Repubblica Robinson 22.10.17
Sossio Giametta
di Antonio Gnoli,
Nella
casa di Isabella Ducrot, in un’ora che sembra propiziare qualche
assaggio di pasticcini con relativo tè, incontro Sossio Giametta. Siede a
capotavola, sotto bassi soffitti di una bella casa nel centro di Roma e
conciona di filosofia davanti a ridotto uditorio che attento e paziente
lo ascolta. Un piccolo simposio si direbbe dove si vola, o si tenta di
volare, alto. La serata si annuncia particolarmente calda, ma Sossio —
un nome che nelle sue declinazioni antiche rimanda al significato di
salvo, illeso e perfino di sosia, cioè di doppio — sembra decisamente
ignorare. Qualcuno attende che la cena bussi la sua ora, qualcun altro
chiede chiarimenti su Nietzsche, di cui Giametta è stato uno dei
traduttori (per l’edizione critica adelphiana Colli-Montinari). Mi pare
un testimone attendibile di un’epoca che si è totalmente chiusa. I quasi
novant’anni sono ben portati; non avendo mai, sospetto, avuto vere e
grandi aspettative speculative è potuto passare inosservato sotto il
fuoco incrociato degli scontri filosofici. Mi incuriosisce la sua
avventura di pensatore uscito indenne, come un involontario ospite del
Titanic, dagli iceberg della vita.
C’è una cosa che mi piace di te: metti tutti sullo stesso piano, grandi e piccoli filosofi.
«
Un momento. I grandi, quei pochi che possono ambire al pantheon, sono
lo sfondo imprescindibile. Il resto è puro prêt- à- porter. Qualche star
e molte le ballerine di fila».
E tu dove ti collochi?
«Me lo chiedi! Partecipo al can-can. Con la differenza che conosco perfettamente i miei limiti».
Come dicevano gli antichi: conosci te stesso.
«Ma,
sai, c’hanno campato in molti su questa frase attribuita a Socrate.
Preferisco Nietzsche che diceva che ognuno è il più lontano da sé
stesso. Siamo meteore sconosciute. Quel meraviglioso provocatore di
François Villon disse con largo anticipo “conosco tutto, tranne che me
stesso”».
E tu convieni?
«Convengo, ciò che conosciamo di
noi avviene attraverso l’esperienza. Lascio volentieri l’esplorazione
dell’interiorità ai confessori e agli psicoanalisti. Sono un meridionale
estroflesso».
Dove sei nato?
«A Frattamaggiore che è più
famosa perché c’è nato Insigne, il calciatore, che per aver dato i
natali a Francesco Durante, il massimo sinfonista del Settecento secondo
Rousseau».
Tuo padre cosa faceva?
« Era ragioniere. Teneva
la contabilità in un’azienda della canapa. All’epoca eravamo il solo
paese nella provincia di Napoli che avesse un’industria. La lavorazione
della canapa andò per aria con la crisi del 1929, l’anno in cui sono
nato. Per tenere a bada i creditori, papà li fronteggiava anche di
notte. Si ammalò di tubercolosi. La penicillina non era ancora stata
inventata e lui morì in un sanatorio di Trento. Lo seppellirono in una
fossa comune ».
E tua madre?
«Si sarebbe dovuta costituire
parte civile contro la vita per tutto quella che le aveva negato e
invece si mise di buona lena a lavorare e a mantenermi agli studi. Era
sarta e crebbe me e mia sorella con il suo mestiere».
Ti ha condizionato essere nato in provincia?
«Sono
“cafone ’e fora”, come i napoletani chiamano il provinciale. Ma non mi
dispiace. Fratta era allora la metà di quella che è oggi e la
popolazione, a parte i pochissimi ricchi, era in preda alla miseria,
come constatai quando, per un breve periodo, feci l’ufficiale di
censimento. Se la cavavano un po’ meglio i piccoli artigiani, come
appunto mia madre. Della provincia non ho assorbito né le cose buone né
quelle non buone. Mi sono sviluppato liberamente, seguendo più l’istinto
che i progetti. In fondo non ho mai voluto diventare niente».
Per
non cercare niente qualcosa hai trovato. Hai lavorato in banca, hai
imparato bene il tedesco, traduci e scrivi di filosofia. L’ultimo tuo
libro apparso per Bompiani è “Grandi problemi risolti in piccoli spazi”.
