership più delegittimata di quanto già non sia. La «porta aperta» indicata a quanti se ne sono andati con la scissione, è di un partito convinto tuttora di dare le carte.
Non è così da tempo, e il ministro Andrea Orlando l’ha ricordato ruvidamente. Ma la debolezza degli avversari è di avere assecondato a lungo l’attuale segreteria; e di opporle un’identità che, almeno a guardare il voto in Sicilia, non ha riportato i delusi ai seggi. La sconfitta accomuna e non divide le sinistre: se la contendono renziani e antirenziani. Il pericolo della rimozione non riguarda soltanto i dem ma anche chi li invita a un’autocritica impossibile. Il Pd è Renzi, e l’assenza di voti contrari ieri in Direzione lo conferma.

Corriere 14.11.17
Bersani chiude la porta: troppo tardi per l’intesa anche se Matteo non c’è
«I padri nobili? Alla buon’ora, spieghino le sconfitte pd»
di Monica Guerzoni

REGGIO CALABRIA Nella sala stracolma del consiglio regionale, dove i militanti tra loro si chiamano «compagno» dai tempi del Pci, Pier Luigi Bersani è per tutti «il segretario». E quando finisce il suo intervento — un fiume di no a Renzi contenuto in un foglietto piccolo piccolo — il fondatore di Mdp ha ancora voglia di parlare: «I padri nobili? Non so se sono abbastanza nobile anche io per dire la mia». Per Prodi l’Italia è nel baratro, Veltroni invoca unità... «Sono benvenuti tutti gli appelli, ma i padri nobili che li fanno, alla buon’ora, per favore rispondano a questa domanda: come mai da tre anni il Pd le ha perse tutte? Non puoi esorcizzarla pensando che alle elezioni succede un’altra cosa, no. È colpa delle politiche sbagliate. Il centrosinistra è stato raso a zero in tre anni, nella mia provincia avevamo piu Comuni ai tempi di Scelba».
Per il leader di Mdp il nodo è questo. È che una coalizione con tutti dentro, ma senza cambiare niente dei mille giorni di Renzi, sarebbe un inganno: «Diciamo che il Jobs act va bene, che la legge elettorale va bene? I nostri che si sono rifugiati nel bosco per non votare il Pd ne verrebbero fuori col bastone». Ridono tutti, ma Bersani è serissimo: «Un accordo nei collegi se Renzi si fa da parte? Non ne ho mai fatto una questione di persone, il Pd sceglie il candidato premier che vuole, il problema sono le politiche. Non si può continuare a dire che tutto va bene, lasciando le disuguaglianze alla penetrazione delle destre. La questione è questa, non i giochetti o i marchingegni elettorali. Se ci ammucchiamo senza cambiare nulla, non ne trovano uno che va a votare quella roba lì».
Tra Catanzaro e Reggio è venuto per accogliere in Mdp 111 dem pentiti, tra amministratori locali e segretari di circolo. Quanto a lui, non tornerà indietro: «Il tempo è finito, non c’è più modo di cincischiare. Noi stiamo larghi, ma tiriamo dritto. Non vogliamo la cosa rossa. Basta che non si sputi sul rosso, sennò mi inalbero». Avanti senza centrosinistra, senza Pd? «Vorrei che ammettessero gli errori, ma non credo. L’unità piace a tutti, però le chiacchiere stanno a zero, servono i fatti. Noi vogliamo discutere col Pd renziano, purché si cambi registro». Pisapia ha fatto un passo di lato? «Chiedete a lui, non fatemi parlare sulle battute del tango. Noi andiamo avanti e se qualcuno intende parlare con noi saremo contentissimi».
Le sue condizioni per un (improbabile) accordo con il Pd, Bersani non si stanca di ripeterle: «Lavoro stabile e ben retribuito, togliendo dal Jobs act un po’ di quella robaccia che ha portato al record storico di precariato». E poi welfare universalistico e un Fisco fedele e progressivo: «Togliete i superticket, altro che coalizioni e fumisterie del cavolo». E ancora, in bersanese: «Con 200 miliardi di evasione se ne potrebbero tirar su una ventina, senza nemmeno far strillare le galline».
Disegna un’Italia che non tiene il passo dell’Europa e spiega la crescita di CasaPound con la resa del centrosinistra di fronte all’esclusione sociale. Un altro dei suoi tormenti è la legge elettorale: «Non vorrei darvi una pista da Sherlock Holmes, ma l’hanno fatta apposta per tirare la volata alla destra». Renzi pensa ancora alle larghe intese con Berlusconi? «Dimmi con chi la fai e ti dirò con chi vai. E hanno pure sbagliato i calcoli, perché Verdini studia e i conti li sa fare, mentre questi qua non studiano mica. Ecco la drammatica verità». Come finisce? «Finisce che dobbiamo tenere viva la possibilità di richiamare una sinistra di governo. Non si pensi che questa gente qui va a votare Pd. No, si sono rotti e non è Bersani che può portarli lì». Nei collegi ognuno per sé? «I collegi portano i voti al proporzionale e non so quanto sia costituzionale. Quella legge è fatta per dare addosso a noi e ai grillini». Finisce con un appello a una campagna «a mani nude», perché «non è il tempo di pettinar le bambole».

Corriere 14.11.17
Il confronto
Bonino lo vede: fate l’impossibile per lo ius soli

«Abbiamo chiesto a Renzi di fare l’impossibile per approvare ius soli e testamento biologico». Lo ha detto Riccardo Magi, segretario di Radicali Italiani, ieri al termine
dell’incontro al Nazareno con il segretario del Pd, a cui hanno partecipato anche Emma Bonino e Benedetto Della Vedova. «Sull’immigrazione abbiamo ribadito le nostre posizioni - ha concluso -: abbiamo raccolto 90 mila firme per una legge popolare che superi le parti peggiori della Bossi-Fini».

Il Fatto 14.11.17
“Almeno per una volta evitiamo di dividerci”
Nicola Fratoianni - La replica al Brancaccio: “Andiamo avanti, non c’è nessuna trattativa sui seggi”
“Almeno per una volta evitiamo di dividerci”
intervista di Tommaso Rodano

Nicola Fratoianni è il segretario di Sinistra italiana, uno dei tre 40enni (con Roberto Speranza e Pippo Civati) che hanno lanciato la lista unica di sinistra. Non ne faranno parte, malgrado l’iniziale adesione, Anna Falcone e Tomaso Montanari. “Li stimo molto e rispetto il loro percorso – dice Fratoianni – che abbiamo contribuito a costruire insieme in questi mesi. Ma non capisco le argomentazioni che hanno utilizzato per annullare la loro assemblea. Io non mi arrendo, penso ci siano ancora le condizioni per un campo comune, visto che condividiamo la stessa prospettiva politica”.
Per Falcone e Montanari, in sostanza, volete distribuire le candidature col manuale Cencelli: 40% Mdp, 40% Si, 20% Possibile. Non è vero?
Insieme a Falcone e Montanari pochi giorni fa abbiamo firmato un testo chiaro, netto e condiviso: un documento politico che è l’impianto su cui costruire il profilo della lista unitaria. La discussione sulle candidature invece non è nemmeno cominciata.
Ma in concreto, come le scriverete le liste?
Abbiamo scelto di convocare un appuntamento popolare e democratico: l’assemblea nazionale del 2 dicembre. E di farlo attraverso un percorso aperto a tutti: 100 assemblee in tutte le province del Paese. Per partecipare basta condividere il documento politico che abbiamo scritto insieme.
Chi elegge i delegati per l’assemblea del 2 dicembre?
Sono selezionati nelle assemblee provinciali. Ripeto: partecipa chiunque voglia farlo. Sono convinto che il Brancaccio sappia far pesare la sua voce nelle assemblee territoriali. Ci sono tutte le condizioni per un processo innovativo e trasparente.
Falcone e Montanari evocano la lista Ingroia; parlano di un’operazione tutta interna ai partiti.
A me questa contrapposizione tra partiti e società civile pare un po’ vecchia. Nel percorso del Brancaccio c’erano tanti partiti, compresa Sinistra italiana. E dentro i partiti ci sono tante persone che provengono dalle lotte sociali e dai territori. I partiti da soli non bastano, ma non si possono nemmeno demonizzare.
Si può costruire una sinistra nuova con i vecchi partiti? Con Bersani e D’Alema?
Non voglio che la nostra lista rappresenti il museo della sinistra italiana: voglio liste col massimo grado di innovazione possibile. Ma l’innovazione non si misura sulle carte d’identità o sulle biografie. Si misura sulla qualità della proposta politica. Insomma: la sinistra viene presa in giro perché si divide sempre. Per una volta che riusciamo a trovare una mediazione alta, non ci va bene nemmeno questa?
Vi siete spaccati sulla leadership di Pietro Grasso?
No. Al di là della prammatica istituzionale, Grasso deciderà cosa fare. La sua figura potrebbe dare un contributo importante. Su di lui non ho registrato dissensi radicali.
Dietro l’annullamento del Brancaccio c’è Rifondazione comunista? Sono loro a ostacolare la lista unica?
Rifondazione non sta aiutando a risolvere i problemi. Nessuno può costruire una prova muscolare sopra il Brancaccio, piegare un’assemblea a cui hanno partecipato tante persone e tanti partiti e trasformarla in un campo di battaglia in cui fare la conta dei voti. Ma anche per loro la porta è aperta: a meno che non preferiscano due liste separate, si misurino con noi sui contenuti politici.
Renzi ha riaperto a una coalizione di centrosinistra.
Parla di coalizione e rivendica Jobs Act e Buona scuola. La coalizione non esiste, proprio perché ci sono quelle politiche. Sono il vero ostacolo a una proposta di cambiamento.

Il Fatto 14.11.17
Alleanza e visioni di “Repubblica”

Com’è vario il dibattito nel centrosinistra visto da Repubblica. In principio fu Giuliano Pisapia, quello che doveva essere l’ago della bilancia per fare un’alleanza col Pd di Matteo Renzi. E ieri raccontava di un litigio tra il presidente del Senato, Pietro Grasso e quella della Camera, Laura Boldrini. L’intento è sempre quello: se Grasso non va verso il Pd, Boldrini da Grasso si deve distinguere. Sempre per andare verso i Democratici. Non solo. Domenica apriva a tutta pagina raccontando di una presunta trattativa tra Pier Luigi Bersani e Matteo Renzi. Peccato che loro non ne sapevano quasi niente. O almeno la reputassero una strada ormai sbarrata.
La settimana scorsa il quotidiano di De Benedetti ha pure provato a tirare in ballo Romano Prodi. Il Professore veniva descritto come pronto ormai a tirarsi fuori dalla contesa. Forse si sperava in un sussulto di Renzi, il tentativo di rilanciare in qualche modo. Niente è arrivato, se non la parola “rispetto”. Mentre scriviamo sorge spontanea la domanda: quale sarà domani (oggi, ndr) il titolo di Repubblica: forse ci racconterà di qualche altra trattativa che immediatamente fa sorgere una magnifica coalizione?

