mercoledì 4 ottobre 2017

Repubblica 4.10.17
1917/ 2017 Cronache di una rivoluzione
Tecnica del colpo di Stato
Il 24 ottobre in na San Pietroburgo sospesa da giorni sull’orlo dell’inevitabile. Il destino della Russia si compie
Così Trotzkij ordinò il primo assalto
di Ezio Mauro

SAN PIETROBURGO BRUTTO segno quando i ponti sulla Neva si alzano e si abbassano come quel 24 ottobre sulla confusione della città, piena di domande e di paure, divorata dall’attesa nervosa di un’ora fatale ma sconosciuta, da giorni sospesa sul bordo tormentato dell’inevitabile. Sembra che sul fiume tutto debba cominciare e tutto debba finire, come se Pietroburgo dovesse realizzare qualche superstizione slava nel momento supremo, visto che la storia dell’antica Rus’ è sorta dalle acque del Dnepr.
ALLE PAGINE 33, 34 E 35
Brutto segno quando i ponti sulla Neva si alzano e si abbassano come quel 24 ottobre sulla confusione della città, piena di domande e di paure, divorata dall’attesa nervosa di un’ora fatale ma sconosciuta, da giorni sospesa sul bordo tormentato dell’inevitabile. Sembra che sul fiume tutto debba cominciare e tutto debba finire, come se Pietroburgo dovesse realizzare qualche superstizione slava nel momento supremo, visto che la storia dell’antica Rus’ è sorta dalle acque del Dnepr. Così quel giorno, per isolare dal centro il quartiere operaio di Vyborg, vera caldaia della rivoluzione, il governo solleva i collegamenti. Il Soviet manda i reparti di Guardie Rosse e soprattutto fa muovere nelle acque della Neva l’incrociatore “Aurora”, che da tre giorni è entrato nel fiume dove aspetta gli ordini bolscevichi. I ponti tornano a funzionare e diventano così l’immagine pubblica di un potere che sta passando di mano, davanti agli occhi febbrili di una città ipnotizzata dalla sua stessa sorte, che compiendosi cambierà il destino del Paese. Sono le due di notte quando quattro distaccamenti militari attraversano curvi il buio di quei ponti per attaccare il sistema circolatorio della capitale. Senza consultare Lenin, Trotzkij ha deciso che non serve più aspettare. Scende alla stanza 17 dello Smolnyj e dal Comitato Militare Rivoluzionario parte l’ordine che darà il via alla rivoluzione, mentre Antonov-Ovseenko segna con un cerchio sulla mappa della città il primo obiettivo. È la centrale del telegrafo, il vero mezzo di comunicazione della modernità, attraverso cui sono passati in quei mesi l’ultimatum della Duma, la ribellione dei generali, l’abdicazione dello Zar, l’illusione bonapartista di Kerenskij, il tentativo di golpe di Kornilov, la disperazione solitaria della Zarina, l’intero discorso politico russo del 1917.
È il primo assalto perché è il più difficile, le forze governative presidiano il portone. Ma attorno, in un semicerchio visibile, c’è già da due ore il reggimento Keksholmskij, in mano ai bolscevichi. Hanno individuato un ingresso laterale, nel buio il commissario rivoluzionario Stark forza il cancello, 35 uomini guidati dal marinaio Savin penetrano all’interno, mostrano le mitragliatrici alle finestre mentre un’altra squadra sale sulla casa di fronte per tenere di mira l’ingresso e i soldati. Ma non c’è bisogno di sparare e il telegrafista del reparto alle 2,30 del mattino può dare il via libera allo Smolnyi: «Siamo entrati, è nostra ». Lo stesso messaggio arriva pochi minuti prima dalla centrale dei telefoni, che il governo aveva provato a occupare, e che ora è sgombra. Poi tocca alla centrale elettrica, a quella dell’acqua, ai gasometri, agli arsenali, ai silos della frutta e della verdura, ai magazzini della carne, al primo ufficio postale della città, alla banca di Stato.
Le squadre dei guastatori bolscevichi, del genio, dei ferrovieri, stanno attaccando le stazioni, prima fra tutte la Nikolaevskij, conquistata in quindici minuti, mentre una compagnia del reggimento della guardia Semenovskij prende il controllo della tipografia dove si stampa il giornale della destra Russkaja Volja, e dove da domattina si dovrà pubblicare il quotidiano dei bolscevichi in formato gigante. Il battaglione chimico conquista le chiavi dei depositi di armi, il reggimento Pavlovskij tiene d’occhio con i suoi esploratori lo stato maggiore di Pietrogrado, un reparto della riserva segue da vicino gli junker, allievi ufficiali, e li disarma, mentre le Guardie Rosse piazzano le autoblinde nelle piazze e le mitragliatrici agli incroci sui balconi.
Non c’è conflitto, si sente nel buio qualche scoppio di granata lanciata per intimorire i soldati prima dell’assalto agli edifici, come le raffiche sporadiche di mitragliatrice sparate in aria ad aprire la strada. Dovunque, i rivoluzionari entrano negli edifici, salgono le scale, occupano le stanze e gli uffici. La città si apre una porzione alla volta, consegnandosi. Alle 3 sul canale militare del telegrafo il comando regionale lancia il primo allarme: «La capitale è in uno stato terrificante. Le strade sembrano tranquille, senza truppe e disordini, ma i soldati fuggono, mentre vengono occupate le stazioni, i ponti e le centrali. Nessuno può dire che non verrà attaccato il governo ». Mezz’ora dopo, messaggio dal ministero della Guerra: «O arrivano rinforzi dal fronte o non riusciremo a difenderci».
Eppure i ministeri resistevano integri e deserti, Palazzo d’Inverno – col suo generatore autonomo – brillava intatto nel buio, come se fosse una notte tranquilla e non l’inizio della fine. Era la tattica di Trotzkij. Mentre Lenin fin da Zurigo studiava le operazioni di von Clausewitz annotando Della guerra, prendeva appunti dal Combattimento nelle strade del generale Cluseret, ripeteva alla Krupskaja che solo una vera guerra civile «potrà liberare l’umanità dal giogo del capitale», ironizzava sui compagni rivoluzionari «che per mesi parlano di bombe senza averne mai fabbricata una sola», Lev Davidovic giocava a tavolino la sua partita con il governo sulla grande scacchiera della città. Una partita cerebrale, una manovra strategica, un esercizio tattico.
Il Soviet manda i reparti di Guardie Rosse e fa muovere l’incrociatore Aurora Non c’è conflitto
Si sente nel buio qualche granata lanciata per intimorire

Corriere 4.10.17
Se lo smartphone ti cura la mente
App che prevedono le crisi di depressione e sedute con il medico in videochiamata
Così la tecnologia aiuta psichiatri e terapeuti
Nell’ambito della salute mentale si parla di E-mental health.
Sta per electronic health e indica l’insieme delle tecnologie e delle risorse informatiche applicate ai campi della salute e della sanità
di Elena Tebano

Sara ha il computer sempre aperto sull’applicazione e la sera o di notte, quando non riesce a dormire, si siede di fronte allo schermo e la lancia: «Ripeto spesso l’esercizio del monitoraggio del sonno e poi il diario della giornata, che ti aiuta a capire quello che hai fatto con le emozioni e gli stati d’animo collegati». Torinese, 40 anni, parrucchiera, Sara (il nome è di fantasia) è una dei 165 pazienti che a Rivoli hanno partecipato a uno dei primi programmi di psichiatria digitale in Italia: psicoterapie cognitivo-comportamentali somministrate invece che da un medico o uno psicologo da un’applicazione su smartphone, tablet o computer.
Era parte del progetto europeo «Mastermind», che ha coinvolto 11 Paesi, 23 centri e 11 mila pazienti. Si è concluso da alcuni mesi, ma Sara si è trovata così bene che continua a usare la app da sola: «Soffro di depressione moderata da circa 5 anni e gli esercizi mi hanno aiutata: sono diminuiti gli attacchi di panico, so gestire meglio la rabbia. Continuo a prendere i farmaci — precisa —, ma mi ha permesso di aprire cassetti chiusi della mia mente senza sentirmi giudicata. Oltre al computer, ogni 15 giorni c’era la videochiamata con la psicologa. Anche se a distanza, sei seguita».
Il bilancio della sperimentazione è stato positivo: «Il 70% dei nostri pazienti ha riferito un miglioramento della sintomatologia complessiva — dice Enrico Zanalda, direttore del Dipartimento di salute mentale nell’Asl di Torino dove si è svolta la sperimentazione —. Queste applicazioni affiancano la terapia tradizionale e permettono di curare più persone. In un anno con due psicoterapeuti avremmo potuto fare 400 trattamenti».
È solo un esempio di come le nuove tecnologie stanno cambiando la cura della salute mentale, in Italia e nel mondo.
«Negli Stati Uniti è molto comune usare le app per gestire la terapia farmacologica, in Italia — dice il presidente della Società italiana di psichiatria Bernardo Carpiniello —, WhatsApp ha già cambiato il rapporto tra psichiatra e pazienti, consentendo contatti più frequenti e agili».
Per medici (e pazienti) è stato ovvio usare strumenti digitali che sono già parte della vita quotidiana. Ma c’è chi ha scelto un approccio più sistematico. «Quattro mesi fa abbiamo introdotto le sedute di psicoterapia tramite videochiamata — racconta Luca Foresti, amministratore delegato del Centro medico Santagostino, che tra Milano e Bologna conta 110 mila pazienti e 400 mila prestazioni all’anno —. Inoltre stiamo elaborando test tramite app specifiche che aiutino in particolare nella diagnosi di ansia e depressione, disturbi molto comuni». I software non devono sostituirsi agli psichiatri ma rendere più efficace il loro lavoro: «La chiave è nel modello detto “brick and click”: il paziente si incontra fisicamente ma poi molti servizi vengono erogati in via digitale».
La scommessa è rendere molto più capillare e frequente la cura dei disturbi mentali. «Mentre negli ultimi decenni altre branche della medicina hanno fatto passi da gigante, la psichiatria non ha fermato l’epidemia — spiega ancora Foresti —. Le malattie psichiatriche sono quelle che fanno perdere più qualità di vita e causano più disabilità nel mondo sviluppato. Gli psicofarmaci funzionano nel breve periodo, ma su quello medio lungo perdono efficacia».
Il digitale può aiutare soprattutto nella diagnosi precoce e prevenzione. Una ricerca di Andrew Reece dell’Università di Harvard e Christopher Danforth di quella del Vermont su 166 persone e 43.950 foto di Instagram ha dimostrato che un algoritmo può diagnosticare la depressione dalle immagini postate online e con un’accuratezza maggiore di quella dei medici generici nel rapporto coi pazienti.
Le ricerche di Tom Insel, ex direttore dell’Istituto nazionale per la salute mentale degli Usa e pioniere dell’uso dei farmaci in psichiatria, vanno in questa direzione. Prima con Verily, l’azienda di Google che si occupa di salute, e poi con una sua startup, sta provando a elaborare algoritmi che monitorino telefoni e social — come e quando ci connettiamo, che foto postiamo, come scriviamo — per rilevare i segnali di una crisi psichiatrica. Il software allerterebbe i medici che così potrebbero intervenire con farmaci e terapie prima che si manifestino episodi acuti di depressione (che aumentano il rischio di suicidio) o attacchi schizofrenici.
Siamo ancora alla fase di ricerca e sicuramente si porranno problemi di privacy, ma le possibilità sono enormi. Sarebbe come avere, con lo smartphone, uno psichiatra sempre in tasca.