Perché arrivasti a occuparti del mondo tedesco?
« Non l’ho
scelto, mi è accaduto. Coltivai da giovane una visione romantica della
Germania, nutrita da Tacito. Fu allora che mi accostai alle poesie di
Goethe, con il desiderio di leggerle in originale. A quel tempo lavoravo
alla Comit e decisi che avrei passato tutte le mie vacanze in Germania.
Conobbi Gerlinde, una tedesca che sarebbe diventata mia moglie. Più
tardi feci un soggiorno ad Amburgo per perfezionarmi».
Che vita conducevi in Germania?
«Erano
gli anni Cinquanta, alternavo la scuola di tedesco con la scuola di
vita. Mi capitava di passare il pomeriggio in qualche biblioteca, ma
anche di pranzare o cenare in ristoranti frequentati dai magliari che
parlavano in napoletano convinti che nessuno li capisse. A quel tempo
smaltivo i postumi di una malattia per me grave».
A quale malattia alludi?
« Oggi la cosa ti apparirà comica ma ho sofferto di adenoidi operate troppo tardi. Rendono, si dice, idioti o geni».
E tu da quale parte pendevi?
«Temo
di essere stato più dalla prima parte che dalla seconda. L’adenoideo
respira a bocca aperta, come appunto l’idiota. Come adenoideo sono
psichicamente cresciuto non con gradualità ma a sbalzi. Ricordo che a
causa di una di quelle improvvise crescite rasentai la malattia
mentale».
Eri preda di cosa?
«Avvertivo un magma
incandescente di sensazioni fluire nella mia testa. I miei occhi si
divaricavano e le visioni che avevo sarebbero state giustificabili in un
cavernicolo, non in un uomo del Ventesimo secolo!».
Come ti curasti?
«Assumendo
farmaci e leggendo Spinoza. Fu questo filosofo a farmi riconnettere
alle galassie mentali che si stavano allontanando. Da allora ho
considerato la filosofia una terapia necessaria per chi soffre di
malattie dell’anima. Per gratitudine verso Spinoza ho tradotto il suo
capolavoro l’Etica e questo mi consentì, in modo imprevedibile, di
conoscere Giorgio Colli».
Come avvenne il vostro incontro?
«Aveva
sentito in giro che c’era un bancario che si traduceva Spinoza per
conto suo e non per pubblicare. Credo che la cosa lo avesse incuriosito.
Mi arrivò un biglietto in cui mi invitava a raggiungerlo a Firenze.
Parlammo un intero pomeriggio. Mi chiese che cosa conoscessi di
Nietzsche. Risposi che non avevo nessuna frequentazione con il filosofo
tedesco. Peccato, disse lui accendendosi l’ennesima sigaretta egiziana:
insieme a Bruno, Spinoza, Kant e Schopenhauer è il solo che vale la pena
salvare. Poi mi offrì una Turmac. Lo guardai, elegante e serafico
avvolto in
«Avevo smesso di fumare e rifiutai più volte, ma dalla
sua insistenza capii che insieme alle sigarette mi offriva una
collaborazione stabile. Ripresi a fumare. Mi propose di tradurre sia
l’Etica che il De bello gallico e soprattutto mi volle nella sua équipe
che stava lavorando all’edizione delle opere di Nietzsche».
Non ti sorprese quella offerta? In fondo tu stesso avevi detto di non sapere nulla di Nietzsche.
«
Mi meravigliai di quella proposta perché ero e mi consideravo un
ignorante, un buono a nulla. Probabilmente Colli pensava che a una
edizione critica era preferibile una mente sgombra da pregiudizi
filologici e da letture condizionanti. Non dimenticare che su Nietzsche
pesava la condanna marxista e comunista. E poi, c’era sempre Mazzino
Montinari, l’uomo più umano che abbia conosciuto, in grado di guidare un
giovane di ventinove anni ».
In seguito che idea ti facesti di Colli?
«L’ho
sempre visto come un personaggio imponente e severo con una filosofia
profondamente visionaria e solitaria, ma non esente da eccessi. Mi
sorprese una volta in cui disse che capiva le ragioni per cui Nietzsche
ammetteva la schiavitù. Guardai stupefatto la sua faccia mentre la piega
del sorriso mi comunicava ironia o forse sarcasmo».