La Stampa 14.11.17
Mdp non si fida e prepara le liste
“Pronti i candidati per tutta l’Italia”
I fuoriusciti: “Dai dem nessun cambio sui contenuti, il tempo è scaduto” E anche Tabacci, fedelissimo di Pisapia, incalza: serve un nuovo leader
di Andrea Carugati

Sembra il replay, in piccolo, dell’assemblea Pd di primavera in cui si consumò la scissione. Solo che stavolta è un divorzio freddo, senza pathos. Dentro Mdp nessuno si aspettava novità dalla relazione di Renzi. E così è stato, a loro giudizio. La novità, rispetto a nove mesi fa, è che stavolta i bersaniani parlano all’unisono con Sinistra italiana di Vendola e Fratoianni, e con Civati. I pensieri sono tutti al 2 dicembre, all’assemblea con 1500 delegati a Roma che lancerà la lista di sinistra con la guida di Pietro Grasso. Ci saranno candidati in tutti i collegi uninominali, liste in tutta Italia. Un lavoro durissimo. «Siamo a mani nude, ma saremo gli unici alle elezioni con una proposta nuova», spiega Bersani ai compagni che lo ascoltano in Calabria.
Il tempo per altre trattative con Renzi è finito. Il segretario Pd è già in campagna elettorale. E così la sinistra. «Se il Pd ci inviterà a un incontro andremo. Non abbiamo paura del confronto. Ribadiremo con forza le nostre ragioni», spiega in serata il bersaniano Alfredo D’Attorre. Ma sarà un passaggio di «pura cortesia». Un modo per non restare con il cerino in mano. Ieri non c’è stato neppure bisogno di concordare la linea con i nuovi partner: da Nicola Fratoianni fino a Bersani il giudizio è netto e concorde: «L’offerta di Renzi non è credibile». Davide Zoggia, mentre Renzi ha appena finito di parlare, scrive su Facebook: «Non fategli fare discorsi che non si sente di fare perché si capisce che non ci crede».
«Il nodo è politico. Noi abbiamo un pensiero, non siamo quelli del rancore», insiste Bersani. «Chiamare la coalizione larga, che tutti ameremmo avere, dicendo che abbiamo fatto tutto bene, non sta in piedi. Non siamo noi a dirlo, ma milioni di elettori di centrosinistra. Davvero pensiamo che il Jobs Act abbia funzionato? Vogliamo chiederlo a qualche milionata di giovani? Lo stesso vale per scuola e fisco», avverte l’ex leader Pd. Cita molti casi in cui le sinistre sono state unite ma hanno perso, dalle elezioni a Genova, La Spezia, Livorno, Monfalcone. «Per vincere bisogna cambiare radicalmente le proposte». «Nessun ravvedimento sull’’agenda», concorda Roberto Speranza. «I ripetuti segnali arrivati dagli elettori, da ultimo in Sicilia, non sono stati colti per nulla», gli fa eco Arturo Scotto. «Un disco rotto, alleanza impossibile», taglia corto il segretario di Sinistra italiana Nicola Fratoianni. Altrettanto duro Pippo Civati: «Il disperato tentativo di fare una coalizione ai tempi supplementari non è credibile».
L’unica porta ancora semichiusa è quella del Campo progressista di Giuliano Pisapia. Ma la prima reazione al discorso del segretario Pd è fredda: «Avevamo chiesto unità e discontinuità, ma non c’è stata rispetto alle scelte di questi anni», spiega una fonte vicina all’ex sindaco di Milano. Dentro Campo progressista (l’unico potenziale partner che Renzi pensa di poter imbarcare) si fa strada la linea dura di Laura Boldrini, che già domenica aveva spiegato che «non ci sono le condizioni per un’alleanza coi dem». E dunque lo scenario più probabile è un avvicinamento a Pietro Grasso e alla lista di sinistra. È probabile che anche l’ex sindaco si siederà al tavolo con Piero Fassino, per un estremo tentativo di trovare un’intesa. Ma anche dalle sue parti nessuno ci crede più. Persino Bruno Tabacci, considerato uno dei più morbidi, alza l’asticella: «Bisogna affidare la regia ad una personalità riconosciuta da tutti, come Prodi…». Ipotesi per ora inverosimile. Mentre si fa strada l’incubo per gli ex Ds rimasti con Renzi: un listone rosso da Fratoianni fino a Grasso, con dentro anche Pisapia e Boldrini. Un avversario che rischia di fare male.

La Stampa 14.11.14
Se la sinistra si sgretola in quattro
di Fabio Martini

Sarà l’irresistibile sirena del proporzionale. Sarà che un certo narcisismo in politica è il male di stagione. Sta di fatto che nell’area a sinistra del Pd si è consumata una micro-frattura: il professor Tomaso Montanari e Anna Falcone hanno preso le distanze dalla Lista Grasso (Mdp di Bersani, Sinistra italiana di Fratoianni, Possibile di Civati) perché «le scelte di vertice dei partiti», «rendono irraggiungibile» «una lista unica a sinistra». In attesa di «un documento di Tomaso e in seguito uno di Anna», non è dato sapere se questi movimenti, assieme a Rifondazione, si presenteranno con una Lista autonoma. In quel caso, a sinistra le offerte potrebbero essere quattro: oltre alle due già citate e al Pd, ci potrebbe essere il cartello Bonino-Pisapia. Nel 2013 c’erano Pd e Sel. Con quattro liste sarebbe garantito il raddoppio.

La Stampa 14.11.17
Ma nei collegi la sconfitta è vicina
di Marcello Sorgi

A Renzi che nella direzione Pd di ieri s’è sforzato di avanzare una proposta unitaria, nel tentativo, affidato all’ ultimo segretario del Pds Fassino, di rimettere insieme i cocci della rottura con gli scissionisti confluiti in Mdp, Bersani e i suoi, e dalla sinistra-sinistra Fratoianni, hanno subito risposto di no. Può darsi che si tratti di tattica, nella convinzione che solo un’intesa dell’ultima ora, un momento prima della presentazione delle liste elettorali, possa essere accettata da un elettorato di sinistra che i fuorusciti dal partito continuano a descrivere antirenziano e deciso a imporre una revisione delle riforme del “governo dei mille giorni”, dal Jobs Act alla “buona scuola”, che Renzi invece dalla tribuna del Nazareno ha difeso. Ma al momento, anche dopo che la minoranza interna ha in parte riconosciuto - con l’approvazione di Emiliano e l’astensione di Orlando che s’è astenuto - che il segretario ha fatto uno sforzo per tornare sui propri passi, le posizioni restano lontane. E se non si troverà il modo di riavvicinarle, la sconfitta del centrosinistra, nei collegi uninominali, ma non solo, è sicura.
All’interno del Pd e soprattutto tra i renziani, sottovoce, c’è chi si chiede se in conclusione non sia questo il vero obiettivo degli scissionisti e dei vari spezzoni della sinistra radicale in via di ricomposizione. La scelta di due leader come personaggi-immagine della campagna elettorale - il presidente del Senato Grasso per Mdp e quella della Camera Boldrini per Pisapia e Campo progressista - ha rigalvanizzato le truppe che si avviano a una campagna elettorale da giocare tutta in chiave antirenziana, con l’obiettivo di recuperare quella parte di elettorato deluso finito nell’astensione. Ma alla base di questa scelta c’è la convinzione che una trattativa sulle liste con il leader Pd non porterebbe a un risultato molto diverso da quello che la sinistra può cercare di guadagnarsi da sola nelle urne.
L’argomento della sconfitta a cui di sicuro andrebbero incontro i due tronconi separati della ex-coalizione, e dell’aiuto che le divisioni darebbero al centrodestra, inaspettatamente candidato alla vittoria, non fanno presa tra i bersanian-dalemiani. Al dunque, ragionano, non è detto che se vince la destra con questa legge avrà la maggioranza in Parlamento. Se così sarà, nascerà un governicchio destinato a reggere una legislatura breve, che magari si concluderà dopo un anno e mezzo con l’avvento di un governo tecnico, guidato da Draghi e incaricato di metter a posto i conti prima di riportare il Paese al voto.

