lunedì 2 ottobre 2017

Il Fatto 2.10.17
E Minniti si affida a San Michele: “È la forza giusta contro il male”
Il ministro dell’Interno alla festa dell’arcangelo, protettore della polizia e della gendarmeria vaticana
di Fabrizio d’Esposito

Il 29 settembre non è soltanto la celebre canzone di Lucio Battisti oppure il compleanno di Berlusconi e Bersani. Per la Chiesa cattolica, in quel giorno, cade la festività di tre santi arcangeli: Michele, Gabriele e Raffaele. In particolare di Michele, comandante delle milizie celesti che sconfisse Lucifero, protagonista della diabolica scissione in Paradiso.
Così, venerdì scorso, san Michele è stato festeggiato in Vaticano in modo solenne. Di più: per la prima volta in assoluto la polizia italiana e la gendarmeria del piccolo Stato del papa hanno unito il loro ricordo dell’angelo guerriero con discorsi, messa e concerto. A rappresentare la Santa Sede, il “primo ministro” Pietro Parolin, segretario di Stato. Per l’Italia, il ministro dell’Interno Marco Minniti. San Michele è infatti sia il patrono della nostra polizia, sia quello della gendarmeria vaticana.
Nel suo discorso, Parolin ha parlato di “affinità elettive” tra i due corpi ed entrambi, il segretario di Stato e il ministro, hanno sottolineato l’impegno comune nel recente giubileo della Misericordia, contro l’allarme terrorismo. I due si sono quasi scambiati i ruoli. Parolin ha laicamente parlato della sicurezza come di “un bene inestimabile” garantito da una “presenza discreta e capillare”. Il postcomunista Minniti ha ricambiato con invocazioni divine: “Dio sa quanto c’è bisogno di difendere i più deboli, i più esposti, i più fragili”. E ancora: “San Michele arcangelo è la forza giusta contro il male che non prevarrà”.
Quale male però? Questione di prospettiva. Considerato appunto il capo delle milizie celesti, per tradizione non c’è una versione unilaterale su san Michele. Purtroppo. Come spiegò Enzo Ciconte, grande studioso di mafie, “la ’ndrangheta considera san Michele come il suo protettore”. Una delle vittime della strage di Duisburg, in Germania nel 2007, aveva in tasca un’immaginetta bruciata dell’arcangelo. Non solo: storicamente san Michele è stato il patrono, allo stesso tempo, di fascisti e partigiani garibaldini.

Corriere 2.10.17
Staino: «Per Bobo ho scelto Avvenire (ma resto ateo)»
intervista di Alessandro Trocino

ROMA Ma come Staino, lei è il presidente dell’Unione atei e fa una striscia su «Avvenire»?
«Eh già, ma non rinnego l’ateismo. Per fortuna o purtroppo, non so. Quella è una carica che mi fu data da Margherita Hack e me la tengo».
Staino e Bobo non sono più anticlericali?
«Molto anticlericali quando i clericali si comportano come tali. Ma ora c’è Francesco».
Due anni fa, quando il Papa attaccò la ‘ndrangheta, disse: «Con un Papa così, magari lascio l’Unità per l’ Osservatore Romano ».
«Ah ah, sì, ci sono andato vicino».
Come è nata l’idea di una striscia su Gesù?
«Otto anni fa. Gesù ha l’aspetto di mio figlio a 20 anni e l’aria di non sapere cosa fare nella vita. Il babbo Giuseppe è Bobo, preoccupato come tutti i padri per quelle frequentazioni maschili. Gli dice: dammi una mano in bottega, che dobbiamo reggere la concorrenza con l’Ikea».
E perché pubblicarle oggi con «Avvenire»?
«Quest’estate mi sono trovato disoccupato dopo la chiusura dell’ Unità . Le ho ritirate fuori e sono piaciute. Son strisce non dico blasfeme, ma urticanti: scherza con i fanti ma lascia stare i santi. Allora ho pensato: prendiamo il toro con le corna e proviamo Avvenire , che è un bel giornale che parla delle sofferenze del mondo».
Non è preoccupato delle reazioni?
«Tarquinio deve avere più paura di me».
Parlerà di unioni, eutanasia, pedofilia?
«Non sono tipo che si autocensura. Magari non toccherò i temi di bioetica».
Cosa le affascina di Gesù?
«Come diceva Prampolini, è stato il primo socialista. Tra le figure religiose mi affascinano anche Ernesto Balducci, La Pira, Don Milani».
Lei ora è «diversamente» renziano.
«Quanti amici mi hanno tolto il saluto quando sono andato all’ Unità . Poi è finita in modo avvilente. Spero che lo mettano in minoranza».
Il Papa sarebbe un buon leader per il Pd?
«Offre soluzioni politiche concrete, non solo per la vita eterna. Non mi meraviglierei se andasse in Libia a fare quel che non fa Minniti».

Il Fatto 2.10.17
I profughi assistono i malati psichici
di Chiara Daina

Una pillola non salva mai nessuno dai mostri. Quello che conta di più nel percorso di recupero di una persona affetta da disturbi mentali è la relazione, con gli altri e con se stessi. Da tre anni a Trento funziona un modello di convivenza unico nel suo genere tra malati psichiatrici e profughi voluto dal Comune e dal Servizio di salute mentale. I numeri fanno ben sperare: 72 persone coinvolte nel 2015 tra accolti e accoglienti e 135 nel 2016.
Lo scopo è duplice: dare un tetto e un lavoro agli immigrati e garantire accoglienza e assistenza a pazienti difficili. Lo straniero non è che deve diventare un badante, può spendere soltanto qualche ora alla settimana con il paziente oppure abitarci assieme ma continuando a mantenere i suoi spazi di libertà. Deve seguire un corso di formazione di 60 ore e un tirocinio di due mesi. E il compenso che riceve varia dai 250 ai 750 euro al mese. L’asl alla fine ci risparmia: il costo del paziente all’anno si riduce a 8mila euro contro i 48mila della comunità e i 125mila del ricovero in ospedale.

Corriere 2.10.17
«I prelati vaticani seguiti e fotografati» Le accuse della Gendarmeria a Milone
Le carte dell’indagine sul revisore. I timori di nuovi ricatti attraverso i dossier
di Fiorenza Sarzanini

ROMA Alti prelati pedinati e fotografati. Esponenti delle gerarchie ecclesiastiche tenuti costantemente sotto controllo. Si tinge ancor più di giallo la vicenda che riguarda Libero Milone, l’ex revisore dei conti della Santa Sede che una settimana fa ha raccontato di essere stato minacciato di arresto se non avesse presentato le dimissioni. E alimenta nuove indiscrezioni sulla possibilità che siano stati confezionati dossier con informazioni, anche personali, su vescovi e cardinali. Perché è proprio questa una delle accuse contestate all’ex presidente di Deloitte Italia. Violazioni denunciate dalla gendarmeria, tanto che il sostituto della segreteria di Stato monsignor Angelo Becciu ha parlato di «spionaggio e peculato» e poi ha dichiarato: «Milone è andato contro tutte le regole e stava spiando le vite private dei suoi superiori e dello staff, incluso me. Se non avesse accettato di dimettersi, lo avremmo perseguito in sede penale».
I computer violati
Le parole di monsignor Becciu aprono scenari inquietanti e sollevano interrogativi proprio sulla trattativa condotta negli ultimi mesi tra la Santa Sede e lo stesso Milone prima dell’abbandono dell’incarico avvenuto il 19 giugno scorso, appena due anni dopo la nomina. Dubbi avvalorati dai documenti, in parte segreti, dell’indagine sulla violazione del suo computer. In Vaticano vige l’obbligatorietà dell’azione penale. Se l’allora revisore ha compiuto illeciti tanto gravi, perché non è stato perseguito? La scelta di farlo dimettere garantendogli — almeno fino ad ora — l’impunità, mira a recuperare il materiale che ha accumulato nei due anni trascorsi a lavorare oltretevere?
Si torna dunque al giugno 2015 quando Milone diventa revisore. Il 28 settembre successivo presenta denuncia alla gendarmeria «per un tentativo di furto consumato all’interno dell’ufficio all’interno del palazzo dei Propilei». Nella relazione stilata dal direttore Domenico Giani viene ricostruito l’accaduto: «Il Revisore al suo arrivo in ufficio aveva constatato che al suo computer portatile, lasciato sul posto il pomeriggio del venerdì precedente, era stato rimosso il case inferiore, come se fosse stato aperto. Essendosi verificate nei giorni precedenti due altre anomalie (sul computer della segretaria e su quello del suo stretto collaboratore Ferruccio Panico) si riteneva opportuno approfondire gli accertamenti e due giorni dopo si riscontrava il tentativo di rimozione dell’hard disk».
I documenti segreti
Si decide di sequestrare i computer di chi lavora negli stessi uffici e in quello di monsignor Vallejo Balda vengono trovati documenti riservati che riguardano la Cosea, la commissione sulle attività economiche e amministrative. È l’inizio del secondo capitolo di Vatileaks. Durante il suo interrogatorio del 9 ottobre 2015 che precede l’arresto per aver consegnato al giornalista Gianluigi Nuzzi atti riservati, Balda svela un dettaglio che diventa adesso determinante per le verifiche avviate sul ruolo di Milone: «So che nel computer di Milone vi erano documenti riservati di indagini in corso e della Cosea». Perché il revisore aveva carte segrete sulle inchieste? Qualcuno lo aveva saputo e la violazione del suo computer serviva a conoscerne il contenuto?
Il 14 maggio 2016, al processo Vatileaks contro Balda e Francesca Chaouqui, il capo della prefettura monsignor Alfredo Abbondi parla del misterioso furto del 29 marzo 2014 di altri fascicoli custoditi nella cassaforte del suo ufficio: «Non so dire se tutti i documenti sono tornati indietro, anche perché i documenti contenuti nelle varie camice (i faldoni divisi per argomenti ndr ) non erano poi elencati sulle stesse».
Le foto «rubate»
Gli atti investigativi svelano dunque come negli ultimi due anni ci sia stato un vero e proprio «traffico» di carte riservate della Santa Sede che ha coinvolto Milone. Finora il revisore non ha smentito di aver affidato a una società esterna alla Santa Sede l’attività di controllo contro i prelati. Chi sono queste persone? E qual era il suo reale obiettivo?
Secondo le indiscrezioni gli investigatori vaticani avrebbero le prove dell’incarico assegnato alla società e la consegna di alcuni report al revisore dietro il pagamento di fatture. Ma non sarebbero ancora riusciti a recuperare il materiale e questo adesso agita le gerarchie ecclesiastiche alimentando il timore che finiscano nella disponibilità di chi potrebbe utilizzarlo per una nuova stagione di veleni e ricatti.

Corriere 2.10.17
Il marxismo cinese che studia a fondo il modello capitalista
di Guido Santevecchi

Bisogna comprendere il marxismo e promuovere vigorosamente la sua versione «con caratteristiche cinesi», ha appena detto Xi Jinping ai membri del Politburo del Partito comunista. Non si può deviare dal marxismo, ha ammonito il leader della Cina seconda economia del mondo. Ma ha aggiunto un appello ai compagni: «Studiate il capitalismo contemporaneo, la sua essenza e il suo modello». Non c’è contraddizione nel ragionamento di Xi. Il 18 ottobre si tiene il XIX Congresso del Partito e il segretario generale, nonché capo dello Stato, presidente della Commissione centrale militare e di un’altra dozzina di organi governativi da lui creati ha un obiettivo chiaro: imporre la Repubblica popolare come nuovo centro di riferimento della governance mondiale. Una visione ambiziosa, aiutata dalle incertezze della presidenza Trump. Xi è convinto di essere il solo timoniere capace di dirigere l’ascesa cinese e per questo ha scardinato il sistema di leadership collegiale instaurato da Deng Xiaoping alla fine dell’era Mao. Nei primi cinque anni del suo mandato il presidente ha combattuto una battaglia feroce, guidando una campagna anticorruzione che ha purgato il sistema da centinaia di migliaia di funzionari assetati di denaro o suoi avversari. Il Congresso del Partito è la versione cinese (non democratica) delle elezioni occidentali e non può scandalizzare che Xi voglia vincere e garantirsi il potere per molti anni ancora. Tra i suoi obiettivi c’è quello di far iscrivere nella Costituzione comunista «Il Pensiero di Xi Jinping», come una volta fu celebrato quello di Mao. A Pechino è in corso una mostra sui «Progressi sotto la guida del compagno Xi, cuore del Partito». Accanto a modelli di treni ad alta velocità, satelliti, sottomarini, c’è una sezione sulla Disciplina di Partito: alle pareti sono appese le foto dei dirigenti eliminati, come teste di tigri abbattute dal Grande Cacciatore. L’insegnamento, il pensiero di Xi è che il marxismo cinese funziona e paga, anche se per rassicurare il mondo bisogna studiare il capitalismo che garantisce crescita economica .

Repubblica 2.10.17
A 3 mesi dalla morte
Rodotà, giurista che metteva la persona sopra le regole
di Gustavo Zagrebelsky

Oggetto polemico di tanti suoi scritti è la logica proprietaria che fagocita tutto e tutti nei meccanismi del mercato e mercifica ogni bene Fin dagli anni Settanta, quando nessuno ne parlava, pubblicò un saggio sul controllo sociale prodotto dagli elaboratori elettronici “ “
Sapeva benissimo che al di là del diritto c’è molto altro che guida più o meno degnamente le condotte umane: cultura, etica, interessi
Difendendo la Costituzione poneva al centro la tutela di una democrazia partecipativa contro la cosiddetta “democrazia decidente”