Forse ti prendeva in giro.
«Non
lo so, sinceramente. Era antifascista per cui fu costretto a una fuga
in Svizzera negli anni della guerra. Tendeva, quasi istintivamente, a
una specie di comunità pitagorica e iniziatica. Era dotato di un’energia
militare tutta piemontese, una capacità di intraprendere ed eseguire
notevoli imprese e di assumersi grandi responsabilità. Il suo carattere
aristocratico ed esclusivo cozzava con quello aperto e sorridente di
Montinari».
Com’erano i rapporti fra i due?
«Bisogna intanto
tener conto che Mazzino era stato dirigente del partito comunista e
dislocato a Berlino. Fu dunque un legame insolito il loro. Colli aveva
per lui un trasporto viscerale e lo considerava il discepolo per
eccellenza. Non credo che l’altro si sentisse tale. Certo, amava Colli e
lo serviva puntualmente con le sue straordinarie capacità di filologo.
Ma le loro origini erano troppo diverse perché alla fine non dovessero
prevalere».
Intendi alludere ai loro contrasti?
« Tra i due
per lungo tempo ci fu una grande intesa sia sul piano filologico che
umano. Tra l’altro fu proprio Montinari ad aiutare Colli a espatriare in
Svizzera. Era stato suo allievo al liceo, ma poi alla Normale di Pisa
Montinari subì l’influenza di Delio Cantimori, grande storico, con un
passato fascista, poi diventato comunista e traduttore di Marx. La sua
presenza fu come un’ombra che alimentò il contrasto su Nietzsche. Per
Colli, Nietzsche era un pensiero compiuto sottratto alla storia; per
Montinari era soprattutto un critico della società borghese. Montinari,
insomma, restò sempre ligio al suo ideale comunista».
La rottura pubblica quando avvenne?
« Dopo vari screzi, nel 1974, si scontrarono sulle colonne del
Corriere
della Sera. Montinari giudicò piuttosto lesiva un’intervista in cui
Colli, a suo dire, non gli rendeva giustizia del grande lavoro svolto e
rivendicò pubblicamente i suoi meriti nell’edizione di Nietzsche. La mia
sensazione è che i due a forza di litigare e di avvinghiarsi rimasero,
come avrebbe detto Hegel, abbracciati come due lottatori che non
riescono a sciogliersi».
Tu di Nietzsche cosa hai conservato?
«
Non mi sento un filosofo di professione, anche perché non ho mai
insegnato in accademie e università. Oltretutto per trent’anni ho
lavorato a Bruxelles al Consiglio dei ministri dell’Unione europea, nel
servizio linguistico. Penso che Nietzsche andrebbe letto nelle aule del
Parlamento europeo perché il suo pensiero è la risposta alla crisi
europea nei suoi tre aspetti: crisi della filosofia, crisi della
civiltà, crisi della religione. Nietzsche è stata una creatura di queste
crisi ma anche del bisogno del loro superamento».
Ti pesa essere considerato un outsider della filosofia?
«Di’
pure un intruso. No, anzi me ne vanto. Perché troppa parte della
filosofia è oggi fatta di chiacchiere. Mi sono considerato per quasi
tutta la vita un citrullo e un ignorante e tale mi ritengo ancora oggi.
Non rinuncio alla lotta delle idee che è la sostanza stessa della
filosofia. Ma credo di essere dotato di un pensiero umile. L’umiltà
consiste nell’investirsi delle esigenze degli uomini comuni e nel
parlare il linguaggio chiaro, nel seguire la logica delle cose sotto la
logica delle parole e nell’onorare come mia maestra suprema non
l’erudizione, ma la vita. Poi credo di essere afflitto da molti
difetti».
Il più grave?
«Forse l’impulsività. Ne ho in
realtà di peggiori, ma l’impulsività tocca gli altri. Tutta la mia
audacia, il mio coraggio, il mio bisogno di indipendenza li esprimo
nella filosofia. Nella vita sono spesso un allocco, un credulone, un
imbranato. E anche un po’ noioso. Una volta, dopo un discorso tenuto in
pubblico, dissi a mia moglie: sono stato un po’ pesantuccio, è vero? Mia
moglie mi guardò come sfinita da quella serata e poi commentò: Sossio
non sei stato pesante, sei stato pesantissimo. In fondo come molti
napoletani mi considero un comico sbagliato anche se la filosofia di
oggi è piena di comici. Ma non ci posso fare nulla se non guardare con
il leggero disincanto che l’età ormai avanzata induce ».