Repubblica 14.11.17
I Democratici e la Sinistra
di Eugenio Scalfari

SE DOBBIAMO dare un giudizio su quanto è avvenuto nella direzione del Pd convocata dal segretario di quel partito, mi avvarrò per cominciare di un sintetico scritto di de Maistre che nel suo libro Mélanges, considerato un capolavoro da Baudelaire, dice: «La ragione non genera che dispute, mentre l’uomo per comportarsi bene nel mondo non ha bisogno di problemi bensì di ferme credenze».
Applico questa massima a quanto è accaduto nella direzione del Pd: il discorso di Renzi l’ha seguita e le sue «ferme credenze» sono state queste.
1. Nella situazione attuale occorre che tutta la sinistra sia unita e chi è uscito dal partito rientri.
2. Non parliamo di quanto è accaduto negli anni precedenti.
ALLORA il partito era unito e ciascuno democraticamente esponeva le sue opinioni e i suoi dissensi; la maggioranza sosteneva il presidente del Consiglio e capo del partito e la minoranza esercitava un compito importante e utile, del quale ho sempre tenuto conto nei limiti del possibile.
3. Se in un momento difficile i dirigenti ritornano, compiranno un atto molto utile non solo per il partito ma per l’Italia e anche perfino per l’Europa.
4. Dal loro rientro in poi discuteremo insieme la linea futura, la campagna elettorale che condurremo nei prossimi mesi, quello che nel frattempo faremo e diremo.
5. Non ci chiedano però l’abiura rispetto a quello che abbiamo fatto finora. Avremo pur compiuto qualche errore perché la perfezione non esiste nel mondo, ma sono stati errori marginali. Comunque d’ora in avanti discuteremo la linea e l’attueremo insieme.
La notizia che fuori discorso Renzi ha dato è una sua dimostrazione di buona fede e di forte desiderio che il rientro dei dissidenti avvenga: è stato incaricato Piero Fassino di trattare con loro le modalità del rientro e il merito dei temi che saranno discussi e sui quali i rientrati avranno il loro peso indipendentemente dal loro numero. Fassino è una personalità primaria: a suo tempo fu segretario del partito che allora si chiamava Ds, democratici di sinistra; poi fu un ottimo sindaco di Torino e ora è una delle personalità più attive del Pd. Affidare a lui la trattativa coi dissidenti è il segnale più evidente della serietà del tentativo e delle garanzie che sono previste. Accetteranno? Capiscono l’importanza d’un partito che a quel punto andrebbe da Bersani a Franceschini, da Pisapia a Minniti, da D’Alema a Orlando? E tengono conto dell’appello di Veltroni alla riunificazione? Walter è il padre del Pd e ancora nelle ultime ore ha fatto un pubblico appello all’unità. Se c’è una voce che merita d’essere ascoltata è la sua. È pessimista che il suo appello sia accolto ed è anche critico verso certi comportamenti renziani, ma conviene sul fatto che il partito debba essere di nuovo unito e riscrivere tutta la carta di rifondazione d’una sinistra moderna e antipopulista (perché è il populismo il vero nemico in Italia e in Europa).
Voglio ora discutere un punto sul quale l’errore della dissidenza di sinistra si manifestò pubblicamente: il referendum costituzionale che mirava a costruire un assetto sostanzialmente monocamerale. L’affluenza fu altissima e la votazione dei No fu del 60 per cento di fronte al 40 dei Sì. I dissidenti democratici, che ancora non erano usciti dal partito, votarono No o si astennero dando pubblica notizia della loro astensione.
Ho ricordato varie volte questo aspetto della questione: il grosso dei No fu votato dal populismo ispirato dai grillini, dalla Lega di Salvini e dai Fratelli d’Italia.
Mi chiedo: come è possibile che la sinistra- sinistra non sapesse che tutti i Paesi europei sono monocamerali? E perché l’Italia ha rifiutato quel sistema, tanto più che l’intero mondo occidentale sta attraversando un’immensa crisi economica e sociale e anche politica che rende il monocameralismo assolutamente necessario in una situazione dove le decisioni da parte del governo e del Parlamento debbono essere realizzate con la massima velocità?
Gli uomini democratici debbono ricostruire la sinistra. Stiamo andando incontro all’ingovernabilità. Le alleanze saranno indispensabili dalla sinistra al centro. E voi, dissidenti, volete che il Pd non potendo avere il vostro appoggio concentri con scarso successo la sua ricerca di sostegno al centro, oppure capite che una sinistra forte e compatta può ottenere dal centro ulteriori appoggi opportuni ma non indispensabili?
Mi sembra assolutamente elementare quel poco che qui ho scritto, come sono altrettanto consapevole dei difetti caratteriali di Renzi, che in questo caso sembra però averli superati. L’appello di Veltroni e l’incarico a Fassino vi sembrano poca cosa? Riflettete e poi decidete. Guardate a Cuperlo: rappresenta esattamente quello che dovete fare nella storia della democrazia italiana.
Debbo ora fare un’ultima osservazione critica. Mi dispiace molto, anzi moltissimo perché riguarda due persone con le quali ho da tempo rapporti di grande amicizia. Si tratta del presidente del Senato, Grasso, e della presidente della Camera, Boldrini. Grasso si sta proponendo come il nuovo leader della sinistra-sinistra; Laura Boldrini è sulla medesima posizione: non capisco bene come risolveranno il problema di presiedere in due un partito per ora fatto di schegge che unite insieme arrivano a stento a superare la soglia prevista per l’ingresso nelle Camere. Ma la mia osservazione riguarda un altro punto della questione: i due presidenti delle Camere sono ora impegnati in una delicatissima azione politica e si oppongono entrambi alla riunificazione che si può fare soltanto a condizione dell’abiura da parte dell’attuale segretario del Pd. La questione che li riguarda è però che essi resteranno per altri sei mesi se non anche di più presidenti delle Camere. Non sentono che un presidente del Parlamento non può e non deve spendere gran parte del suo tempo diventando leader d’un partito, grande o piccolo che sia? E si preoccupano di sapere quale sia il giudizio che di questa loro situazione dà l’opinione pubblica?
Personalmente entrai in Parlamento quarant’anni fa e naturalmente mi dimisi dal giornale che dirigevo ma ho sempre dichiarato, quando si votava su una qualunque questione, che io non mi sarei conformato al vincolo di mandato e avrei votato solo secondo coscienza come il mio partito o diversamente da esso. Se fossi parlamentare in questa situazione mi alzerei all’inizio di ogni seduta dichiarando di uscire dall’aula per non rientrarvi fino al giorno dopo perché la presidenza potrebbe essere indotta a comportamenti dettati dalla sua leadership di un partito.
La verità è che se vogliono far politica in prima persona debbono lasciare le cariche che ora stanno ricoprendo: chi presiede un’assemblea parlamentare deve essere assolutamente neutrale. Loro pensano di esserlo ed è una buona intenzione ma se ci fosse un contrasto politico non resisterebbero. Perciò prima si dimettono e meglio è.

Repubblica 14.11.17
A chi resta in mano il cerino del Nazareno
di Stefano Folli

NEGLI anni migliori della Prima Repubblica i politici avevano una qualità: conoscevano in genere l’arte della retorica e sapevano come infiocchettare i loro discorsi, così che anche le banalità, i tatticismi e l’assoluta assenza di novità sembravano avere un lato suggestivo, qualcosa di inedito. Nella stagione attuale, invece, non ci si preoccupa dei dettagli.
IL LEADER dice in fretta quello che deve dire, comunica lo schema politico da seguire e poi lascia che il dibattito si sviluppi e si concluda nel più breve tempo possibile, specie quando c’è la partita della nazionale in televisione.
Così è andata ieri pomeriggio con la Direzione del Pd. Tutto secondo la sceneggiatura prevista. L’apertura ai possibili alleati di centro e di sinistra “senza veti né paletti” (come dire: vale anche per i bersaniani secessionisti). L’implicita ammissione che il Pd non può far tutto da solo. Di conseguenza, l’appello all’unità “contro le destre e i populismi” nel solco già aperto da Veltroni. La difesa dei risultati ottenuti nei famosi mille giorni del governo Renzi, ma senza troppa iattanza e con l’ammissione che molto resta da fare. L’incarico a un esponente storico (Piero Fassino) di avviare le trattative, anche correggendo qualcosa nella legge di stabilità. Nessuna esplicita e convincente investitura di Gentiloni come premier anche nella prossima legislatura.
Tutto senza fronzoli: semplice e veloce, forse troppo. Lo scopo è triplice. Primo, mantenere compatto il Pd, comprese le correnti di Franceschini, Orlando ed Emiliano: risultato di fatto raggiunto, benché il ministro della Giustizia si sia astenuto con i suoi. Secondo, coinvolgere gli alleati possibili, vale a dire i centristi di Alfano (e oggi anche Casini), nonché i laici di Emma Bonino e Benedetto Della Vedova e naturalmente la sinistra ragionevole di Giuliano Pisapia. Terzo, isolare l’alleato impossibile, ossia il gruppo Bersani- D’Alema, cercando di indebolirlo e soprattutto di lasciargli in mano il cerino del “no” definitivo. In modo che si possa poi usare contro di esso l’argomento del “voto utile” (vedete che rifiutano l’unità e vogliono impedire al Pd di sconfiggere Berlusconi e Salvini?).
Sotto questo aspetto la Direzione non ha offerto alcuna novità. Sia i temi sia le modalità erano stati anticipati più volte da Renzi. L’ammissione che un uomo solo al comando non è sufficiente risale addirittura al periodo successivo al referendum del 4 dicembre, quando Renzi si era ritirato per due o tre settimane nella sua casa di Pontassieve. Gli unici nuovi elementi derivano dalla legge elettorale, che rende opportuna la ricerca di qualche alleato, e dalla sconfitta in Sicilia, che ha accentuato la sensazione di isolamento del Pd e del suo leader.
Per il resto, resta da capire in che termini può realizzarsi un eventuale accorpamento con gli europeisti di Della Vedova-Bonino e i “progressisti” di Pisapia. Un conto sarebbe un’intesa un po’ alla spicciolata, senza un preciso impegno sul programma, e un altro sarebbe un accordo più ambizioso come quello che sia Pisapia sia Emma Bonino vorrebbero. Un accordo capace di cambiare in parte il profilo del centrosinistra sui temi sociali e sui problemi legati all’integrazione degli immigrati. La seconda opzione avrebbe in sé un’eco — solo un’eco — dell’antico Ulivo prodiano. Non a caso qualcuno vorrebbe che fosse un esterno al Pd, magari lo stesso Prodi, a gestire la definizione e la messa in opera di questa alleanza. Sarebbe un modo per innalzarne il livello, andando oltre il “renzismo”. Ma non sembra che esistano le condizioni. Renzi offre, sì, un’alleanza, ma sotto il controllo stretto del Nazareno. E infatti il negoziato è affidato a una figura autorevole come Fassino, oggi molto vicino alla segreteria.
Quanto ai bersaniani, come pure a Fratoianni e Civati, il loro problema oggi non è aderire a un’intesa irrealistica con Renzi, quanto evitare di essere marginali come una “cosa rossa” di nostalgici. Il modesto risultato siciliano di Fava non è un segnale incoraggiante. La leadership di Grasso, discutibile per come ci si arriva, serve proprio a questo: a stemperare il rosso antico e stabilire un avamposto in grado di dare qualche dispiacere ai renziani. I prossimi mesi diranno chi ha più filo da tessere.