NEL 1968, se la memoria non m’inganna, si tenne a Bologna nella sede della casa editrice il Mulino un incontro tra giovani e giovanissimi giuristi promosso da quell’infaticabile cercatore di idee nuove e di studiosi innovatori che fu Giovanni Evangelisti. Stefano Rodotà, che aveva 35 anni ed era già considerato da tutti i presenti un punto di riferimento e di rinnovamento, fece una relazione inquadrata in quel tempo, un tempo che si pensava potesse essere, se non epocale, almeno fecondo di novità. La sua relazione si sarebbe potuta intitolare: «Sullo stato presente e sui compiti futuri dei giuristi e della scienza giuridica». Non so se sia stata mai pubblicata. C’ero anch’io, ma non temiate ch’io voglia parlare di qualcosa come “Io e Rodotà”. Questo accenno serve solo a introdurre un altro ricordo: Evangelisti che, a incontro concluso, disse ad alcuni dei presenti: attorno a quel giovanotto voglio costruire qualcosa come una comunità di giuristi che guardino avanti, che rinnovino la cultura giuridica, la pongano al servizio non di vuoti concetti o di poteri ormai screditati: in una parola, una visione del diritto capace di contribuire alla costruzione di una società rinnovata.
Stefano doveva occupare il posto centrale di un mosaico. Queste, naturalmente, sono parole mie, non i concetti; ma “quel giovanotto” è testuale. Che cosa accadde allora? Sempre sotto l’egida del Mulino, si promossero alcuni incontri a Tirrenia, comune di Pisa, noto per l’architettura e l’urbanistica fascista e per le dune di sabbia sul mare, di cui non si approfittò perché, dati i prezzi degli alberghi, era sempre bassa stagione e il tempo proibitivo. Stefano stava al centro. Attorno, ricordo tra gli altri Alessandro Pizzorusso, Sabino Cassese, Natalino Irti, Franco Ledda, Franco Levi, Franco Merusi, Valerio Onida, Franco Bassanini, Giorgio Berti e un già allora spumeggiante Giuliano Amato. Si formò quello che allora si definì il “Gruppo
di Tirrenia”, tra persone unite da una vaga aspirazione riformatrice del nostro mondo: se non una corazzata, certo un potente incrociatore del diritto. Gli incontri proseguirono a Venezia (auspice Feliciano Benvenuti), Napoli, Cortona. I più giovani tenevano particolarmente a essere invitati a partecipare, come a una sorta di promozione sul campo e come viatico per future carriere accademiche. Evidentemente, però, le riforme non sono, e non furono allora, un collante sufficiente a tenere insieme tanti brillanti intelletti: diciamo pure, tante prime donne. Molti di quelli che ho nominato non ci sono più. Quelli che restano sono andati ciascuno per la propria strada e il progetto iniziale è andato perduto. Non del tutto, però.
Nel 1969 fu fondata una rivista, Politica del diritto, che raccoglieva se non il programma di Tirrenia — un vero e proprio documento con questo nome non è mai stato partorito — ma certo lo spirito, l’impegno e le speranze. Questa rivista, alla quale collaborarono giuristi di cui ho già fatto il nome e altri a lor compagni, suscitò reazioni nel sereno mondo dell’accademia tradizionale, più disposta a privilegiare la quiete sulle novità che possono portare scompigli. Si ricorderà che, quasi come reazione alle teste calde di Politica del diritto, nel 1976 fu fondata da illustri giuristi rappresentativi dell’establishment, Giovanni Cassandro, Vezio Crisafulli e Aldo Maria Sandulli, un’altra rivista dal tono più rassicurante, Diritto e società. Questo per dire dello spirito di novità e delle reazioni suscitate. Politica del diritto esiste tuttora e Stefano fino all’ultimo ne è stato il direttore. Se mi soffermo su questa pubblicazione è perché il suo progetto scientifico, al di là della sua attuale diffusione, corrispose e tuttora corrisponde a una tendenza e a una esigenza ancora presente che Stefano Rodotà ha rappresentato e interpretato come meglio non si sarebbe potuto, per quasi mezzo secolo. Si trattava di fare del diritto e della sua cultura una forza efficiente di trasformazione della politica e della società, nel segno e nel solco che i principi della Costituzione prefigurano. A questo fine, il mondo stretto del diritto avrebbe dovuto aprirsi e guardare il vasto mondo, un mondo che, allora, stava cambiando. Politica del diritto non era certo una proposta di asservimento del diritto alla politica e ai suoi attori. Non proponeva affatto che i giuristi diventassero forze collaterali di questo o di quel partito. Non voleva politicizzare il diritto in questo senso. Semmai aspirava a giuridificare la politica, cioè a inquadrare quest’ultima in categorie giuridiche adeguate alle esigenze dei tempi, esigenze che erano di rinnovamento, di espansione della democrazia, di valorizzazione di diritti e di uguaglianza. In breve, era anche una proposta di etica per gli studiosi del diritto: né soltanto avvocati e nemmeno solo consulenti, ma soprattutto attori nella sfera del dibattito pubblico con gli strumenti del diritto.
Se guardiamo alle idee e ai propositi di quel tempo giovanile, dobbiamo constatare che molto s’è perso per strada, che poco è rimasto e non molto di quelle speranze ha fatto scuola. L’energia originaria si è dispersa in tanti rivoli. La cultura giuridica rappresentata da quel progetto e da quel gruppo di giovani e meno giovani di belle speranze non ha resistito alle tante tentazioni che, come da sempre, propongono ai giuristi funzioni ancillari di interessi particolari, interessi che dispongono di numerosi e molto persuasivi strumenti seduttivi.
Non così Stefano Rodotà. In questo “ non così” possiamo dire essere racchiuso il segreto d’una certa aura di autorevolezza che lo circondava, riconosciuta anche da coloro che ne hanno contestato la figura pubblica, talora non temendo di dar di sé prove di trivialità e prove d’ignoranza. Tutto nella sua attività scientifica: libri, articoli, conferenze, interviste, commenti giornalistici, promozione — come si dice — di eventi ( soprattutto il Festival del diritto di Piacenza, di cui lamentiamo l’interruzione); tutto, dicevo, testimonia una coerenza che non è solo un aspetto della sua personalità ma è anche l’adesione a una certa idea del diritto e del giurista. Il diritto non esiste se i giuristi non esitano a farne usi occasionali che finiscono con il coincidere con l’interesse personale. Se non esiste qualcosa come “ i giuristi”, rappresentativi di un’unità se non di risultato almeno d’intenti, il diritto è distrutto e, invece di contribuire alla convivenza, alimenta la discordia. Quanto ho detto adesso si vede facilmente quando da “ i giuristi” passiamo a quella categoria particolare che sono “ i costituzionalisti”. Che cosa è la Costituzione se ogni questione di diritto costituzionale alimenta le opinioni più diverse in contrasto le une con le altre e motivate da finalità divergenti? La conseguenza è una sola: la Costituzione sparisce e nella lotta politica, che dovrebbe trovarvi la sua regola, prevalgono gli interessi politici di breve durata. Chiunque, per quasi qualsiasi buona o cattiva azione, trova il parere del costituzionalista, talora il “parere pro veritate”, che gli conviene. Non so perché l’essere “costituzionalisti” goda d’un certo plusvalore presso i formatori della pubblica opinione. Stefano Rodotà era spesso definito tale ma, tutte le volte che poteva, reagiva con un piccolo sorriso sardonico: non costituzionalista, non sum dignus sembrava sottintendere con un poco d’ironia, ma civilista. Insomma, sembrava volesse marcare una distanza e non confondersi rispetto a un mondo che, da questi anni, è andato disgregandosi e contribuendo alla confusione.
Ma i confini delle discipline accademiche hanno un senso per chi si interroga a partire non dai dogmi e dai concetti, ma dalla funzione del diritto nella vita civile? Il percorso intellettuale di Stefano Rodotà è particolarmente significativo. È stato giurista al di sopra delle classificazioni disciplinari. Aggiungo: giurista non totalizzante, non fanatico delle cosiddette “regole”. Sapeva benissimo che al di là del diritto c’è molto altro che guida più o meno degnamente le condotte umane: cultura, etica, interessi. C’è, del 2006, un suo libro che mi pare dovrebbe essere letto e meditato di più di quanto lo sia stato. S’intitola La vita e le regole. Tra diritto e non diritto. Non tratta soltanto degli aspetti giuridici di ciò che da qualche anno si usa definire “la nuda vita”; tratta dei limiti del diritto, dei pericoli del guardare il mondo solo con occhi del giurista, dell’illusione di credere che il mondo stia in piedi perché c’è il diritto e ci sono i giuristi. I suoi studi sul concetto di “persona” dicono quanto è sbagliato considerare la persona solo come “persona giuridica”, cioè come fascio, punto d’imputazione di diritti e di doveri, secondo la concezione kelseniana. Fatta questa delimitazione delle pretese del diritto, tra ciò che rientra nel suo ambito, è oggi impossibile costruire steccati. Stefano è stato un illustre civilista ma, evidentemente, non soltanto. Consultiamo i temi delle sue opere maggiori, seguendone i percorsi.
All’inizio stanno due libri su temi del diritto civile che più “classici” non potrebbero essere, la responsabilità civile ( Il problema della responsabilità civile del 1964) e il contratto ( Le fonti d’integrazione del contratto, del 1969). Chi consultasse questi primi scritti vi troverebbe una traccia che avrebbe portato lontano: l’impostazione non formalistica che collega il diritto non al diritto, cioè con sé stesso in un circolo vizioso, ma al diritto in funzione della sua — potremmo dire — “giustezza” rispetto alle aspettative sociali. Del 1967 è lo scritto che mette in rapporto l’oggetto dei suoi studi con il contesto culturale in cui si posa, si è posato in passa- to e si vorrebbe che si posasse in futuro, Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile. Di quegli anni è il libro forse più famoso, Il terribile diritto (1981) più volte ripubblicato fino all’edizione del 2013 che porta un’aggiunta nel titolo: Studi sulla proprietà privata e i beni comuni. Questa riedizione- integrazione è una testimonianza della continuità del suo impegno scientifico e civile. L’idea, anzi la categoria ricorrente come oggetto polemico in tutti i suoi scritti è la “logica proprietaria” o, potremmo dire, rapace, la logica che fagocita tutto e tutti nei meccanismi del mercato e mercifica ogni bene mettendolo a disposizione della predazione dei più forti e sottraendolo ai deboli. Contro questa forza distruttiva delle relazioni tra gli esseri umani stanno innumerevoli scritti e interventi nelle più diverse sedi. Mi limito a ricordare Logica proprietaria tra schemi ricostruttivi e interessi reali del 1978. Ma la critica alla logica proprietaria e, in fin dei conti, all’egoismo dei potenti che schiaccia gli impotenti dividendo la società in due parti è il filo conduttore di tutti gli scritti, direi di tutto il suo impegno a favore di un’etica dei diritti. Di diritti e libertà, Stefano si confessò “innamorato” nel suo intervento del 2004 alle Lezioni Bobbio (Einaudi, 2006) e, in effetti, come tutti gli innamorati che non sanno staccarsi dal loro amore, le occasioni per ritornare a esso, approfondire, denunciarne i tradimenti sono state numerosissime. Non è possibile, in questa sede, nemmeno farne un elenco. La summa del suo pensiero è raccolta nel fortunatissimo volume Il diritto di avere diritti del 2012 che già nel titolo — una citazione da Hannah Arendt la quale si riferiva alla condizione degli ebrei d’Europa sradicati, privati d’ogni diritto e esposti a qualsiasi impune violenza — si volge a considerare la condizione di coloro, sempre più numerosi nel tempo attuale, che dalla concentrazione dei capitali, dall’economia e dalla tecnologia alleate in una corsa frenetica, dalla depredazione dei territori e dai disastri ecologici, sono privati della base stessa da cui poter reclamare una qualsiasi protezione: gli sradicati della terra. Non sempre, dunque, i diritti producono frutti benigni. I diritti dei potenti, quando entrano in conflitto con la condizione degli impotenti, producono effetti perversi. Diventano volano per accrescere le ingiustizie e le distanze sociali nell’economia, nella conoscenza, nella partecipazione politica. Possono trasformarsi da strumenti della libertà e della liberazione in strumenti dell’oppressione. Ciò non solo per la prepotenza degli uomini ma anche per lo sviluppo distorto di tecnologie capaci di massificare l’umanità, di trasformarla in una grande arena dell’ubbidienza dominata dall’inganno, di aprire la stagione del “post-umano” in cui l’uomo entrerà in competizione con le macchine pensanti da lui stesso pensate e sarà soggetto — beneficato o maledetto — alle ingegnerie genetiche. Nell’ultima fase delle sue riflessioni, Stefano si è aperto a temi che sono al confine tra la filosofia e il diritto, trattando di persona umana, dignità, solidarietà, verità, autodeterminazione, perfino di amore ( Diritto d’amore, 2014). Questi entrano nei titoli di suoi brevi saggi e nelle diverse parti del
Diritto di avere diritti, di cui occorrerebbe leggere con attenzione il Prologo. Vi troviamo testimoniata ancora una volta la fede nei diritti, ma in modo sorprendentemente problematico per un “innamorato”. Proietta un’ombra inquietante il timore circa le disfunzioni sociali ch’essi possono provocare già oggi e ancor di più nel prossimo futuro quando essi entrano nel grande affare della mercificazione generalizzata di tutti i beni della vita e perfino degli esseri umani come tali. Si potrebbe dire che i diritti, pilastri della civiltà che abbiamo concepito, tra tante cose buone portano in sé non poche tossine e che queste stanno crescendo e occorre richiamare su di esse la nostra attenzione. In un discorso del 1987 Norberto Bobbio aveva tracciato un bilancio della storia dei diritti umani e, avventurandosi sorprendentemente (per uno come lui) sul terreno infido e controverso del “progresso morale” dell’umanità, aveva sostenuto che almeno sotto un aspetto si poteva vedere un segno positivo: «La crescente importanza data nei dibattiti internazionali, tra uomini di cultura e politici, in convegni di studio e in conferenze di governi, al problema del riconoscimento dei diritti dell’uomo». Rodotà certamente condivideva questo giudizio. Solo in base a tale condivisione si comprende la quantità di energie intellettuali ch’egli ha dedicato a questo tema. Ma, forse, nel bilancio finale si è insinuata la domanda: progresso sì, ma verso che cosa? Per questo, occorre ora concentrare l’attenzione sulle degenerazioni, non per tornare indietro come sognano coloro che rimpiangono tempi andati che non ritorneranno mai più. Rodotà non era affatto un nostalgico. Il suo sguardo è stato sempre rivolto al futuro, è stato un precursore. I suoi scritti sulle tecniche informatiche, sulla “rete”, fino alla “rivoluzione digitale” non si contano. Già nel 1973, quasi cinquant’anni fa, quando ancora nessuno ne parlava, aveva pubblicato un testo dal titolo piuttosto démodé, addirittura archeologico, che fa pensare alle macchine che allora leggevano le schede perforate ed ora farebbero sorridere qualunque tecnico informatico alle prime armi: Elaboratori elettronici e controllo sociale. In breve tempo, questo tema, collegato ai diritti della privacy e alla formazione dei grandi imperi informatici capaci non solo di abbattere le barriere che proteggono la vita privata, ma anche di controllare e ricattare i governi, sarebbe diventato cruciale e Rodotà in Italia e non solo in Italia, sarebbe diventato uno dei maggiori esperti in materia.
Se ho indugiato su queste citazioni e su questi ricordi è perché essi testimoniano di una fedeltà e di una coerenza che, al di là dei bilanci sull’opera scientifica che certamente sarà adeguatamente studiata in sede accademica, sono ciò che con maggiore vivezza mi si presenta alla mente a poco più di tre mesi dalla scomparsa di Stefano, il nostro compagno che abbiamo ammirato prima e rimpiangiamo ora e che possiamo avere ancora tra noi nel ricordo e nello studio di ciò che ci ha lasciato.
Questa mia testimonianza, pur nella sua brevità, sarebbe gravemente incompleta se non menzionassi il suo rigoroso contributo alla difesa e alla valorizzazione della Costituzione, anche qui in coerenza col programma di quel gruppetto di giovani giuristi che alla fine degli anni ’60 si ritrovarono per farne il programma d’una politica del diritto. Quanti dibattiti, quanti articoli di giornale e quante interviste, quanta generosità nell’aderire a iniziative di associazioni e circoli culturali. È stato detto che Rodotà e tanti altri con lui avevano idealizzato la Costituzione come “la più bella del mondo”, sciocca espressione usata per accusare i suoi difensori di vuoto idealismo, di estetismo costituzionale cieco di fronte a cose concrete come le esigenze di semplificazione del sistema politico, di velocità del decidere, di “governabilità”. Non è stato affatto così: si trattava di un’altra visione istituzionale che aveva a cuore la difesa di una certa idea di democrazia partecipativa perfettamente in linea con la difesa dei diritti. Questa visione per anni ha alimentato idee anticostituzionali, ispirate a quella che si potrebbe dire la “democrazia decidente” che è (se così si può ancora chiamare) democrazia “discendente”. Non si sarebbe trattato, dunque, di ingegneria costituzionale indirizzata al miglioramento delle istituzioni ma di uno stravolgimento, anzi di un rovesciamento oligarchico. Sappiamo che cosa è l’oligarchia. Ce lo dicono i classici: il governo dei privilegiati, i diritti dei più forti, dei più ricchi. Questo è spiegato in un libretto che Stefano ha scritto in occasione del referendum del 4 dicembre, Democrazia e costituzione. Perché dire no: uno scritto militante a favore della Costituzione, dei diritti di tutti, di quella che si chiama la “cittadinanza attiva” dei cittadini.
Anche in questo ultimo impegno pubblico vediamo la sua coerenza, associata alla costante denuncia del degrado crescente della classe politica e della corruzione dilagante. La retorica delle riforme è stata il tentativo fraudolento di dirottare l’indignazione sulle istituzioni per liberarsi delle responsabilità proprie e, addirittura, per dotarsi di regole costituzionali protettive che avrebbero reso ancora più difficile di quanto già sia il contrasto ai mali della nostra vita pubblica. Rodotà ha denunciato tutto questo in un altro libro in cui egli non ha esitato a darsi del moralista ( Elogio del moralista, 2013), ben sapendo che questa parola gli avrebbe attirato la critica, anzi l’ironia, dei realisti cinici che la sanno lunga e si fanno beffe dell’etica in politica. Ciò che ha impedito a Rodotà di assurgere a cariche anche più importanti di quelle pur importanti che ricoprì è precisamente la sua indisponibilità a partecipare ai giri, ai circoli di quel tipo di realismo.
Per queste e per tante altre ragioni ci troviamo qui a ricordare il nostro amico e a dolerci della sua scomparsa, a dolerci d’un vuoto nel mosaico in cui amiamo collocare noi stessi. Ma c’è molto d’altro che difficilmente potremmo esprimere in pubblico e più facilmente conserveremo dentro di noi. Riempiremo a lungo il vuoto ricordando spesso e con rimpianto l’immagine austera di Stefano, un’immagine che creava attorno a lui un’aura di rispetto. E ricorderemo i modi affabili, il volto scavato e pensieroso e anche, purtroppo, sofferente degli ultimi mesi in cui l’abbiamo avuto con noi, sempre fino all’ultimo, generoso del suo tempo, della sua cultura e della sua passione.

