Corriere 13.11.17
IL caso sport e pedofilia
«L’allenatore abusò di mia figlia L’ho scoperto dal telefonino»
di Gaia Piccardi
«Dopo
le lacrime e il dolore, ora sento rabbia. Aspetto il processo al
molestatore di mia figlia e, intanto, impazzisco. Voglio fare qualcosa
per migliorare il mondo dello sport, devo trovare un perché a questa
brutta storia capitata alla mia figliola. Quello che è successo a noi
non deve accadere a nessun’altra famiglia. Ma il lupo è molto vicino,
spesso più di quanto immaginiamo».
Valdinievole, Toscana, prima
dell’estate. Anna, impiegata di livello, divorziata, è mamma di
Francesca, abbondantemente minorenne, aspirante pallavolista. La società
è piccola ma valida, l’allenatore 66enne (scapolo, senza figli, ben
voluto dalla comunità di 20 mila anime) gode di buona fama e ha la
totale fiducia (troppa, scopriremo) della dirigenza. Ha le chiavi della
palestra, che apre e chiude, con il furgone va a prendere e riaccompagna
le ragazzine della squadra. «Colto, preparato, astuto, subdolo —
racconta Anna con la voce che freme di indignazione —, non il maniaco
che al parco spalanca l’impermeabile. Capace di un sopraffino lavoro di
manipolazione psicologica con tutti, grandi e piccini». Francesca è
strana. Litigiosa, taciturna, si chiude in se stessa. Anna inizia a
impensierirsi («Dove sto sbagliando?»), è sostenuta dall’allenatore che
si fa da tramite con la bambina («Mi inoltrava gli sms che lei gli
mandava quando discutevamo») ma decide di rivolgersi a una psicologa
(«Se i bambini hanno problemi, la colpa è dei genitori»). Che, saputo
della corrispondenza tra allieva e coach, ha l’intuizione: «Quel signore
si sta prendendo libertà indebite, il rapporto è totalmente
squilibrato, vigila».
Dopo l’incubo di Francesca, già nella rete
del pedofilo, inizia quello di Anna. Incastrarlo non è facile. «Questi
malviventi sono dei geni del male, non sono su WhatsApp come tutti noi.
Usano piattaforme su Internet non rintracciabili: se anche avessi
controllato il telefonino di mia figlia, non ci avrei trovato nulla di
compromettente». Finché, con la scusa di portarlo a riparare, Anna lo
mette in mano a tecnici competenti, che scovano — nero su bianco — gli
indizi del reato. Pietrificata, interrompe ogni comunicazione con
l’allenatore, che si fa prendere dal panico e bersaglia Francesca di
messaggi: se mamma ci scopre sono rovinato, non raccontare nulla, dille
di non impicciarsi. L’ultimo atto è il più straziante: continuare a
mandare Francesca a pallavolo, sorvegliata dalla polizia e seguita dal
prezioso lavoro dell’avvocato Claudio Del Rosso di Pistoia, per
raccogliere le ultime prove, denunciare e incastrare il pedofilo.
Dalla
calciatrice Hope Solo, che ha accusato l’ex presidente della Fifa
Blatter, al maestro di karate di Brescia, le cronache sono zeppe di
episodi di molestie nello sport. Anna ha deciso di parlare con il
Corriere perché la sua storia abbia un senso: «Mi sono data mille colpe
per non essermi accorta di nulla. Per un genitore, è il fallimento.
Credevo che la relazione fosse da nonno a nipotina, che quell’uomo si
approfittasse un po’ del ruolo di un marito assente. Mentre cerco di
ridare una vita normale a mia figlia, provo a rendermi utile: vegliate,
state attenti, non sottovalutate i segnali dei figli, sono gli
insospettabili ad essere più pericolosi».
Il sistema dello sport
di base presenta falle spaventose. «Dov’è il Coni, come vigila? — si
chiede Anna —. Cosa prevede in merito alla tutela dei minori in ambito
sportivo? E poi la Federvolley: esiste un elenco dei tecnici accreditati
Fipav? Quell’uomo, reo confesso e in attesa di processo, è stato
cancellato o potrà tornare ad allenare? Le Federazioni dovrebbero
imporre due allenatori, mai uno: la possibilità di trovare due pedofili è
marginale». La società che ha assunto il molestatore come coach non ha
commesso reato: a fronte di una fedina penale pulita, non c’è altro
controllo. «Si fa troppo poco. E molti genitori non vogliono sapere né
vedere, perché scoprire certe cose dei propri figli è dilaniante.
Pochissimi denunciano. Ma io ho la testa dura e sono andata fino in
fondo».
Oggi Francesca è in cura psicologica. Terapia di
rimozione, la chiamano. Con l’amore della famiglia prova a rinascere. Ha
trovato un’altra squadra di volley dove esercitare i suoi talenti, e
dove sono sempre presenti almeno due coach. «Ogni giorno mi chiedo: cosa
potevo fare di diverso e di più?». La risposta è la forza che ha spinto
Anna a raccontare: «Questa storia poteva capitare a chiunque. E non
deve capitare mai più».