Repubblica 14.11.17
La mediazione di Fassino per il dialogo: sentirò tutti uno a uno. Gentiloni benedice la spinta di Renzi all’unità
Le due sinistre
Gli anti-dem avanti con Grasso
Franceschini: divisi perderemo
Una possibile carta estrema per favorire il riavvicinamento sarebbe l’approvazione delle leggi sullo Ius soli e sul biotestamento
di Tommaso Ciriaco

ROMA. Fiammella del dialogo, oppure il solito cerino che passa di mano tra fratelli coltelli? Toccherà a Piero Fassino dare una risposta e provare a ricucire le due sinistre, contro ogni legge di gravità. «Ma io sono tenace -assicura a sera l’ex sindaco ai big che lo contattano - Sentirò tutti i leader del centrosinistra, poi proverò a organizzare un tavolo per confrontarci ». Non sarà facile, anzi sembra un’impresa. Lo sa bene quel manipolo di pontieri spuntato fuori dal cilindro di Renzi.
La svolta arriva di buon mattino, durante un summit che anticipa la direzione del partito. «Per allargare la coalizione - detta la linea il leader - potremmo affidare a Lorenzo Guerini la gestione dei contatti informali con il centro, mentre a Fassino quelli con la sinistra…». Un po’ mossa del cavallo, un po’ sottilissimo gusto della provocazione, perché i rapporti tra Bersani e l’ex sindaco di Torino scontano le scorie del passato. «Ma non mi spavento certo davanti ai primi no», confida Fassino.
Il bersaglio grosso è naturalmente un’alleanza con Mdp, ma i bookmakers scommettono al massimo su un accordo con Emma Bonino e Benedetto Della Vedova, Ap e i Verdi, nella migliore delle ipotesi con Giuliano Pisapia. Con i bersanian-dalemiani, invece, l’intesa sembra impossibile o quasi: «Avevamo detto al Pd di fermarsi prima del Rosatellum – sostiene Pierlugi Bersani di fronte all’apertura renziana– Roberto Speranza aveva spiegato che si trattava dell’ultima chance per riaprire un confronto sui contenuti. Ci hanno risposto con otto fiducie. È semplicemente troppo tardi».
Vada come vada, un primo successo è già in tasca a Renzi: dopo le promesse di fuoco e fiamme alla vigilia del voto siciliano, il partito è quasi unanimemente sulla linea del segretario. Michele Emiliano, per dire, approva l’ordine del giorno del Nazareno con uno slancio che imbarazza addirittura i renziani. È un risultato che l’ex premier strappa con le unghie e con diversi sms: «Restiamo uniti su questa linea di costruzione della coalizione – scrive ad Andrea Orlando e al governatore pugliese – Poi vi garantisco che tutte le anime del Pd saranno rappresentate». Significa che valorizzerà l’unità – almeno così promette – anche al momento delle stesura delle liste. Se si escludono i collegi destinati ai partner di coalizione e i posti riservati direttamente al leader, alle due minoranze toccherà più o meno il 15% dei futuri seggi.
In pochi, invece, pensano davvero che Matteo Renzi e Massimo D’Alema possano siglare un patto nei collegi uninominali. Eppure, il gruppo di pontieri ci proverà per davvero. Ci crede Fassino, giura di crederci Dario Franceschini, che agli amici confida: «Quella di Renzi è un’apertura vera. Ha rinunciato a parlare di premiership, ha aperto sul jobs act». L’obiettivo realistico è intanto quello di convincere Campo progressista, alle prese con un dilemma esistenziale. Il dualismo tra Laura Boldrini e Piero Grasso non promette nulla di buono, il gruppo parlamentare è spaccato tra la voglia di Pd di Bruno Tabacci e la tentazione di sinistra-sinistra degli ex vendoliani. «Noi – sorride Angelo Sanza, che aiuta proprio Tabacci a tessere la tela col Nazareno – andremo con Renzi. Non potremmo fare altrimenti, sarebbe contro la nostra storia. Per la stessa ragione, molti di quelli di Giuliano che arrivano da Sel finiranno con Grasso…». Alle latitudini bersaniane e dalemiane, invece, l’impressione è che si stia parlando del nulla. Con la candidatura a leader del Presidente del Senato le grandi manovre per il varo della sinistra antirenziana procedono speditamente. L’appuntamento è il 2 dicembre, quindi fino ad allora nessun vero dialogo con il Pd è anche solo proponibile. E anche dopo, sarò durissima: «E però - ragiona in privato Orlando, il più combattivo per allargare la coalizione - a me sembra che Matteo abbia cambiato radicalmente linea. Verifichiamo come procede la trattativa. E come risponderà Mdp: se non vogliono neanche sedersi al tavolo, allora c’è poco da fare…». Il destino delle due sinistre, insomma, sembra segnato. Fassino tenterà comunque di sedurre l’altra sinistra portando in dote lo ius soli e il biotestamento, due leggi buone sulla carta a riavvicinare i contendenti. Eppure, Massimo D’Alema continua a spingere sulla linea dello scontro finale con il segretario dem. Renzi immagina una coalizione «da Bonino a Pisapia», e tanto basta, mentre Paolo Gentiloni osserva le novità a debita distanza di sicurezza: «Bene la spinta di Renzi per l’unità», commenta.
Resta un’ultima, debole speranza ad alimentare il lavoro dei pontieri in campo. È la forza dei numeri, quella che continua a richiamare Franceschini: «Divisi perdiamo, tutti». Di fronte a sondaggi devestanti, le due sinistre potrebbero almeno valutare una desistenza. E ritrovarsi già apparecchiato un tavolo su cui trattare è sempre meglio di niente. Una fiammella flebile, certo. Ma sempre meglio del cerino.

Il Fatto 14.11.17
Franceschini, il boom dei musei è tutto fumo
di Vittorio Emiliani

Le elezioni si avvicinano e Dario Franceschini, Cultura e Turismo, ieri si è incensato ben bene coi superdirettori dei Musei di eccellenza (180 mila euro lordi l’anno contro i 30-35.000 di prima). Il turismo va forte. Primavera-estate assolata e contraccolpi del terrorismo sugli altri: la Francia fatica, la Spagna è da poco nei guai, la Libia è out, in Tunisia va così così, in Egitto di peste e in Turchia pure. Dall’estero si riversano in Italia: +6-7% su un ottimo 2016.
Ovvio che anche gli ingressi ai musei crescano. Ma 175 milioni sono un incasso da suonare le trombe? Rappresentano appena un 7-8% del bilancio della Cultura. Neppure la “riforma” dei Musei è tutta rosea: -0,6% gli ingressi agli Uffizi fra 2013 e 2015, -4,1 all’Accademia di Venezia e uno striminzito +2,2% alla rivoluzionata Gnam e alle Gallerie Barberini-Corsini. Poi, certo, il Museo Nazionale dei Bronzi di Riace fa un balzo: +4.035 %, ma prima era… chiuso. E poi quanti sono stati gli ingressi delle caotiche domeniche gratuite nel 2016 sui 3 milioni? Boh.
Gli introiti aumentati? A forza di sfilate di moda, matrimoni a caro prezzo (entusiasta il direttore di Paestum, Gabriel Zuchtriegel), feste di laurea presso che quotidiane a Urbino. Roba modesta, da Pro Loco. La passerella dei superdirettori ha evidenziato pure che mancano il personale e i fondi per la manutenzione (sui giornali critiche allo stato della Reggia di Caserta). E sì che alcuni superdirettori hanno avuto dotazioni iniziali strepitose: 19 milioni Paestum per un’area circoscritta; appena 4 Ostia Antica, ben più estesa, e ancor meno la vastissima Appia. E la tutela? E il paesaggio? Stanno proprio male. Ma i funzionari critici li hanno imbavagliati. Guai a chi parla. E giornali e Tg, imbavagliati pure loro? Tutto va ben…


Repubblica 14.11.17
La distanza tra i Radicali e il Viminale sull’immigrazione non ferma l’intesa. Il ministro “soddisfatto”. La lista si chiama “+Europa”, incerta la corsa di Emma
Il leader Pd stringe il patto con Bonino ma difende Minniti: “I risultati ci sono”
di Goffredo De Marchis

ROMA. La prima alleanza di Matteo Renzi è fatta: Emma Bonino correrà in coalizione con il Partito democratico. La sua lista si chiamerà “+ Europa” e non Forza Europa che ricorda altri partiti forzisti. Il Pd ha già preso degli impegni: ci penseranno i militanti dem a garantire la raccolta di firme necessarie (50 mila) a presentare un nuovo simbolo alle elezioni. I radicali invece devono strappare il via libera del partito all’intesa. Non dovrebbero esserci problemi. Nell’incontro di ieri hanno spiegato che l’accordo può essere fermato solo con il voto dei due terzi del loro organismo dirigente. E le distanze sulle politiche di Marco Minniti per l’immigrazione? Il ministro dell’Interno e Paolo Gentiloni sono usciti dalla direzione del Pd di ieri «soddisfatti». Renzi non ha messo in discussione l’azione del governo. L’alleanza con la Bonino non dovrebbe mettere in crisi questo equilibrio: i programmi saranno diversi così come prevede la legge elettorale, gli “europeisti” potranno seguire la loro linea sul fenomeno migratorio.
Nella sede di Largo del Nazareno, all’ora di pranzo, si riuniscono la delegazione del Pd e quella dei radicali. Da un parte Renzi, Maurizio Martina, Matteo Orfini e Lorenzo Guerini. Dall’altra, Bonino, il segretario dei Radicali Riccardo Magi e Benedetto Della Vedova che alla lista europeista lavora da un anno. Per prudenza, e per rispettare la liturgia radicale, alla fine del vertice, si «parla di primo passo» e di «percorso avviato ». In realtà, l’accordo è chiuso. Adesso Renzi deve convincere l’ex commissaria europea a spendersi in prima persona. A candidarsi, insomma, in modo da trainare la sua lista e l’intera coalizione. «Per essere efficace — ha detto il segretario con un giro di parole — questa alleanza deve vedere in pista le migliori figure di cui dispone ». In fondo, è anche interesse di “+ Europa”, è stato il ragionamento del leader dem, condiviso sia da Della Vedova che da Magi. Bonino non ha sciolto la riserva, c’è ancora molto tempo. Come di tempo ce n’è per cominciare la trattativa sui collegi, sui posti sicuri in Parlamento.
Una trattativa che non può ancora entrare nel vivo per molti motivi. A cominciare dalla composizione della lista coalizzata. Potrebbe diventare qualcosa di più di una forza europeista e radicale. I socialisti di Riccardo Nencini e i Verdi di Angelo Bonelli puntano a un rassemblement laico e liberale. L’ipotesi di 10 seggi per i radicali per il momento è scritta sulla carta, un’indiscrezione che va verificata alla prova della vera presentazione delle liste. Nell’incontro si è parlato di immigrazione, delle differenze profonde tra il blocco deciso dall’esecutivo e l’allarme per le condizioni dei migranti fermati in Libia. Renzi ha spiegato la sua posizione: «La politica del governo ha dato i suoi frutti. Lo dimostrano i numeri. Poi, c’è la questione dell’Africa, dei diritti umani e non riguarda solo la Libia. Ma secondo me le due cose non sono alternative ». Non è la posizione di Bonino, ma non è stato nemmeno un elemento di rottura. Per questo alla fine della giornata Minniti non ha nascosto nè la sua soddisfazione nè la volontà di controllare, nei prossimi passaggi, che in nome dell’alleanza venga sconfessata la condotta governativa.
Su questo terreno il confronto è stato «franco» come lo ha definito Della Vedova. Magi e Bonino hanno chiesto conto delle misure per l’integrazione contenute nel pacchetto Minniti. «Che fine hanno fatto? ». E dello ius soli che sarebbe un tassello di integrazione. E un aiuto per l’abolizione della Bossi-Fini, battaglia radicale di questi giorni. Ma i punti di contrasto non hanno fatto saltare il tavolo. Il lavoro preparatorio di Martina e Guerini aveva già limato gli spigoli. Perché questo primo passo di Renzi è troppo importante. Deve dimostrare che il Pd ha un potere di attrazione ancora intatto, che è in grado di stare insieme. E che altri possono arrivare.