La Stampa 2.10.17
Catalogna
Il colpevole silenzio dell’Europa
di Stefano Stefanini

Si apre, per la Spagna, la crisi più grave dalla fine della dittatura franchista nel 1975. Quello di ieri, in Catalogna, è stato un disastro politico annunciato – ed evitabile – nell’assordante silenzio dell’Europa. L’indomani è il giorno dell’incertezza. Carlos Puigdemont può dichiarare l’indipendenza della «Repubblica catalana» nel giro di 48 ore.
Come risponderà Mariano Rajoy? L’Ue e le grandi capitali europee possono continuare a restare alla finestra?
Il 1° ottobre del 2017 è la data che scava un abisso fra Madrid e Barcellona. Non per il voto catalano pro-indipendenza, troppo imperfetto per far testo, ma per il tentativo spagnolo d’impedire ai cittadini, con la forza, di esprimere la propria opinione. Per di più è stato un mezzo fallimento. La maggior parte dei seggi, o comunque molti, sono stati aperti e funzionanti. In compenso Madrid ha pagato un costo altissimo nelle immagini della polizia contro una folla che di violento non aveva nulla. Non erano i «No Global» di Genova. Non volevano sovvertire il sistema. Volevano andare a votare. E sfidavano la polizia, manganelli e pallottole di gomma comprese.
Quali che fossero le ragioni costituzionali di Madrid, sono naufragate nelle strade e nelle piazze catalane. La Spagna può ancora evitare il precipizio ma solo se entrambe le parti saranno capaci di fare un passo indietro e tornare a far politica. Sembra difficile dopo il confronto di ieri. Gli animi sono riscaldati. Rajoy pretende che l’episodio sia chiuso con un nulla di fatto; se lo pensa veramente non ha capito quanto è successo. Tocca ora anche all’Ue e ai leader europei far capire a Madrid come agli indipendentisti catalani che il muro contro muro conduce a una catastrofe politica. Il silenzio di Bruxelles, forse benintenzionato, diventa indifferenza callosa.
Con una scelta legalistica e impolitica, il premier spagnolo ha regalato agli indipendentisti catalani un successo a tavolino che avrebbe potuto vincere o pareggiare sul campo. Aveva dalla sua la maggioranza silenziosa dei catalani che non chiedeva la secessione, più la Costituzione che gli permetteva di ignorare il risultato del referendum come esercizio extra legem. Facendone una prova di forza ha costretto i catalani, anche la palude degli indecisi, a schierarsi. I cittadini pacifici che ieri sfidavano la polizia si ribellavano all’idea di non poter pronunciarsi sul proprio futuro. In democrazia non c’è legge che possa spiegarlo, non c’è Costituzione che tenga.
Non chiamiamolo referendum. La consultazione si è svolta in circostanze quantomeno anomale, con urne aleatorie e conteggi altamente problematici. Si può solo osservare che malgrado gli ostacoli frapposti dalla polizia l’affluenza è stata elevata e che, del tutto prevedibilmente, il voto è stato massicciamente a favore dell’indipendenza. Chi è contro non è certo andato alle urne. Puigdemont ringrazia Rajoy: il risultato sarebbe stato diverso se Madrid avesse chiuso un occhio. Chiamiamola svolta politica che mette le ali al nazionalismo catalano: per Madrid molto peggio di un referendum.
L’indipendenza di chi non ce l’ha non riscuote molte simpatie nella comunità internazionale. Chiedere al 98% dei curdi che l’hanno votata. L’Onu è ancorata agli Stati esistenti, beati possidenti di sovranità nazionale e tutt’altro che disposti a creare precedenti che la minaccino o la frazionino. Salvo poi arrendersi all’evidenza quando il coperchio salta come in Urss e nell’ex Jugoslavia.
Dall’Ue ci sarebbe però da aspettarsi di meglio; per rispetto di democrazia sostanziale e per lungimiranza strategica. A Tallinn i leader europei non hanno parlato di Catalogna per non offendere l’assente Rajoy; non hanno parlato di Brexit, dopo l’importante discorso di Theresa May a Firenze, per non invadere il campo della Commissione. Danno l’impressione di evadere i veri problemi sul tappeto fino a che non diventino crisi di cui siano costretti ad occuparsi.
Le pressioni secessioniste e indipendentistiche, non solo politiche, sono reali; ma non hanno nulla d’irresistibile: sono gestibili e contenibili, se affrontate con la politica – Scozia e Quebec docent. Se l’Ue non lo farà il camion del rilancio e dell’integrazione ripartirà con un carico di cocci anziché di vasi.

Repubblica 2.10.17
La Ue sostiene Rajoy “La Costituzione va sempre rispettata”
Ma la linea del silenzio di Bruxelles sta diventando un caso “La violenza è da condannare, in queste fasi serve il dialogo”
di Alberto D’Argenio

BRUXELLES. Per settimane le istituzioni europee sono rimaste in silenzio fingendo di ignorare quello che stava per accadere in Catalogna. Alla giornaliera conferenza stampa di mezzogiorno, i portavoce della Commissione di fronte alle domande della stampa internazionale con un imbarazzato «bisogna rispettare la Costituzione spagnola» implicitamente sostenevano Mariano Rajoy. E anche ieri sera, a violenze consumate, si trinceravano dietro al “no comment”, promettendo una tardiva reazione per oggi. Un silenzio assordante, quello di Bruxelles, fondato su solide ragioni politiche, giuridiche e di convenienza. Che però non giustificano l’assenza di qualsiasi tentativo di mediazione tra Madrid e Barcellona.
Le tre istituzioni Ue sono guidate da esponenti del Partito popolare europeo (Tusk, Juncker e Tajani), lo stesso Ppe di Mariano Rajoy. Ma anche dai governi a guida socialista negli ultimi giorni nessuno ha fatto sentire la sua voce. Allo stesso summit di Tallinn, giovedì e venerdì, nei discorsi riservati nessun leader ha criticato Rajoy, rimasto a Madrid per seguire la situazione catalana. La ragione è semplice: il referendum era giudicato illegale per le modalità con le quali è stato indetto. E se nessun leader vorrebbe trovarsi nei panni di Rajoy, oltretutto in Europa vige la regola aurea per cui nessuno si intromette nelle faccende interne di un altro Paese.
Solo le sfumature erano diverse, con i leader di centrosinistra riservatamente preoccupati per la linea dura con la quale il premier spagnolo si preparava a gestire il voto di ieri. Quelli di centrodestra, legati al Partido Popular, non criticavano nemmeno l’atteggiamento muscolare della Moncloa. Così ieri nel silenzio dei vertici delle istituzioni Ue e soprattutto del centrodestra al Parlamento europeo che attendevano di capire fino a che punto avrebbero potuto difendere Madrid, solo la first minister scozzese, Nicola Sturgeon, si diceva «preoccupata» per le violenze della polizia. Quindi, a metà giornata, soltanto un premier ha parlato, il socialista belga Charles Michel, uno che in casa tra valloni e fiamminghi non vive certo una situazione facile. Eppure ha detto: «La violenza non può essere la risposta, serve il dialogo politico».
A livello Ue solo alcune famiglie politiche si sono prese la libertà di esprimersi. Il capogruppo dei socialisti all’Europarlamento, Gianni Pittella, ha dato voce al sentimento che si respira nel centrosinistra europeo: anche se il referendum «non è valido», abbiamo assistito a «un giorno triste per la Spagna e l’Europa, le voci dei cittadini in piazza in Catalogna devono essere ascoltate». Con critica a Rajoy, che «per mesi non ha agito» alla ricerca di una mediazione politica.
Oltre ai socialisti si sono espressi anche i liberali, con il capogruppo al Parlamento europeo, l’ex premier belga Guy Verhofstadt: «Non voglio interferire con le questioni domestiche della Spagna, ma condanno assolutamente quanto accaduto. È tempo di una de-escalation». Altra voce socialista, ma non di governo, è arrivata da Londra, con il capo del Labour, Jeremy Corbyn, che ha condannato l’uso della forza.
Dopo le centinaia di feriti di ieri sarà difficile che le istituzioni Ue restino in silenzio, se non altro perché oggi a Strasburgo si apre la plenaria dell’Europarlamento. E se non ci sarà una posizione chiara in tanti a Strasburgo saranno pronti a ripetere le parole pronunciate ieri dall’europarlamentare dello Sinn Fein, Matt Carthy: «L’atteggiamento di Bruxelles è imbarazzante».

Corriere 2.10.17
Luis Sepúlveda
«Ora una riforma della Costituzione o la Spagna non avrà un futuro»
intervista di Sara Gandolfi

Barcellona «Mariano Rajoy sta giustificando la brutalità dimostrata dalla Guardia Civil e dalla Policía Nacional contro una popolazione civile, contro cittadini che, con o senza ragione, volevano solo andare alle urne e votare». Luis Sepúlveda, scrittore cileno che ha scelto di vivere in Spagna il suo lungo esilio, e di cui è appena uscito in Italia il libro Storie ribelli (Guanda editori), risponde al Corriere proprio mentre in tv scorrono le immagini della conferenza stampa del premier spagnolo. E non gli piace nulla di quello che sta ascoltando. «Fino a pochi giorni fa, il numero dei catalani disposti a partecipare al referendum era la metà di quelli che hanno poi tentato di votare. Non hanno votato per o contro l’indipendenza, votavano per il diritto a decidere liberamente, e contro l’arroganza di un governo ottuso, troppo vicino al franchismo, troppo immobile e insensibile ai problemi che si devono risolvere in modo politico e mai con la forza della repressione».
I suoi colleghi Vargas Llosa e Javier Cercas hanno definito il referendum un golpe…
«Sciocchezze. Chi ha fatto un colpo di Stato? Quelli che sanguinavano nelle strade e negli ospedali della Catalogna?».
Come si è arrivati fin qui, chi sono i «colpevoli»?
«C’è stata una lunga serie di offese e incomprensioni tra lo Stato spagnolo e la Catalogna, e la situazione si è aggravata quando il Tribunale costituzionale, composto da giudici in maggioranza di destra, ha eliminato lo Statuto d’autonomia catalana, votato e approvato dal Parlamento della Catalogna. Poi c’è l’immobilismo della destra, la tattica di Rajoy è non fare nulla, perché tutto scivoli via, senza curarsi dei costi sociali e politici. È mancato il dialogo da entrambe le parti, però soprattutto è mancata la volontà politica da parte del governo spagnolo per aprire le porte a questo dialogo. La destra ha sempre fatto affidamento più sulla repressione che sul dialogo».
La politica ha alimentato l’odio?
«Vivo in Spagna da tempo e ho potuto constatare come i settori più retrogradi della società spagnola, quella parte della popolazione con diritto di voto che appoggia senza tentennamenti la destra, ha estratto dai vecchi resti della storia ciò che c’è di più rancido e assurdo del nazionalismo fascista. La destra ha avvelenato la politica con l’odio, e lo stesso hanno fatto in Catalogna quelli che credono che l’indipendenza sia un atto di magia».
Tra Barcellona e Madrid ci sono però anche ferite storiche ancora aperte. La transizione non ha funzionato?
«La transizione fu un patto del silenzio. E nella storia i silenzi si rompono sempre».
Forse alla Spagna serviva un processo di riconciliazione come quello avvenuto in Cile?
«In Cile si è imposta l’amnesia come ragione di Stato. Di quale riconciliazione si parla quando lo Stato ancora non chiede scusa alle vittime, e i torturatori e i loro complici continuano a vivere in situazioni di privilegio, compresi quelli che stanno in carcere?».
Allora come risolvere l’impasse qui in Spagna?
«La soluzione è politica e passa da una riforma della Costituzione spagnola. La Spagna deve essere uno Stato federale. Oggi però, dopo la giornata di repressione e le dichiarazioni ottuse di Pedro Sánchez, il leader del Psoe, in Catalogna c’è più volontà indipendentista che mai».
Così possono iniziare le guerre civili?
«La società catalana è colta, civilizzata, dialogante, moderna. I catalani non darebbero mai inizio a una guerra civile».
Crede in una Spagna plurinazionale?
«La Spagna è un insieme di nazioni e il suo futuro è federale e repubblicano. O non avrà futuro».

