Il Fatto 9.10.17
Leader cercasi: il paradosso della democrazia di Pericle
Le
elezioni politiche del 2018 si configurano come una festa per gli
elettori, chiamati a scegliere per chi votare. Per cosa stiano
effettivamente votando è, al solito, nebuloso, irrilevante e pure un po’
noioso
di Mirko Canevaro
Avanza l’allucinante
Rosatellum-bis alla Camera, ostinatamente senza preferenze, senza premi
di maggioranza, e senza identificazione automatica del leader di
coalizione. Non importa: politici e commentatori, incuranti, continuano a
spiegarci che democrazia è scegliere chi comanda. La cronaca politica è
un’accozzaglia di leader lanciati, abbattuti e spompati, di primarie
(online o meno), di scontri di personalità – primarie Pd qualche mese
fa, primarie M5S or ora, “Salvini premier” a Pontida, per non parlare
della sinistra, tra Pisapia, Bersani, D’Alema, ora persino Grasso, e le
“popolarie” di Civati. Rosatellum bis o no, le elezioni politiche del
2018 si configurano come un’altra festa democratica in cui gli elettori
sono chiamati a scegliere, democraticamente, per chi votare. Per cosa
stiano effettivamente votando è, al solito, nebuloso, irrilevante e pure
un po’ noioso.
È certo un paradosso che in democrazia, dove il
potere dovrebbe essere del popolo, la dialettica politica sia così
appiattita sulla scelta di chi debba comandare. Che sia un problema
moderno? In una democrazia rappresentativa, il compito più immediato del
popolo sovrano è scegliere i propri rappresentanti. Ma scavando un
poco, si scopre che il paradosso è più profondo, e più antico. Non è un
caso che la democrazia più romanticamente identificata come prototipica,
quella ateniese, sia ricordata attraverso il nome del suo leader: la
“democrazia periclea”.
Quello stesso momento fondativo della
tradizione democratica che gli storici moderni amano chiamare
“democrazia radicale”, è caratterizzato dal dominio e dall’azione
pervasiva di un uomo solo – Pericle – capace di porsi al comando del
demos. Non è una prospettiva moderna, ma la diagnosi dell’Atene del V
secolo a. C. che offre il grande storico Tucidide: “Di nome democrazia,
ma di fatto governo del primo cittadino”.
Questo paradosso – la
complessa relazione tra individuo e istituzioni democratiche, e
l’importanza relativa del “grand’uomo” e del popolo nel determinare le
sorti di una democrazia – sono al centro della bella biografia di
Pericle pubblicata da Vincent Azoulay. È uno studio sofisticato non
certo della vita del politico o della sua democrazia, ma piuttosto di
Pericle nella democrazia. Azoulay sceglie di problematizzare l’influenza
di Pericle sulle scelte del demos e di evidenziare i limiti imposti
all’azione del singolo da un contesto istituzionale, sociale e culturale
che ingigantiva l’influenza della collettività su ogni scelta politica:
controllare capillarmente (e revocare) ogni forma di potere individuale
e, di conseguenza, prevenire l’emergere di forme di autorità che non
dipendessero da una relazione – precaria, continua, ossessiva – col
popolo, basata su persuasione e negoziazione.
In una bella pagina,
Azoulay riassume questa problematica relazione attraverso l’analisi di
un aneddoto trasmessoci da Plutarco: di fronte all’accusa in assemblea
che il programma edilizio da lui incoraggiato (e che ci ha dato
l’Acropoli e il Partenone) sperperasse i soldi del demos, Pericle offrì
provocatoriamente di sobbarcarsi interamente le spese, a condizione che
la dedica del complesso monumentale fosse a suo nome, e non a nome degli
ateniesi.
La provocazione riuscì: il popolo finanziò l’opera, e
il risultato è ancora oggi visibile a imperitura gloria della democrazia
ateniese. L’immagine che emerge è di un’autorità reale ma precaria,
continuamente in pericolo, rinnovata attraverso la persuasione, e in
ultima analisi dipendente dal popolo. Un’autorità nel demos che non
poteva tradursi in potere sul demos.
C’è un altro elemento
paradossale nella rappresentazione tucididea (abbracciata e propagata
dalla tradizione) della posizione di Pericle nella democrazia: una
contrapposizione netta e semplicistica tra il leader che parla, informa,
comanda, e il popolo che ascolta, approva e obbedisce. Come se il
popolo fosse null’altro che una massa indefinita che fa da contraltare,
passivamente, al potere del “grand’uomo”. Per Tucidide il dibattito
assembleare, la scelta politica, si riduce al solo discorso del singolo
(demagogo) che persuade il popolo, o al limite all’agone tra due
contendenti, di cui il popolo è ascoltatore e arbitro. Ma, tra le crepe
del testo tucidideo, emerge una realtà più complessa, e più
interessante. Tucidide riduce le deliberazioni assembleari a uno o due
discorsi apparentemente decisivi, e tuttavia (suo malgrado) osserva: “E
molti vennero avanti e parlarono, esprimendo i loro pareri sia dall’una
sia dall’altra parte”. L’immagine è quella di un demos politicamente
attivo, in cui quella di Pericle, per quanto incisiva, è una voce tra
tante.
La scelta di rappresentare la democrazia come il luogo del
potere e della parola dei leader, da parte di Tucidide, non è dunque
neutra o inevitabile. È una scelta invece consapevole, e in ultima
analisi antidemocratica – è figlia di uno scetticismo verso la capacità
del popolo di farsi avanti e autogovernarsi. Mutatis mutandis, la nostra
ossessione pseudo-democratica per la scelta dei leader è anch’essa
egualmente ostile al principio democratico della sovranità del popolo.
Nell’era della sfiducia per il potere politico tradizionalmente inteso e
organizzato, se un nuovo slancio democratico si può davvero realizzare,
non può e non deve concentrarsi sul chi, ma solo e rigorosamente sul
cosa.