Il Fatto 4.10.17
Woodcock
L’accusa in prima pagina, l’archiviazione no
A giugno titoloni sul magistrato indagato, ieri nascosta la richiesta di archiviazione
L’accusa in prima pagina, l’archiviazione no

Chi avesse dato un’occhiata di sfuggita ai giornali – tutti i giornali – del 28 giugno scorso, o anche ascoltato i titoli dei tg o guardato le home page dei siti d’informazione del giorno prima, si sarebbe senz’altro accorto che Henry John Woodcock, il pm napoletano che ha aperto l’inchiesta sul mega-appalto Consip in cui è poi stato coinvolto il padre di Matteo Renzi, era indagato per aver passato notizie coperte da segreto al Fatto Quotidiano insieme alla giornalista e conduttrice Rai Federica Sciarelli. Nelle prime pagine di ieri, salvo il Fatto, non c’era invece traccia della richiesta di archiviazione formulata in poche settimane dai pm romani per le ipotesi di reato a carico di Sciarelli e Woodcock.
Vince, per distacco, Il Giornale della famiglia Berlusconi: aprì la prima pagina sull’inquirente inquisito il 28 giugno e ieri ha dedicato appena un trafiletto alla richiesta di archiviazione.
Segue La Stampa: l’avviso di garanzia era al centro della prima pagina, appena sotto il titolo di apertura e con tanto di foto del magistrato; ieri solo un mezzo colonnino a pagina 11.
Repubblica almeno ha fatto un articolo, ma in fondo a una pagina interna, nulla a che vedere con l’iscrizione nel registro degli indagati che era stata strillata a due colonne in prima pagina. Come sul Corriere della Sera, che il 28 giugno mise una grande foto del pm in copertina proprio sotto il titolo d’apertura e sul Messaggero , dove la foto però era più piccola ma il titolo più largo: ieri su entrambi i giornali la notizia della richiesta di archiviazione compariva in due aperture di pagine interne.

il manifesto 4.10.17
Terra, casa, lavoro. Perché sentiamo nostro il messaggio del papa
In edicola dal 5 ottobre il libro con i «Discorsi ai movimenti popolari» di papa Francesco. Rivoluzione in Vaticano (e al manifesto)? No, ma per la Chiesa certamente una discontinuità forte. Il comunismo non c’entra ma il focus delle parole del papa ha a che fare con i movimenti rivoluzionari
di Luciana Castellina

Le parole del Papa veicolate da il manifesto: uno scandalo? Saranno in molti a gridarlo.
Già parecchi hanno cominciato minacciosamente a chiamare Bergoglio «comunista in tonaca bianca», figurarsi quando scopriranno che i suoi discorsi agli Incontri Mondiali dei Movimenti Popolari (EMMP) – Roma 2014; Santa Cruz in Bolivia 2015 (ne abbiamo parlato qui e qui); di nuovo Roma 2016  (ne abbiamo parlato qui, qui e qui, il prossimo era ipotizzato nientemeno che a Caracas) – vengono addirittura distribuiti in abbinamento al quotidiano dei comunisti senza tonache quali siamo noi.
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Di comunisti (o simili) in effetti agli incontri ce ne sono stati e anche importanti: all’ultimo Pepe Mujica, guerrigliero coi Tupamaros e quindi presidente dell’Uruguay, calorosamente salutato da Papa Francesco; con Evo Morales, presidente indio della Bolivia, c’era stata quasi una cogestione della conferenza.
E poi, con i movimenti, provenienti da 68 paesi diversi, ce ne sono stati molti altri, ancorché non presidenti, ma a capo di assai importanti organizzazioni di sinistra: João Pedro Stedìle, leader dei Sem terra brasiliani e il coordinatore della rete internazionale Via campesina tanto per fare un esempio, ambedue – fra l’altro – membri del comitato internazionale del Forum Sociale Mondiale, con cui la EMMP ha molti tratti comuni nonostante qualche dissenso.
Era stato peraltro invitato anche Bernie Sanders che poi non è potuto venire e a seguire i lavori ci sono stati Indignados, Confederazioni sindacali, persino il Leoncavallo.
Rivoluzione in Vaticano, dunque (e al manifesto)? No, ma per la Chiesa certamente una discontinuità forte, pratica e teorica.
Il comunismo non c’entra ma il focus significante delle parole del papa ha certo a che fare con i movimenti rivoluzionari: per via dell’insistente richiamo alla soggettività, al protagonismo delle vittime, che debbono prendere la parola e non solo subìre. Perciò occorre dar valore alla politica con la P maiuscola, di cui «non bisogna avere paura, perché è anzi la forma più alta della carità cristiana».
Non politica «per» i poveri, però – che «è carro mascherato per contenere gli scarti del sistema» (Francesco parlava dei «bonus»?), ma politica «dei» poveri, e cioè praticata direttamente da loro. Questo significa «rifondare la democrazia», che è oggi recinto dai «confini ristretti», è solo quella èlitaria, ufficiale, inservibile.
Alla denuncia dell’ingiustizia da parte della Chiesa – espressa sia pure con maggiore prudenza di quanto accade oggi che si condanna senza mezzi termini la globalizzazione neoliberista, la corruzione della finanza, il terrorismo del danaro – qualche papa ci aveva già abituati.
In questo senso il Concilio Vaticano II è stato una straordinaria porta spalancata su un pensiero cristiano fino ad allora per i più inimmaginabile.
Colpì anche noi comunisti che del Vaticano, e non senza ragioni, eravamo abituati a sospettare.
Nelle tesi per il IX congresso del PCI fu inserita una affermazione significativa: la religione sentitamente vissuta può essere un contributo importante alla critica anticapitalista. Un concetto su cui Togliatti tornò in modo più netto nel discorso, diventato famoso, tenuto al primo convegno su cattolici e comunisti promosso da una organizzazione comunista: dalla federazione della «bianchissima» Bergamo (di cui mi piace ricordare che era segretario uno dei fondatori de Il Manifesto, Eliseo Milani).
E poi c’erano stati in America Latina, negli anni ’70, Puebla e la Liturgia della Liberazione.
Ma la grande innovazione di cui Papa Bergoglio si fa ora paladino sta nel dire che i poveri bisogna amarli e aiutarli e che poi andranno in paradiso, ma che devono alzare la testa e combattere qui e oggi, su questa terra e in questo tempo. E nel chiedere ai movimenti, e cioè alla politica, di farsi carico di generare i processi necessari.
Se il manifesto veicola i discorsi di papa Francesco, non è per ospitalità, o per strumentale ammiccamento. È perché questo suo messaggio lo sentiamo nostro. Utile anche ai nostri lettori. Molti generosamente impegnati nella solidarietà, e però spesso, per disillusione, ormai scettici verso la politica.



Da domani, 5 ottobre, in edicola con il manifesto «Terra, casa, lavoro. Discorsi ai movimenti popolari» di papa Francesco. Un libro edito da Ponte alle Grazie curato da una delle nostre firme Alessandro Santagata. Introduzione di Gianni La Bella.


La Stampa 4.10.17
Il silenzio delle innocenti
Una donna su tre dichiara di aver subito violenza nel corso della vita, eppure solo il 12,2% ha denunciato. Oggi cerchiamo di capire perché questo accade attraverso i racconti delle vittime
di Nadia Ferrigo, Raphaël Zanotti
qui
http://www.lastampa.it/2017/10/04/italia/cronache/il-silenzio-delle-innocenti-jnvKNY33zr6EPGbPbDBQYM/pagina.html

il manifesto 4.10.17
Trump tace ancora sulle armi: «A Las Vegas è stato un folle»
American Psycho. A Porto Rico, dopo due uragani: «State portando il bilancio un po’ fuori carreggiata»
Il ricordo delle vittime della strage, la peggiore nella storia degli Stati uniti, a Las Vegas
di Marina Catucci

NEW YORK  Donald Trump è finalmente andato a Porto Rico, il territorio non incorporato degli Usa ma colpito da due uragani devastanti che hanno lasciato l’isola senza elettricità, cibo e acqua potabile. Trump ha invitato i funzionari locali a essere felici per non aver perso migliaia di vite come «in una vera e propria catastrofe tipo Katrina». Ha poi aggiunto che il territorio devastato dell’isola sta comunque portando il bilancio della nazione «un po’ fuori carreggiata».
LE OSSERVAZIONI DI TRUMP sono arrivate nel mezzo di una dura critica dei portoricani, per via della risposta lenta del governo nel dare aiuti, e dopo che lo stesso presidente aveva lodato il proprio operato nel gestire l’emergenza. Senza ascoltare i portoricani che da settimane non hanno medicine, non possono bere acqua potabile, non hanno più ospedali degni di questo nome.
«Ogni morte è un orrore – ha detto Trump da Porto Rico – ma se si guarda a una vera e propria catastrofe come Katrina e alle centinaia di persone che sono morte e a quello che è successo qui, in realtà solo una tempesta, si vede che ciò che è accaduto è stato diverso. Qual è il conto dei morti fino a questo momento? 17? 16 persone certificate, 16 persone rispetto a migliaia». Poca roba insomma.
NONOSTANTE LE LODI che Trump ha fatto a sé stesso e alla sua capacità di gestione di questa emergenza, la risposta che ha dato a Porto Rico è stata molto diversa da quella riservata alla Florida e al Texas, dove Trump era andato ben due volte la settimana dell’arrivo dell’uragano Harvey, controllando personalmente gli sforzi di soccorso e per consolare distribuendo abbracci.
Nel caso di Porto Rico il presidente è scomparso, ritirandosi per un lungo weekend nel suo club privato a Bedminster, in New Jersey, da dove ha attaccato il sindaco della capitale, San Juan, Carmen Yulín Cruz, che in lacrime illustrava la situazione sull’isola sull’orlo della catastrofe umanitaria, supplicando il presidente di farsi carico di un territorio che fa parte degli Usa, ma che evidentemente gli Usa trattano da colonia.
LA VISITA DI TRUMP a Porto Rico è avvenuta durante un’altra tragedia, quella del mass shooting di Las Vegas dove sono morte almeno 59 persone e più di 500 sono state ferite; oggi, mercoledì, Trump sarà a Las Vegas ma già da Porto Rico ha iniziato a esprimere il suo pensiero. «L’azione folle di un pazzo» è stata l’analisi di Trump, nonostante gli analisti e gli esperti Usa abbiano più volte detto che non pare il ritratto di una strage commessa da un folle.
NEI CASI DI UNA STRAGE per mano di un «folle», le testimonianze di colleghi, parenti e amici forniscono elementi che, in poco tempo, permettono di ricostruire la sua storia medica o almeno le condizioni psicologiche di chi ha commesso la strage, così come accaduto in altri casi, come quello del mass shooting di Sandy Hook, in Connecticut, dove 5 anni fa sono stati uccisi 20 bambini delle elementari. Non è questo il caso di Las Vegas, che anzi resta assolutamente oscuro. E anche nell’ipotesi del gesto di un «pazzo», andrebbe ricordato che proprio Trump ha liberalizzato la vendita di armi per i soggetti instabili e con diagnosi psicologiche preoccupanti.
LA MINORANZA DEMOCRATICA ha, nuovamente, riportato al congresso la richiesta di una revisione del diritto alle armi, chiedendo regole più restrittive. «Ne parleremo» ha assicurato Trump, ma non sembra ci siano margini per una nuova legge sulla regolamentazione delle armi, con un presidente che si definisce «il miglior amico della Nra», la lobby delle armi americana. L’unico risultato è stato quello di far dichiarare allo speaker repubblicano Paul Ryan, il congelamento del progetto sui silenziatori voluto proprio dalla Nra. Interrogato a proposito di nuove leggi l’ex chief strategist Steve Bannon ha affermato: «Trump non cambierà rotta, sarebbe la fine di tutto».

il manifesto 4.10.17
Las Vegas, una normale strage americana
di Fabrizio Tonello

Stavolta non si trattava di fanatici delle armi, come Adam Lanza, il responsabile del massacro nella scuola elementare di Sandy Hook, in Connecticut, nel 2012 e Dylann Roof, l’autore della strage in una chiesa di Charleston nel 2015.
Non c’entra la paranoia di due studenti mentalmente disturbati, come accadde a Columbine, nel 1999.
E, nonostante la rivendicazione, neppure si può dare la colpa allo Stato Islamico e alle guerre in medio oriente, come nel caso degli attacchi di San Bernardino, in California nel 2015, e di Orlando, in Florida, nel 2016. No, domenica a Las Vegas l’autore della strage è un pensionato, per di più milionario, due categorie finora mai incontrate nel quadro degli atti di terrorismo.
Stephen Paddock, 64 anni, era un giocatore, apparentemente fortunato, che passava gran parte del suo tempo a Las Vegas al casinò, oppure partecipava ai tornei di poker on line da casa sua, in un quartiere residenziale di Mesquite, sempre in Nevada.
Della sua vita lavorativa si sa solo che era finita molti anni fa, da decenni si occupava solo delle sue proprietà immobiliari, anche in questo caso con successo.
Al contrario di altri terroristi americani non era un cacciatore, non aveva una passione per le armi da fuoco, non era un reduce dal servizio militare, com’era stato, per esempio, Timothy McVeigh, l’autore dell’attentato di Oklahoma City nel 1995.
Paddock non era un emarginato o un lupo solitario: aveva due fratelli, una madre ancora viva con la quale era in contatto, una compagna che al momento della sparatoria era all’estero. Non aveva mai dato segni di squilibrio mentale o manifestato desideri di vendetta, non era in contatto con organizzazioni criminali o gruppi neonazisti anche se, per la gioia dei giornali, suo padre era stato un rapinatore di banche tra i dieci più ricercati dall’Fbi negli anni Settanta.
No, Stephen Paddock era un normale americano agiato, di quelli che fanno le crociere nei Caraibi o nel Mediterraneo, vengono in Italia per vedere Firenze e Venezia, affollano i parchi di Yellowstone e Yosemite e, naturalmente, vanno a Las Vegas per provare il brivido della roulette, dei dadi, delle slot-machine.
Paddock, dopo aver fatto tutte queste cose, ha deciso di farne un’altra più emozionante e spettacolare: sparare sulla folla di un concerto. Ha affittato una suite al 32° piano in un albergo che dominava l’area del festival, l’ha riempita di armi semiautomatiche, ha sfondato i vetri delle finestre e ha iniziato la strage, che avrebbe potuto essere anche peggiore di quello che è stata, come testimonia l’incredibile numero di feriti, 527, che si aggiungono ai 59 morti confermati.
Com’era prevedibile, il presidente Donald Trump e i repubblicani in Congresso si sono limitati a delle frasi di circostanza, deputati e senatori rimangono ostaggi della potente National Rifle Association, che con i suoi cinque milioni di iscritti costituisce uno dei pilastri del blocco di potere oggi dominante.
La Nra, nata come club di appassionati di tiro a segno a fine Ottocento, ha cambiato pelle nella seconda metà degli anni Settanta, riuscendo a imporre un allargamento progressivo del diritto di portare armi, fino ad ottenere una storica vittoria nel 2008 con la sentenza della Corte suprema District of Columbia versus Heller, che sostanzialmente apriva la via a una deregolamentazione totale basata su una lettura fino ad allora ultraminoritaria del II° Emendamento della costituzione.
Nell’interpretazione di Antonin Scalia a nome della maggioranza dei giudici, quello di armarsi è un diritto individuale di ogni cittadino americano, legato all’autodifesa, non connesso al servizio militare in una milizia o una riserva dell’esercito.
Naturalmente, i cinque giudici repubblicani non affrontarono il problema della difesa dei normali cittadini da chi volesse acquistare armi da guerra (Paddock aveva 23 armi da fuoco nella sua stanza, tra i quali vari AR-15, i fucili d’assalto in dotazione alle forze armate americane).
Il fatto che le stragi sostanzialmente immotivate siano diventate, insieme agli omicidi, il problema di salute pubblica n. 1 negli Stati Uniti è evidente a tutti ma il sistema politico sembra totalmente paralizzato e incapace di affrontarlo.
Neppure proposte parziali e modeste, come vietare l’acquisto di armi ai potenziali terroristi o alle persone mentalmente instabili, sono state approvate negli ultimi anni, nonostante un’escalation di violenza impensabile in qualsiasi altro paese.
Nel 2014 c’erano stati 12.571 omicidi con armi da fuoco, nel 2015 ce n’erano stati 13.500, nel 2016 il totale è balzato a oltre 15.000. A questi, occorre aggiungere i circa 22.000 suicidi l’anno, sempre con armi da fuoco.
Per avere un’idea migliore di cosa significhino queste cifre basterà ricordare che gli Stati Uniti hanno un tasso di omicidi per 100.000 abitanti che è circa 4 mentre in tutti i paesi europei tranne l’Ungheria questo tasso è inferiore a 2, e nei paesi industrializzati come Germania, Francia, e Gran Bretagna è inferiore a 1.
L’Italia, nonostante mafia e camorra, ha circa 450 omicidi l’anno, cioè un tasso di 0,81 ogni 100.000 abitanti.
In Giappone, il tasso è 0,3, cioè ci sono meno di 400 omicidi l’anno nonostante sia un paese di 120 milioni di abitanti.
Ci sono speranze per gli Stati Uniti? Nonostante il dibattito sulle armi da fuoco venga puntualmente riaperto ad ogni nuova strage, l’emozione sembra durare pochi giorni o settimane e, soprattutto, sembra incapace di scalfire l’indifferenza del sistema politico.
In otto anni di presidenza, neppure Barack Obama, un coraggioso e carismatico sostenitore di maggiori restrizioni e controlli, riuscì a far approvare a Congresso un qualsiasi modesto provvedimento utile a limitare i danni.
Dopo Las Vegas non c’è che da aspettare il prossimo massacro.