Repubblica 2.10.17
L’intervista.
Lo scrittore Irvine Welsh “L’indipendenza è un’idea progressista”
“Schiaffo alla democrazia Madrid prenda esempio dalla Gran Bretagna”
di Enrico Franceschini

LA SOVRANITÀ deve appartenere al popolo e non a un governo che si oppone con atteggiamenti imperialisti
La somiglianza con la Scozia è evidente: due culture che furono indipendenti vogliono tornare ad esserlo
Scrittore e drammaturgo, Irvine Welsh nasce in Scozia nel 1958.
“Trainspotting” è il suo primo romanzo e il suo più grande successo, con milioni di copie vendute in tutto il mondo. Dal romanzo, il celebre film del ‘96 diretto da Danny Boyle. Sostenitore dell’identità scozzese e dell’indipendenza, Welsh vive tra Dublino e Miami e insegna scrittura creativa a Chicago

LONDRA. «La Scozia dovrebbe servire da esempio alla Catalogna, ricordando alla Spagna che si può essere pro o anti indipendenza, ma bisogna essere comunque pro democrazia ». È il giudizio di Irvine Welsh, lo scrittore scozzese che continua a battersi per la secessione della terra di Braveheart dal Regno Unito. «Più un governo centrale si oppone a una consultazione democratica, più indebolisce le proprie ragioni», ammonisce il 59enne autore del best-seller cult “Trainspotting” e di tanti altri romanzi in questa intervista a
Repubblica.
La Spagna ha cercato di impedire il referendum in Catalogna: vista da uno che di referendum per l’indipendenza ne sa qualcosa, che effetto le fa questa sfida?
«È un terribile schiaffo alla democrazia. Tutte le nazioni hanno diritto all’autodeterminazione. La sovranità deve appartenere al popolo e non a un governo con atteggiamento imperialista che cerca di nascondersi dietro le leggi di una costituzione di stampo franchista».
Ritiene ancora possibile un dialogo tra le autorità di Barcellona e di Madrid dopo l’escalation di questi giorni?
«Bisognerebbe sempre cercare il dialogo e spero che sia ancora possibile anche in questo caso. Gli spagnoli, come i catalani, sono democratici. Gli uni e gli altri devono imparare a convivere come amici e buoni vicini di casa. In che modo, dovranno deciderlo democraticamente insieme. Ma i governi devono rendersi conto che essi esistono per servire la democrazia: non è la democrazia che esiste per servire i governi assecondando i loro desideri ».
Lei vede somiglianze fra quello che sta accadendo in Catalogna e l’ormai lunga lotta per l’indipendenza della Scozia?
«La somiglianza è evidente: due popolazioni e due culture che furono indipendenti vogliono tornare a esserlo. Entrambe si sentono profondamente europee e chiedono di rimanere nella Ue. Entrambe aspirano a mantenere buoni rapporti con il Paese che intendono lasciare. Ma c’è anche qualche differenza. La Scozia ha ora un motivo in più per chiedere l’indipendenza: restando parte della Gran Bretagna si ritroverà fuori dall’Unione Europea. A meno che la Gran Bretagna ci ripensi».
E ci sono delle lezioni per Spagna e Catalogna nel conflitto che si è sviluppato finora fra Regno Unito e Scozia?
«Penso che la Spagna abbia compiuto un terribile errore a ostacolare il referendum catalano. Un errore che il governo britannico non ha fatto. Poco importa cosa è previsto da presunte leggi costituzionali: le leggi sono sempre interpretabili a seconda delle esigenze dei politici. Nel lungo periodo, più un governo centrale democratico si oppone a una consultazione democratica, più quel governo indebolisce le proprie ragioni e i propri diritti. Questa è la lezione che Madrid dovrebbe apprendere da Londra. Che uno sia pro-indipendenza o anti-indipendenza, deve essere pro-democrazia e avere il coraggio di lasciare decidere al popolo».
Anche i curdi vogliono fare un referendum per l’indipendenza, contro il volere di Turchia e Iraq. Come valuta questa sempre più diffusa tendenza all’indipendentismo?
«Gli stati nazione che esistono oggi sono costruzioni artificiali che furono in gran parte formate in un’era imperialista pre-democratica. Molti di questi stati hanno fatto a meno di modernizzarsi, al punto che oggi non sono adeguati alle esigenze dei propri cittadini. Esistono al servizio delle élite, non del popolo. Per questo penso che sia necessario evolvere lo stato contemporaneo, in modo che renda maggiormente conto del proprio operato ai poteri locali. In modo che lo stato esca dall’ombra del post-feudalesimo e risponda ai bisogni della democrazia ».
A proposito della Scozia, dopo il deludente risultato per il suo partito alle elezioni di giugno, in cui ha mantenuto la maggioranza ma ha dimezzato i propri seggi, la premier indipendentista Nicola Sturgeon ha rinviato a data da destinarsi la convocazione di un secondo referendum per la secessione. Gli indipendentisti hanno già perso il primo, tre anni fa, 55 a 45 per cento. È la fine delle istanze indipendentiste scozzesi?
«Penso e spero che il secondo referendum prima o poi si farà. L’indipendenza scozzese è un ideale profondamente progressista. È venuto il momento di realizzarlo».
E sarà la Brexit a causare l’indipendenza della Scozia?
«La Brexit è una decisione nostalgica e reazionaria, ma è stata resa possibile soltanto a causa del corrotto neoliberalismo che ha preso il sopravvento sia in Gran Bretagna, sia nella Ue. Dovranno essere le nuove nazioni emergenti, come Scozia e Catalogna, a esprimere lo spirito di una nuova Europa unita e progressista».

Il Fatto 2.10.17
Tentennando
Pisapia: “Contro il Pd se c’è il Rosatellum”
Supercazzole - Alla festa di Mdp l’ex sindaco non chiarisce del tutto le intenzioni
Pisapia: “Contro il Pd se c’è il Rosatellum”
di Tommaso Rodano

Ma cosa avrà voluto dire Giuliano Pisapia? Al quinto minuto di una lunghissima frase, stracolma di parentesi e incisi, i colleghi delle agenzie di stampa si scambiano sguardi interdetti. “Che ha detto Pisapia?”. Mistero.
Siamo a Napoli, quinto ed ultimo giorno della festa nazionale di Articolo Uno Mdp. L’ex sindaco di Milano è atteso come una profezia della Sibilla. Chiarirà i suoi dubbi? Vuole essere alleato del Pd o vuole fare un partito con Bersani e D’Alema? La vuole o non la vuole, questa benedetta lista unica della sinistra? Proprio come la Sibilla, quando Pisapia parla, servirebbe qualcuno che lo sappia interpretare: “Noi come Campo progressista siamo partiti pensando a un campo largo di una sinistra di governo. Se la volontà è quella di arrivare a questo campo largo, non dobbiamo perdere neanche un’anima o una persona”.
Quindi? “Invece c’è chi ha costruito il suo piccolo partitino”. Di chi sta parlando? Di Fratoianni e di Sinistra italiana? Di Bersani, D’Alema, Speranza e dello stesso Mdp? Prosegue: “Avrei voluto fare insieme questa festa, mi dispiace che sia la festa solo di Mdp”. Proviamo a tradurre: invece di fare un partito da soli, Bersani e D’Alema si sarebbero dovuti “sciogliere” nel “campo largo” del nuovo centrosinistra. E ora, come si procede? Insieme o sparpagliati? Ancora mistero. Accanto a lui c’è Speranza. Gioca in casa, è ispirato e insolitamente risoluto, per il suo carattere mite: “Stiamo perdendo la nostra gente perché parliamo solo di noi stessi. Non riesco a capire un solo motivo per cui io e Pisapia non dovremmo essere nello stesso partito. Dico basta, il tempo è scaduto, tra pochi mesi si sciolgono le Camere. C’è bisogno di uno scatto vero. A novembre lanciamo un’assemblea democratica per costruire una nuova forza che unisca le culture politiche che si battono contro le diseguaglianze”. L’assemblea costituente, insomma, della nuova lista. Sarà il 19 novembre. Pisapia ci sarà? Altro mistero. L’ex sindaco, se non altro, consegna alla platea napoletana una promessa semi definitiva sull’eventuale cartello alle urne col partito di Renzi, a malincuore: “Con questa legge elettorale non c’è possibilità di alleanza con il Pd, può dispiacere o far piacere non lo so, ma è la realtà”. Con il Rosatellum, inoltre, Mdp e Cp sarebbero costretti a schierare candidati alternativi al Pd in ogni collegio. Lo dice Speranza, lo riconosce Pisapia.
Oggi i due incontreranno insieme Gentiloni per portare le loro richieste sulla stabilità: “La prima sfida – annuncia l’ex sindaco – sarà nella legge di bilancio. Se riusciremo a dare discontinuità su lavoro, giovani e ambiente, avremo dei passi avanti, in vista del voto”. Non gli si chieda d’esser più chiaro.

La Stampa 2.10.17
Pisapia e Mdp, dialogo senza intesa
“Ognuno farà la sua assemblea”
Dibattito alla festa di Napoli. Oggi insieme da Gentiloni per la legge di stabilità
di Francesca Schianchi

«Non sono qua per verificare l’applausometro o altro, ma per essere chiaro». Completo grigio e camicia bianca, sguardo sulla platea che affolla il delizioso chiostro di Santa Chiara, alle soglie di Spaccanapoli, lì dove in prima fila siedono vari dirigenti di Mdp ma non i primi attori del partito Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani, mentre promette chiarezza l’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia viene accolto da un applauso tiepido in questa Festa del Lavoro di Mdp. Un’accoglienza educata come si deve a un ospite, più che al leader in pectore.
Poco prima che salisse sul palco, per un’intervista incrociata con il coordinatore di Mdp Roberto Speranza, l’aspettativa era dichiarata: che l’avvocato milanese, designato ma riluttante leader di una federazione alla sinistra del Pd, desse finalmente il via all’operazione. Con parole nette e certe: quelle che usa, infastidito da alcune polemiche delle ultime settimane, per togliersi qualche sassolino dalle scarpe, per indicare quello che non ha funzionato, anche per assicurare una comunanza di programma che una delegazione da lui guidata - annuncia - discuterà oggi con il premier Gentiloni in vista della legge di bilancio. Molto meno chiare però - lamenta alla fine qualche bersaniano - quelle usate per dare un impulso vero al progetto comune.
«Dal 1° luglio al 1° ottobre non siamo stati all’altezza del compito che avevamo: non riesco a capire perché io e Pisapia non siamo nello stesso partito», fa autocritica per primo Speranza. «La mia idea era che ognuno si sciogliesse in un campo più ampio: invece c’è chi ha costruito il suo piccolo partitino», rimprovera Pisapia proprio chi lo sta ospitando, «anche questa festa, io l’avrei voluta fare insieme». Va bene, concede il giovane coordinatore di Mdp, in jeans e camicia, «noi siamo pronti a fare un salto, gettiamo il cuore oltre l’ostacolo e facciamo una grande assemblea democratica», chiede. Una sorta di appello che però, verificano alle fine sconsolati da Mdp, cadrà nel vuoto: «Il 14 ottobre facciamo la nostra assemblea, di Campo progressista», si limita a ricordare ai giornalisti alla fine Pisapia.
Un «noi» e un «voi» che si cerca di annullare nei programmi: oggi, a Palazzo Chigi, Pisapia e Speranza, coi due capigruppo La Forgia e Guerra, porteranno proposte su sanità, pensioni e lavoro, un piano di investimenti per la cura del territorio. «Chiediamo una discontinuità sui temi sociali», ricorda Speranza. «Con Gentiloni c’è stata già una discontinuità nel metodo, nei toni», sottolinea Pisapia. Anche se non c’è la minaccia, pure ventilata da più parti nei giorni scorsi, di non votare la manovra: «Non siamo quelli che vogliono portare la troika nel Paese», mette in chiaro il coordinatore di Mdp; «Non sei un pokerista, vero? Se no non ti saresti già giocato questa carta...», il rimprovero scherzoso dell’ex sindaco milanese.
Sul rapporto col Pd - impossibile per una parte di Mdp, almeno finché alla guida ci sarà Renzi; mentre Pisapia è sempre stato più dialogante, e ancora ieri diceva di sentirsi «molto vicino ad alcune sue anime» - ci si incontra sulla legge elettorale. «Con questa legge non c’è nessuna possibilità di alleanza col Pd», spiega chiaramente l’avvocato di Milano, d’accordo con Speranza sull’idea che «se passa il Rosatellum bis noi metteremo un candidato in ogni collegio uninominale», per «prendere un voto in più del Pd», frase che Speranza sottolinea soddisfatto come certificazione di una definitiva scelta di campo del corteggiato ex sindaco. Anche se il passaggio più applaudito è stato forse nell’intervista precedente, quella alla presidentessa della Camera Laura Boldrini, quando ricorda che «il popolo di centrosinistra è più unito dei suoi rappresentanti».
Lui che di questo popolo dovrebbe fare il leader, anche se qualcuno già gli preferirebbe il presidente del Senato Grasso (lo ha detto Vendola, e lui risponde che «mi ha infastidito che dica che sono generoso con me stesso»), resta vago su una sua candidatura: «Se uno si mette a servizio fa quel che serve». In lontananza scoppiano dei fuochi d’artificio. «Bella ciao» a tutto volume copre un applauso ancora troppo tiepido per il leader predestinato.

Repubblica 2.10.17
Mossa di Pisapia con Mdp “Insieme da Gentiloni”
Ma sul nuovo partito frena
Oggi incontro a Palazzo Chigi sulla manovra. “Il Pd ora è un competitor” Speranza: una assemblea per la svolta. L’ex sindaco: prima i contenuti
Il leader di Cp: “Con questa legge impossibile allearsi con i dem, punto a prendere un voto in più”
Si è chiusa ieri a Napoli la prima festa del movimento Articolo 1-Mdp
di Conchita Sannino

NAPOLI. «Con questa legge elettorale non c’è alcuna possibilità di alleanza con il Partito democratico. Con questo sistema, gli avversari sono a destra, gli alleati quelli che vogliono contendere spazio ai dem. E l’obiettivo: prendere un voto in più rispetto al Pd». È più chiaro l’orizzonte disegnato da Giuliano Pisapia, il fondatore di Campo progressista che ieri chiude così a Napoli, con Roberto Speranza “padrone di casa”, la prima festa del Lavoro di Mdp. Annunciano anche la prima mossa insieme: andranno oggi dal presidente del Consiglio. «A Gentiloni diciamo che è tempo di cambiare», avverte Speranza. I temi, guardando alla legge di bilancio: «Questione sociale, a partire da Sanità e giovani».
Ancora una volta, però, l’ex sindaco di Milano non dice se correrà da leader. Niente autodesignazione. «La premiership della nuova forza? Mi spiace, continuo a parlare di cose concrete - svicola - Se uno si mette al servizio, fa quello che serve. Un leader non cala dall’alto, è riconosciuto dal basso. E il mio percorso dice che ho provato a sperimentare non il potere, ma il poter fare. Non il sostantivo, ma il verbo».
Bando alle divisioni, «dobbiamo fonderci in una forza nuova, ma intendo proprio scioglierci, seppur gradualmente, per creare un soggetto radicalmente innovativo. E dobbiamo, dopo aver ascoltato tutti, trovare quattro punti, quattro messagi chiari, non di più», auspica l’ex sindaco di Milano dialogando con Speranza, intervistati entrambi sul palco da Stefano Cappellini. Meno determinato, e condiviso, appare però il percorso da seguire per arrivare a questa fusione «non fredda».
Difatti, se Mdp rilancia l’idea di «una grande assemblea pubblica » in cui decidere come affrontare questa trasformazione, Pisapia resta riluttante all’idea di un confronto che finirebbe per tracciare la conta delle tessere: prima i contenuti, è il nodo. Divergenza che trapela, senza troppi dettagli. Ma l’ex primo cittadino chiede al giovane fondatore di Mdp di andare «incontro al popolo della sinistra che sta fuori, e che ha abbandonato in questi anni fiducia ed entusiasmo. La sinistra e il centrosinistra hanno perso 3 milioni e mezzo di voti».
Gremito il cortile di Santa Chiara. A sentire il “finale” con Pisapia sono venuti vari pezzi di sinistra di ogni età e generazione, la serata prevede anche il dialogo con la presidente della Camera Laura Boldrini (che non scioglie la riserva su una sua candidatura e la sua eventuale premiership, ma rilancia - oltre alla corsa contro il tempo per lo Ius Soli e misure interdittive rafforzate contro uomini violenti - il tema delle donne leader «più accettate nel resto d’Europa»). In prima fila, a condividere «una costruzione ampia e nuova» della sinistra c’è Antonio Bassolino, omaggiato da Speranza: tra gli applausi di chi pensa che, chissà, stavolta l’ex governatore lascia i dem.
Il cammino di Pisapia e bersaniani resta da costruire, primo atto l’incontro di oggi con il premier. «Gentiloni non deve temere i voti al Senato: non consegno il paese alla Trojka, ma non si abusi della nostra responsabilità ». Richiamo ironico di Pisapia: «Roberto, si vede che non giochi a poker. Ti sei svenduto una carta così...». Nel mirino resta il Pd. «In caso di voto con il Rosatellum, Mdp e Campo progressista presenteranno un candidato in ogni collegio uninominale alternativo al Pd», avvertono. La chiosa amara, invece, è di Pisapia per Nichi Vendola. «Sono dispiaciuto dalle sue parole, che “sarei molto generoso con me stesso”. Poi, non ho parlato di Ulivo, ma di ispirazione ulivista, e ne ha fatto parte anche lui. Infine, io di assessori che venivano dal centrodestra non ne ho mai avuti».