il manifesto 14.11.17
E sul congresso di Napoli scoppia lo scontro al vertice nazionale del Pd
Il candidato di una parte degli ex Ds, Oddati, contesta la regolarità del voto. La ratifica rinviata a oggi. Il vicesegretario Martina, che chiedeva un rinvio delle urne, finisce nel mirino di Lotti, Guerini e Boschi
di Adriana Pollice

La notizia è che il Pd ieri non ce l’ha fatta ad arrivare alla ratifica del voto per l’elezione del segretario provinciale di Napoli. Tutto rimandato a oggi. Domenica si è votato tra le polemiche, il congresso è diventato una corsa a scansare le imboscate del gruppo degli ex Ds (l’eurodeputato Andrea Cozzolino, la deputata Valeria Valente, i consiglieri regionali Antonio Marciano, Gianluca Daniele, Enza Amato e Bruna Fiola) che, con la regia occulta del governatore campano Vincenzo De Luca, appoggiavano l’ex assessore della giunta Iervolino Nicola Oddati.
Quando hanno capito che non avrebbero vinto contro Massimo Costa (vicino ai gueriniani), hanno provato in tutti i modi a far saltare il voto: la conta finale, inevitabilmente, cristallizza i rapporti di forza condizionando anche le caselle per le prossime elezioni politiche. Così Oddati prima ha convocato due conferenze stampa per contestare la platea degli iscritti 2016, scordandosi che i suoi sostenitori l’avevano ratificata quando si era trattato di eleggere il segretario nazionale del Pd, poi ha fatto intervenire il vicesegretario nazionale: sabato notte Maurizio Martina ha inviato una mail al garante Alberto Losacco per chiedere di posticipare le urne di una settimana.
Una richiesta irrituale, che ha innescato la controffensiva degli ex Margherita e la battaglia si è spostata a Roma. Da un lato Martina e Matteo Orfini, con dietro lo schieramento degli ex Ds; dall’altro Luca Lotti (con la segretaria regionale e parlamentare Assunta Tartaglione, il consigliere regionale Mario Casillo, il parlamentare Massimiliano Manfredi) e Lorenzo Guerini (con il consigliere regionale Raffaele Topo) più la franceschiniana Teresa Armato, l’area Orlando con Marco Sarracino e l’area Pittella, tutti a sostegno di Costa.
Nella contesa è entrata anche Maria Elena Boschi, che sabato era a Ercolano alla festa del sindaco Ciro Bonajuto: la sottosegretaria alla Presidenza del consiglio si è attaccata al telefono per rintracciare Matteo Renzi, in giro sul treno di Direzione Italia, per bloccare Orfini e Martina. I toni si sono alzati al punto che Lotti e Guerini hanno minacciato di disertare la direzione nazionale di ieri e, con Boschi, hanno messo in discussione la poltrona del vicesegretario del partito. Domenica mattina, a urne già aperte, è intervenuto il responsabile nazionale Organizzazione, Andrea Rossi, che ha sconfessato Martina: «Le procedure congressuali si sono svolte regolarmente, si conferma che i congressi si svolgeranno».
Su 126 circoli, in 100 si è potuto votare. Sulla scheda tre nomi: Costa, Oddati e Tommaso Ederoclite, espressione di un gruppo di trenta-quarantenni riuniti nel Comitato 30. Nonostante Oddati abbia liquidato il voto come una «risibile conta di corrente», domenica sera i numeri dicevano: su una platea di circa 25.083 iscritti, sono stati 9.565 i votanti (ma Oddati ne conta 6.300). L’anno scorso alle primarie che hanno incoronato Renzi furono circa 11mila.
Ieri la discussione è proseguita nella capitale, dove sono arrivati Oddati, De Luca, Topo, Casillo e Tartaglione. Ederoclite ha scritto su Facebook: «Tutti a Roma, per chiedere chissà cosa affinché si plachi il caos generato da loro stessi. Ho sempre denunciato tutte le questioni irrisolte nel partito ma l’ho fatto parlando agli iscritti per iniziare un cambiamento. C’è chi ancora corre a Roma con la speranza che i suoi riferimenti nazionali intervengano, piegando le regole ai propri interessi. Io sono rimasto a Napoli, i miei riferimenti sono tutti qua».
Oddati annuncia battaglia: «Il ricorso è già pronto se dovesse essere fatta la proclamazione del voto, ma auspico che non vi sia alcuna proclamazione di un congresso palesemente irregolare. Chiediamo che venga rispettata la disposizione del vicesegretario Martina e che si voti domenica prossima». Mentre Matteo Renzi in direzione annunciava la candidatura alle prossime politiche a Napoli come capolista di Paolo Siani (fratello di Giancarlo, il cronista ucciso dalla camorra), gli ex Ds trattavano per far commissariare il provinciale in modo da bypassare il risultato delle urne (ipotesi gradita a De Luca).
La maggioranza che appoggia Costa è ferma sul riconoscimento del voto di domenica. Oggi dovrebbe arrivare la resa dei conti.

Il Fatto 14.11.17
“Ma c’è anche il reato di violenza privata”
L’avvocata: “Parliamo in generale di molestie ambientali”
“Ma c’è anche il reato di violenza privata”
di Silvia D’Onghia

“La premessa è d’obbligo: non si parla di casi specifici”. L’avvocata Giulia Bongiorno difende da sempre i diritti delle donne e può aiutare a stabilire i confini giuridici degli scandali che stanno travolgendo il mondo del cinema, dagli Stati Uniti all’Italia.
Partiamo dalla fine: vedremo mai uno di questi casi arrivare in Tribunale?
Mi faccia fare una precisazione preliminare. Anni fa la giurisprudenza aveva coniato il concetto di corruzione ambientale: la prassi di dare mazzette era talmente radicata che non implicava la necessità da parte dei politici di scomodarsi e fare una richiesta.
Perché richiama questo concetto?
Credo che esista una molestia ambientale: tutti sanno che il criterio di selezione di un’artista non è basato sul merito. Il potente di turno si sente in diritto di ottenere prestazioni sessuali. Lo scambio sesso-carriera è fisiologico come lo era quello mazzetta-appalto ai tempi di Tangentopoli.
Il “così fan tutte” criminalizza le donne?
Ormai si dice: “Siccome queste donne si offrivano spontaneamente, dov’è il reato?”. In realtà il reato c’è perché la violenza è presente non soltanto se l’uomo prende d’assalto la vittima o se compie una penetrazione. Nel contesto attuale, anche se la donna accetta, il suo consenso è alterato dal fatto che deve scegliere, tra due mali, il minore: o accetta la proposta sessuale o viene esclusa. Non c’è libertà di autodeterminazione: quindi c’è una violenza. Se il consenso è viziato, non c’è consenso.
Ma esiste la possibilità di rifiutare le avances?
Se una proposta viene fatta a una donna che è già una star, si può sostenere che avrebbe potuto dire di no. Ma nei casi che abbiamo visto, non vedo alcuna capacità di contrasto da parte di queste giovani aspiranti attrici che si affacciano per la prima volta a questo mondo e pensano di non avere alternative (e forse davvero non ne hanno).
E se è la donna ad assumere l’iniziativa?
Non abbiamo una violenza, ma condotta molto simile alla prostituzione.
La violenza sessuale è un reato procedibile a querela entro sei mesi. Torniamo alla prima domanda: rimarranno denunce a mezzo stampa?
Bisogna analizzare caso per caso. Oltre alla violenza sessuale, le donne stanno ipotizzando anche altri reati: per esempio la violenza privata, procedibile d’ufficio, cioè in qualsiasi momento, anche se sono passati anni. Si configura quando la vittima ha dovuto subire o tollerare qualcosa che è stato imposto con violenza o minaccia anche implicita. La giurisprudenza ha individuato la violenza privata anche quando la donna è stata costretta ad assistere ad atti sessuali di autoerotismo senza che vi sia stato alcun contatto con genitali o zone erogene.
Altri reati?
Se alla donna viene limitata la libertà personale, se viene chiusa in una stanza, può configurarsi un sequestro di persona.
Cosa consiglia alle donne?
Cerchiamo di avere delle prove, che non devono essere necessariamente inconfutabili. La prova la fornisce anche un racconto autentico, coerente e logico. La dichiarazione della persona offesa è prova in un processo penale. Anche se il riscontro documentale è sicuramente superiore: consiglio alle donne di conservare tutti i messaggi sul telefono. Sempre parlando in generale.