Il Fatto 4.7.17
The Donald non asciuga le lacrime dell’America
Dopo la strage - Il presidente: “Delle armi parleremo più avanti”
The Donald non asciuga le lacrime dell’America
di Giampiero Gramaglia

Di armi, gliene hanno trovate a bizzeffe: nella camera d’albergo al Mandaly Bay Resort and Casino, nell’auto e a casa. Ma uno straccio di movente credibile, Stephen Paddock non ce l’aveva, o almeno non glielo hanno ancora scoperto, per uccidere 59 persone e ferirne oltre 520, domenica notte, durante un festival country a Las Vegas.
E mentre il lavoro di ricomposizione delle salme e di identificazione delle vittime va ancora avanti, Trump pospone a un futuro indeterminato l’ipotesi di una legge che regoli la vendita delle armi: “Ne parleremo più in là”, dice partendo per Portorico, devastata da un uragano. Oggi sarà a Las Vegas: un viaggio nei sinistri dell’America, cominciato in Texas e in Florida dopo Haley e Irma.
Il killer di Las Vegas ha sparato sul pubblico del concerto utilizzando un arsenale, manipolato per essere più letale: i fucili erano stati resi automatici, armi da guerra, grazie a un kit che si procura facilmente. Nella suite al 32° piano dell’hotel, gli investigatori hanno trovato 23 armi da fuoco; e un’altra ventina nell’auto e nella sua casa di Mesquite. Nell’auto, c’era pure nitrato d’ammonio, atto a fabbricare esplosivi.
Nonostante l’orrore e l’angoscia di queste ore, una svolta di Trump sulla questione delle armi appare estremamente improbabile ed è addirittura esclusa dall’ex consigliere della Casa Bianca Steve Bannon: “È impossibile: sarebbe la fine di tutto”. Secondo Bannon, tornato a dirigere il sito di ultra-destra Breitbart, la base elettorale del magnate presidente reagirebbe malissimo.
Con l’avallo di Obama e della Clinton, i democratici in Congresso vanno all’attacco sulle armi: rinnovano la richiesta di una legge che rafforzi i controlli sulle vendite. Il loro leader al Senato, Chuck Schumer, chiede che il Congresso approvi “leggi capaci di limitare la diffusione delle armi, specialmente le più pericolose, e di evitare che finiscano nelle mani sbagliate”. E la loro pugnace leader alla Camera, Nancy Pelosi, chiede allo speaker Paul Ryan di costituire una commissione ad hoc per lavorare a nuove norme.
Ma Ryan, rilanciando l’appello del presidente all’unità e alla preghiera, non avalla alcuna nuova misura per rafforzare i controlli. Unica concessione è il blocco, per ora, d’un progetto di legge che allenta le norme sui silenziatori, sostenuto dalla Nra (la lobby delle armi) ma contestato dai democratici: “Il progetto di legge non è in calendario. E non so quando lo sarà”, dice Ryan. Se fosse stato in vigore, Paddock avrebbe potuto sparare molto più a lungo senza esser individuato.
Ma si sa come vanno a finire queste cose, in un Paese dove c’è più di un’arma da fuoco per ogni individuo adulto e dove i morti da arma da fuoco sono 33 mila circa l’anno, quasi 10 al giorno. L’opinione pubblica resta scossa per qualche giorno e la politica pare in fibrillazione; e poi l’eco della strage si attenua e la politica è ben contenta di scordarsene, evitando di mettersi in rotta di collisione con la lobby delle armi che averla a favore aiuta ed averla contro è letale.
Il recupero delle salme era ancora in corso ieri mattina a Las Vegas e l’identificazione delle vittime appena all’inizio, mentre Trump sintetizzava: “Un uomo malato, un pazzo”, fermandosi alla spiegazione più banale. La vita di Paddock, pensionato di 64 anni, figlio di padre criminale, senza problemi di soldi grazie – pare – a alcuni fortunati investimenti immobiliari, giocatore esperto, semi-professionista, è piena di buchi: l’ultimo lavoro a tempo pieno risale a trent’anni or sono. Se la rivendicazione dell’Isis appare inattendibile, un movente credibile non c’è. Eppure, Stephen è stato determinato fino all’ultimo: ha sparato attraverso la porta agli agenti, prima di suicidarsi.

La Stampa 10.4.17
Nel Paese dominato dalla cultura delle pistole l’autodifesa nasce dal testo della Costituzione
Le milizie di cittadini vennero create per proteggere l’indipendenza
di Paolo Mastrolilli

Commentando la strage di Las Vegas, il giornalista conservatore Bill O’Reilly ha detto che «questo è il prezzo della libertà». L’ex consigliere di Trump, Steve Bannon, ha invece intimato al presidente di non azzardarsi a toccare il Secondo emendamento della Costituzione, quello che garantisce il diritto dei cittadini ad avere le armi, perché «sarebbe la fine di tutto». Bisogna partire da queste frasi, per quanto possano sembrare assurde, se vogliamo capire perché gli americani sono così ossessionati dalle armi, e perché sarà molto difficile cambiarli.
Nel 1970, cioè subito dopo gli omicidi di John Kennedy, suo fratello Robert e Martin Luther King, lo storico della Columbia University Richard Hofstadter pubblicò su «American Heritage» un articolo che rimane profetico ancora oggi. Si intitolava «America As A Gun Culture», e per la prima volta introduceva il concetto degli Usa come Paese dominato dalla cultura delle armi. Hofstadter ne individuava la radice nella nascita della nazione, ma come prodotto della politica liberale. Il Secondo Emendamento della Costituzione, infatti, aveva incardinato il diritto dei cittadini ad armarsi nella necessità di poter costituire milizie per difendere il Paese. Nell’immediato, questo paragrafo rifletteva il timore che Londra cercasse di riconquistare l’ex colonia con la forza, e ormai si tratta di una paura chiaramente anacronistica. Nel lungo termine, però, puntava a garantire i diritti individuali delle persone, difendere la democrazia, e prevenire la tirannia. Secondo la cultura progressista del tempo, infatti, gli eserciti venivano usati dai regimi per reprimere i cittadini, mentre le milizie popolari come quella americana difendevano la loro libertà. Così va inteso il commento di O’Reilly, che l’ex candidata alla vice presidenza Sarah Palin aveva spinto anche nel divino, sostenendo che «Gesù si batterebbe per il nostro Secondo Emendamento». Ormai i liberal non condividono più questa idea, e la regina Elisabetta non medita la riconquista militare degli Usa, ma i conservatori, i repubblicani, e anche una parte dei democratici le restano legati. Bibbia, costituzione, e fucile.
Passata la rivoluzione, la cultura delle armi è stata riaffermata dalla Frontiera. Nel Far West la legge era un’opinione, e i cittadini onesti ritenevano di avere diritto a pistole e fucili per proteggersi da soli. «Tutti gli americani - notava Hofstadter - hanno sognato almeno una volta nella vita di essere Gary Cooper in “Mezzogiorno di fuoco”». Oggi ci sono le agenzie federali come l’Fbi e le polizie locali a garantire il rispetto della legge, ma in molte regioni la diffidenza verso l’autorità e l’efficienza dello Stato resta invincibile. Poi c’erano gli indiani, che adesso vengono visti come vittime della colonizzazione, ma allora erano il nemico selvaggio da cui bisognava difendersi come John Wayne.
Un terzo elemento che aveva creato la cultura delle armi era il razzismo, in particolare nel Sud, dove resta molto forte. All’epoca della schiavitù, portare la pistola era un privilegio riservato ai bianchi. Questa è la ragione per cui i bianchi del Sud ancora lo rivendicano, mentre i neri delle grandi città lo usurpano, per dimostrare con le armi in pugno di non essere più servi. Un fenomeno che si lega anche alla volontà dei cittadini di avere i fucili in casa per difendersi dalla criminalità, associata soprattutto ai neri, ma pratica anche dai bianchi.
Nella cultura popolare, poi, le armi hanno un posto quasi mitico. Per molti ragazzi delle regioni rurali ricevere il primo fucile significa diventare uomini, mentre film come «Taxi Driver» o «Il Cacciatore» hanno esaltato il potere salvifico di questi strumenti, quando stanno nelle mani giuste. Non a caso, infatti, dopo la strage di Sandy Hook la lobby dei produttori Nra aveva detto che il problema non erano troppe armi, ma troppo poche: se i professori le avessero avute, avrebbero ucciso il killer e protetto i loro bambini. Tutto questo spiega l’avvertimento insieme culturale, politico ed elettorale, lanciato da Bannon a Trump: non toccare il Secondo Emendamento, o sei finito.