La Stampa 2.10.17
Riecco cento franchi tiratori sul Rosatellum
di Carlo Bertini

L’esordio in commissione affari costituzionali dell’ultimo accordo trasversale sulla legge elettorale sarà domani, ma non è quella la sede di voto che impensierisce i contraenti del patto, Pd, Fi, Lega e Ap. È piuttosto l’aula della camera, dove i voti segreti saranno tanti e dove gli strateghi del Pd temono incursioni dei franchi tiratori per affossare il nuovo sistema di voto, «rosatellum». La cosa curiosa è che nei calcoli a spanne, fatti ai piani alti dei gruppi parlamentari, ricorre un numero già foriero di guai per il Pd. Se i voti di scarto su cui può contare il «rosatellum» saranno circa 140 sulla carta (una maggioranza più che corposa), vengono messi in conto un centinaio di franchi tiratori: cifra che ricorda i 101 che azzopparono la candidatura di Prodi al Colle. Stavolta però saranno ben distribuiti tra i vari gruppi. «Tra i distinguo dei parlamentari del nord di Forza Italia, e quelli delle minoranze Pd, che temono vi siano troppe candidature bloccate, saranno in tanti a votare contro, ma contiamo lo stesso di farcela», dicono i dirigenti Dem. Se passasse alla Camera intorno a metà ottobre, il «rosatellum» però dovrebbe fermarsi un mese prima di sbarcare al Senato: e nel mezzo ci sarà il voto siciliano con le sue possibili ripercussioni. Insomma le certezze sui posizionamenti reali dei vari partiti al voto di primavera, grazie al calendario delle Camere impegnate con la manovra, si avrà a fine novembre.
Stop «taglia zero»
È l’ultima battaglia in ordine di arrivo dei 5stelle, una proposta di legge lanciata da una deputata siciliana, Azzurra Cancelleri, sorella del candidato alla regione, che punta a stroncare il dogma delle modelle “taglia zero”. Quattro articoli. Dal divieto d’impiegare in sfilate o campagne pubblicitarie modelle con un indice di massa corporea (rapporto tra peso e altezza) pari o inferiore a 18,5, indicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come livello al di sotto del quale si può parlare di malnutrizione. All’obbligo di un certificato medico e di una valutazione psicologica che attestino l’assenza di disturbi alimentari per poter sfilare. Le sanzioni: da una multa di 75mila euro alla reclusione fino a sei mesi; e per i media e tutti quei soggetti che promuovono un’immagine di eccessiva magrezza.

Repubblica 2.10.17
“Intesa con l’ex sindaco? Non è fantascienza”
Ettore Rosato, capogruppo pd alla camera : “Noi vogliamo costruire una coalizione con chi ci sta”
La mia proposta di sistema elettorale è l’unico modo per mettere insieme il centrosinistra
intervista di Monica Rubino

ROMA. «L’alleanza fra noi e Pisapia? Non è fantascienza ». Il capogruppo del Pd alla Camera Ettore Rosato è appena uscito dal cinema The Space di Trieste, dove ha visto
Valerian.
Ma a differenza degli scenari fantastici dell’ultimo film di Luc Besson, l’eventualità di una coalizione con il leader di Campo progressista gli appare più concreta.
Rosato, siete davvero pronti a coalizzarvi con Giuliano Pisapia?
«Più che rincorrere formule e persone abbiamo bisogno di allargare una coalizione politica e civile attorno a un programma».
Con o senza Mdp?
«Noi vogliamo fare una coalizione larga, ognuno poi sceglierà la sua strada. Di certo senza il Pd il centrosinistra non esiste».
Ma le primarie le farete si o no?
«Le abbiamo appena fatte per il nostro segretario. Penso ci si debba trovare sulle idee prima ancora che sui leader. Altrimenti diventa un balletto poco interessante per i nostri elettori. Da una parte c’è la destra, dall’altra i populisti e poi il centrosinistra. Punto».
Se il Rosatellum arrivasse in porto ci sarebbe la possibilità di fare coalizioni. In quel caso chi sarebbero i vostri alleati? «Ripeto: intanto la nostra intenzione è costruire la coalizione su un progetto».
Sì, ma con chi?
«Con chi ci sta. L’invito è aperto a tutti. Facciamo le primarie delle idee, lavoriamo sui contenuti con la consapevolezza di contrastare la destra, che è il pericolo più grande ».
Pisapia ieri a Napoli alla festa di Mdp ha detto che con l’attuale legge proporzionale una coalizione non si può fare. Ma ha aggiunto che il Rosatellum non è la soluzione: il Pd rimane un competitor. Vi conviene insistere su questa legge elettorale o no?
«Stiamo facendo una buona legge per il Paese, bisogna dire agli elettori prima con chi si governa e il Rosatellum lo consente. Inoltre prevede la coalizione, l’unico modo per mettere insieme il centrosinistra».
Secondo Roberto Speranza, leader di Mdp, invece il Rosatellum vi renderà rivali.
«Se qualcuno pensa di fare testimonianza
politica e provare a regalare il governo del Paese alla destra, si accomodi».
Oggi Pisapia e i capigruppo di Mdp andranno dal premier Gentiloni per chiedere un cambio di rotta sulla questione sociale in vista della legge di bilancio. Trova legittima questa esigenza di discontinuità?
«Il fondo sulla non autosufficienza l’abbiamo ricostituito. Abbiamo aumentato le risorse per la sanità, abbiamo creato il più grande investimento pubblico nel contrasto alla povertà, abbiamo aiutato i redditi più bassi. Mi chiedo quale sia la discontinuità che chiedono. Mi sembra un slogan in politichese e non certo un modo per affrontare le questioni che stanno a cuore alla nostra gente».
Decolla l’unione fra Pisapia e Mdp?
«Sono problemi dell’altro campo, non sta a noi interferire. Certo per coalizzarsi ci vuole voglia di andare al governo. Mi sembra però di aver registrato, soprattutto nelle parole di D’Alema, non la volontà di governare il futuro ma solo l’intenzione di non far vincere il Pd. La politica non può vivere di rivalse fra dirigenti».

Repubblica 2.10.17
Il retroscena.
Il governo prepara la trattativa: “Il leader di Campo progressista va aiutato”. E Padoan ha già visto tre volte i bersaniani
Il premier cerca un asse con Giuliano “O mercoledì sul Def si può rischiare”
L’attendismo di Pisapia legato a un possibile passo indietro di Renzi per la premiership La sinistra punta a dirottare i soldi sul sociale: “Ma non faremo arrivare la Trojka”
di Goffredo De Marchis

ROMA. Quando Paolo Gentiloni dice che «bisogna aiutare Pisapia » pensa più alle sorti del suo governo e della legge di stabilità che ai destini della sinistra. Ma la sostanza politica cambia poco: il premier cerca un asse con l’ex sindaco. Vale soprattutto per l’oggi ma può segnare anche la strada di domani.
Oggi è fondamentale trovare un alleato meno minaccioso di Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema. Gentiloni vuole mettere in sicurezza tutti i passaggi di autunno sui conti pubblici. Per garantire il risultato ha bisogno della sponda di un rappresentante della sinistra che non sia fedele agli ultimatum quotidiani dei suoi compagni, i quali ripetono lo slogan “Gentiloni ha solo più stile di Renzi, le sue politiche però sono identiche”. Parole pericolose se dovessero trasformarsi in fatti, ovvero in voti parlamentari contro l’esecutivo.
Da giorni Palazzo Chigi prepara l’incontro di stamattina con l’ex sindaco di Milano. Il premier e Pisapia si sono parlati più volte al telefono. Gli uffici della presidenza del Consiglio hanno concordato i dettagli del vertice, al quale parteciperanno assieme all’ex sindaco solo i capigruppo di Mdp. Matteo Renzi è stato avvertito per tempo, il Pd quindi conosce tutti i movimenti del governo verso una forza parlamentare avversaria dei dem (del suo segretario in particolare) eppure fondamentale in Parlamento per approvare la nota di relazione, l’aggiornamento al Def, la manovra economica.
La prudenza di Gentiloni, in questa fase, si manifesta nel rinvio dello ius soli. E nel prendere sul serio i toni di alcuni fuoriusciti del Pd. Il premier per esempio non può non vedere con quale frequenza si dice, a sinistra, che il governo ascolta Alfano e non loro. Che mancano i tavoli di confronto. Che «i voti di quell’area non arriveranno gratis o in maniera scontata. Si può sempre rischiare». Perché insistere sul confronto mancato infatti quando la realtà è diversa? Quale insidie nascondono queste polemiche?
La capogruppo al Senato di Mdp Maria Cecilia Guerra ha visto ben tre volte, faccia a faccia, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Il titolare del Tesoro le ha illustrato, da economista a economista, i numeri. Ha confermato lo sforzo sul lavoro dei giovani (decontribuzioni per le assunzioni), ha chiesto di avere richieste più precise sulla sanità. Ma è stato netto sulle risorse di spesa che rimarranno alla fine dell’intervento complessivo: una cifra che non arriva al miliardo di euro. Difficile chiamarlo tesoretto, impossibile usarlo per aggiustare i conti della salute pubblica. Per quel capitolo servono sempre molti miliardi. Questa è la base su cui si può discutere. Con il passaggio preliminare del voto in aula al Senato di mercoledì: per approvare la nota di aggiornamento al Def serve la maggioranza assoluta, 161 sì.
Come ha detto ieri Roberto Speranza a Napoli, concludendo con l’ex sindaco la festa di Articolo 1, la sinistra punta a dirottare soldi sui problemi sociali: scuola, lavoro, povertà, servizio sanitario. Ma ha confermato: chiediamo discontinuità ma saremo responsabili, non faremo arrivare la Trojka in Italia. Stamattina a Palazzo Chigi Gentiloni e Pisapia cercheranno delle soluzioni, apriranno un dialogo. Non è detto che arriveranno delle risposte, ma alla vigilia del voto sulla relazione del Def il governo avrà un interlocutore che non cerca la rottura col Pd a tutti i costi. Alla fine, il vertice servirà soprattutto a suggellare un riconoscimento politico. Per Pisapia quello del leader del campo a sinistra del Partito democratico, della personalità in grado di tenere ancora accesa la speranza di un centrosinistra largo senza escludere il Pd.
Però, nella sala di Palazzo Chigi, salterà agli occhi anche un altro particolare. Pisapia ha confessato di non parlare con Renzi da sei mesi, mentre oggi vede Gentiloni. L’impressione è che la mancanza di coraggio imputata da D’Alema all’ex sindaco sia in verità un’attesa. L’attesa di un cambio della guardia dentro il Pd, di una detronizzazione di Renzi. Che può passare dalle dinamiche interne, dal risultato delle regionali in Sicilia e avverrebbe sotto forma di un diverso candidato premier dem per le elezioni politiche. E naturalmente uno dei nomi in pista, tra i tanti, è quello del premier in carica Gentiloni. Del quale Pisapia ha detto ieri: «La discontinuità di metodo c’è. Infatti ha un consenso molto maggiore rispetto a Renzi».

Repubblica 2.10.17
Ius soli, la mappa dei nuovi italiani in Lombardia sarebbero 200mila
Lo studio della Fondazione Moressa. Se passasse la riforma, più di ottocentomila beneficiari immediati. Il record ai bambini con genitori romeni, albanesi e marocchini
I “senza cittadinanza” non si arrendono “Diteci perché non volete votare la legge”
di Vladimiro Polchi

ROMA. Oltre duecentomila nuovi lombardi, 98mila giovani veneti, 95mila tra emiliani e romagnoli, 80mila laziali. È la carica dei “nuovi italiani”: i bambini figli di immigrati che otterrebbero il passaporto tricolore se passasse la riforma dello ius soli. Sul podio, Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna: sono loro le regioni che acquisterebbero più cittadini. Subito sotto, Lazio e Piemonte. Fanalino di coda la Valle d’Aosta, con soli 1.200 nuovi passaporti.
Dopo la frenata di Alternativa popolare, partito del ministro degli Esteri Angelino Alfano, la riforma dello ius soli si allontana sempre più e, nonostante dal Pd si insista a dichiarare di volerla fare, si fa sempre più improbabile la sua approvazione in questa legislatura. Ma non per questo, gli “Italiani senza cittadinanza” si arrendono: «Sfidiamo i politici a venire in piazza a dirci in faccia che la riforma non la vogliono votare». Il movimento in un post pubblicato sulla sua pagina Facebook denuncia tutta la delusione nei confronti della «vigliaccheria» della politica e dà appuntamento davanti a Montecitorio a due anni esatti dal voto della Camera, il 13 ottobre prossimo per il “Cittadinanza Day”.
La riforma, ferma al Senato, è una legge assai modificata rispetto al testo originario, che non introduce affatto uno ius soli puro: insomma, chi nasce in Italia non diventerebbe automaticamente italiano, tanto meno chi sbarca oggi sulle nostre coste. La legge infatti pone due paletti. Il primo: diventa italiano chi è nato in Italia da genitori stranieri, di cui almeno uno titolare del permesso per soggiornanti di lungo periodo e dunque residente da almeno cinque anni e con reddito e alloggio rispondenti ai requisiti di legge (ius soli temperato). Il secondo paletto: diventa italiano anche il minore straniero che sia nato in Italia o vi abbia fatto ingresso entro il compimento del dodicesimo anno di età, solo se ha frequentato regolarmente per almeno cinque anni uno o più cicli scolastici (ius culturae).
La Fondazione Leone Moressa da tempo ha provato a pesare l’impatto della riforma. «L’attuale normativa italiana — premettono i ricercatori — è fortemente sbilanciata verso lo ius sanguinis e, assieme a Danimarca e Austria, è tra le più restrittive d’Europa. Se passasse la riforma in discussione — spiegano — tra ius soli temperato e ius culturae, sarebbero 800mila i potenziali beneficiari immediati (circa il 74% dei minori stranieri in Italia) e 58mila i nuovi potenziali beneficiari ogni anno ». E le provenienze? Stando agli studi della Moressa, tra i “nuovi italiani” sarebbe record di bambini con genitori romeni, albanesi o marocchini. Sarebbero loro a dividersi il podio, subito sotto troveremmo i figli di cinesi, filippini, indiani, moldavi, ucraini, pachistani e tunisini. Quanto alla religione, sarebbero per lo più cristiani, cattolici e ortodossi, uno su tre musulmano. I ricercatori hanno provato a valutare anche la loro incidenza regione per regione. Ebbene, ipotizzando che chi è nato in una regione, ci sia rimasto, emerge subito il record della Lombardia. È la regione con la quota più alta di potenziali beneficiari: 205mila immediati, a cui se ne aggiungerebbero 14.800 ogni anno. Ad accogliere molti nuovi cittadini sarebbero anche Veneto ed Emilia-Romagna (entrambe sopra quota 95mila e con seimila beneficiari in più ogni anno). E ancora: 80mila sarebbero i nuovi laziali, 72mila i giovani piemontesi, 61mila i toscani, 25mila i marchigiani, 23mila i siciliani e 22mila i nuovi cittadini campani. Più modesto l’impatto della riforma della cittadinanza al Sud e nelle piccole regioni. In Calabria, per esempio, se lo ius soli diventasse legge dello Stato si conterebbero 11mila nuovi potenziali calabresi, in Sardegna 4.600 nuovi sardi. Ultime nella classifica, Molise e Valle d’Aosta, con 1.300 e 1.200 nuovi cittadini rispettivamente.