Come vivi la tua vecchiaia?
«Sento
che è la mia età più luminosa, creativa e felice. Tutte le cose
“inutili” ma libere di cui ho vissuto, senza nutrire per esse alcuna
ambizione o aspirazione, si sono rivelate alla fine importanti. Perciò
sono attaccato alla vita, malgrado gli orrori del mondo. Malgrado l’uomo
non abbia mai imparato le dure lezioni della storia. E non credo che la
religione possa essere ancora il rifugio, la speranza, l’approdo per
una vita futura e migliore».
Non c’è Dio nel tuo orizzonte?
«C’è
un Dio, ma è troppo lontano, forse un Dio laico, che non è amore, non è
protezione, non è saggezza. Ma è solo potenza Vedendo come Dio avesse
disertato il creato, Pascal si angosciò al punto da indursi alla
scommessa, al tuffo nella religione. Ma anche quella fu, dopo tutto,
un’illusione. Una partita persa. Tutta l’acuta sofferenza nasce da
questo fallimento».
una nuvola di fumo azzurrino». E cosa accadde?
l’ennesima
sigaretta egiziana: insieme a Bruno, Spinoza, Kant e Schopenhauer è il
solo che vale la pena salvare. Poi mi offrì una Turmac. Lo guardai,
elegante e serafico avvolto in
«Avevo smesso di fumare e rifiutai
più volte, ma dalla sua insistenza capii che insieme alle sigarette mi
offriva una collaborazione stabile. Ripresi a fumare. Mi propose di
tradurre sia l’Etica che il De bello gallico e soprattutto mi volle
nella sua équipe che stava lavorando all’edizione delle opere di
Nietzsche».
Non ti sorprese quella offerta? In fondo tu stesso avevi detto di non sapere nulla di Nietzsche.
«
Mi meravigliai di quella proposta perché ero e mi consideravo un
ignorante, un buono a nulla. Probabilmente Colli pensava che a una
edizione critica era preferibile una mente sgombra da pregiudizi
filologici e da letture condizionanti. Non dimenticare che su Nietzsche
pesava la condanna marxista e comunista. E poi, c’era sempre Mazzino
Montinari, l’uomo più umano che abbia conosciuto, in grado di guidare un
giovane di ventinove anni ».
In seguito che idea ti facesti di Colli?
«L’ho
sempre visto come un personaggio imponente e severo con una filosofia
profondamente visionaria e solitaria, ma non esente da eccessi. Mi
sorprese una volta in cui disse che capiva le ragioni per cui Nietzsche
ammetteva la schiavitù. Guardai stupefatto la sua faccia mentre la piega
del sorriso mi comunicava ironia o forse sarcasmo».
Forse ti prendeva in giro.
«Non
lo so, sinceramente. Era antifascista per cui fu costretto a una fuga
in Svizzera negli anni della guerra. Tendeva, quasi istintivamente, a
una specie di comunità pitagorica e iniziatica. Era dotato di un’energia
militare tutta piemontese, una capacità di intraprendere ed eseguire
notevoli imprese e di assumersi grandi responsabilità. Il suo carattere
aristocratico ed esclusivo cozzava con quello aperto e sorridente di
Montinari».
Com’erano i rapporti fra i due?
«Bisogna intanto
tener conto che Mazzino era stato dirigente del partito comunista e
dislocato a Berlino. Fu dunque un legame insolito il loro. Colli aveva
per lui un trasporto viscerale e lo considerava il discepolo per
eccellenza. Non credo che l’altro si sentisse tale. Certo, amava Colli e
lo serviva puntualmente con le sue straordinarie capacità di filologo.
Ma le loro origini erano troppo diverse perché alla fine non dovessero
prevalere».
Intendi alludere ai loro contrasti?
