Repubblica Robinson 1.10.17
Piero Boitani
“Da quando ho iniziato a scrivere di Ulisse è come se un demone si fosse impossessato di me
Ho sentito una vibrazione emotiva fortissima”
colloquio di Antonio Gnoli,
La
stessa brezza che un tempo gonfiò le vele di Ulisse ora gonfia il cuore
di Piero Boitani. Un cuore messo alla prova da un recente infarto. Ora,
dopo alcuni mesi, avrebbe nuovamente voglia di salpare. Ma è lì seduto
comodamente in una poltrona, mentre lo guardo come si guarda un
viaggiatore impigrito. La mente si muove rapida e descrive volute
impossibili, perché essa è più agile e astuta di quanto non lo sia il
corpo: «Compirò a novembre settant’anni», è lapidario quest’uomo che ha
visto tutti gli occhi della letteratura ed è rimasto ipnotizzato solo da
quelli di Ulisse. Settant’anni, una giovinezza trascorsa nella dotta
ricerca e ancora il desiderio di rimettersi in cammino: «Non sono mai
stato a Itaca, buffo no?». Ho visitato tutto, i ghiacci dell’Antartide,
il freddo dell’Alaska, la tristezza della Patagonia ( chissà perché poi
ci ostiniamo a definirla triste?), la civiltà inglese e quella
argentina, un po’ più selvaggia; ho guardato sovente il cielo, forse per
ritrovare l’orientamento nelle mie peregrinazioni, ho amato le stelle
come ho amato mia moglie. Sì la mia esistenza è stata un insieme
straordinario di esperienze. Anche nei momenti meno felici, anche nelle
malattie e nei colpi insidiosi che non ti aspetti, c’è sempre stata
attenzione alla vita. L’infarto è stato qualcosa che non mi aspettavo,
giunto all’improvviso ».
Cosa ha provato in quel preciso momento?
«
Non me ne sono del tutto reso conto, i sintomi erano diversi dai
soliti. Avvertivo una difficoltà all’esofago e non riuscivo a deglutire.
Al pronto soccorso il cardiologo ha pronunciato la parola “ infarto”.
Sono stato trattenuto in terapia intensiva e dopo qualche giorno
rispedito a casa. Le prescrizioni, le medicine, i consigli. La gente che
ti è vicina e ti guarda come se improvvisamente fossi un’altra persona e
in un certo senso lo sei. Lo diventi».
Cosa cambia?
«È come
dopo il passaggio di una nave. Resta il solco dell’onda, il
sommovimento, l’agitazione del mare e sei lì che magari attendi il
ritorno della calma o il passaggio del prossimo cargo».
Come chiamerebbe tutto questo?
«Una
forma di riconoscimento. Di rivelazione. Ciò che i greci intendevano
con la parola agnizione. Ma un’agnizione rivolta verso sé stessi più che
verso gli altri».
Proprio sul riconoscimento ricordo un suo libro prodigioso di qualche anno fa.
«Impiegai trent’anni a scriverlo».
Perché così tanto tempo?
«
Ci sono libri che sospendono la vita di uno studioso. Come entrare in
un mondo parallelo. La mia ambizione era fare per il tema del
riconoscimento ciò che Erich Auerbach aveva realizzato con Mimesis. Ero a
Cambridge allora, nel 1983. Fu tra le pagine della Poetica di
Aristotele che scoprii l’idea del riconoscimento nel passaggio
dall’ignoranza alla conoscenza, non come esercizio astratto ma come
esperienza vissuta con speciale empatia. La letteratura è piena di
luoghi e situazioni in cui il riconoscimento ha una funzione vitale».
Che ricordo ha di Cambridge?
«
Era un luogo dove potevi incrociarti con le intelligenze più
sorprendenti. Tra gli altri c’era Terence Cave, che poi avrebbe a lungo
insegnato a Oxford. Scoprii che stava lavorando al mio stesso argomento.
Succede che due studiosi indipendentemente l’udi no dall’altro si
trovino ad affrontare il medesimo tema».
Come reagì?
«
All’inizio con una comprensibile punta di fastidio. Poi mi lasciai
assorbire dalle mie ricerche. Cave completò il lavoro prima di me. Come
ho detto ho impiegato trent’anni a portare a termine questo libro che
intitolai Riconoscere è un dio ( Einaudi). A Cambridge mi capitava di
incontrare George Steiner, il quale è stato spesso un punto di
riferimento per le intuizioni geniali che hanno contraddistinto il suo
lavoro. Gli sono grato, anche se a volte si lasciava prendere la mano».
In che senso?