La Stampa 2.10.17
La legge salva abusi edilizi frena per i dubbi del Pd
di Alessandro Di Matteo

Doveva essere di fatto una nuova sanatoria per gli «abusi di necessità», cioè per le case costruite da chi non ha un altro posto dove abitare. Poi il testo iniziale è stato cambiato molto in Parlamento. Ma adesso, arrivati al voto finale, la legge potrebbe comunque bloccarsi. Il fatto è che il testo ancora non convince tanti e dalle parti del Pd, che pure aveva votato il provvedimento al Senato insieme a centristi, Ala e Fi stanno aumentando i dubbi. I democratici sono convinti di avere eliminato i punti critici, ma temono di passare per quelli che strizzano l’occhio all’abusivismo. Per questo motivo è in corso un fitto scambio di pareri tra il capogruppo alla Camera Ettore Rosato e il vertice del partito, Matteo Renzi compreso, che potrebbe portare il Pd a stoppare il provvedimento.
La legge arriva in aula oggi e in teoria entro la fine della settimana dovrebbe esserci il voto finale. Il testo iniziale l’aveva presentato Ciro Falanga, senatore di Ala, che nella relazione introduttiva spiegava: in certe zone d’Italia «l’illegalità, certamente censurabile, ha fornito risposte immediate ad esigenze abitative che meritano considerazione». L’idea era di obbligare il pm a rispettare rigidamente un elenco di priorità nelle demolizioni, lasciando per ultime le case di chi «non dispone di altra soluzione abitativa». Di fatto, un meccanismo che rendeva quasi impossibile procedere alle demolizioni.
Pd e M5s hanno cambiato il meccanismo, ora è il magistrato a decidere i criteri, sia pure tenendo conto delle priorità. Falanga si accontenterebbe del bicchiere mezzo pieno. «Lo spirito della legge è rimasto uguale. Prima di abbattere la casa di un operaio, si abbatte un immobile pericolante, o una speculazione... Non capisco come chi ha votato la legge al Senato ora possa ripensarci».
Ma è quello che sta accadendo nel Pd. Sinistra italiana e Mdp sono già decisi a votare no, come anche M5s, nonostante le parole tenere sull’abusivisimo di necessità pronunciate dal loro candidato in Sicilia. «Anche con le modifiche è un condono mascherato», dice Massimo De Rosa. Nel Pd, Dario Ginefra vuole chiarimenti: «E’ insopportabile la dicitura “abusivismo di necessità”, guardiamo a Ischia...». Rosato aggiunge: «Il contenuto della legge lo abbiamo corretto pesantemente. Ma siamo preoccupati dal messaggio, deve essere chiaro che il Pd è sempre contro l’abusivismo. Stiamo valutando». Il Pd potrebbe chiedere modifiche o addirittura il rinvio in commissione, il che equivarrebbe a mettere la legge su un binario morto. Ermete Realacci conferma: «Non credo che il testo verrà votato così com’è...».

La Stampa 2.10.17
Austria, scatta il divieto totale di indossare burqa e niqab
In vigore la legge che proibisce indumenti che coprano interamente il volto
di Waltyer Rauhe

Guai a definirla come la legge contro il Burqa. Le autorità austriache preferiscono adoperare l’acronimo dal sapore burocratico «AGesVG» che sta per «Legge contro la copertura del volto». Promossa dal ministro degli Esteri e leader del Partito popolare Austriaco (Övp) Sebastian Kurz e approvata dal Parlamento federale a Vienna l’8 giugno scorso, la discussa legge è entrata ufficialmente in vigore ieri ma continua a dividere l’opinione pubblica. Per non farla apparire come una misura discriminatoria e anti-musulmana, il testo della legge non parla esplicitamente delle coperture integrali come il burqa o il niqab indossate dalle comunità islamiche più ortodosse, ma mette al bando tutti gli indumenti, le maschere o gli interventi cosmetici che coprono completamente il viso delle persone rendendoli di fatto non più identificabili. Non un divieto solo del velo islamico insomma, ma anche i caschi dei motociclisti, i passamontagna adoperati ad esempio sulle piste da sci e qualsiasi tipo di mascheramento del volto al di fuori delle circostanze specifiche che ne giustifichino l’uso (ad esempio durante il carnevale).
Il divieto si estende dalla domenica di ieri a tutti i luoghi pubblici e ogni violazione potrà venire sanzionata con una multa di 150 euro. I trasgressori che non sono disposti a scoprirsi il velo di fronte agli agenti che li fermano per strada (o anche sulla pista da sci?) potranno essere posti in stato di fermo e costretti a chiarire le loro generalità in un commissariato.
Al di là delle capriole linguistiche e dell’inventiva ipocrita riscontrabile nel testo della nuova legge, la normativa viene ugualmente definita da tutti gli austriaci come il «Burqa Verbot», il divieto del burqa, e per non rischiare di passare come troppo «politicamente corretto», Sebastian Kurz e il ministero degli Interni a Vienna hanno fatto stampare migliaia di volantini in quattro lingue (tedesco, inglese, turco e arabo) sui quali in modo esemplificativo e con l’ausilio di disegni vengono illustrati i vari tipi di coperture del volto messi al bando dal primo di ottobre. E guarda caso la principale figura adoperata sui volantini è proprio quella di una donna col velo integrale. Va detto che di donne fedeli alla religione musulmana che indossano il burqa o il niqab a Vienna, Salisburgo, Innsbruck «se ne vedono tante quante persone travestite da Arlecchino o da clown nel mese di luglio», ironizza un deputato del partito dei Verdi. Ma in vista delle elezioni legislative in Austria il prossimo 15 di ottobre, ogni mezzo sembra lecito ai politici del centro destra e in particolare al nuovo ed aggressivo presidente del Partito Popolare Övo per gettare un po’ di olio sul fuoco delle polemiche populiste nella speranza di sottrarre voti ai populisti veri e di estrema destra della Fpö.
Alle proteste della sinistra, delle comunità islamiche, delle associazioni umanitarie e di molti Paesi arabi i cui cittadini più abbienti avevano letteralmente invaso negli anni scorsi le località turistiche alpine per le loro vacanze, si sono aggiunte nei giorni scorse le azioni di disubbidienza civile di molti creativi e di quella parte della società civile austriaca ancora tollerante. In centinaia sono scesi in piazza coprendosi il viso con costumi carnevaleschi, sciarpe di lana, cesti di vimini, o indossando anche negli eleganti caffè di Vienna un casco da motociclista. Anche se la nuova legge esclude il divieto di copertura del volto in occasione di eventi «culturali, artistici o di feste folkloristiche», i disobbedienti intendono «smascherare» (nel vero senso della parola) il vero scopo politico della normativa.

Il Fatto 2.10.17
Che, guerriero festoso che previde la sua fine
L’Avana, 31 dicembre 1960: Fidel parla alla folla nel primo anniversario della Revolution. Una storica festa di popolo che io vivo accanto a Guevara
di Furio Colombo

Cuba è diventata subito leggenda. Questo spiega perchè la mattina del 31 dicembre 1960, primo anniversario della rivoluzione giovane e allegra che aveva messo in fuga il dittatore Fulgencio Batista, mentre festeggiava il capodanno all’Hotel Nacional, c’erano Jean Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Francoise Sagan, accanto alla scaletta dell’aereo che veniva dal Messico.
Io, che venivo da New York (allora c’era ancora un collegamento) da giornalista sono stato richiesto, da un soldato non giovane in divisa da Sierra e con la barba, di accostarmi al gruppo perché qualcuno sarebbe venuto a incontrarci. Per quanto si poteva vedere tutto era immobile all’aeroporto e non sembrava che una folla fosse in arrivo o in attesa per un anniversario di cui intanto si stava scrivendo e discutendo ovunque nel mondo. Fidel Castro, con la presa di Cuba e lo spandersi della leggenda, stava già cambiando il paesaggio politico e toccando anche la cultura del mondo.
Nessuno, tranne Castro ha contribuito a costruire la leggenda di Castro, e la vasta simpatia che si stava diffondendo nel mondo, quanto l’ostilità angolosa e cattiva di Richard Nixon, per molti decenni il meno amato dei leader politici americani.
Il nostro gruppo era strano. Sartre era stato invitato personalmente da Fidel. Io arrivavo con un visto a matita scritto sul passaporto da Raulito Castro, figlio di Raul, ventenne che faceva parte della delegazione cubana (quattro ragazzi) inviata in fretta all’Onu dopo la vittoria della rivoluzione, e amico di amici.
È in questa scena immobile e imbarazzata che arriva, troppo veloce, la jeep che sgomma e inchioda e pochi centimetri da noi. Un po’ lo sapevamo già che Guevara era Guevara. Un po’ lo sapeva anche lui, che a quel tempo non aveva ancora rodato il suo modo deliberatamente “rebelde” di presentarsi. Era gentile di indole, e cortese per buona educazione, irrequieto come un ragazzo, non come un soldato, come se non fosse appena tornato da anni di guerra sulle montagne (la Sierra) e non fosse il protagonista di una collezione di episodi che non avevano ancora fatto il giro del mondo e si raccontavano solo a voce.
A me ne aveva parlato per settimane il giornalista americano Herbert Mathews, nella mitica lounge del Palazzo di Vetro. Matthews aveva seguito e raccontato la “revolution” dalla parte di Castro e l’aveva resa popolare in Usa sul New York Times che Nixon chiamava “la Gazzetta di Cuba”).
Non voglio dire che “in su querida presencia” (cito la celebre canzone) il comandante Che Guevara cercasse di non essere il personaggio della storia. Certo occupava spazio e cambiava le proporzioni della scena il fatto che lui fosse li, a un passo, anzi ti stava stringendo la mano con un bel sorriso un pò mondano (la barba a ciuffi, il viso già disegnato nella nostra memoria dagli eventi, ma più bianco e “upper class” delle immagini da combattimento, creava una tensione che era anche la sua. Sentivi l’intento un po’ teso di un uomo allo stesso tempo estroverso e timido, celebre ma anche sconosciuto (a quel tempo) di non farsi chiudere nella parte dell’eroe famoso.
Guidava lui e gli piaceva correre. Un lembo del cappotto grigio spigato di Sartre, che sbatteva al vento, le mani sulla testa della Beauvoir (come per tenere ferma qualcosa), l’aggancio sportivo e saldo della Sagan alle sbarre protettive troppo basse di una jeep di quel tempo, sarebbero stati una bella immagine se ci fossero stati fotografi. Un gruppo (non tutti in divisa, non tutti con la barba) aspettava i Sartre per portarli subito da Fidel o forse, prima, dal presidente della Repubblica, Dorticos. Noi invece siamo arrivati, con sobbalzi che ti facevano saltare sul sedile, in una corsa nervosa e allegra, all’Hotel National, che era stato per decenni il celebre ritrovo della mondanità americana e caraibica, non sempre pulita ma molto narrata .
Me lo ha indicato da fuori con un gesto da regista, le finestre chiuse delle stanza vuote, i cornicioni slabbrati, qualche segno di spari sulla facciata bianco avorio su cui cominciavano a comparire i segni delle grandi piogge. Non c’erano chiavi, non c’era personale, solo un soldato giovane a cui Guevara ha dato la mano. Il salone d’ingresso, rettangolare e lunghissimo, era illuminato da lampadine che pendevano dal muro. Solo un lampadario spezzato dondolava lievemente. Degli altri restavano i fili. Con la mano sulla spalla mi ha incoraggiato, mi ha detto di non preoccuparmi. Alcune stanze erano in ordine, ma avrei dovuto rifarmi il letto la mattina e portarmi in camera acqua da bere. Quella dei rubinetti non era sicura.
Lui tornava a prenderci la sera, per la gran fiesta e il discorso di Fidel. La camera era grande e bellissima, anche se non c’erano tende alla grande finestra, anche se l’intonaco bianco e il legno bianco e laccato dei mobili non erano privi di segni di qualche evento che aveva richiesto rudezza.
La sera (per prudenza, non sapendo definire gli orari della sera, ho aspettato a lungo nel salone ormai semi buio) due grandi auto americane (credo fossero Buick) ci aspettavano. Nella mia guidava un militare barbuto, felice di parlare al mondo, ma solo dei suoi figli e di come erano cresciuti durante la revolucion. Che Guevara guidava il gruppo Sartre, ma ben presto la folla, che ormai occupava tutto il centro dell’Avana, ha imposto di rallentare a passo d’uomo. Il luogo era l’ex Hotel Hilton, ora diventato il palazzo della gioventù cubana.
Ho ritrovato Guevara sulla grande terrazza che dominava il dodicesimo piano. Il parapetto era troppo alto, e una pedana era stata costruita tutta intorno. Erano arrivati tutti i comandanti e i compagni che avevano conquistato a una a una le roccaforti, le caserme, le città controllate dai “fascisti” (era la parola) del dittatore Batista, i treni di armi, i convogli di rinforzi. Di ognuno, facendomi fare il giro della terrazza Guevara mi diceva il nome di un luogo quello che aveva dato il nome al loro gesto più audace, più pazzo, più eroico.
Erano arrivati tutti tranne Fidel Castro, che la folla dal basso invocava. C’era un solo microfono su una pedana appena un poco più alta. E nel momento in cui Che Guevara mi teneva il braccio per guidarmi dall’altra parte della terrazza a conoscere Camillo Cianfuegos (a quel tempo, e prima della sua morte giovane, il terzo eroe della rivoluzione) un uomo piccolo e magro, con la fisarmonica e una gran voce, ha iniziato a cantare sotto il microfono (troppo alto per lui) destinato a Fidel, una canzone che finiva sempre, quasi in un acuto, con le parole “Yankee go home” ripetute come in un rito dalla folla.
Era certo il segnale di una risposta sempre più dura a Nixon che, alcuni mesi prima, a Washington, aveva impedito o dichiarato “tradimento”, ogni incontro con Fidel Castro, (prima e unica visita di Fidel a Washington) molto prima della “svolta comunista” di Cuba. Ho fatto in tempo a conoscere Cianfuegos e poi Raul Castro, il fratello legatissimo e in ombra (che aveva autorizzato il figlio a darmi quello strano visto a matita) e dopo una esplosione d’entusiasmo della folla, il grande silenzio. Parlava Castro. E io mi sono dovuto fermare nel punto in cui ero quando il discorso è cominciato, fra Raul Castro e Che Guevara. Il discorso ha annunciato l’inizio di un lunghissimo scontro (eppure mancavano settimane all’evento della “Baia dei Porci”) e il continuo rombo di partecipazione della folla era affetto e sostegno al liberatore Fidel, molto più che una dichiarazione di odio all’America. I giorni seguenti Che Guevara mi ha parlato molto di economia. Non era il suo forte ne il mio, ma lui stava per essere nominato (ne parlava con un pò di sarcasmo) governatore della Banca Centrale di Cuba. A lui interessava non la gestione dei soldi ma la distribuzione dei soldi, e benchè fosse cresciuto agiato, la sua attenzione era sul come diminuire la povertà, non come proteggere la ricchezza anche se di Stato. A parte una corsa di vera felicità lungo il Varadero e una vista alla casa di Hemingway, gli interessava fermarsi e farmi vedere dove e come si viveva a Cuba. Era crollata un’economia ma non ne era nata un’altra.
Guevara aveva un progetto, le “Tiendas del Pueblo (ciò che nascerà in molte città americane anni dopo con il nome “Farmer market”, in cui si stabilisce un rapporto diretto e senza mediazioni fra chi produce e chi vende, l’idea meno comunista e più solidaristica a cui si possa pensare. A differenza del primo giorno, rideva spesso e si entusiasmava.
La sua non era conversazione, e non era monologo, perchè diceva sempre “vedi?”, “capisci?”. Era un pensare ad alta voce, vitale e isolato. Parlava ma non a un vicino e non a se stesso. Parlava a una presenza collettiva che non erano i compagni e non era la rivoluzione. Erano tutti quelli intorno al nostro andare e venire per l’Avana. Vedeva benissimo che si domandavano, come dei ragazzi che si sentono liberi dopo la rivoluzione: e adesso come vivo?
Per capire dove siamo (il tempo, molto più del luogo) e che cosa sta accadendo, immaginatevi un grande gruppo di gente giovane, molti sotto i trenta, che hanno combattuto dal niente e hanno vinto, che sono tutti vivi, tutti legati da un vincolo, da una euforica persuasione di vincere ancora, Anche se l’embargo americano sbarra la strada. È qui, in questo punto che Guevara si stacca dal gruppo. Mantiene l’affetto. Ma lo allontana la rivoluzione che diventa comando e burocrazia.
Questo spiega perchè in fondo alla sua esuberanza, che sembra allegra, senti malinconia. Appare nelle parole (la lunga descrizione del rapporto fra produrre e distribuire che è allo stesso tempo ideale e impossibile) e appare nelle immagini in cui Guevara (prima della Bolivia) è sempre più chiuso e pensoso. C’è differenza fra il momento in cui è avvenuto l’incontro all’aeroporto Josè Martì e le lunghe riflessioni sul che fare. A quel tempo ne ho scritto un lungo resoconto per la rivista Problemi del Socialismo di Lelio Basso e su Il Mondo. Adesso so che Ernesto Che Guevara, festoso e gentile, quando ti saresti aspettato uno sbrigativo guerriero, sapeva come sarebbe finito e perché. E che la sua sarebbe stata una testimonianza, non un’altra vittoria.