Repubblica 4.10.17
Se la strage non ferma la roulette
di Federico Rampini

LAS VEGAS A SOLI cento metri dal luogo della strage, faccio fatica ad avanzare. Non per uno sbarramento di polizia, no. Il perimetro vietato e sigillato per le indagini sta solo attorno al Mandalay Bay Resort, con le due finestre squarciate da dove Stephen Paddock ha preso la mira per il suo massacro. Ma a un solo isolato di distanza è la folla dei turisti quella che devo fendere per farmi strada, per riuscire a entrare nell’hotel-casinò-shopping mall della Mgm.
AFFOLLATISSIMO come se nulla fosse accaduto, con le slot machine prese d’assalto dai pensionati come Paddock, fiumi di visitatori venuti da tutta l’America e dal mondo. Altro che lutto cittadino, non un solo spettacolo è stato sospeso nella prima sera dopo la strage. Sul mega- complesso della Mgm campeggia la pubblicità luminosa di David Copperfield, l’illusionista che ha qui un suo show permanente da molti anni. Il titolo della performance è Alter Your Reality: alterate la vostra realtà. È una sintesi perfetta del modello-Vegas, una metafora di quest’America trumpiana: che di fronte alla più orrenda strage della sua storia preferisce non aprire gli occhi, vive in una realtà parallela. Proprio come la finta Venezia, la finta Parigi, la finta piramide di Luxor, tutte le attrazioni di Las Vegas che propongono repliche all’infinito, una realtà virtuale, un American Dream che promette svago divertimento eccitazione e forse perfino ricchezza a gogò, se la slot-machine imbocca la terna vincente.
Niente panico da strage, quello è durato poche ore, oggi la città è quella di sempre. All’aeroporto ti accoglie sì un pannello luminoso che invita a donare sangue per i feriti negli ospedali, ma l’aeroporto stesso è già un casinò, se sei afflitto da dipendenza puoi giocare subito, nel salone degli arrivi le slot-machine sfavillano di luci multicolori. Arrivano a ondate turisti che i torpedoni riversano in una città che non dorme mai. Non solo gioco d’azzardo ma anche convention professionali e turismo familiare: hai la scelta tra un concerto di Britney Spears e il Cirque du Soleil, un congresso di odontoiatri e la gita in elicottero al Grand Canyon, le piscine riscaldate degli hotel e i ristoranti stellati dove gli chef europei vengono a fare milioni.
«The show must go on», che lo spettacolo continui: per dovere di sobrietà e rispetto del dolore i network televisivi accorsi da Los Angeles e New York danno visibilità alle veglie funebri, al raccoglimento, alle preghiere, ma la vita vera di Las Vegas è ben diversa.
Oggi arriva qui Donald Trump per portare solidarietà alle famiglie delle vittime, confortare i feriti, elogiare le forze dell’ordine. Trump a Vegas ci sta di casa perfino più che a New York. Anche qui troneggia una gigantesca Trump Tower tutta dorata, dove un anno e mezzo fa io lo inseguivo in campagna elettorale. Stravinse la primaria repubblicana, in una città fatta a sua immagine e somiglianza: American Dream posticcio, fasullo, irreale, fabbrica d’illusioni e mistificazioni. Poi perse l’elezione presidenziale del Nevada contro Hillary, perché dietro la facciata luccicante di Vegas c’è tanto lavoro ispanico, gli immigrati che sgobbano per salari minimi negli hotel casinò ristoranti non erano proprio entusiasti del suo Muro.
Trump sbarca qui dopo una problematica visita a Porto Rico dove alle accuse di ritardi negli aiuti ha replicato a muso duro che i portoricani «sprecano soldi del bilancio Usa». Sulla strage di Las Vegas ha twittato che è l’opera di «un folle pieno di problemi ». Ha zittito le polemiche sugli arsenali della morte in vendita libera, sempre via Twitter: «Di armi parleremo in futuro».
È un classico della destra americana, non ha inventato lui questo sotterfugio. Ad ogni sparatoria con strage, la lobby armaiola della National Rifle Association e i suoi rappresentanti politici (cioè la totalità del partito repubblicano, più un pezzo dei democratici) reagisce sempre così: prendere tempo, lasciare che passi la tempesta, poi tutto resterà come prima. Bisogna incollarsi davanti a Fox News per capire come il cervello di un americano di destra “elabora” queste tragedie. Il network televisivo di Rupert Murdoch dedica enorme spazio a Las Vegas, quasi esclusivamente per esaltare storie di eroismo dei poliziotti, di solidarietà tra le vittime, di abnegazione, gesti commoventi. È la ricerca costante di uno Happy Ending, la favola di un’America meravigliosa dove ogni tanto un folle criminale ci aiuta a sentirci ancora più buoni e amorevoli fra noi. Le armi diventano un finto problema, perfino un pretesto ignobile: «Non è il momento di politicizzare il dolore» dice sdegnata la portavoce di Trump. Sciacalli dunque sono quei politici di sinistra, a cominciare da Hillary, che profittano di questo lutto immenso per le loro campagne. Ogni volta che Barack Obama tentò di far passare al Congresso leggi più severe sulle vendite di armi probabilmente contribuì a portare voti a Trump. La tribù di destra si ricompatta non appena sente minacciato il sacro diritto all’autodifesa. Liberi di armarsi fino ai denti, liberi di sperperare la pensione alle slot-machine, i turisti dell’oblìo che continuano a invadere Las Vegas oggi attendono qui il loro profeta, l’uomo che dello showbusiness ha fatto un trampolino verso la Casa Bianca.

Repubblica 4.10.17
Un tranquillo contabile, facoltoso e figlio di un criminale che l’Fbi non riesce a mettere a fuoco. A cominciare dal suo arsenale
Anatomia di un Signor nessuno malato di gioco e di armi da guerra
di Vittorio Zucconi

WASHINGTON ERANO le quattro del pomeriggio di giovedì 28 settembre quando la morte arrivò alla reception del Mandalay Resort and Casino per il check-in. Presentò la carta credito. Fermò una stanza e una suite d’angolo al 32esimo piano, con il nome di Stephen Paddock. Dietro di lei, nell’andirivieni della lobby affollata come una stazione del metrò nell’ora di punta, una processione di facchini spingeva quattro carrelli con dieci valigione. Non sapevano che quel bagaglio conteneva tredici fra fucili mitragliatori e pistole automatiche, né gli sarebbe importato qualcosa: in Nevada si possono avere quante armi si vogliono e mercanti vanno e vengono come rappresentanti di commercio. E se la mancia è generosa, nessuno chiede niente. A Las Vegas si fanno soldi, non si fanno domande.
Comiciarono in quel pomeriggio di settembre, mentre il sole cominciava a calare verso la Valle della Morte e la Sierra che divide il Nevada dalla California, le ultime 72 ore di vita per 59 turisti in viaggio verso un concerto di musica country e per l’uomo che li avrebbe uccisi. Era molto ordinata e ben preparata, la morte che si era impadronita di Stephen Paddock. Lo aveva armato, insieme con l’arsenale portatile, di una mazza da demolizione, per spaccare i vetri doppi di sicurezza che sigillano tutte le le 3 mila e 29 stanze dell’Hotel Casino. Non aveva aperto le valigie, per non stuzzicare l’interesse delle persone della pulizia. Nella notte del suo penultimo giorno di vita, Paddock era sceso a fare quello che ormai faceva ossessivamente, a giocare. Nel mistero della sua vita e nell’oscurità ancora totale dei suoi motivi, una sola luce è lampante, il gioco. L’Fbi che sta frugando nei suoi conti in banca, ha trovato sedici movimenti da almeno diecimila dollari ciascuno – 160 mila dollari - fatti attraverso le casse di vari casinò, soprattutto del Caesar’s Palace, dove lui aveva il massimo ranking come creditore. Era quello che nel gergo si chiama “una balena”, un cetaceo spiaggiato capace di puntare fortune, ma se avesse vinto o perso nelle ultime ore della sua vita non sappiamo. Sappiamo che ha mosso quelle somme solo perché, per legge, i casinò devono denunciare al fisco tutte le transazioni oltre i diecimila.
Soldi, aveva. E molti. Prima di sistemarsi al Mandalay, Paddock era passato dalla sua banca per fare un bonifico da 100 mila dollari a favore della sua fidanzata del momento, Marilou Danley, inviandoglieli nelle Filippine dove lei era andata a trovare i parenti e sarebbe dovuta rientrare in questi giorni. Altri soldi aveva fatto avere alla casa di riposo in Florida dove vive la madre novantunenne.
Sabato, vigilia della strage, la morte era stata vista da qualche testimone che sostiene di avere riconosciuto Paddock in un ristorante tex- mex, a mangiare un burrito. Ma la polizia che si muove come una sonnambula nella notte senza riferimenti della sua vita, nei social che non frequentava, nel vicinato dei pensionati benestanti dove ogni tanto viveva, Paddock era andato a visitare la spianata sull’altro lato della strada. Un “killing field” ideale, sparando dall’alto. Che cosa abbia fatto nelle ultime ore prima della mattanza, domenica, non lo sapremo mai. Una governante entrata nella stanza sembra ricordare una tv sintonizzata su una partita di football. Ma le telecamere di sorveglianza, che brulicano nel Mandalay come in ogni altro hotel casino, non hanno traccia di lui. Come le telecamere della sua vita non sembrano aver registrato il passaggio di Stephen Paddock, un ectoplasma. Figlio di un criminale poi divenuto venditore di auto usate e operatore di sale di bingo. Contabile presso la Lockheed. Proprietario e amministratore di condomini. Sposato e divorziato due volte. Ricco. Fidanzato con una filippina mai vista con lui. Citato una sola volta dalla polizia per un’infrazione stradale. Pokerista. Collezionista di 42 armi di fuoco militari comprate legalmente e approvate via Fbi senza che nessun algoritmo si fosse mai chieso che cosa diavolo potesse farci qualcuno con 42 fucili da guerra. E calcolatore.
Sceglie il momento giusto, non troppo presto, non troppo tardi. Alle 10 della sera di domenica le stanze sono vuote, i ristoranti ribollono, il casinò è una cafonia infernale di voci, slot, risate alcoliche, grida di giocatori di dadi. Con la mazza sfonda i vetri di due finestre, per cercare l’angolo di tiro migliore e tra il suono che si alza dalla strada e quello che risale dal casinò, quello schianto non richiama attenzione. Alle 10.08 spara. Duecento metri sotto di lui, gli spettatori cominciano a cadere, mentre la band continua a suonare senza capire. Alle 10.30 gli agenti in tenuta d’assalto raggiungono la sua stanza, inviduata dalle finestre infrante, e fanno saltare la porta. Troveranno un morto. La morte si era sparata portandosi via il proprio mistero.

il manifesto 4.10.17
«Estendere il diritto d’asilo anche a chi fugge dalla fame» 
Migranti. Il presidente del Senato
Piero Grasso a Lampedusa per ricordare la strage del 2013
di Leo Lancari

«Non solo chi fugge dalla guerra, ma anche chi scappa dalla povertà, dalla fame, dalla violenza ha diritto d’asilo». Ci vuole coraggio, visti i tempi, per proporre di allargare il diritto di asilo anche ai migranti economici. Lo sa bene il presidente Pietro Grasso intervenendo ieri a Lampedusa alla cerimonia per il quarto anniversario del naufragio che il 3 ottobre del 2013 provocò la morte di 366 migranti, tra cui molte donne e bambini. I  l presidente del Senato cita l’articolo 10 della Costituzione «quello – ricorda – che sancisce un diritto universale, il diritto d’asilo allo straniero al quale, nel suo Paese, sia impedito l’esercizio della libertà». Un diritto che adesso la seconda carica dello Stato propone di allargare a quanti fuggono non solo dalle persecuzioni, ma anche dalla miseria.  Grasso parla davanti alla porta d’Europa, punto di partenza della marcia in memoria della vittime della strage di quattro anni fa. Per ricordarle sono venuti in tanti sull’isola più a sud d’Europa. Studenti delle scuole italiane ed europee, associazioni, organizzazioni umanitarie, politici. Oltre a Grasso ci sono il commissario Ue all’Immigrazione Dimitri Avramopoulos, i ministri degli Interni Minniti e dell’Istruzione Fedeli. Ma soprattutto ci sono i superstiti di quella tragedia, accolti al loro arrivo dall’applauso dei partecipanti. In prima fila Thareke Brhane, del Comitato 3 ottobre che ha promosso l’iniziativa. «Siamo stanchi di contare i morti», dice. «Quello che chiediamo è che l’Unione europea apra canali umanitari e incida nei paesi di origine di queste persone che non sono dei numeri».  Quanto avviene nel Mediterraneo è il filo rosso che collega la tragedia di quattro anni fa con quanto accade oggi. Gli accordi stretti dall’Italia con la Libia per mettere un argine ai flussi hanno sì portato a una diminuzione degli sbarchi, ma il numero dei morti continua a essere alto. Come ricorda il cardinale Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento e presidente della Caritas italiana. «Davanti a questo mare di Lampedusa ci sono 30mila morti e sono solo quelli contati», ricorda. «Ma ve ne sono altrettanti non contati. Vogliamo e dobbiamo smettere di contare i morti. Bisogna abbattere i muri e i reticolati che ingabbiano anche i cuori e continuano a uccidere. Dobbiamo dire con forza ’Mai più morti’, ’Tutti devono sopravvivere e avere speranza’. Questa Europa stanca e debole deve cambiare».  La conferma di questa tragedia quotidiana arriva dai numeri delle vittime forniti dalla Comunità di sant’Egidio. «Se è vero che i numeri in assoluto sono diminuiti, le percentuali sono drammaticamente aumentate: nel 2015 su un milione e 15 mila sbarchi si contavano 3.771 vittime, nel 2016 su 362 mila erano 5.096 mentre nel 2017, fino a oggi, su 130 mila arrivi ben 2.655 hanno perso la vita, addirittura uno ogni 48 persone salvate», ricorda la comunità. «Oggi ricordiamo questi morti, ma le stragi continuano. Questo vuol dire che non è stato fatto quanti si doveva», dice padre Mussie Zerai, da anni un punto di riferimento per quanti fuggono dall’Africa e fondatore dell’Agenzia Habeshia. Che non risparmia critiche alla decisione del governo italiano di affidare ai libici il compito di fermare i barconi diretti in Italia. «I libici sono dei gendarmi a pagamento – ricorda il sacerdote eritreo -, svolgeranno i loro compiti finché l’Europa li pagherà. Ma il problema resta. Servono campi umanitari, interventi nei paesi di transito e di origine per combattere la carestia, la fame. Bisogna fermare le guerre e prevenire e affrontare con azioni mirate le situazioni di povertà».  Bisogna, soprattutto, creare dei canali legali per entrare in Europa, l’unico modo per riuscire a scavalcare veramente i trafficanti di uomini. Sono tutte le realtà intervenute a Lampedusa a chiederlo all’Europa. Un esempio positivo di come si possano aggirare le organizzazioni criminali sono i corridoi umanitari organizzati da Sant’Egidio con le chiese protestanti con cui in quasi due anni sono riusciti a far arrivare in Italia dal Libano 900 profughi siriani favorendo la loro integrazione.