Repubblica 14.11.17
Intervista
“Demoni in Europa, la mia Polonia rischia la guerra civile”
Per l’ex presidente Lech Walesa le democrazie sono in pericolo “Bisogna davvero reinventare la politica”
di Andrea Tarquini

QUI dobbiamo reinventare la vita politica democratica con nuovi strumenti, altrimenti i vecchi demoni nazionalisti e fascisti risorti resteranno, e mi chiedo se dovremo allora passare da brutte esperienze di sangue». Lech Walesa è preoccupato per la situazione in Polonia e il suo ruolo in Europa.
Quanto è pericolosa la situazione dopo il corteo estremista di sabato?
«Siamo entrati in una nuova èra, nella nuova èra postcomunista. La mancanza di political correctness nel senso vero del termine, correttezza sostanziale, da parte dei politici e la mancanza di attività politica della società ci dicono che i vecchi strumenti della politica non bastano più. Da anni dico che occorrono nuove forme di partecipazione alla politica. Se mi avessero ascoltato, i populisti e i fascisti sarebbero stati respinti. Ma ora la questione è come riuscire a restare nei limiti della democrazia e prevenire azioni estreme».
Democrazia in pericolo?
«Masse schierate con Kaczynski in Polonia, masse per Trump in Usa, masse per certi altri politici in Francia, dicono che la gente è stanca delle vecchie strutture. La questione, insisto, è come garantire la democrazia inventandone di nuove. La questione è se riusciremo a farlo evitando brutte esperienze, violenze, sangue. Mi chiedo se solo dopo che avremo subíto eventi tristi emergerà qualcuno capace di guidare la società verso soluzioni giuste».
Perché tanti giovani erano in quel corteo ultrà?
«Anche loro sono persone che cercano a modo loro nuove soluzioni. Anche per loro dobbiamo reinventare la democrazia, per riconquistarli dalla seduzione degli spettri del nazionalismo e del fascismo. Dipenderà da noi democratici se capiranno o se sceglieranno soluzioni non democratiche ».
Il governo nazionalconservatore ha elogiato la manifestazione, che ne dice?
«Il governo vuole solo vincere, capitalizzare dalla situazione in senso politico come con un investimento. La società polacca è chiamata da questa situazione di caos a scegliere tra il bene e il male, a scegliere la soluzione giusta di nuove forme di vivere la democrazia e mobilitarsi per la democrazia ».
Non le sembra allarmante la presenza di esponenti di ultradestra radicale italiani e di altri paesi al corteo di Varsavia?
«Mi sembra la conferma che il confronto tra la ricerca di nuove soluzioni e il pericolo dei fantasmi tornati è in atto in tutta Europa ».
Perché le opposizioni democratiche appaiono così deboli contro un movimento estremista di massa che riempie le piazze?
«Perché il governo di demagoghi guida il paese con il populismo e distribuendo soldi alla gente. Come potrebbe l’opposizione batterlo su questo terreno? Forse promettendo di distribuire ancor più soldi? Come vincere contro le promesse di demagoghi e populisti restando politici razionali e ragionevoli? L’opposizione temo non possa farcela a essere più veloce di questa specie di rivoluzione dei fantasmi del passato, è condannata a essere più lenta del populismo».
La permanenza della Polonia nella Ue è in pericolo?
«Se continuano eventi come quelli che abbiamo appena visto potremmo persino finire in una guerra civile. Solo con un maggior impegno sociale potremo respingere queste azioni negative e tornare sul cammino giusto. Ma ce la farà il Bene a vincere? Me lo chiedo da rivoluzionario, è questione aperta».
Teme l’alleanza tra Kaczynski e politici a lui vicini altrove come Orbán?
«In questa nuova èra che non affrontiamo con strumenti politici adeguati quei demoni del passato sono ben vivi. Solo se ci organizzeremo bene per combatterli, tutte noi persone ragionevoli, democratiche, la situazione in Europa tornerà sotto controllo. Tutto è possibile adesso da noi e in Europa, passi avanti verso il meglio o verso il peggio».
Quando chiama a organizzarsi quali soluzioni concrete propone?
«È questione di intendersi sui contenuti costitutivi di questo terzo millennio. Parlare di libertà e basta vuol dire dover controllare poi chiunque abbia un incarico, perché non abusi della libertà. Dobbiamo costruire strutture democratiche fondate su valori etici e politici comuni chiari, contro l’abuso del potere. Dobbiamo organizzarci, e convincere gli elettori di Kaczynski che hanno sbagliato. Da anni dico che è pericoloso. Dobbiamo organizzarci in fretta, per riuscire ad avere un cambiamento senza sangue, altrimenti affronteremo problemi gravi, con la Polonia con i fantasmi tornati nel mezzo della transizione tra l’èra degli Stati nazionali e la nuova èra globale».
Ha collaborato Anna Maria Mydlarska

Repubblica 14.11.17
Tangentopoli rumena nel cuore del potere
di Andrea Tarquini

IN NOME della questione morale, la magistratura sfida il potere politico in Romania. E si va verso lo scontro tra Laura Codruta Kovesi, la coraggiosa giudice che guida l’autorità nazionale anticorruzione, e Liviu Dragnea, influentissimo leader della maggioranza socialista, considerato il politico più potente del paese. Dragnea, già condannato con la condizionale a due anni per illeciti in passato, è da ieri indagato per associazione criminale per malversazione di soldi pubblici nazionali ed europei. Lo scontro si apre mentre ogni giorno la società civile va in piazza contro le leggi anticorrotti.
Il comunicato della Dna, l’autorità nazionale anticorruzione, è chiarissimo. Annunciando l’avviso di garanzia a Liviu Dragnea, parla di un gruppo di nove persone che hanno tramato per usare illecitamente denaro pubblico nazionale e dell’Unione europea, «un gruppo criminale organizzato ». L’indagine è legata agli appalti di favore ottenuti dalla società edile Tel Drum, che sarebbe stata «privatizzata in modo cospirativo », e il cui numero uno Petre Pitis è anch’egli indagato. Dragnea nega tutto, si difende in pubblico. «Non mi sento colpevole, non ho mai costituito un gruppo criminale», egli ha dichiarato.


Corriere 14.11.17
Faide, narcos e anfetamine
Così Ciudad Juárez ritorna la capitale dei femminicidi
di Guido Olimpio

Violenza fuori controllo: 212 donne scomparse nel 2017
P artiamo dalla conta delle vittime. Un indice crudo. A Ciudad Juárez, Messico, ci sono stati solo quest’anno 625 omicidi, un aumento pericoloso rispetto ai 470 dell’intero 2016. E tra le vittime ci sono una settantina di donne. Dato che ricorda periodi ancora peggiori, quelli che hanno trasformato la città al confine con gli Usa come un campo letale, la capitale del femminicidio.
Madri, figlie, ragazze a volte stritolate dalle faide, ma spesso rapite e fatte sparire da predatori meno scontati e insospettabili, killer vicini o venuti da lontano, magari da oltre frontiera. Con la località diventata un terreno di caccia di assassini rimasti spesso impuniti. Finale, però, che non sorprende visto che la legge qui è sempre in ritardo, battuta sul tempo e per efficacia da chi spara. Sempre le statistiche avvertono che sono 142 le donne scomparse nel 2017 e pochi sperano di rivederle in vita.
L’ondata di violenza nello stato di Chihuahua è legata alla narco-guerra che si combatte in altre regioni messicane. Gli esperti spiegano che la lotta si è inasprita per una serie di fattori, alcuni comuni al conflitto generale che oppone i gangster su molti fronti, altri più contingenti e connessi all’ambiente di Ciudad Juárez e dintorni.
Intanto l’organizzazione di Sinaloa, priva del Chapo finito in prigione negli Usa, e ora in mano ai suoi successori per nulla compatti, prova a tenere duro. Il suo piano è di rilanciare la vendita di anfetamine nella zona: sembra che non potendo produrle localmente, le fabbrichi in Sonora, quindi le faccia arrivare con una rete di corrieri. Un sistema che porterebbe alcuni carichi a passare negli Usa (via Arizona), per poi rientrare in area messicana. Contro questa iniziativa si sono mosse le bande regionali, in particolare i membri de La Línea.
Per lungo tempo braccio armato del cartello di Juárez, ora il gruppo agirebbe in modo più autonomo, tanto che si parla della nascita di una nuova entità. Da qui, gli scontri a fuoco e gli agguati, una costante per l’intero quadrante che guarda verso il Texas, tradizionale sbocco per i prodotti e punto d’appoggio per clan che si occupano dello smercio. Nella battaglia si sono inseriti — e di nuovo questo è un dato generale — i sicari di Jalisco Nueva Generación, il network criminale in netta ascesa a livello nazionale, determinato a prendere il posto di Sinaloa, suo rivale diretto.
È una realtà composita, dove i piccoli boss sono convinti di poter sfruttare le spaccature nelle famiglie tradizionali mentre i leader vogliono ribadire il loro potere e conquistarne altro.
A metà ottobre un commando del Barrio Azteca, affiliato a Juárez, ha attaccato un consultorio per tossicodipendenti a Chihuahua: 15 le persone fucilate. Sembra che gli uccisi fossero vicini al gruppo rivale dei Mexicles. Incursione preceduta da una serie di attacchi a locali pubblici, bar e ristoranti del capoluogo.
Il modus operandi non è proprio inedito. I massacri servono a marcare il territorio, punire gli eventuali spacciatori non allineati, stoppare infiltrazioni di altre associazioni mafiose. E numerosi centri di assistenza sono finiti sotto il fuoco dei kalashnikov. Episodi dove l’innocente e il colluso rischiano di trovarsi sulla stessa linea di tiro, anche se c’è la tendenza ufficiale a definire tutto come dei regolamenti di conti.
Versioni veloci fornite anche per spiegare le imboscate contro i giornalisti, caduti a decine. I reporter fanno semplicemente il loro mestiere, con grande coraggio e senza protezione. Anzi, spesso sono isolati. I padrini e le autorità corrotte non gradiscono, dunque si affidano ai proiettili per spegnere per sempre voci sgradite.
Come quella di Luciano Rivera, freddato in un bar a Playas de Rosarito, il 31 luglio. Pochi giorni fa la polizia, in collaborazione con la Difesa, ha arrestato il presunto responsabile dell’esecuzione: Josè Hernandez, detto Bruno, membro del cartello di Sinaloa e una valanga di precedenti.