Il Fatto 2.10.17
Ddl Falanga: tutti gli ecomostri che non saranno più abbattuti
Dalle villette a schiera sull’Appia Antica allo scempio siciliano di Pizzo Sella, dalla Costiera Amalfitana a Capo Colonna: il Meridione è abusato e sfregiato
di Giampiero Calapà

L’abusivismo di necessità, introdotto dal ddl Falanga in approvazione alla Camera, è soltanto l’ultimo sfregio a un’Italia già devastata, soprattutto al Sud, da ecomostri e degrado edilizio. Laddove non arrivano le ruspe per un motivo o per l’altro – sanatorie, condoni, assoluzioni e dissequestri – rimangono spettri di cemento a deturpare un territorio altrimenti meraviglioso. Senza rispetto per la natura e tantomeno per la storia ogni anno sorgono circa ventimila nuovi abusi, secondo l’ultimo rapporto Ecomafie-Legambiente.
Non è risparmiata l’Appia Antica, la nobile strada risalente al 312 a.C., già deturpata negli anni 50 e 60 del secolo scorso dalle mega-case dei vip romani costruite a ridosso della capitale. Era il 2009 quando la Dda di Napoli sequestrava, all’altezza di Giugliano, un intero villaggio di villette a schiera spuntato a destra e sinistra del prezioso lastricato: l’operazione Puff Village vedeva coinvolti i clan camorristici Nuvoletta e Mallardo, oltre a imprenditori e politici locali. Nella primavera 2016 sono stati tutti assolti e lo scempio dissequestrato.
Ogni tanto qualche grande abuso cade sotto i colpi della civiltà, nel 2016 ad esempio è stato abbattuto l’albergo Aloha Mare di Acireale, e Legambiente ogni anno stila il poker dei peggiori ecomostri d’Italia: nel 2017 gli scheletri adagiati sulla collina di Pizzo Sella a Palermo, il villaggio Torre Mileto (2400 abusi) a Lesina, provincia di Foggia, le 35 ville addirittura dentro la suggestiva area archeologica di Capo Colonna a Crotone e le case abusive di Ischia. Già, è il 18 giugno 2017 quando Legambiente pubblica il rapporto inserendo gli abusi sull’isola tra le priorità da abbattere, due mesi e tre giorni prima del terremoto di Casamicciola: due morti e quarantadue feriti.
L’elenco è lunghissimo e sulle coste del Sud è sempre allarme rosso dalle “super ville con piscina sul mare di Bagheria alle spiagge di Selinunte e il ddl Falanga paralizzerà gli uffici giudiziari bloccando le demolizioni anche nelle aree vincolate”, spiega Angelo Bonelli dei Verdi. Gli abusi devastano Sicilia, Calabria, Puglia. La sanatoria del governatore Vincenzo De Luca, poi impugnata dal governo Gentiloni, sancirebbe la salvezza di 70 mila abitazioni abusive in Campania. È dello scorso gennaio l’ultimo appello di Italia Nostra contro “il criminoso sacco di Pogerola: a trent’anni dalla sentenza definitiva nulla è cambiato per uno dei più sciagurati interventi edilizi abusivi avvenuti ad Amalfi: deturpa una delle coste più belle del mondo e mette a rischio vite umane”. Si tratta di 250 appartamenti costruiti negli anni Settanta su una collina a 300 metri sul livello del mare, zona a elevato rischio idrogeologico.
Insomma, prima di Ciro Falanga l’Italia ha avuto almeno tre grandi condoni edilizi (1983, 1994, 2003), leggi regionali pro abusi a iosa, sentenze di abbattimento non eseguite per cavilli vari. Dal 2000 al 2011, considerando solo i capoluoghi di provincia, gli abbattimenti sono stati 4956 su 46760 ordinanze di demolizione, appena il 10,6%. Una goccia nel mare. E niente lascia sperare in tempi migliori.

Repubblica 2.10.17
Caporalato digitale
Fattorini Amazon, hostess Ryanair e “rider” di Foodora: dietro ai nostri vantaggi ci sono lavoratori senza diritti
I dipendenti invisibili dei servizi low cost
di Brunella Giovara

MILANO. Apri la porta, ed ecco arrivato il libro ordinato la sera prima su Amazon. Comodo, comodissimo. Si ringrazia e si saluta il fattorino, che in questo caso è un sorridente sudamericano, nello specifico un peruviano di mezza età. Quanto guadagnerà, per questa consegna che alle 8 di mattina non è certo la prima della sua giornata? 35 centesimi, a fare bene i conti. Perché viene pagato 7 euro l’ora (8,81 lordi), e in quell’ora – grazie all’algoritmo che gli confeziona il percorso - farà circa venti consegne.
Quasi sicuramente è dipendente di una cooperativa, perché Amazon non fa consegne dirette, oppure di una srl. Ma per lui poco cambia: i prezzi orari viaggiano su quella cifra, e lui di conseguenza viaggia come una scheggia su e giù per Milano, a bordo di un furgoncino che la sera deve tornare alla base vuoto, possibilmente. Nelle nostre vite comode, piene di app che forniscono servizi a tutte le ore e di prezzi low cost, compaiono (ma a volte nemmeno li vediamo) quelli che molti definiscono gli “omini”, orribile definizione per preziosi prestatori di servizi, spesso molto mal pagati.
Grazie a loro si vive meglio, ma a quale prezzo per loro? In una giornata ideale, iniziata a Milano, dove tutto fila via veloce e a volte i driver si schiantano contro un tram perché c’è fretta, bisogna consegnare, guadagnare, ed ecco arrivare lo shopper. Ore 9, un tizio barbuto porge le buste del supermercato preferito, la spesa l’ha fatta lui di persona alle ore 8, a negozio appena aperto. Servizio fornito da Supermercato24, ormai ex startup veronese che fornisce chi fa la spesa al posto tuo, basta registrarsi sulla piattaforma online, scegliere il supermercato (tutti, Eurospin, Carrefour, Coop, Iper, Esselunga…), lui va, sceglie, paga e arriva a casa. Ma quanto ci guadagna, lui? Dipende dalla spesa. Per un valore che va da 10 a 30 euro, gliene entrano in tasca 5. E su su, fino a una maxi spesa da 200, dove a lui ne spettano quattordici, da pagargli alla consegna.
E se invece abbiamo dimenticato di comprare un paio di casse d’acqua minerale e ci fiondiamo al supermercato, ma poi scegliamo di farci portare tutto a casa, eccoci ritornare ai dipendenti delle cooperative, che raccolgono dai vari supermercati e consegnano a domicilio, veri eroi dell’ultimo miglio. Esselunga, ad esempio, fornisce i furgoncini con il marchio, ma chi arriva a suonare alla nostra porta è un dipendente di cooperativa, e si torna alla casella furgoni impazziti che attraversano la città. A noi costa, per una spesa superiore ai 70 euro, 3,10 euro, e ce l’hai a casa entro un’ora. Il driver guadagna 8,10 euro l’ora, e in quel tempo riesce a consegnare tre spese. Quindi, 2,7 euro a consegna. Sempre più che per Amazon, dove il driver è nelle mani di un computer, infatti «la prossima frontiera », dice Luca Stanzione, Filt Cgil, «è contrattare direttamente con Amazon l’algoritmo che determina l’organizzazione del lavoro, e quindi i carichi».
E se nel pomeriggio decidessimo di prenotare un bel volo Ryanair da Milano Malpensa a Catania, 34,40 euro? Prezzo molto basso (l’andata, il ritorno non lo è altrettanto). Ma bassa anche la retribuzione del personale. Spiega la Uil Trasporti che gran parte dei lavoratori dipende da due società interinali irlandesi, Crewlink e Workforce, e che un assistente di volo – sempre che voli – lavora in media 180 ore al mese (di cui 90 di volo) e che viene retribuito con circa 1.500 euro (a fronte dei 2.500 di tutte le altre compagnie, compresi i low cost che applicano il contratto regolare). Quindi: 8,30 euro l’ora.
Poi c’è il cane. Deve uscire due volte al giorno, ma la sera ci vuole un dog sitter, perché il quattro zampe non tollera i ritardi del padrone, quindi alle 20 è pronto per fare pipì. Ci vuole una persona capace e adatta al carattere dell’animale, magari scelta su una piattaforma come DogBuddy, ma ce ne sono moltissime in tutto il territorio nazionale. Costo orario? In zona Isola a Milano sono 11,50 euro, di cui dieci vanno alla dog sitter e 1,50 alla piattaforma. Qui il fornitore del servizio guadagna più o meno la cifra media di un battitore libero, con sua rete personale di contatti, ma ha una grande visibilità sul sito, quindi più possibilità di incassi.
E si arriva all’ora di cena, con il frigo ormai strapieno ma nessuna voglia di cucinare, tanto meno di uscire. Qui c’è solo l’imbarazzo della scelta. Il fattorino anche detto “rider”, che lavora per Foodora e vola in bicicletta – con sprezzo del traffico e del pericolo – verso il ristorante scelto, apre la borsa termica, ci ficca dentro la cibaria e ri-vola verso l’indirizzo di consegna, ecco, questo intasca netti 3 euro e 60, che sarebbero 4 euro lordi. A questo si aggiungono i contributi Inps e Inail che l’azienda gli pagherà, oltre a un’assicurazione per danni contro terzi. «Comunque, non viene fuori uno stipendio», dice Massimo Bonini, segretario della Camera del Lavoro di Milano e specialista di gig economy, l’economia dei “lavoretti”. «Siamo al di sotto della sussistenza. Un discorso che vale per tutti, Deliveroo, Glovo, Justeat eccetera». Aggiunge Stanzione della Cgil: «La nostra battaglia è inserire i rider nel prossimo contratto trasporto merci». Va detto che un rider in media riesce a fare 2,2 consegne all’ora, quindi guadagna circa 8,8 euro lordi l’ora. Se piove o nevica, se ci sono zero o 40 gradi, e soprattutto se pedala.

Repubblica 2.10.17
Nell’era Internet spesso si dimenticano le persone Ma gli stessi consumatori possono “imporre” contratti accettabili
Dal boicottaggio al mutuo soccorso così si può frenare lo sfruttamento
Le piattaforme online, con la risposta immediata ai bisogni degli utenti, abbassano le protezioni e disarticolano la produzione
di Marco Ruffolo

C’è un amaro paradosso nel regno dell’economia digitale, quella che attraverso piattaforme e algoritmi riesce a soddisfare in tempo quasi reale ogni tipo di richiesta: dalla pizza entro mezzora al libro consegnato entro un giorno, dall’autista che ti arriva sotto casa alla ricerca istantanea su Google. Più aumentano i vantaggi per i consumatori, con tempi e prezzi ridotti, più si tende a dimenticare da parte degli stessi utenti quanto e quale lavoro c’è dietro quei servizi. Le false profezie di una rete che avrebbe democratizzato imprese e mercati, che avrebbe liberato il nostro sistema produttivo dal principio di scarsità, moltiplicando beni, servizi e lavori grazie alla cooperazione di una entusiastica folla di internauti, ci hanno probabilmente spinto a pensare che un’economia “del gratuito” potesse in qualche misura realizzarsi. Ci hanno portato a ignorare, seduti comodamente in attesa di una risposta ai nostri click, che dietro quei libri, quelle pizze, quelle auto, si consuma in realtà uno sfruttamento del lavoro spesso scandaloso, fatto di bassi salari e inesistenti coperture assicurative.
Eppure, se c’è una figura in grado di alzare la voce per pretendere contratti di lavoro accettabili, è proprio quella del consumatore, che ha il potere di sospendere l’utilizzo delle piattaforme anti-sindacali. Più che gli scioperi dei “rider” di Foodora e dei ciclofattorini di Deliveroo, quel che ha convinto la prima multinazionale a trattare con i lavoratori dei pasti a domicilio sembra sia stata proprio la minaccia lanciata sui social network dai consumatori di abbandonare quella piattaforma in segno di protesta. Difficile, in altre parole, che da soli i nuovi precari del cottimo, subalterni ma formalmente autonomi, possano strappare condizioni migliori di lavoro. Le piattaforme digitali, rispondendo istantaneamente alla domanda di servizi, hanno disarticolato la produzione e abbassato la protezione. «È come se si venisse assunti e licenziati ogni dieci minuti, e pagati all’occorrenza – ha scritto tempo fa Valerio De Stefano, docente di diritto del lavoro alla Bocconi – Questo avviene nella ristorazione, nella distribuzione, nella logistica ».
Pronta, dietro l’angolo, la tentazione di additare le nuove tecnologie come strumenti diabolici da eliminare. Problema mal posto, come in tutti i sogni luddisti. Si tratta invece di pretendere la costruzione di una rete protettiva per i nuovi precari. Con quali strumenti? Uno di questi è sicuramente il mutuo soccorso.
La Smart, una cooperativa che riunisce 90 mila artisti e creativi in nove Paesi (Italia compresa, con l’aiuto iniziale della Fondazione Cariplo), si accorse a un certo punto che in Belgio molti dei suoi soci, per sbarcare il lunario, facevano anche i fattorini alla Deliveroo. Così le venne in mente di accordarsi con la multinazionale britannica delle consegne di pasti a domicilio: la Smart avrebbe fatto ai soci-fattorini un contratto di lavoro subordinato intermittente, garantendo minimo salariale e coperture assicurative. Il caso non rimase isolato. «All’estero, con un unico contratto stipulato con Smart, il socio-freelance può svolgere anche più tipi di lavoro autonomo, ma con le garanzie del lavoro subordinato - spiega Donato Nubile, presidente di Smart Italia – ma da noi non è ancora possibile per via di vincoli molto stretti». La Smart, insomma, riesce a riempire i buchi assicurativi e salariali lasciati dalle piattaforme digitali, con le quali tratta direttamente, evitando al lavoratore un negoziato da posizioni di debolezza. A quale costo? «Chiediamo ai nostri soci – dice Nubile – l’8,5% del loro fatturato, ma cerchiamo anche, alcune volte con successo, di ottenere per loro paghe migliori: gestendo noi i lavoratori, consentiamo infatti alle piattaforme digitali di realizzare forti risparmi ».
Ma che succede quando non ci sono queste “umbrella companies” a proteggere i lavoratori? L’idea del giuslavorista Pietro Ichino, in questo caso, è quella di imporre per legge alle piattaforme digitali il pagamento dei compensi attraverso lo stesso sito Internet istituito dall’Inps per il lavoro occasionale: una specie di voucher virtuale che incorpori retribuzione minima e contributo assicurativo. Vedremo se i legislatori, italiani ed europei, vorranno utilizzare questi o altri mezzi per cercare di schiarire la zona grigia in cui operano oggi i “net workers”. Una cosa però è certa: senza il contributo di noi consumatori, senza la consapevolezza che dietro i nostri comodi servizi, ricevuti quasi in tempo reale, si nascondono fatiche scarsamente protette, non ci sarà nessuna spinta al cambiamento e l’economia digitale resterà l’esatto contrario di quella “fine di ogni gerarchia” che aveva promesso di essere.