Il Fatto 4.10,17
Andrea Segre
“Ministro, guardi il mio film e poi ci spieghi”
Il regista de “L’ordine delle cose”, presentato a Venezia, invita il capo del Viminale
“Ministro, guardi il mio film e poi ci spieghi”
intervista di Federico Pontiggia

“Non ce l’ho con Minniti, non è lui la colpa di tutto, ma è il responsabile istituzionale, dunque il nostro interlocutore. Poi, se a vedere il film vogliono venire anche Alfano e Gentiloni a noi va bene”. Andrea Segre non molla la presa, ovvero, ribadisce l’invito al ministro degli Interni perché veda il suo terzo lungometraggio, L’ordine delle cose. Dal 7 settembre è stato visto da 35mila persone per oltre 200mila euro di incasso, al centro mette Corrado Rinaldi (Paolo Pierobon), un funzionario del Ministero degli Interni impegnato a contrastare l’immigrazione irregolare nella Libia post-Gheddafi. Quando incontra Swada (Yusra Warsama), una donna somala che vorrebbe raggiungere il marito in Europa, le certezze di Corrado vacillano… “Siamo partiti con 19 schermi, ma non era vero che la gente fosse stanca di sentir parlare di immigrazione. Oggi le sale sono 33”.
Il film racconta anche la Libia di oggi.
Il commento più bello che ho ricevuto è stato quello, per citare involontariamente Sogni d’oro, di una casalinga di Treviso: sala strapiena, prende il microfono con palese urgenza e… “ma scusi, io oggi son venuta qui a vedere questo suo film dopo quello della neve (La prima neve, 2013) che mi era piaciuto e scopro che ci sono lager in Libia e noi mandiamo la gente lì. Perché non lo sapevo prima?”. Che esistano centri di detenzione lo sappiamo da anni, non li ha inventati Minniti, ma è incredibile la quantità di persone che di migranti sa solo quanti ne arrivano e quanti ne fermiamo… I nostri spettatori hanno voglia di approfondire, la loro è partecipazione civile e politica.
È un film politico?
Mi piacerebbe che fosse uno strumento per allargare una discussione oggi molto schiacciata, polarizzata da una grande maggioranza concentrata sulle informazioni più inutili – quanti ne arrivano, quanti ne fermiamo – e una minoranza assai competente. Ebbene, la politica sta con la maggioranza, con questa assenza di approfondimento, laddove ha il dovere di rifiutare la superficialità: il tema delle migrazioni non è passeggero, sta ridisegnando l’equilibrio del mondo, e se non cambiamo l’ordine delle cose è destinato a produrre ulteriori emergenze e dolore.
Ha domande per il ministro Minniti?
Sul caso libico, l’attuale preoccupazione, dicono, è garantire la trasformazione dei centri di detenzione in luoghi di rispetto dei diritti umani: chiedo, come lo state facendo? Ancora, perché non si potevano invertire le cose, prima sistemare i centri e poi fermare i flussi?
Il 3 ottobre del 2013 a Lampedusa annegarono in 368.
Aver chiuso le vie regolari di migrazione e spinto migliaia di persone a tentare quelle irregolari arricchendo le organizzazioni criminali che se ne occupano. Se non torniamo sui nostri passi, come potremo uscirne? È indubbio, e concordo con Minniti, che vedere centinaia di persone ammassate nei porti dia la sensazione di non essere in grado di controllarle, ma la soluzione non è nasconderle dall’altra parte del mare, consegnandosi inevitabilmente alla prossima rottura, alla prossima via di fuga.
Appuntamento al ministro Minniti?
Il 15 ottobre al Palazzo delle Esposizioni di Roma: l’invito ufficiale l’ha già avuto. Poi se L’ordine delle cose lo vuole vedere prima non mi offendo.

il manifesto 4.10.17
«Stabilizzateci subito», la due giorni di protesta dei precari della ricerca
Contromanovra. Ieri colorato flashmob dell’Usb davanti al ministero dell’Economia, oggi tocca ai confederali: «Vent’anni di tagli, è ora di dire basta»
Il flash mob dei precari della ricerca davanti al ministero dell'Economia
di Massimo Franchi

Tra i (pochi) capitoli di spesa citati da Padoan ieri al Senato manca completamente quello della ricerca. Un settore colpito da anni di tagli e con ormai storiche carenze di personale.
Per questo i precari protestano da tempo – quelli dell’Ispra hanno occupato la sede dell’ente per mesi – chiedendo a gran voce risorse e un piano di stabilizzazioni ormai non più rinviabile.
Una due giorni di proteste rilancia la protesta. Ieri è stato il turno dell’Usb, oggi di Flc Cgil, Fir Cisl e Uil Scuola Rua. Una due giorni di presidi sotto il ministero dell’Economia, indiziato numero uno per i tagli alla ricerca e le mancate stabilizzazioni.
Ieri a via XX settembre l’Usb ha tenuto un flash mob di protesta intitolato «Non sparare alla ricerca». Gli attivisti, attraverso le parole del delegato Usb ricerca Nicola Lugeri, hanno chiesto la stabilizzazione di 10mila precari nel settore della ricerca e il rilancio dei finanziamenti ad enti come Ispra, Inapp e Cnr.
«Se dobbiamo dare un volto al sicario che sta “terminando” la ricerca pubblica è quello del ministro dell’Economia di turno, ma la responsabilità è del governo nel suo complesso e delle scelte economiche che puntualmente penalizzano un settore che dovrebbe rappresentare il futuro», afferma l’Usb Ricerca. «La richiesta al ministro Padoan e a tutto il governo – segnala – è quella di investire 300 milioni di euro nella ricerca pubblica stabilizzando 10 mila precari, due generazioni di ricercatori e tecnici, che rappresentano 100 mila anni di esperienza, conoscenza e competenze». Per l’Usb Ricerca «farlo è un dovere nei confronti del aese, del suo futuro. Non farlo significa portare all’estinzione la Ricerca Pubblica del nostro paese e vedremo se il governo Gentiloni si assumerà questa responsabilità davanti al paese. “Non sparate alla ricerca” caratterizzò la prima occupazione dell’Ispra del 2009, perché, dopo le mobilitazioni vincenti di Iss e Istat, e quelle più recenti di Ispra, Crea e Cnr, è tempo di unire le singole vertenze in un movimento di lotta che caratterizzi verso lo sciopero generale del 10 novembre», incalza l’Usb Ricerca.
Questa mattina alle 10 invece toccherà ai “confederali”. Flc Cgil, Fir Cisl e Uil Rua contestano la mancata applicazione del decreto legislativo 218 del 2016 e del decreto Madia. «Fatta salva qualche rara eccezione, le stabilizzazioni dei precari della ricerca ad oggi latitano – attaccano – . Certo non ha aiutato in tal senso l’atteggiamento remissivo della maggior parte dei presidenti degli enti, che con un documento di fine luglio, si sono rifugiati per lo più in una comoda richiesta di incremento dei fondi ordinari, tralasciando di ottimizzare al meglio gli strumenti che il Dlgs 218/16 aveva messo loro a disposizione», scrivono nella nota che accompagna la manifestazione.
«A fronte di un ventennio di tagli continui, il sistema della ricerca, che è il motore dell’innovazione e dello sviluppo, ha subito un drastico definanziamento e una riduzione sensibile degli addetti a tempo indeterminato, a causa del blocco delle assunzioni. Ciò ha costretto gli enti a ricorrere a progetti e commesse esterne per recuperare risorse finanziarie e far fronte ai problemi di bilancio, con un duplice effetto perverso con cui fare i conti: l’impennata improvvisa del precariato per assolvere ai propri compiti, da un lato; e la riduzione del personale di ruolo dall’altro, causato oltre che dal blocco delle assunzioni dagli opprimenti vincoli di bilancio. È ora di dire basta a questo stato di cose – attaccano Flc Cgil, Fir Cisl eUil Rua, occorre rilanciare la ricerca pubblica e rifinanziare gli enti pubblici di ricerca, procedere immediatamente alle stabilizzazioni di tutti i precari togliendo qualunque alibi ai presidenti “resistenti” degli enti», concludono.

Corriere 4.10.17
La fiducia nei sindacati cade al 30% Emorragia tra chi vota a sinistra
Il sondaggio: persi 18 punti in 11 anni. Il calo maggiore durante il governo Renzi
di Cesare Zapperi

MILANO Per consolarsi, possono giusto guardare a come sono caduti in basso, nella considerazione popolare, i partiti. Peggio di loro, non c’è nessuno. Eppure, anche i sindacati se la passano tutt’altro che bene. In poco più di dieci anni, dal 2006 al 2017, la fiducia degli italiani nei loro confronti è scesa dal 48 al 30 per cento (quella nei partiti è arrivata al 16 per cento, il minimo storico). Più che un calo, un autentico crollo quello che certifica l’istituto di ricerche Ipsos, mettendo a confronto i sondaggi svolti in questo arco di tempo.
«Le organizzazioni sindacali — osserva Luca Comodo, responsabile della divisione politico-sociale di Ipsos — sono vittime di un fenomeno generale di sfiducia crescente nei partiti, nelle associazioni di categoria, nelle istituzioni. Stiamo assistendo a un processo di disintermediazione generale che non risparmia nessuno». Ed è anche per questo, o forse proprio per questo, che nei giorni scorsi Luigi Di Maio ha puntato il dito contro i rappresentanti dei lavoratori. «O si autoriformano o ci pensiamo noi» ha detto con un tono ultimativo che ha scatenato polemiche, a destra come a sinistra. Il candidato premier del Movimento 5 Stelle evidentemente sapeva di affondare la lama su un ventre molle.
Del resto, materia per riflettere ce n’è in abbondanza. I numeri aiutano a capire dove è cresciuta la sfiducia, in quali fasce d’età, tra quali lavoratori, dentro quali aree politiche. Partiamo dal dato anagrafico, allora. Il calo più rilevante si registra tra i 18 e i 24 (-23 per cento) e tra i 25 e i 34 anni (-28 per cento). «È l’età in cui è più forte la precarietà oppure si è alle prime esperienze di lavoro — spiega Comodo — qui è più avvertita la necessità di risposte alle esigenze di tutela». Risposte che, complici anche le riforme introdotte negli ultimi anni, sono state ritenute insufficienti o non adeguate.
Un riscontro diretto lo si ha quando ci si sposta ad analizzare il livello di gradimento a seconda delle categorie sociali. Scende in picchiata il giudizio dei disoccupati, -34 per cento, e quello dei pensionati, -24 per cento. Anche in questi due casi, chi è più debole manifesta maggiormente il disagio nei confronti di chi avrebbe il ruolo istituzionale di difendere le loro ragioni. Che si tratti di riguadagnare un’occupazione o di salvaguardare la pensione (sia da raggiungere, in termini di requisiti, sia da tutelare da tagli o modifiche ai diritti acquisiti), il sindacato non viene più ritenuto un presidio adeguato.
La dinamica del calo offre un’altra chiave di lettura: se è di 18 punti in 11 anni, 9 di questi vengono meno in soli 4 anni, dal 2013 al 2016. Non a caso, forse, il periodo caratterizzato dal breve governo di Enrico Letta e soprattutto dall’esecutivo guidato da Matteo Renzi che sul fronte del lavoro ha lasciato la sua impronta più marcata, a partire dall’introduzione del Jobs act. Il tracollo è un pesante giudizio negativo implicito, come se ai sindacati, che peraltro l’ex premier toscano ha sempre relegato ai margini eliminando la «concertazione», venisse imputato di non aver saputo fare argine alle riforme renziane.
Accusa che emerge, infine, anche a conforto del ragionamento precedente, dalla sfiducia che cresce a livelli vertiginosi tra gli elettori di sinistra (+36 per cento) e di centrosinistra (+32 per cento). Il fil rouge che lega tutti questi temi è chiaro. Il sindacato perde consensi proprio nei suoi tradizionali terreni di insediamento. Come se una squadra di calcio perdesse in casa.