« Tra i due
per lungo tempo ci fu una grande intesa sia sul piano filologico che
umano. Tra l’altro fu proprio Montinari ad aiutare Colli a espatriare in
Svizzera. Era stato suo allievo al liceo, ma poi alla Normale di Pisa
Montinari subì l’influenza di Delio Cantimori, grande storico, con un
passato fascista, poi diventato comunista e traduttore di Marx. La sua
presenza fu come un’ombra che alimentò il contrasto su Nietzsche. Per
Colli, Nietzsche era un pensiero compiuto sottratto alla storia; per
Montinari era soprattutto un critico della società borghese. Montinari,
insomma, restò sempre ligio al suo ideale comunista».
La rottura pubblica quando avvenne?
« Dopo vari screzi, nel 1974, si scontrarono sulle colonne del
Corriere
della Sera. Montinari giudicò piuttosto lesiva un’intervista in cui
Colli, a suo dire, non gli rendeva giustizia del grande lavoro svolto e
rivendicò pubblicamente i suoi meriti nell’edizione di Nietzsche. La mia
sensazione è che i due a forza di litigare e di avvinghiarsi rimasero,
come avrebbe detto Hegel, abbracciati come due lottatori che non
riescono a sciogliersi».
Tu di Nietzsche cosa hai conservato?
«
Non mi sento un filosofo di professione, anche perché non ho mai
insegnato in accademie e università. Oltretutto per trent’anni ho
lavorato a Bruxelles al Consiglio dei ministri dell’Unione europea, nel
servizio linguistico. Penso che Nietzsche andrebbe letto nelle aule del
Parlamento europeo perché il suo pensiero è la risposta alla crisi
europea nei suoi tre aspetti: crisi della filosofia, crisi della
civiltà, crisi della religione. Nietzsche è stata una creatura di queste
crisi ma anche del bisogno del loro superamento».
Ti pesa essere considerato un outsider della filosofia?
«Di’
pure un intruso. No, anzi me ne vanto. Perché troppa parte della
filosofia è oggi fatta di chiacchiere. Mi sono considerato per quasi
tutta la vita un citrullo e un ignorante e tale mi ritengo ancora oggi.
Non rinuncio alla lotta delle idee che è la sostanza stessa della
filosofia. Ma credo di essere dotato di un pensiero umile. L’umiltà
consiste nell’investirsi delle esigenze degli uomini comuni e nel
parlare il linguaggio chiaro, nel seguire la logica delle cose sotto la
logica delle parole e nell’onorare come mia maestra suprema non
l’erudizione, ma la vita. Poi credo di essere afflitto da molti
difetti».
Il più grave?
«Forse l’impulsività. Ne ho in
realtà di peggiori, ma l’impulsività tocca gli altri. Tutta la mia
audacia, il mio coraggio, il mio bisogno di indipendenza li esprimo
nella filosofia. Nella vita sono spesso un allocco, un credulone, un
imbranato. E anche un po’ noioso. Una volta, dopo un discorso tenuto in
pubblico, dissi a mia moglie: sono stato un po’ pesantuccio, è vero? Mia
moglie mi guardò come sfinita da quella serata e poi commentò: Sossio
non sei stato pesante, sei stato pesantissimo. In fondo come molti
napoletani mi considero un comico sbagliato anche se la filosofia di
oggi è piena di comici. Ma non ci posso fare nulla se non guardare con
il leggero disincanto che l’età ormai avanzata induce ».
Come vivi la tua vecchiaia?
«Sento
che è la mia età più luminosa, creativa e felice. Tutte le cose
“inutili” ma libere di cui ho vissuto, senza nutrire per esse alcuna
ambizione o aspirazione, si sono rivelate alla fine importanti. Perciò
sono attaccato alla vita, malgrado gli orrori del mondo. Malgrado l’uomo
non abbia mai imparato le dure lezioni della storia. E non credo che la
religione possa essere ancora il rifugio, la speranza, l’approdo per
una vita futura e migliore».
Non c’è Dio nel tuo orizzonte?
«C’è
un Dio, ma è troppo lontano, forse un Dio laico, che non è amore, non è
protezione, non è saggezza. Ma è solo potenza. Vedendo come Dio avesse
disertato il creato, Pascal si angosciò al punto da indursi alla
scommessa, al tuffo nella religione. Ma anche quella fu, dopo tutto,
un’illusione. Una partita persa. Tutta l’acuta sofferenza nasce da
questo fallimento».