Sfida ai prof
Il conflitto genitori-insegnanti frena la crescita dei figli “Ma è ora di deporre le armi”
Il nuovo libro dello scrittore Matteo Bussola spiega come sono cambiati i rapporti a scuola. E quali rischi ne derivano
di Maria Novella De Luca

ROMA. C’è stato un giorno, un momento, una data o forse un passaggio storico, in cui i genitori hanno deciso di sostituirsi ai figli. Quei figli nati in gran parte nel terzo millennio, in epoca di culle vuote e madri e padri “grandi”, dunque spesso unici e visti più come miracoli che come naturale prosecuzione della specie. Bambini da proteggere contro tutto e contro tutti, il freddo, il caldo, il riso, il pianto, la solitudine ma anche i troppi amici, l’ambiente malato ma anche il rischio di farsi male non sia mai scalassero un albero, la mani sporche di terra e il buco dell’ozono. Ma, in particolare, questa generazione di genitori (un po’ smarrita anche se affettuosa e a suo modo presente) ha pensato di dover proteggere i propri eredi dal primo vero scoglio della vita, e cioè la scuola. Entrando massicciamente nella loro esistenza di nuovi studenti, imponendosi a ranghi compatti nell’organizzazione della scuola stessa, polverizzandone così però l’autorità e l’autorevolezza. Sentendo, forse, inaccettabile, sulla propria pelle di adulti, che i loro super-bambini potessero sopportare la fatica di ricevere un brutto voto, di una nota, o semplicemente di alzarsi in piedi all’arrivo in classe della maestra o del prof.
Ed è di questo rovesciamento dei ruoli (da anni al centro di un dibattito sempre più caldo sul rapporto tra scuola e mondo esterno) ma anche delle fatiche e dell’avventura straordinaria di mettere su una famiglia oggi che Matteo Bussola, scrittore e disegnatore di fumetti, parla nel suo nuovo libro: “Sono puri i loro sogni”. Un libro il cui sottotitolo è “Lettera a noi genitori sulla scuola” e dove Bussola partendo dalla propria esperienza di padre di tre figlie (Virginia, Ginevra e Melania) si interroga su quando e come «abbiamo cominciato a pensare alla scuola come all’erogazione di un servizio nel quale il cliente deve avere comunque ragione?» Dove i clienti, appunto, siamo noi, i genitori, sempre più critici, «intenti a tracciare confini e pronti a fare da scudo ai nostri figli di fronte a qualunque ostacolo, difendendoli da chiunque provi a metterli in crisi ». Tanto che ormai tra le famiglie e «l’autorità scolastica» sembra esserci «una specie di guerra», ma il rischio è che a farne le spese siano proprio coloro che vogliamo tutelare.
Con lo stile della “storia minima”, ossia la cronaca dettagliata della sua quotidianità, così come già nel suo primo e fortunatissimo libro “Notti bianche e baci a colazione” in cui raccontava la sua scelta di fare il padre a tempo pieno, Matteo Bussola fa un ritratto ironico, agrodolce ma per nulla assolutorio della generazione dei “genitori-sindacalisti” dei propri figli. Accompagnando ogni giorno le sue bambine a scuola, tra capannelli di madri e chat di classe, tra sfoghi di insegnanti accusati di non lavorare, aggrediti per aver messo un brutto voto, ma anche docenti assenti e demotivati, Bussola fa un viaggio tra le “nuove famiglie” e tra i pregi e difetti del nostro sistema di istruzione. Una lettera aperta su un tema davvero contemporaneo, dove più cresce la sfiducia nell’istituzione, più la scuola si arrocca e si chiude su se stessa. Contro l’invasione dei genitori non soltanto nei casi estremi (“mette una nota, prof picchiato dal padre dell’allievo”, “maestra denunciata perché rimprovera i bambini”) ma nella quotidianità, dalla scelta dei libri di testo alla località della gita di classe, dal problema dei pidocchi alla recita, malcontento che spesso sfocia in processi sommari ai docenti sulle chat di classe via WhatsApp.
Eppure, pur con tanti difetti e mancanze, la nostra malconcia istruzione pubblica — afferma Bussola — ci prova a tenere alta la testa. Raccontando ad esempio cosa accadeva qualche generazione fa agli studenti disabili (allora anche detti ritardati), «buttati in un angolo » e gli sforzi di oggi invece per dare un sostegno a tutti quelli che ne hanno bisogno. Anche se, spesso, a dire la verità, i tagli falcidiano proprio le ore degli insegnanti di sostegno e dunque penalizzano gli studenti più fragili.
Il libro è un invito a deporre le armi e a ritrovare la fiducia nel sistema scuola, a lasciar sbagliare i bambini, fargli sbucciare le ginocchia, al loro diritto di sbagliare. Ma è anche il racconto di Matteo Bussola padre, simbolo in qualche modo dei “nuovi padri”, nel suo quotidiano occuparsi di Virginia, Ginevra e Melania, la corsa contro il tempo per portarle a scuola, tra tazze di latte che si rovesciano e zaini da preparare, in sostanza dice Bussola, come fare «bungee jumping con una corda di mezzo metro troppo lunga». E poi, però, finita la corsa, lo strano silenzio di ritrovarsi soli, seppure per qualche ora, in una casa fino a poco prima piena di voci.

Repubblica 2.10.17
L’anticipazione
Così ci illudiamo di proteggere i nostri ragazzi
di Matteo Bussola

LA SCUOLA fu per me la scoperta di un mondo nuovo. D’un tratto c’erano «gli altri».
Con gli altri non andavo sempre d’accordo, questa cosa mi spaventava, dopo un po’ ci trovai un senso. Non sentirmi piú al sicuro, avere paura, vedere che la gentilezza di chi avevo intorno non era dovuta, ma dipendeva anche dalla mia, mi restituiva la responsabilità di scegliere come volevo essere. Non esisteva piú l’accoglienza incondizionata dei miei genitori, il mio comportamento generava conseguenze. Imparavo delle regole che, al tempo non potevo saperlo, mi sarebbero servite per tutta la vita. Una la conoscevo già, me la ripeteva di continuo mia nonna, ma ne compresi il significato solo lí: «Chi rispetto vuole, rispetto porta».
Oggi sono padre, ho tre figlie di età differenti che frequentano istituti diversi. Le mie paure sono adesso tutte per loro. Perché di rispetto, nella scuola, ne vedo sempre meno. Soprattutto fra genitori e insegnanti. Noi genitori, in particolare, sembriamo spesso insoddisfatti, eccessivamente critici, a volte arrabbiati. Intenti a tracciare confini e pronti a fare da scudo ai nostri figli di fronte a qualunque ostacolo, difendendoli da chiunque provi a metterli in crisi. È questo a confondermi di piú. Quella fra noi e l’autorità scolastica pare essere diventata una specie di guerra, in cui il mirino delle nostre paure viene puntato troppe volte sulla classe docente che, ormai, abbiamo costretto a una comprensibile diffidenza. A farne le spese, è proprio chi crediamo di proteggere.
Vivendo la scuola da genitore ho accumulato negli anni osservazioni, testimonianze, aneddoti che mi hanno portato a domande che aumentano giorno dopo giorno. E mi hanno condotto, di nuovo, a interrogarmi sulle mie stesse responsabilità.
Perché siamo diventati cosí? Quando abbiamo cominciato a pensare alla scuola come all’erogazione di un servizio nel quale il cliente deve avere comunque ragione? Quando abbiamo iniziato a mettere in discussione l’autorità dei docenti, a partire dai compiti a casa? Perché il sacrosanto diritto di partecipare al cammino dei nostri figli, vigilando anche sugli eccessi, si trasforma sempre piú spesso nella giustificazione automatica dei figli stessi? Infine: quando ci siamo convinti che essere genitori volesse dire vivere le loro vite, che fare il loro bene significasse tenerli al riparo dalle difficoltà, dimenticando che le difficoltà sono uno strumento di crescita indispensabile?
Non riesco a capire cosa ci sia accaduto.
Quando non capisco qualcosa, se perdo la direzione di un ragionamento, l’orizzonte di uno sguardo, mi siedo davanti a una pagina bianca e metto in fila le parole. Ho imparato a fare in questo modo proprio a scuola, cosí tanti anni fa che mi sembrano mille. È una delle numerose eredità che il percorso scolastico mi ha lasciato, insieme alle poesie di Ungaretti, le province della Basilicata, il teorema di Pitagora, il profumo alla mela verde di Arianna. Una fiducia istintiva per chi ha mani grandi.
«Quando non capisci, scrivi, — mi diceva sempre la maestra Miranda, — cosí metti in ordine i pensieri». Un’altra cosa che ho imparato a scuola è che scrivere, per me, significa sempre scrivere a qualcuno. Come se la scrittura dovesse essere orientata dalla consapevolezza di un destinatario, che si tratti di uno solo oppure di molti, perfino quando il destinatario sono io. Soprattutto, quando anch’io mi sento parte di quei molti.
Ecco perché questo libro è una lettera.
Ecco perché è rivolta a noi genitori.

Il Sole 2.10.17
L’emittente news & talk del Gruppo 24 ORE, lanciata nel 1999, mercoledì 4 ottobre diventa «maggiorenne»
Radio24 festeggia i 18 anni con gli ascoltatori

Radio 24, l’emittente del Gruppo 24 ORE, compie 18 anni. Era il 4 ottobre 1999 quando per la prima volta si sono accesi i microfoni della prima emittente news & talk privata nel panorama radiofonico italiano. Una radio che ha conquistato stabilmente oltre 2 milioni di ascoltatori.
Ogni giorno la redazione di Radio 24 aggiorna i suoi ascoltatori sulle notizie dall’Italia e dal mondo, offre spunti di riflessione e li accompagna sempre con le sue cifre distintive: la competenza e l’autorevolezza dei contenuti, grazie anche a una programmazione ampia e “fresca”. Dalla cronaca all’economia, dalla politica allo sport, ogni giorno 16 finestre informative dalle 6 alle 24, 16 ore di programmazione in diretta, dando spazio ad analisi e inchiesta, con i reportage, le breaking news e la programmazione speciale dedicata ai grandi eventi.
Per festeggiare l’importante traguardo Radio 24 invita tutti gli ascoltatori a scrivere all’indirizzo buoncompleanno@radio24.it un pensiero sul perché amano Radio 24: diciotto di loro verranno selezionati e potranno assistere dal vivo alle dirette della radio e vivere il backstage dei programmi più amati proprio nel giorno del suo compleanno.
In questi diciotto anni Radio 24 è cresciuta imparando ogni giorno a migliorarsi, trovando nuovi stimoli e dandosi nuovi obiettivi, garantendo agli ascoltatori la massima obiettività e chiarezza, perché non c’è notizia che non possa essere spiegata e posta alla portata di tutti.
In questi anni non ha mancato gli appuntamenti più importanti che hanno fatto la storia dell’Italia e del mondo: l’11 settembre 2001 fu tra i primi media a dare la notizia di quello che stava accadendo a New York. Le elezioni nazionali e internazionali sono sempre state seguite con speciali in diretta “All night long”.
La grande elasticità e velocità del gruppo di lavoro permette di seguire gli eventi di cronaca modificando i palinsesti in tempo reale per dare aggiornamenti e informazioni in diretta con inviati sul territorio. Eventi di rilevanza internazionale come il Forum Ambrosetti e il G7 vedono la presenza dei giornalisti e spesso degli studi da cui si trasmette in diretta. Radio 24 porta gli studi anche alle grandi manifestazioni fieristiche del made in Italy, dal Salone del Mobile a Vinitaly. E non mancano gli eventi, da quelli sportivi - Mondiali di calcio, Giro d’Italia, Tour de France, Sei nazioni di rugby - seguiti con una programmazione speciale agli eventi dello spettacolo, come il Festival di Sanremo o il Festival del cinema di Venezia, raccontati dagli inviati della radio.

Il Sole 2.2.17
Media. Da oggi tris di azioni per tendere la mano ai publisher
Google cambia modello per gli editori
di Andrea Biondi

Niente più svantaggio nell’indicizzazione sulle ricerche su Google per gli editori che hanno un loro modello incentrato sui paywall. Si chiamava “first click free” il modello che da un lato permetteva agli utenti di leggere gratuitamente alcuni articoli (almeno il primo) attraverso Google News prima di far scattare il paywall (il pagamento per visionare il contenuto), ma che dall’altro chiedeva agli editori di mettere a disposizione almeno tre contenuti gratuiti al giorno, prima del paywall, per essere indicizzati al meglio.
Google ha ufficializzato la fine del programma “first click free” e da stamattina mette agli atti una azione in tre mosse per tendere la mano agli editori, alle prese con un momento di grande incertezza dal punto di vista del business che con il tempo altro non ha fatto che esacerbare i rapporti fra publisher e Big G e in generale fra gli editori di tutto il mondo e i giganti della Silicon Valley, spesso messi all’indice come usurpatori di contenuti senza dividere i benefici economici.
In questo quadro, va detto che Facebook e Google procedono pressoché appaiati nei loro annunci volti a creare un clima disteso con gli editori. La piattaforma creata da Mark Zuckerberg ha confermato qualche giorno fa quanto annunciato a luglio, dando agli editori l’opportunità di offrire notizie a pagamento dentro al servizio di Instant Articles su smartphone. Il colosso di Mountain View dal canto suo, che sul versante del miglioramento dei rapporti con gli editori annovera la Digital News Initiative (con cui mette a disposizione fondi per progetti innovativi degli editori, anche italiani), tende “un ramoscello d’ulivo” con un tris di azioni.
La prima è il passaggio alla policy “Flexible Sampling” da quella First Click Free, che chiedeva agli editori di fornire un minimo di 3 articoli gratuiti al giorno attraverso Google Search e Google News prima di mostrare il paywall. Il tutto con una mossa che – almeno nelle speranze dei publisher - dovrebbe portare a un aumento degli abbonamenti sui siti che richiedono una registrazioni. «In generale – si legge in una nota di Google – gli editori riconoscono che offrire alle persone l’accesso ad alcuni contenuti gratuiti è il modo per persuaderli ad acquistare il loro prodotto. L’approccio tipico al sampling (prova gratuita) è un modello chiamato “metering”, che consente alle persone di vedere un numero predeterminato di articoli gratuiti prima che si attivi il paywall». L’approccio raccomandato è per un un metering da 10 articoli gratuiti al mese prima di far scattare il paywall.
In aggiunta le altre due mosse: «Nel lungo periodo, stiamo sviluppando una suite di prodotti e servizi per aiutare gli editori a raggiungere nuovi lettori, far crescere gli abbonamenti e il fatturato». Il machine learning può rappresentare una chiave di volta, all’interno di un porcesso in cui Mountain View si dice pronta a lavorare con gli editori per «capire come possiamo semplificare il processo di acquisto e rendere più semplice per gli utenti di Google sfruttare a pieno all’interno delle diverse piattaforme Google tutti i vantaggi degli abbonamenti che hanno sottoscritto con gli editori».