Corriere 4.10.17
Mdp, Pisapia attacca D’Alema: «Divide, faccia passo di lato»
L’ex sindaco di Milano: «Lui ha un’idea di me molto diversa dalla realtà, ho sempre fatto quello in cui credevo dopo aver ascoltato tutti. Nessuno strappo sul Def»
di Paolo Decrestina
qui
http://www.corriere.it/politica/17_ottobre_04/mdp-pisapia-lo-strappo-def-d-alema-dovrebbe-fare-passo-lato-3d39f890-a8d7-11e7-8539-6c9b026c835a.shtml

Repubblica 4.10.17
L’intifada Rossa che dilania la Repubblica
di Massimo Giannini

LO STRAPPO dei “progressisti” sulla manovra è il penultimo passo del centrosinistra verso gli abissi del nulla. Divisi su tutto, il Pd di Renzi e l’Mdp di Bersani e Speranza sono ormai uniti da un solo obiettivo: annientarsi tra loro, in una folle “intifada rossa” che distrugge la casa comune.
I “FUORIUSCITI” si fingono responsabili. Al Senato voteranno la mozione sullo scostamento di bilancio, ma non la relazione sul Def. Un tecnicismo parlamentare, che serve a marcare una discontinuità senza far cadere il governo. Ma che crea l’ennesima frattura con Giuliano Pisapia, il “federatore riluttante”. C’è da chiedersi cosa possano capire gli italiani, di fronte a questi artifici da corte di Bisanzio, astrusi e autoriferiti.
«Gentiloni non ci ha ascoltato sulla legge di stabilità», dicono. E forse hanno anche ragione: chiedono modifiche al Jobs Act, più risorse alla sanità. E nella prossima manovra, di puro galleggiamento, non ci sarà nulla di tutto questo. Ma il vero motivo della rottura è un altro. La posta in palio non è l’equità sociale, è la legge elettorale. Il “Rosatellum bis” è l’ennesimo, orribile Frankenstein concepito dagli apprendisti stregoni dei due poli insidiati dai Cinque Stelle e dalle rispettive ali estreme. A Renzi serve proprio per questo: nominare i suoi fedelissimi e diserbare la metà del campo alla sinistra del Pd. I “progressisti” fiutano il pericolo mortale, e lanciano il ricatto finale: o il segretario rinuncia al “porcellum 2.0”, o noi facciamo saltare il tavolo, aprendo subito la crisi sulla manovra.
In questa cerimonia cannibale il Paese non conta. Ognuno gioca per sé. Non c’è più traccia di una missione, di un orizzonte, di una “comunità di destino”, come si sarebbe detto ai tempi in cui il Pd nacque, il 14 ottobre del 2007. Ed è davvero una beffa della Storia, se questa eutanasia del centrosinistra si consuma a dieci anni esatti da allora. Non è rimasto più nulla, di quella semina. Non germoglia più nulla, nel “campo progressista” trasformato in campo di Agramante. Solo “nemici contro avversari”, per usare la formula di Michael Ignatieff. Il nemico è alle porte, e quel nemico ha due facce. Quello della destra forzaleghista, avventurosamente resuscitata dalle rovine giudiziarie e politiche del Ventennio berlusconiano. E quello della Setta cyber-populista, fideisticamente ispirata dalle ricette velleitarie e salvifiche del Verbo grillino.
Di fronte a tutto questo, con le urne tedesche appena chiuse ad accogliere persino lì il cadavere fumante della Grande Coalizione, Renzi a Imola non trova di meglio da fare che scagliarsi non contro il Cavaliere di Arcore o il Comico di Genova, ma contro quegli epigoni di Bertinotti «che parlavano di collettivo, di bandiera, di ditta e che dopo aver lasciato il Pd per un risentimento personale ora vogliono darci lezioni di sinistra». Dunque, per il Pd è comunque preferibile ritessere un patto col diavolo Berlusconi, piuttosto che ritentare un’alleanza a sinistra.
E D’Alema, sul fronte opposto, non trova di meglio che rispondere che «Renzi non è come Craxi, perché a parte la palese differenza di statura politica Craxi è sempre stato un uomo di sinistra». Dunque, per Mdp è comunque preferibile assemblare un “governo del presidente”, piuttosto che riaprire un dialogo con il Pd. Dov’è la strategia, in questi opposti personalismi? Non ce n’è più alcuna traccia. E se questo si può capire per Renzi, leader di una modernità dal respiro più corto, non è più accettabile per D’Alema, erede di un Pci in cui anche nei momenti più bui la capacità di analizzare la fase non si disgiungeva mai dalla volontà di indicare un percorso, un approdo collettivo, che coinvolgesse non solo le nomenklature del partito, ma anche e soprattutto il popolo vasto che c’era intorno.
Oggi non rimane più niente. Se non questo niente, appunto. Questa sinistra nichilista, che prima di implodere compirà probabilmente il suo unico, grande miracolo: riconsegnare l’Italia al Cavaliere. E ancora una volta, torna in mente l’amarissimo commiato di Ingrao: sognammo una torre, scavammo nella polvere.

La Stampa 4.10.17
Pisapia contro D’Alema: “Divide, faccia un passo di fianco
Nessuno strappo con Mdp sulla manovra”
L’ex sindaco di Milano: bisogna fare di tutto perché non vinca il centrodestra o il M5S

Si complica il percorso della manovra dopo che Mdp non vota la relazione al Def e esce dall’esecutivo con le dimissioni del viceministro dell’Interno Bubbico. Nel governo si manifesta comunque cauto ottimismo sull’obiettivo finale: Gentiloni incassa infatti da Mdp il voto sulla variazione dei saldi. L’ex sindaco di Milano Pisapia difende le possibilità di dialogo e nega di essere deluso dallo strappo di Mdp sul Def.
«Non mi aspettavo altro di diverso, non c’è uno strappo. Era fondamentale che Mdp non votasse contro lo scostamento di bilancio, c’erano deputati e senatori che volevano votare contro lo scostamento e invece ora inizia un percorso», dice Pisapia a Radio Capital. Con la decisione di ieri «non si chiudono le porte alla trattativa e si salvaguardano» alcune «somme per fare passi avanti» con il governo sulla manovra.
Frecciata poi a Massimo D’Alema, invitato a fare «un passo di fianco»: «D’Alema - dice l’ex sindaco - sa perfettamente che io sono a disposizione di un progetto unitario e invece continua a fare dichiarazioni che dividono. Era favorevole che oggi non si votasse lo scostamento di bilancio, che avrebbe portato all’aumento dell’Iva. Io e altri abbiamo voluto fare un percorso diverso Io - spiega- sono dell’idea che chi non ha obiettivi personali potrebbe fare un passo di fianco. Bisogna essere in grado di unire».
Alla domanda se e come continuerà il suo impegno per il centrosinistra nonostante le molte difficoltà, Pisapia risponde così: «Il mio obiettivo è una sinistra di governo, vedo posizioni differenti ma per un po’ vado avanti, queste settimane sto girando l’Italia per sentire persone, amministratori e sindaci e poi vedo».
«Sapevo delle difficoltà - premette l’ex sindaco di Milano - è evidente che le divisioni sono emerse ma sono più di ceto politico che tra le persone perché chi è in parlamento ha più problematiche mentre in giro per l’Italia sento le persone che dicono di andare avanti per l’unità. Certo serve una discontinuità con il passato ma bisogna fare di tutto perché non vinca il centrodestra o M5S».

Corriere 4.10.17
Gli ex del pd tormentati tra manovra e riforme
di Massimo Franco

I tormenti dell’«altra sinistra» sulla manovra finanziaria del governo stanno creando un eccesso di allarme e di confusione. In realtà, non si prevedono sorprese: la legge di Stabilità dovrebbe passare sia alla Camera sia al Senato, nonostante i numeri a Palazzo Madama assegnino un ruolo determinante al gruppo di Mdp. Quando l’ex segretario del Pd Pier Luigi Bersani, ora leader del Movimento dei democratici e progressisti, dice di sentirsi vincolato solo «alla responsabilità verso l’Italia», dà un segnale rassicurante.
Lascia capire che garantirà i voti lì dove sono necessari, perché «non rischieremo di fare arrivare la troika». Il secondo segnale, però, è che per il resto si terrà le mani libere. È un modo per rivendicare il peso di chi ha lasciato il Pd, rispetto al governo di Paolo Gentiloni. Dunque, «sì» allo scostamento di bilancio ma non alla relazione, per la quale basta una maggioranza semplice. La scelta, tuttavia, ha un secondo effetto, non si sa quanto voluto: inserisce un cuneo nei rapporti con il Campo progressista di Giuliano Pisapia, reduce da un colloquio cordiale con il premier, due giorni fa.
L’atteggiamento dialogante dell’ex sindaco di Milano non piace a tutti, nella sinistra anti-renziana. Così, quando ieri Mdp ha fatto sapere che le garanzie offerte da Palazzo Chigi su alcuni provvedimenti erano insufficienti, c’è stato il cortocircuito. Uno degli uomini più vicini a Pisapia, Bruno Tabacci, non ha avallato lo scarto. «Voterò sicuramente a favore del Documento economico-finanziario», ha annunciato. «Mdp sta sbagliando: ha una linea poco chiara, confusa». È una divergenza che probabilmente condizionerà i rapporti in quest’area della sinistra.
Già da qualche settimana, sono cresciute nel partito di Bersani e di Massimo D’Alema le perplessità su una leadership consegnata all’ex sindaco. L’atteggiamento diverso nei confronti dell’esecutivo può aumentare le diffidenze. Anche se il vero spartiacque è la riforma della legge elettorale, che Mdp vede come un tentativo di Pd e Forza Italia di danneggiare alcune forze minori. Ieri alla Camera i parlamentari di Bersani hanno accusato i Dem di spaccare la maggioranza sul nuovo sistema di voto. Ma hanno garantito che non risponderanno «con un atto irresponsabile» sulla manovra economico-finanziaria.
Insomma, seppure in modo tormentato la manovra dovrebbe andare in porto. Quanto alla riforma elettorale, in apparenza marcia spedita sulle ali di un’intesa Pd-Fi-Lega-Ap. Il problema è che, una volta passata alla Camera, dovrà approdare al Senato. E verosimilmente questo non avverrà prima di metà novembre, dopo le elezioni regionali in Sicilia. Dare per scontato il «sì» di Palazzo Madama forse è prematuro. Nessuno è in grado di prevedere quali saranno i rapporti di forza e i contraccolpi politici dopo il voto siciliano: nel governo e tra gli avversari.

La Stampa 4.10.17
Vince la linea D’Alema
Crisi tra Mdp e maggioranza
Tensione con Pisapia
L’ex sindaco: almeno li ho convinti a votare lo scostamento
di Francesca Schianchi

«I gruppi di Mdp all’unanimità hanno scelto di non votare la relazione sul Def e di votare a favore dello scostamento di bilancio». È tardo pomeriggio quando il coordinatore del partito, Roberto Speranza, si affaccia da un’uscita laterale del Senato per dichiarare a giornalisti e telecamere quello che, fin dal mattino, si sussurra come retroscena nei Palazzi: l’uscita dell’ala più di sinistra dalla maggioranza, suggellata in serata dalle dimissioni del loro unico rappresentante al governo, il viceministro Filippo Bubbico. Un «messaggio politico forte», come si compiace Speranza, che allontana il drappello dei parlamentari scissionisti del Pd ed ex Sel dal governo di Gentiloni, ma anche dal progetto di una fusione con Campo progressista di Giuliano Pisapia. Sulla cautela dell’ex sindaco vince la linea barricadera di Massimo D’Alema, che da tempo predica la sfida al governo fino alle estreme conseguenze: «Ora abbiamo le mani libere», rivendica soddisfatto in tv da Bianca Berlinguer.
«In questi giorni mi sono impegnato affinché Mdp votasse a favore dello scostamento di bilancio per evitare non solo l’aumento dell’Iva ma più in generale un peggioramento delle condizioni di vita degli italiani», fa sapere non a caso in serata Pisapia, lasciando aperta la porta al governo per l’appuntamento più importante, quello di fine anno sulla manovra: «Prendo atto che il ministro Padoan ha dichiarato che è stato avviato un percorso» per inserire le richieste fatte proprio da lui lunedì, in un incontro a Palazzo Chigi, «confido che arrivino risposte in quella che sarà la discussione e il confronto sulla legge di bilancio». Parole che lasciano aperto un dialogo con il governo, senza bacchettare i compagni di strada di Mdp, come invece fanno i suoi uomini a Roma. «E’ un errore, la scelta di Mdp è un frutto malato della scissione: sono convinti di guadagnare più spazio politico andando all’opposizione», sbotta Bruno Tabacci, che alla Camera voterà la risoluzione. Così come faranno a Palazzo Madama sei senatori che si riconoscono in Campo progressista, a partire da Dario Stefano: «Perché dovremmo votare contro? Noi abbiamo interesse a rafforzare il centrosinistra, non a indebolirlo».
La decisione arriva dopo due riunioni degli scissionisti Pd, una dei 43 deputati della Camera, l’altra dei 16 senatori. Il via libera alla tattica di votare lo scostamento di bilancio (perché «noi ci sentiamo vincolati alla responsabilità verso l’Italia – spiega Pier Luigi Bersani – non rischieremo di far arrivare la troika») e non votare la risoluzione viene deliberata all’unanimità, come chiede Speranza. Una richiesta precisa, per dare una sensazione di unità, proprio mentre la distanza con Pisapia e i suoi è evidente: solo tre giorni fa, insieme su un palco, a precisa richiesta del giovane coordinatore di Mdp di svolgere insieme un’assemblea fondativa del nuovo partito, l’ex sindaco ha evitato di fissare una data. Decisivo allora il voto unanime di ieri, per restituire la sensazione di un gruppo compatto e allineato. «Il dato è che i nostri parlamentari si comporteranno in modo omogeneo e unitario», ripete non a caso il senatore bersaniano Miguel Gotor. Un gruppo capace di alzare la voce col governo: come da tempo chiede D’Alema, convinto della necessità di smarcarsi dalle politiche del Pd, «se siamo alternativi come dice Pisapia – sottolineava ieri – vuol dire che non abbiamo più il vincolo di votare tutto quello che il Pd propone». Non è passato inosservato, ieri, all’indomani della visita di Pisapia a Gentiloni, elogiato dall’ex sindaco per la sua discontinuità di metodo con Renzi, un articolo su Lettera 43 firmato da Peppino Caldarola, direttore della rivista dalemiana Italianieuropei, che definiva il premier rappresentante «di quella sinistra che teme più del fuoco la radicalità delle proposte».
A Palazzo Chigi hanno seguito la giornata con comprensibile interesse: è cominciata la campagna elettorale, si sono detti, è successo qualcosa di talmente significativo che forse non si tornerà più indietro. Ergo, il governo potrebbe ballare nei prossimi mesi. Soprattutto perché sanno bene che alla partita sui provvedimenti finanziari si intreccia quella, delicatissima, sulla legge elettorale. Dove il Pd non sembra intenzionato ad andare incontro agli ex compagni di partito, dipinti ora come irresponsabili impegnati «nei giochini della vecchia politica».