«Come
se il gioco della scrittura e del pensiero anticipassero e
travolgessero la conoscenza effettiva. Ricordo che una volta a proposito
di Antigone — un libro davvero bellissimo — gli dissi che aveva
inventato di sana pianta un episodio che non c’era. E lui che è anche
spiritoso rispose che a volte invenzione e creazione sono il passaporto
per l’eternità».
Forse pensava a Omero.
«Chissà, resta un
uomo geniale e generoso. Recensì molto favorevolmente sul Times Literary
Supplement il mio libro di qualche anno fa Il grande racconto delle
stelle ».
Anche in quel libro traspariva il tema del
riconoscimento: il modo in cui gli uomini si sono di volta in volta
riconosciuti con il cielo.
« Un riconoscimento che produceva
meraviglia. Intrapresi quella fatica chiedendomi che cosa univa gli
scienziati ai poeti e ai filosofi. E la parola che li teneva assieme era
appunto lo stupore. Lo stupore di cui parlano (o vivono) Odisseo e
Leopardi. Keplero e Kant, Dante e Einstein, Galileo e Benjamin.
Quest’ultimo visitava spesso il planetario di Berlino e di Parigi e
colse, in tutta la sua drammaticità, la frattura tra gli antichi e i
moderni nel loro rapporto con il cosmo. In altre parole il cielo non
aveva più nessun rapporto con le forze vitali del cosmo».
Con quali conseguenze?
«Nella
sua visione apocalittica, Benjamin ammonì l’aberrazione di noi moderni
per aver ridotto il nostro manto luminoso alla mera contemplazione di
una bella notte stellata. Cioè a una pura emozione soggettiva. Ignorando
le conseguenze distruttive che i sofisticati materiali tecnici (dal
telescopio ai voli) avrebbero prodotto nella progressiva conquista del
cielo».
In fondo la conquista dello spazio ha inizio proprio con Ulisse che usa il cielo per orientarsi sul mare.
«Lo
sguardo che Ulisse rivolge al cielo non è contemplativo, non avrà nulla
di ciò che spingerà Leopardi a parlare di “ vaghe stelle dell’Orsa”.
Egli ha una visione strumentale. Del resto, è Calipso a suggerirgli che
deve seguire la rotta tenendo costantemente a sinistra il Grande Carro.
Però lo sguardo di Ulisse è ancora rivolto al cosmo arcaico. È ancora
troppo presto per parlare di visione astronomica del cielo».
A
proposito del cielo è giusto dire che la sua unica stella fissa sia
ancora oggi Odisseo? Cosa è stato un’ossessione, un bisogno
intellettuale, una folgorazione o cosa?
«Forse tutte questi motivi
che lei ha elencato. Avevo otto anni quando uno zio mi regalò Il
romanzo di Ulisse, un libro ricco di illustrazioni nel quale si
raccontava la storia dell’Odissea. Mi catturò quel personaggio che
condensava in sé intelligenza e astuzia e che, finita la guerra, volle
tornare a casa, patendo, rischiando e amando. La sera, in casa della
nonna, sognavo le sue gesta guerresche. Mi immedesimavo in quell’uomo
astuto che aveva la meglio sui “ bestioni”. E nei sogni mi vedevo come
lui: un abile combattente e un perfetto giramondo».
Non ha dunque mai abbandonato questa identificazione?
«Crescendo ho compreso altre cose dell’eroe dalle mille sfaccettature ».
Non c’è qualcosa di eccessivamente costrittivo in questo legame?
«Forse,
ma lo stimolo intellettuale che ne ho ricavato è stato enorme. Vede,
c’è una tensione inspiegabile: ma quando ho cominciato a scrivere su
Ulisse ho sentito una vibrazione emotiva fortissima. Come se un demone
si fosse impossessato di me».
Si può chiamare il fascino dell’eroe?
«Eroi
ne troviamo nell’Iliade, ma il piacere che ci trasmettono è più che
altro epidermico. Anche Achille è un eroe. Ma la sua forza, il suo
furore guerriero sono una cosa ben diversa. Ulisse è il primo uomo
moderno dell’antichità. Questo gli ha dato una forma speciale di
immortalità: la forza o forse il dono di attraversare e imporsi tra le
culture più diverse. Quando terminai l’università, verso la metà degli
anni Sessanta, decisi di intraprendere una serie di viaggi. Trascorsi un
periodo in America e in seguito approdai in Inghilterra dove preparai
il mio dottorato».
Su quale argomento?
« Su Chaucer e
Boccaccio. Ero ancora a Cambridge quando, nell’autunno del 1971, venne
il più grande studioso di Joyce, Richard Ellmann per una conferenza
sull’Ulisse. Fu in quegli anni che cominciai a raccogliere le mie
conoscenze attorno a Odisseo, a percepire i mille intrecci che si era
creati nel corso della storia culturale: da Dante a Eliot».