La Stampa 14.11.17
I segreti tra Camus e l’amantenelle lettere ritrovate dalla figlia
Una storia lunga sedici anni con l’attrice Maria Casarèsparallela al matrimonio con Francine, finita solo con la morte
di Leonardo Martinelli

Albert Camus salì su quel coupé dal motore grintoso, una Faciel Vega. Il suo editore Michel Gallimard ne andava così fiero. Si trovavano a Lourmarin, Sud profondo della Francia, nella dimora acquistata dallo scrittore con i soldi del Nobel: un rifugio per la sua famiglia, la moglie Francine e i due figli. Michel si propose di riportarlo a Parigi, un lungo viaggio sotto la pioggia che non finiranno mai: si schianteranno su un platano, poco prima di Fontainebleau. Era il 4 gennaio 1960. Quattro giorni prima di morire, Albert aveva scritto la sua ultima lettera all’amante Maria Casarès, attrice e diva ai tempi: «Sono così contento all’idea di rivederti che rido, scrivendo».
Un secolo dalla nascita di Camus, il 7 novembre 1913, Gallimard ha pubblicato la corrispondenza, finora segreta, tra lui e la Casarès: 865 lettere, dal 1944, l’inizio della loro storia, libera e appassionata, fino alla fine. Una costante è la fiducia reciproca e una maturità inaudita, nonostante le mille paure e le ripetute distanze. «L’ho deciso una volta per tutte - scrive lui -: saremo uniti per sempre. Queste non sono altro che ombre leggere. Passano. E resta il sole del nostro amore». «Ti amo irrimediabilmente - risponde lei -, come si ama il mare».
I due s’incontrarono il 19 marzo 1944, in una Parigi ancora occupata dai nazisti, a casa dello scrittore Michel Leiris. Camus sceglierà poi quella donna bruna e magra, dallo sguardo incandescente e la voce rauca, per interpretare Marta in Il malinteso, suo testo teatrale. Al termine di una serata a casa di Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir, Maria e Albert trascorreranno la loro prima notte d’amore: era la stessa dello sbarco in Normandia, tra il 5 e il 6 giugno. Lui aveva trent’anni, lei 21. Lo scrittore viveva da solo a Parigi, mentre la moglie, Francine, pianista e matematica, era rimasta a Orano, in Algeria, a causa della guerra. Ma da lì a poco lo raggiungerà. Camus non sapeva scegliere. E poi nel 1945 nasceranno i due gemelli della coppia: Maria lo lascerà. Ma quattro anni dopo, ancora un 6 giugno, i due s’incontreranno per caso. Camminavano su Saint-Germain-des-Prés. La passione riprenderà il sopravvento, ormai per sempre. Albert, comunque, non abbandonerà mai Francine, pur lamentandosi delle sue depressioni nelle lettere a Maria: provava tenerezza (anche quello amore?) per la consorte. La Casarès sopporterà anche le altre amanti, soprattutto negli ultimi anni, pure un’attrice come Catherine Sellers, che inizierà a rubarle i ruoli nelle pièces teatrali di Camus.
Maria era la figlia dell’ultimo primo ministro della Spagna repubblicana: con l’inizio della guerra civile, era fuggito a Parigi. Determinata, nonostante il suo accento, la ragazza riuscirà a imporsi come interprete di film e drammi radiofonici, oltre a diventare una delle prime star del festival d’Avignone. Come diceva lei, con Albert condivideva « la vulnerabilità e la forza, entrambi frutto dell’esilio » (lui dall’Algeria). Nelle lettere si scambiavano commenti sulle letture, spettegolavano sui circoli parigini alla moda, discorrevano della loro vita quotidiana (come lei arredava con gusto il suo appartamento con vista sui tetti di Parigi). Ma se Catherine Camus, figlia dello scrittore, ha deciso dopo tante reticenze di pubblicare questa corrispondenza, di cui era venuta in possesso, si deve al fatto che a tratti è pura letteratura. Catherine ha raccontato di aver incontrato la Casarès negli Anni Ottanta, dopo la morte della madre, in un albergo di Nizza, dove la donna si trovava in tournée : «Passammo tutto il pomeriggio stese sul letto a mangiare cioccolato, come se ci conoscessimo da una vita ». Catherine ha rivelato che perfino Francine parlava con rispetto dell’amante del marito. «Le loro lettere - scrive la figlia di Camus nell’introduzione all’epistolario - fanno sì che la terra sia più vasta, lo spazio più luminoso e l’aria più leggera semplicemente perché loro due sono esistiti».

Corriere 14.11.17
La solitudine degli avverbi Se l’inglese perde le sfumature
Le conseguenze dell’americanizzazione
di Luigi Ippolito

Londra È piuttosto un understatement affermare che gli inglesi sono abbastanza versati nell’arte dell’ understatement : ossia nel far apparire le cose per meno di quello che sono. Una qualità che a noi italiani, maestri della teatralità, può apparire di difficile comprensione. E che in effetti a volte sconfina nella dissimulazione: se esponete un argomento a un inglese e lui dice « I see your point », comprendo il tuo punto di vista, in realtà vi sta dicendo che siete dei perfetti imbecilli.
L’ understatement è un tratto nazionale che si esprime nel linguaggio attraverso l’uso copioso di parole come « quite » e « rather », piuttosto e abbastanza. Un esempio classico è la frase «Abbiamo avuto una serata piuttosto seria, sapete»: che venne pronunciata da un sopravvissuto all’affondamento del Titanic.
Ma adesso i linguisti d’Oltremanica sono in allarme: gli avverbi di grado si stanno diradando sempre più nell’uso comune e con loro la peculiarità dello spirito britannico. Il grido di dolore è stato raccolto dal Times , che ha dato ascolto al professore di linguistica Paul Baker, il quale ha analizzato milioni di parole per giungere alla conclusione che ormai anche gli inglesi preferiscono forme di espressione più dirette.
La colpa? La strisciante americanizzazione della lingua di Shakespeare: che se resiste all’introduzione di vocaboli d’Oltreoceano come trash (spazzatura), vacation (vacanze) o elevator (ascensore), visto che gli inglesi continuano a dire rubbish , holiday o lift , tuttavia sta soccombendo alla tendenza a manifestare candidamente il proprio stato d’animo, come fanno gli yankees .
«Se qualcosa contraddistingue i britannici linguisticamente — scrive il professor Baker — è la loro maniera barocca di usare gli avverbi, specialmente come una forma di cortese sangue freddo». Un esempio: invece di dire «è stata la peggiore giornata possibile», un inglese dirà «forse le cose non erano abbastanza meravigliose come avrebbero potuto essere».
Un’altra ragione del declino, nota il Times , è l’attenuarsi delle differenze di classe: parole come «spaventosamente» e terribilmente» erano distintive dei ceti elevati e stanno subendo la sorte della volgarizzazione. Ma gli avverbi di grado, per il professor Baker, restano «un passaporto linguistico e anche un indicatore del carattere nazionale: dunque sarebbe abbastanza carino mantenerli».
Ma va detto che l’ understatement britannico può essere anche foriero di catastrofi. Come quando nella guerra di Corea un battaglione inglese di 650 uomini si trovò circondato da diecimila soldati cinesi. Il comandante si limitò a comunicare al quartier generale americano che la situazione era «un po’ fastidiosa». Così gli alleati non ritennero necessario lanciare una missione di soccorso: gli inglesi vennero massacrati, soltanto 40 sopravvissero.

Corriere 14.11.17
L’indulgenza di Scipione
Un saggio di Gastone Breccia (in uscita per l’editore Salerno) traccia il profilo del militare romano che a soli ventisei anni comandava un esercito di quasi30 mila soldati. Fu detto l’«Africano» dopo la vittoria sui Cartaginesi a Zama
di Paolo Mieli