La Stampa 4.10.17
La zampata di D’Alema sul governo
di Marcello Sorgi

Quello che si temeva è accaduto: Mdp, il gruppo degli scissionisti bersanian-dalemiani, ha messo il primo piede fuori dalla maggioranza e si prepara a compiere anche il secondo passo. All’indomani dell’incontro tra Pisapia e il premier Gentiloni, in cui entrambi si erano impegnati a condurre un negoziato sulla politica economica del governo contenuta nella Nota di aggiornamento del Def e nella prossima legge di stabilità, Roberto Speranza ha annunciato che Articolo 1 - Mdp uscirà dall’aula per marcare il proprio dissenso dall’illustrazione fatta ieri in Senato dal ministro dell’Economia Padoan e voterà a favore dell’aggiornamento solo per evitare che scattino le clausole di salvaguardia sottoscritte di fronte alle autorità di Bruxelles. In altre parole, è la minaccia di una rottura che porterebbe alla crisi di governo. La zampata promessa da tempo da D’Alema è dunque arrivata, sia pure per interposto Speranza.
Va detto che nulla preludeva a un esito come questo. E forse, ad accelerarlo, è stata proprio la conclusione - interlocutoria ma non negativa - del faccia a faccia Gentiloni-Pisapia di lunedì. Sebbene Padoan avesse fatto qualche prudente apertura alle richieste della sinistra bersaniana, ricordando tuttavia che i margini sono stretti pure in presenza di una ripresa che si manifesta più marcatamente del previsto, la risposta di Speranza è stata un «no» secco. E a nulla è valso che nella stessa giornata la Banca d’Italia e la Corte dei Conti avessero fatto sentire le loro voci autorevoli, raccomandando cautela in un quadro economico che rimane delicato per l’Italia, rammentando che la priorità resta la riduzione dell’enorme (oltre due milioni di miliardi) debito pubblico e ammonendo dai rischi di tornare indietro rispetto a riforme, come quella delle pensioni, che hanno recato sollievo ai nostri sofferenti conti pubblici. 
La sensazione è che proprio nei gruppi parlamentari di Mdp, schieratisi all’unanimità, sia prevalsa la linea di D’Alema, che da mesi spiega pubblicamente che è necessario, per Articolo 1, passare il più velocemente possibile all’opposizione, lasciando al governo la responsabilità di condurre la sua politica economica, necessariamente (ma inaccettabilmente, per D’Alema), rigorosa, e inaugurando prima della fine della legislatura una campagna elettorale anti-Renzi e anti-Pd.

Di fronte a questa strategia, di cui ieri è stato dispiegato il primo atto, qualsiasi tentativo del governo di recuperare la parte sinistra della propria maggioranza rischia di trasformarsi in un insuccesso. Mentre infatti sono abbastanza chiare le implicazioni dello scontro e la suggestione di una campagna tutta all’attacco, con qualsiasi legge elettorale si vada a votare, per portare Renzi alla sconfitta e dargli la botta finale, per capire se esista uno spiraglio per convincere gli scissionisti a tornare indietro, basta porsi una semplice domanda: il giorno dopo, come spiegherebbero ai loro elettori di aver ritrovato l’intesa con il premier e il Pd, dopo aver descritto questo governo come un esempio di servilismo verso il rigore imposto da Bruxelles? La riduzione dei cosiddetti «superticket» sanitari, o impegni inevitabilmente contenuti nei campi della sanità pubblica, del lavoro e del diritto allo studio, in che modo potrebbero camuffare quella che apparirebbe una calata di brache, dopo aver dichiarato da tempo che con questo esecutivo non si può più venire a patti? Quando Speranza ha dichiarato che Mdp si sente ormai fuori dalla maggioranza, ha in sostanza detto questo. Con buona pace di Pisapia che, dopo il suo primo giorno da leader, è stato senza alcun rispetto smentito e costretto a fare una figura barbina di fronte a Gentiloni.

Il Fatto 4.10.17
Mdp sceglie la lista unica a sinistra e lascia il governo
Il viceministro Bubbico, unico bersaniano nell’esecutivo, si dimette e il partito annuncia che non voterà il Def (ma non farà cadere Gentiloni). I parlamentari vicini a Pisapia: “Sbagliano”
di Marco Palombi

Volendo riassumere brutalmente la situazione è questa: i bersaniani di Articolo 1-Mdp hanno bisogno di marcare le distanze dal Pd e da ieri sono ufficialmente fuori dalla maggioranza avendo fatto dimettere pure il loro unico membro del governo (il viceministro all’Interno Filippo Bubbico); nel fare questo, però, Mdp marca pure le distanze da quel gruppetto di parlamentari, soprattutto ex democristiani, che si considera la falange di Giuliano Pisapia in Parlamento e sceglie la strada della lista unica con gli ex vendoliani di Sel, Pippo Civati e altri; il governo – infine – perde di fatto la maggioranza in Senato, ma non rischia affatto di cadere. Paradossi che capitano quando si mischia l’aria di elezioni con la discussione sulla legge elettorale.
La pochade del futuro centrosinistra inizia così. Bersani e soci da settimane chiedono a Paolo Gentiloni e Pier Carlo Padoan di fare cose che non vogliono, né possono fare: su tutte, cancellare un bel pezzo del Jobs act di Renzi e finanziare con più fondi la sanità in modo da evitare i cosiddetti “superticket”. Il governo non ci sente e non accetta di prendersi impegni in questo senso. E qui entra in scena la nota di aggiornamento al Def (Documento di economia e finanza) dove si delineano gli obiettivi di finanza pubblica che poi la manovra dovrà realizzare: i bersaniani, non avendo ottenuto nulla, hanno deciso di non votare la relazione con cui il Parlamento approva il Def. Domani usciranno dall’aula.
Solo che Mdp non starà sempre fuori, prima salverà Gentiloni: oltre al voto generico, quello in cui le Camere consigliano all’esecutivo di fare cose che tanto non farà mai, c’è quello a maggioranza assoluta degli aventi diritto che gli permette invece di “usare” per il 2018 più deficit di quanto previsto ad aprile (1,6% del Pil anzichè 1,2, circa 7 miliardi di euro). Alla Camera non ci sarebbero comunque problemi, ma in Senato i 16 voti di Mdp sono fondamentali per raggiungere quota 161 ed evitare che la manovra sia ancora più “austera” di quanto non sarà comunque: Padoan li avrà. Come dice Pier Luigi Bersani: “Non faremo arrivare la Troika” (in tal senso è una fake news la serie di dichiarazioni dem su Mdp che fa aumentare l’Iva).
Questo minuetto è stato deciso ieri in una assemblea dei gruppi di Mdp e comunicato urbi et orbi dal piccolo leader dei bersaniani, Roberto Speranza: “È chiaro che il giudizio di fondo sul Def è negativo per la mancanza di risposte alle questioni che abbiamo posto. Al momento non mi sento più politicamente dentro questa maggioranza”. La sensazione di Speranza viene confermata in serata dalla dichiarazione all’Ansa del viceministro Bubbico, ex unico bersaniano al governo: “La mia posizione sul Def coincide con quella espressa dai gruppi Mdp. Per questi motivi, dopo avere informato il presidente Gentiloni e il ministro Minniti, ho rassegnato le mie dimissioni dal governo”. Un atto che segnala plasticamente l’uscita degli “scissionisti” del Pd dalla maggioranza: d’altronde per essere alternativi ai democratici una qualche posizione di rottura davanti all’elettorato era necessaria.
In sostanza i bersaniani hanno scelto la via della lista unica con Sinistra Italiana, Possibile e il resto di quel che si agita fuori dal Pd di Matteo Renzi. Spostandosi da quel lato, però, i bersaniani si sono persi per strada (e senza particolare dolore) la pattuglia di parlamentari che hanno aderito al Campo progressista di Giuliano Pisapia. Uno per tutti, l’ex Dc Bruno Tabacci: “Mdp sta sbagliando: noi votiamo a favore del Def”.
L’unica cosa certa, dopo questo bailamme, è che il passaggio della prossima legge di Bilancio in Senato questo autunno sarà una sorta di ordalia continua, che probabilmente verrà chiusa con due o tre voti di fiducia in cui torneranno a pesare quelli di Ala, il gruppo messo in piedi da Denis Verdini per aiutare Renzi. Dopo, per fortuna, si vota.

il manifesto 4.10.17
Lo strappo di Mdp: il Def non lo votiamo
Manovra & Governo. Si dimette il viceministro Bubbico. I gruppi di Camera e Senato all’unanimità decidono di uscire dall’aula. Pisapia prova a mediare
di Massimo Franchi

Che sia uno strappo reale e l’anticamera della fine della legislatura o semplice tattica parlamentare per strappare una manovra più «sociale» è ancora presto per dirlo. Di certo in pochi si aspettavano quanto ieri ha fatto Mdp i in Parlamento.
Un viceministro dimissionario e l’annuncio dell’uscita dall’aula nel voto sull’aggiornamento del Documento di economia e finanza.
Succede tutto a metà pomeriggio, dopo che all’ora di pranzo Padoan aveva parlato in commissione Bilancio al Senato. Le timide aperture del ministro dell’Economia – minori tagli e maggiori entrate dalla lotta all’evasione e «il concordare le misure della manovra con la maggioranza» – non bastano. I gruppi di Mdp si riuniscono e all’unanimità decidono la linea: Sì alla deroga al pareggio di bilancio, uscita dall’aula sul Nadef.
Ad annunciarlo è Roberto Speranza: «La relazione di Padoan di oggi è stata insufficiente, per questo motivo i nostri gruppi parlamentari della Camera e del Senato all’unanimità hanno scelto di non votare la risoluzione sul Def domani (oggi, dndr) e hanno scelto, invece, per responsabilità nei confronti del paese e anche per evitare che scattino le clausole di salvaguardia dell’Iva, di votare a favore dell’autorizzazione che rinvia il pareggio di bilancio».
Il corollario fa fischiare le orecchie a Paolo Gentiloni: «Io non mi sento più politicamente dentro la maggioranza ma spero ancora che il governo cambi rotta».
Una posizione che porta subito alla domanda: «E Pisapia è d’accordo?». La risposta è immediata, ma lascia adito a più di un interrogativo: «È una linea che abbiamo condiviso all’unanimità nei gruppi parlamentari», dunque anche con parlamentari di Campo progressista, come Ciccio Ferrara.
Passano pochi minuti e arriva l’annuncio del senatore più vicino a Pisapia, Bruno Tabacci: «Io voterò a favore, rispetto la posizione di Mdp, ma sta sbagliando: ha una linea poco chiara, confusa, non la condivido. Padoan, rispetto all’incontro di lunedì di Pisapia con Gentiloni, ha dato un segno di apertura importante». E così faranno anche Dario Stefano (ex Sel) e «altri 7 o 8 senatori, un gruppo di senatori non solo “pisapiani” che non condivide certe scelte di Mdp», aggiunge Stefano.
Il colpo più duro per il governo arriva invece alle 7 della sera. Il viceministro all’Interno Filippo Bubbico, unico esponente dell’esecutivo ad aver aderito a Mdp lasciando il Pd, annuncia le sue dimissioni. «La mia posizione sul Def è perfettamente coincidente con quella espressa dai gruppi Mdp. Per questi motivi, dopo avere informato il presidente Gentiloni e il ministro Minniti, che apprezzo e ringrazio per la fiducia accordatami – ha concluso Bubbico – ho rassegnato le mie dimissioni».
È in questo momento che parte la controffensiva renziana. Dal Pd si spara a zero contro l’irresponsabilità degli «scissionisti». «Vogliono far aumentare l’Iva agli italiani, noi invece siamo responsabili», twittano all’unisono Maurizio Martina, Matteo Orfini e Matteo Richetti. La controreplica di Mpd è sia formale che politica: «Studino i regolamenti, ci sono due voti domani. Uno sulla deroga al pareggio di bilancio che evita di far scattare l’aumento dell’Iva. E noi voteremo sì», risponde Artuto Scotto. Iltutto mentre Sinistra Italiana festeggia lo strappo: »Scelta importante e positiva, ora acceleriamo per una proposta comune a sinistra», dichiara Nicola Fratoianni.
A sera arriva poi la nota ecumenica di Giuliano Pisapia. Tutta in positivo, senza accenni di polemica con Speranza e compagni. «In questi giorni mi sono impegnato affinchè Art.1-Mdp votasse a favore dello scostamento di bilancio per evitare non solo l’aumento dell’Iva ma un peggioramento delle condizioni di vita degli italiani, «Prendo atto – continua – che il ministro Padoan ha dichiarato che è stato avviato un percorso per inserire nella legge di bilancio investimenti per contrastare la povertà, sostenere e tutelare il lavoro e garantire la salute intervenendo sui superticket, come abbiamo chiesto nell’incontro conGentiloni». L’esercizio di equilibrio è notevole. Basterà a tenere assieme la maggioranza e la lista unica a sinistra? Ieri sera era difficile dare una risposta.

