lunedì 9 ottobre 2017

Repubblica 9.10.17
Promesse e divorzio
Cento giorni di equivoci finiti a tweet in faccia
di Concetto Vecchio

ROMA. «Pisapia se n’è ghiuto e soli ci ha lasciato», lo irride Enrico Rossi su Facebook, usando le stesse velenose parole che Palmiro Togliatti riservò a Elio Vittorini quando lo scrittore di Conversazione in Sicilia disse di non sentirsi più comunista. Non si sono mai capiti, Giuliano Pisapia e i bersaniani, in questa unione di convenienze inconciliabili, tra l’aspirazione dell’ex sindaco di Milano a creare una forza larga a sinistra - per poi allearsi con il Pd - e la necessità di Mdp di avere un leader, per andare poi contro il Pd. Cento giorni dopo il viaggio, iniziato il 1° luglio in piazza Santi Apostoli, tra la banda de “I sei ottavi” che suona “Io ci sto” di Rino Gaetano e la benedizione ai “cari compagni e care compagne” di Sabrina Ferrilli, è già finito. Pisapia ora si allontana da Roberto Speranza e dal suo «partitino del 3 per cento» e Gotor gli replica al curaro su Twitter: «Ricambio gli auguri di buon viaggio a Giuliano Pisapia rimanendo in speranzosa attesa del suo partitone».
Il nome del nuovo soggetto era una promessa d’amore: “Insieme”. Bersani posò paterno le mani sulle spalle di Pisapia, che aveva citato don Milani e disse: «Non faremo primarie, il leader c’è già: Giuliano». Ma che la rotta sarebbe stata più perigliosa del previsto si capì dal fatto che Pisapia, a differenza di D’Alema, non volle a bordo né Sinistra italiana né Tomaso Montanari. E fu la prima crepa. Poi il 21 luglio Pisapia andò alla Festa dell’Unità, abbracciò sul palco Maria Elena Boschi, disse «qua mi sono sempre sentito a casa mia». «Boschi non l’abbracciavamo prima non l’abbracciamo adesso», diede fuoco alle polveri il senatore bersaniano Federico Fornaro e la pioggia di riprovazione sui
social fu tale che Giuliano, piccatissimo, cancellò la riunione con Speranza già fissata a Roma qualche giorno dopo. Iniziarono giorni difficili. Poi il 3 agosto, prima del rompete le righe agostano, Pisapia e Speranza fecero pace annunciando «una grande assemblea democratica » per ottobre, per «fare un soggetto nuovo». Un nuovo partito, per Mdp, una cosa più leggera, per Campo progressista. Senza Renzi, per Mdp, con Renzi per Pisapia. Poteva mai durare?
Poi sorse un altro problema: Pisapia cominciò a soffrire il protagonismo di D’Alema. Si capì sulle candidature in Sicilia. D’Alema scelse Claudio Fava, mentre Pisapia puntò sul rettore Micari, il candidato dei renziani scovato da Leoluca Orlando. «Noi siamo coerenti, Pisapia speriamo», fu il giudizio sull’operazione dell’ex premier. Era il 2 settembre. Poi rilasciò un’intervista nella quale chiese più coraggio, ricordandogli il suo peccato d’origine di ex rifondarolo. Pisapia non la prese benissimo. E ai microfoni di Massimo Giannini su Radio Capital, definì D’Alema «divisivo», e gli chiese sic et simpliciter di fare «un passo di fianco». I dalemiani reagirono in massa. Erano ormai come quelle coppie che si tirano addosso i piatti.
Giunti al dunque del Def, ovvero sul terreno concreto delle scelte, Mdp votò no, Bruno Tabacci sì. Era il preannuncio di divorzio. A Ravenna, l’altra sera, Pisapia sigillò la serata della ennesima riconciliazione con un sardonico «il leader sei tu», rivolto a uno stupito Vasco Errani, uno dei capi della ditta, che alla fine lo rincorse nel parcheggio della festa dell’Unità in cerca di spiegazioni, e basta questa scena finale per sigillare i titoli di coda di un brutto film.