Sconfisse Annibale ma non lo uccise
Poi venne accusato di tradimento
Racconta Tito Livio che Publio Cornelio Scipione — detto «Africano» a seguito della straordinaria vittoria sull’esercito cartaginese a Zama (202 a.C.) — «compiva la maggior parte delle sue azioni affermando davanti alla gente di aver avuto premonizioni». Forse, prosegue Livio, «davvero il suo animo era dominato da una certa superstizione», o piuttosto «era la gente stessa ad assecondare i suoi ordini e i suoi progetti», quasi fossero stati preordinati da un nume. Quando prese la toga virile, prima di salire sul Campidoglio ed entrare nel tempio, Scipione si isolava dagli altri e se ne restava da solo, appartato, come se dovesse ricevere proprio in quegli attimi l’ispirazione divina. Lasciò altresì diffondersi, «di proposito o casualmente», la leggenda che lo voleva «uomo di stirpe divina». Fu riesumata, afferma ancora Tito Livio, «la diceria — ugualmente falsa — diffusasi una volta attorno ad Alessandro Magno, che cioè egli fosse stato concepito dall’accoppiamento (di sua madre) con un mostruoso serpente». Scipione «non smentì mai la fede in quei prodigi, ed anzi, con una certa abilità, la lasciò crescere»; pur senza compromettersi, cioè senza dire apertamente qualcosa «che andasse in quella direzione».
Gastone Breccia, nel suo straordinario Scipione l’Africano (in procinto di essere pubblicato da Salerno), scrive che sarebbe ingenuo pensare che l’Africano ritenesse davvero d’esser stato concepito da un dio il quale aveva preso le sembianze di un serpente. Ma considera errata l’insinuazione — quasi esplicita nelle parole di Tito Livio — secondo cui l’abitudine di Scipione di ritirarsi in solitudine in un luogo sacro «fosse una recita a beneficio del popolo». Gli dei, mette in evidenza Breccia, nella Roma della fine del III secolo prima di Cristo sono ancora «vive presenze sul colle Capitolino». Ed è naturale che il ventiseienne Publio Cornelio Scipione, il quale nel 210 a.C. era da solo al comando di un esercito di quasi 30 mila uomini, confidasse nell’aiuto divino per poter diventare, come si proponeva, «il vendicatore della patria e della famiglia». Dopodiché è vero che Publio Cornelio si autopromuoveva «nel ristretto numero degli uomini a contatto con gli dei» per completare la rappresentazione di sé come guida predestinata e provvidenziale dello Stato: fin dall’inizio della sua carriera pubblica, pretese che il popolo fosse spinto a seguirlo come si va dietro ad un generale che per metà è un dio.
Ne aveva bisogno. Era divenuto capo della sua gens da giovane, ancora inesperto, dopo la morte in battaglia del padre e dello zio (211 a.C.). Era «nipote e pronipote di consoli e senatori, nato nel seno di una delle famiglie più antiche e illustri, educato fin da bambino a seguire la carriera politica di tutti i patrizi». La sua vita cambiò, secondo Breccia, un giorno di fine inverno del 218 a.C. quando suo padre venne eletto console insieme a Tiberio Sempronio Longo. Era un momento davvero importante nella storia di Roma: «Da un’intera generazione — dalla battaglia delle isole Egadi che nel 241 a.C. aveva posto fine alla prima lunga guerra con Cartagine per il controllo della Sicilia — Roma era la potenza egemone del Mediterraneo occidentale, dove le sue flotte non avevano più rivali». Ma Cartagine aveva saputo risollevarsi e l’espansione nella penisola iberica voluta da Amilcare Barca le aveva procurato «ingenti risorse economiche, con la possibilità di reclutare mercenari in gran numero», aprendo così «prospettive strategiche vantaggiose per una ripresa della lotta». E quando nel 219 il figlio di Amilcare, Annibale, attaccò Sagunto — città amica di Roma, ma fuori dalla sua zona di influenza quale era stata definita nel trattato firmato con i Cartaginesi, che assegnava a Roma stessa un’area con un confine segnato dal fiume Ebro — sul Campidoglio si diffuse un senso di paura e di colpa. Di paura perché fu in quel momento che si intuirono l’aggressività e le grandi capacità militari di Annibale. Di colpa per aver sottovalutato lungo oltre un ventennio (più o meno l’arco di tempo che nel Novecento intercorse tra la Prima e la Seconda guerra mondiale) il «riarmo cartaginese». Fu in quel momento che l’Africano, figlio del suo omonimo Publio Cornelio Scipione, iniziò a sentire in casa le ragioni che motivavano una «condotta aggressiva nei confronti di Cartagine». Roma era ancora parzialmente pervasa da sentimenti pacifisti (alimentati dalla gens Fabia, con il console Marco Fabio Buteone), ma il capo della gens Cornelia, Scipione senior, riuscì a farsi assegnare l’esercito che sarebbe andato a combattere contro Annibale. A suo fratello, Gneo Cornelio, Scipione padre avrebbe lasciato il compito di compiere la missione in Spagna. A sé riservò l’impresa di fronteggiarla nell’alta Italia. E portò al proprio fianco il figlio diciassettenne. Fu in questa occasione che nel 218 il nostro Scipione salvò la vita al padre nella battaglia del Ticino (ma Breccia definisce l’episodio, assieme ad altri dello stesso genere, «poco credibile»).
Nel 216 il futuro Africano riuscì a sopravvivere alla catastrofe di Canne. Cinque anni dopo, in Spagna, persero la vita suo padre e suo zio. E fu di lì a poco che, appena venticinquenne, venne nominato proconsole e spedito in Spagna. Dove, nel 209, sconfisse i nemici a Cartagena. Come? Secondo Breccia, Scipione conosceva la «buona regola per non sbagliare, in guerra»: quella di «concepire piani semplici e affidarne l’esecuzione ai subordinati con istruzioni chiare, essenziali e possibilmente flessibili». Dopodiché la seconda regola, quella per la pace, sarebbe stata di essere particolarmente generoso con gli sconfitti. Dalla fine dell’Ottocento gli storici, o meglio alcuni storici come Theodor Mommsen, hanno messo in discussione l’operazione militare spagnola di Scipione, accusandolo di aver consentito al fratello di Annibale, Asdrubale (che oltretutto gli aveva ucciso il padre e lo zio), di trasferirsi nell’alta Italia mettendo in serio pericolo la penisola. Ma — anche a prendere per buoni questi capi d’imputazione — tutti poi concordano che vada riconosciuto a Scipione il merito di aver concepito fin dal 205 il disegno di andare a combattere la Seconda guerra punica in Africa così da costringere Annibale a lasciare l’Italia.
Prima della battaglia decisiva, Scipione e Annibale si incontrarono su sollecitazione di quest’ultimo. Perché? Secondo Barry Strauss ( L’arte del comando , edito da Laterza) Annibale «sapeva che se fosse morto in battaglia e Roma avesse vinto la guerra, sarebbe stato il nemico a scrivere la storia e voleva che in seguito, quando si sarebbero rivolti a lui, Scipione ricordasse l’uomo che aveva incontrato sotto una tenda prima della battaglia».
Scipione vinse nel 202 a.C. a Zama. Da quel momento — all’epoca aveva 33 anni — fu chiamato l’Africano. Ma la sua vita pubblica non si concluse in quei giorni. Dopo Zama, invece di uccidere Annibale o di trascinarlo a Roma in ceppi, Scipione gli salvò la vita. E si prese cura di lui. Anzi si può dire che, come ha scritto Giovanni Brizzi in Annibale (Bompiani), il generale cartaginese trovò «un difensore generoso ed insperato proprio in Scipione», che gli concesse di essere ancora un politico di primo piano nella Cartagine del dopo Zama. Come ha scritto Basil H. Liddell Hart in Scipione Africano (Rizzoli), mettendo a confronto le proposte del vincitore di Zama con quelle che, nel 1919, suggellarono la conclusione della Prima guerra mondiale, «non si può fare a meno di apprezzare la grande moderazione di Scipione a confronto delle condizioni poste a Versailles» agli Imperi centrali dalle potenze vincitrici dell’Intesa. Finché furono gli stessi cartaginesi che si rivolsero a Roma perché li liberasse di quel condottiero.
Contro il parere di Scipione (così argomenta Werner Huss in Cartagine edito dal Mulino), Roma inviò «osservatori» a Cartagine nel 195 a.C. e Annibale fece appena in tempo a fuggire per rifugiarsi, dopo un lungo viaggio, a Efeso sotto la protezione di Antioco di Siria. Che però sarebbe stato, a sua volta, sconfitto dai Romani, cosicché il grande cartaginese fu costretto a riprendere la peregrinazione verso il regno di Bitinia. Annibale da quel momento capì che non sarebbe mai più tornato in patria. Scipione per parte sua era tornato in una Roma che lo aveva accolto sì trionfalmente, ma senza che con ciò i suoi numerosi avversari politici deponessero le armi. Erano, questi avversari, quelli che potremmo definire gli eredi di Quinto Fabio Massimo il temporeggiatore, morto da più di un anno, ma ancora «vivo» nella memoria di coloro che erano sempre stati ostili all’audace vitalità di Scipione. Scipione capì l’antifona e si ritirò all’istante dalla vita politica. La sua successiva assenza dalla scena si può spiegare solo come «rinuncia volontaria», scrive Breccia, mettendo in evidenza come Tito Livio non fornisca «alcuna spiegazione del suo comportamento» di cui, anzi, sembra non essersi neanche accorto.
Scipione, osserva Breccia, fu un grande soldato e comandante; non venne mai battuto e «non ebbe bisogno di comportarsi da eroe» (se non alla sua primissima apparizione sul campo di battaglia del Ticino quando — come si è detto — la leggenda vuole che abbia salvato il padre circondato da cavalieri nemici). Però poi, aggiunge lo storico, «sulla scena ambigua delle lotte di potere nell’orizzonte chiuso della classe dirigente repubblicana, sembrava aver perso l’iniziale spirito di iniziativa». Forse anche per questo, osserva Breccia, la sua figura è rimasta per così dire offuscata nella memoria. Un’«innata sobrietà» fu «la caratteristica più spiccata del suo comportamento, in guerra come in pace». Ma questa «dote» mal si conciliava con il suo desiderio di restare in qualche modo ancora sulla scena pubblica. Fu qui, su questo palcoscenico, che il tribuno della plebe Marco Nevio (fattosi portavoce dei suoi ormai innumerevoli oppositori, che avevano in Catone la loro punta di diamante) citò Publio Cornelio Scipione Africano a comparire al cospetto del popolo per difendersi dall’accusa di proditio , ovvero alto tradimento. Accusa accompagnata da insinuazioni su dissolutezze nella vita privata e sottrazione di denaro pubblico (insinuazioni che mancavano di qualsiasi appiglio documentale). Qualche riscontro poteva avere invece l’addebito di aver accettato un favore da un nemico, il re di Siria Antioco e la concessione al siriano, in cambio di questi favori, di condizioni di pace a lui più favorevoli. Cosa che, ove mai fosse stata dimostrata, avrebbe potuto essere considerata, essa sì, alla stregua di un danno alla res publica . Ma anche in questo caso non c’erano prove inconfutabili.
C iò nonostante Nevio, sostenuto da uno schieramento che si faceva di giorno in giorno più ampio, si spinse a indicare in lui, nell’Africano, «un politico che voleva farsi dittatore». Anzi: a prendere per buono quest’ultimo decisivo capo di imputazione, per Nevio Scipione era già diventato un «despota». Il tribuno lo accusava, riferisce Livio, di essersi mosso «soltanto per mostrare chiaramente alla Grecia, all’Asia e a tutti i popoli d’Oriente ciò di cui ormai da tempo erano convinte la Spagna, la Gallia, la Sicilia e l’Africa, cioè che un uomo solo era il capo e l’architrave del dominio romano, che la città signora del mondo spariva sotto l’ombra di Scipione, che i suoi cenni prendevano il posto dei decreti del Senato e delle decisioni del popolo». Qui ritroviamo Scipione come un uomo «smarrito», secondo Breccia, «nel labirinto della politica romana, senza più riuscire a essere utile né a se stesso né alla repubblica che aveva finito per temerlo più di quanto non lo avesse amato».
Contro di lui furono assestati colpi durissimi che gli provocarono un’amarezza senza limiti dato che — come è definitivamente accertato — «aveva sempre evitato di forzare la costituzione». Semmai, unica sua colpa individuabile, era stato eccessivamente indulgente verso i propri familiari. Inoltre, secondo Breccia, peccò anche «per ingenuità, tracotanza, eccesso di fiducia nel prestigio di cui godeva presso i concittadini». Ma, giunta l’ora della verità, Scipione decise di non rispondere alle accuse. Si produsse invece in un colpo di scena: ricordò agli astanti che quel giorno cadeva l’anniversario di Zama e li invitò a seguirlo sul Campidoglio, dove avrebbe reso omaggio a Giove Ottimo Massimo. Cosa che tutti fecero. Quel gesto, invece che solo un escamotage per sottrarsi alle imputazioni, fu considerato (e forse voleva esserlo) un atto di resa. E non gli giovò. Resosene conto, dopo quella cerimonia, Scipione lasciò Roma, si ritirò nella sua villa di Literno dove poco tempo dopo, all’età di 52 anni, morì (183 a.C.). Al suo decesso nessuno volle ricordare che era stato merito suo se «le legioni avevano iniziato a trasformarsi nel migliore esercito del mondo antico». E non si parlò neanche del fatto che «grazie alle sue vittorie il dominio di Roma si era ormai esteso su tre continenti». In compenso — se vogliamo dire così — saltò del tutto anche il processo per il «tradimento» in complicità con Antioco. Dopodiché, i suoi avversari, fa osservare Breccia non senza perfidia, «raggiunto lo scopo, lasciarono cadere le accuse». Come, da allora in poi, è sempre accaduto.