Lei con chi ha studiato?
«Mi
sono laureato a Roma con Agostino Lombardo. L’anglistica godeva allora
di un prestigio assoluto, grazie anche al ruolo che vi aveva giocato un
personaggio straordinario come Mario Praz».
Lo ha conosciuto?
«Piuttosto
bene. Era un uomo apparentemente bizzarro ma in realtà avvolto da una
singolare malinconia. Non priva di punte di vanità. Che del resto si
giustificavano vista la statura del personaggio. Ricordo che
dall’Inghilterra gli telefonai annunciandogli che stavo lavorando su
Chaucer e gli italiani. Mi lasciò parlare, poi con una punta di ironia
disse: ma lei Boitani crede che ci sia ancora qualcosa da aggiungere
dopo il mio saggio? Lo aveva pubblicato nel 1936!».
L’ironia era in lui una forma di difesa, anche dalle tante illazioni che circolavano sulla sua fama sinistra.
«Non so cosa dire, il tutto sapeva molto di leggenda. Però l’ultima volta che lo vidi accadde un episodio piuttosto buffo».
Ce lo racconti.
«Eravamo
nella sede del British Council dove si presentava un libro importante.
Era presente tutto lo stato maggiore dell’anglistica. Si mormorava che
sarebbe venuto anche Praz. Per cui nessuno aveva il coraggio di
iniziare. Fece la sua apparizione e si andò a sedere su una poltroncina
esterna. Io restai in piedi accanto a lui. Finalmente cominciammo. Parlò
l’ambasciatore, il direttore del British e venne il turno del
presentatore, che fece un apprezzamento sul bel colore della copertina
verde smeraldo. Praz, in modo che tutti lo sentissero, lo corresse ad
alta voce: non smeraldo, verde pisello! In quel preciso istante il
cameriere franò con tutto il vassoio e i relativi bicchieri.
Coincidenze?».
Lei che pensa?
« Non ho mai capito quanto una
fama del genere lo facesse soffrire o quanto si divertisse. Per me
resta una delle massime espressioni della cultura europea. Credo di aver
studiato in un periodo in cui abbondavano i maestri veri. Oltre a Praz
ricordo le presenze straordinarie di Santo Mazzarino, Giovanni Macchia,
Angelo Maria Ripellino. Fu un concentrato di intelligenze e di
erudizione mai banale».
Tra un po’ le toccherà lasciare l’università. Con che spirito andrà via?
«L’università è ormai ridotta malissimo. Me ne vado senza rimpianti. Continuerò probabilmente a insegnare a Lugano».
Che cosa ha la civiltà inglese che noi non abbiamo?
«Ha
le forme, che non sono irrilevanti nei legami sociali. Prima della
Brexit ho amato quasi tutto di quel mondo, perfino la pioggia e la
banalità di certe convenzioni. Per quattro anni ho insegnato a Cambridge
e credo di aver abbastanza capito le solide strutture di quella
civiltà».
C’è un personaggio con cui ha particolarmente legato?
«Sono
tanti, ma quello con cui profonda è stata la stima e l’amicizia è Frank
Kermode, scrisse un magnifico libro: Il senso della fine ».
Un sentimento che ormai ci avvinghia tutti. Lei come lo percepisce?
«Provo a non pensarci, ma resta l’inquietudine. Per tutta la vita ho sentito questo stato di elettrizzante precarietà».
Elettrizzante?
«
Da tantissimi anni soffro di una sindrome abbastanza rara, e ha un
titolo buffo: “ la gamba senza riposo”. Per cui in certi momenti avverto
l’impulso a muoverle entrambe. È la ragione per cui non sempre posso
decidere di andare al cinema o a teatro oppure se devo assistere a una
conferenza siedo indietro sulla fila esterna».
E quando dorme?
«Dormo poco. Ho preso l’abitudine di andare a letto molto tardi ».
Come ha reagito a questa sindrome?
« Curandola e vedendola come una sorta di singolare metafora ».
Allude all’irrequietezza di Ulisse?
«Diciamo
che un buon critico deve essere irrequieto, impuro, cioè fare tante
cose, insolito ossia percorrere strade non tracciate da altri».
Non c’è un limite dettato dall’età?
«Certo
è difficile essere Ulisse da vecchi. E non possiamo a un certo punto
della nostra vita non contemplare la nostra esigua mortalità. Sarà uno
shock? Non lo so. Fu proprio Eliot a dire che invecchiando non dovremmo
cessare mai di esplorare il mondo che ci è appartenuto. Potremo
considerare concluso quel percorso solo scoprendo ciò che non avevamo
visto quando partimmo più giovani».