il manifesto 4.10.17
Pisapia e Mdp chiedono meno ticket sanitari e si accontentano
di Ivan Cavicchi

Sembra già tanto che nell’incontro di ieri tra Campo progressista, Mdp e governo si sia parlato di sanità. La sanità, ha detto Pisapia, è tra le priorità politiche insieme all’occupazione, alle tutele di chi lavora, all’ambiente, alla sicurezza del territorio. Per cui Pisapia ha chiesto a Gentiloni «investimenti per la sanità» che però attenzione non vuol dire veramente investimenti cioè soldi per costruire servizi, assumere personale, garantire le tutele di diritto, ma più esattamente l’abolizione del super ticket di 10 euro sulla ricetta. Cioè il governo deve trovare circa 1 miliardo per rendere possibile la sua abolizione.
Non saremmo noi a svalutare il significato politico di questa richiesta della quale non sottovalutiamo gli effetti di iniquità sull’accesso alle cure da parte delle persone con redditi bassi, ma rispetto ai tragici problemi della sanità, sembra esattamente quello che Pisapia dice di non volere, cioè una «mancia elettorale».
Nonostante il Pil sia cresciuto nel 2017 dell’1,5% il governo prevede di continuare con la sua linea di progressivo de-finanziamento della sanità. Il 6,5% di spesa sanitaria nel 2018, il 6,4% nel 2019, e ancora diminuita nel 2020 portandola al 6,3%. L’Oms per la Sanità ha fissato la soglia di investimento pubblico degli Stati al 6,5% come limite al di sotto del quale è certo che si impedisce alla gente l’accessibilità ai servizi sanitari. Il combinato disposto tra la nota di aggiornamento al Def e il Decreto del 5 giugno, che taglia di 423 milioni di euro il Fondo Sanitario Nazionale 2017 e di 604 milioni il Fsn 2018, infligge un colpo pesantissimo al nostro Ssn.
Il definanziamento del pubblico è funzionale alla privatizzazione della sanità cioè è la misura che finanzia la defiscalizzazione totale delle mutue, dei fondi integrativi, delle assicurazioni. Il welfare aziendale incentivato pesantemente dal governo significa la fine dell’universalismo e il ritorno ai sistemi di tutela basati sul reddito e non più sui diritti.
Si muore nei pronto soccorso perché sono stati tagliati in modo scriteriato decine di migliaia di posti letto. I consultori stanno morendo. Il disagio mentale cresce come fosse una epidemia mentre i servizi che servono per farvi fronte sono finanziati meno della metà del loro fabbisogno. Se non cambia la musica le proposte avanzate di recente sul rilancio della salute mentale proprio da Mdp saranno come acqua sul marmo. Così come i dipartimenti per la prevenzione primaria delle malattie non hanno più occhi per piangere e le professioni di cura non sono più in condizione di fare il loro dovere. La qualità delle cure continua a scendere, i medici sono trattati e usati come robot senza scienza e coscienza, gli infermieri frodati delle conquiste professionali.
Mezza Italia non ha gli stessi diritti dell’altra mezza Italia costretta a vendere i suoi malati al nord, nuovo mercato per stare nella parità di bilancio. Se oggi le persone aggrediscono i medici non è a causa del ticket ma è perché sono esasperati da una sanità pubblica che li respinge sempre di più.
Di fronte a questo sommario elenco Pisapia e Mdp chiedono a Gentiloni la mancia elettorale di 1 miliardo. Dimenticando l’articolo 32 della Costituzione, smarrendo il senso delle riforme, della non negoziabilità dei diritti, il senso profondo del bene comune.
Una sinistra progressista per prima cosa dovrebbe chiedere al governo di revocare le politiche di definanziamento, quindi di riaffermare le ragioni dell’universalismo di cui parla Bersani e, nello stesso tempo, definire una nuova idea di sostenibilità economica quindi un progetto di lotta alle tante diseconomie e antieconomie del sistema, per governare ma con un più avanzato pensiero riformatore, la crescita della spesa in modo da render possibile la tutela del diritto alla salute con l’economia.

Il Fatto 4.10.17
Gentiloni candidato e Pisapia alleato: il partito di Orlando
Il ministro aspetta la sconfitta nell’isola: “Matteo rimanga segretario”. Ma per Palazzo Chigi correrà l’attuale premier
di Wanda Marra

Se il Pd perde le elezioni in Sicilia “Renzi dovrebbe fare una riflessione, non un passo indietro. È stato legittimato da un percorso democratico come le primarie, ma dobbiamo riflettere sulle modalità di una coalizione larga”. Sorpresa, Andrea Orlando, di buon mattino a Circo Massimo, su Radiocapital, sembra improvvisamente quasi renziano. E soprattutto, definitivamente anti-dalemiano e anti-bersaniano. Ma in realtà le dichiarazioni di ieri descrivono la strategia del Pd non renziano. Nella quale si tengono insieme trattativa sulla legge elettorale, trattativa sulle liste, coalizione con Giuliano Pisapia e pure accordo per sostenere come futuro premier Paolo Gentiloni.
Tutto passa, comunque, per la Sicilia. Il ministro della Giustizia e Dario Franceschini sono ancora i congiurati pronti a far pagare al segretario la quasi certa sconfitta alle Regionali. Ma hanno cambiato campo da gioco: sul tavolo non c’è la testa di Renzi, ma la rinuncia da parte sua ad aspirare a Palazzo Chigi e la trattativa per mettere i propri candidati nei collegi. Orlando è il capofila della lotta per riprendersi il Pd da dentro. Dietro ha tutti i “padri nobili” del partito: Giorgio Napolitano, Romano Prodi, Enrico Letta, Ugo Sposetti. E allora, il Guardasigilli rivendica di aver vinto la battaglia “politica” sulla legge elettorale e sulla coalizione. Perché Renzi – col Rosatellum 2.0 – si è rassegnato alla non autosufficienza del Pd. Il ministro vorrebbe pure accrescere la parte maggioritaria del sistema, si vedrà.
Le parole di Orlando, però, da molti renziani vengono lette (e spiegate) come un vero assist al segretario. Diventano una “card” Facebook di MatteoRenzi news, la parte più agguerrita della comunicazione vicina al segretario. Passi accuratamente scelti però: “Io non ho nessuna ostilità personale nei confronti di Renzi. Mi interessa l’unità del centro sinistra e vedo che questa unità oggi è fortemente ostacolata da settori di Mpd”. Orlando può essere utile per quello che è l’obiettivo dell’ex premier da mesi: staccare Mdp da Pisapia.
Il Guardasigilli media sulla legge elettorale: ieri in Commissione Affari costituzionali si è cominciato a votare. Gli emendamenti di Mdp sul voto disgiunto sono stati accantonati (si aspetta il gruppo dem stasera), su intervento di Gianni Cuperlo. E almeno in Commissione, quelli sulle preferenze sono stati bocciati. Orlando media pure sul Def (su lotta alla povertà, sblocco del turnover e investimenti pubblici), facendo gioco di sponda con Pisapia e non con Mdp. Ma la trattativa è con Gentiloni. Ecco il premier lunedì alla Festa dell’Unità di Roma: “Il Pd è nato per allargare il campo del centrosinistra. Oggi lo abbiamo confermato per portare tutto questo nella sfida politica delle prossime elezioni”. Parole sovrapponibili a quelle di Orlando, con Pisapia il premier ha aperto un dialogo. Proprio la legge di stabilità sarà il modo per costruire un’alleanza con l’ex sindaco di Milano e tenere fuori Mdp (che peraltro è sul punto di incoronare Grasso leader). Renzi non ha ancora intenzione di rinunciare all’idea della premiership: tutto si vedrà dopo le elezioni, in base al risultato del Pd.
Sulla legge elettorale, la richiesta di Orlando è destinata ad essere respinta: l’impianto è quello, il voto è previsto prima della Sicilia.
I due hanno avuto vicende alterne: Renzi al massimo del potere lo definì “moscio”, sulla fiducia al ddl giustizia i due ingaggiarono una lotta di mesi, alla fine vinta dallo stesso Orlando. Oggi i rapporti sono decenti, nulla di più. Sul codice antimafia, Orlando ha sostenuto la volontà di andare fino in fondo, e Renzi non ha nascosto la contrarietà.
Lunedì in Cdm sono passati alcuni decreti legislativi in materia di giustizia, con una Maria Elena Boschi particolarmente puntigliosa. Tra le voci che girano c’è quella che il segretario dem non abbia voluto riconfermare David Ermini a responsabile Giustizia anche perché troppo morbido con lo stesso Orlando.

Il Fatto 4.10.17
Nessuno può credere ai numeri di Padoan
di Stefano Feltri

Il ministro del Tesoro Pier Carlo Padoan ha fama di uomo rigoroso che ha saputo tenere sotto controllo i conti pubblici nonostante le frenesie di Matteo Renzi, ma i numeri che ha presentato ieri al Parlamento nell’audizione sulla Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza richiedono una certa sospensione dell’incredulità per essere votati (la maggioranza in Parlamento lo farà comunque, con l’eccezione di Mdp).
LA CRESCITA. Dopo la crescita inattesa all’1,5 per cento del Pil nel 2017, il ministero del Tesoro stima che anche nel 2018 rimarremo sullo stesso livello anche se “per l’Europa i principali istituti di ricerca e organismi internazionali prevedono un moderato rallentamento”. Durante la fase di ripresa siamo cresciuti meno di tutti gli altri Paesi dell’eurozona, ma quando questi inizieranno a frenare noi ci muoveremo in controtendenza, marciando a passo più spedito. Difficile da credere, infatti l’Ufficio parlamentare di bilancio (l’autorità indipendente sui conti pubblici) approva i numeri ma osserva che la stima di una crescita dell’1,5 per cento nel 2018 “si colloca al di sopra del limite superiore (1,3 per cento) delle stime formulate dal panel Upb (composto anche da Cer, Prometeia e Ref ricerche)”. Tradotto: solo al Tesoro sono così ottimisti. Pure l’agenzia di rating Fitch ieri ha pubblicato stime da 1,4 per cento nel 2018.
IL MIRACOLO. Nel 2018 il deficit scenderà dal 2,1 per cento del Pil nel 2017 all’1,6 per cento nel 2018. Non sembra una manovra espansiva (in situazioni di crisi si lascia aumentare il deficit per finanziare investimenti e misure di crescita). E invece la legge di Stabilità, assicura il Tesoro, avrà un impatto sul Pil. Come? Evitando di far scattare le famose clausole di salvaguardia che avrebbero fatto aumentare l’Iva per 15,7 miliardi. Il mancato salasso produrrà un amento di Pil dello 0,3 per cento. Sembra la pietra filosofale della politica economica: prima garantisci coperture ipotizzando stangate per miliardi cui però attribuisci un basso impatto sulla crescita, poi le eviti (facendo nuovo deficit, come in questo caso) e gonfi la crescita dell’equivalente al danno mancato.
LE COPERTURE. Al netto dell’operazione sulla clausola di salvaguardia, nella legge di Stabilità ci sarà poco: le misure valgono l’1,1 per cento del Pil, dice Padoan, quindi intorno ai 18 miliardi. Ma anche il ministro avverte che “le risorse disponibili (…) sono limitate, tenuto conto dell’esigenza di ridurre il disavanzo e accelerare il processo di riduzione del debito”. Le spese saranno per incentivi agli investimenti, “promozione dell’inclusione sociale e dell’occupazione, in particolare dei giovani”. E basta, nessun accenno ai pensionati, per esempio. Ma le coperture sono di quelle che alla Commissione europea non piacciono: mezzo punto di Pil (8 miliardi circa) è nuovo deficit. Il resto, 9 miliardi, viene da entrate (5,4) e tagli di spesa non precisati (4,6). Tra le entrate ci sono quelle per la “riduzione dell’evasione fiscale” che dovrebbero arrivare dall’applicazione dell’obbligo di fattura elettronica anche ai rapporti tra privati, con tutto l’onere burocratico aggiuntivo che comporta.
Le critiche. Dopo la decisione di ridurre l’aggiustamento del deficit strutturale dallo 0,8 per cento allo 0,3 nel 2018, l’Upb avverte che il quadro dei conti potrà essere approvato da Bruxelles sono con una interpretazione flessibile delle regole. La Corte dei conti chiede di non ammorbidire la riforma Fornero delle pensioni del 2011. Ma ci sono le elezioni e i partiti, a cominciare dal Pd, hanno fatto molte promesse su questo punto.

il manifesto 4.10.17
Il Rosatellum si appoggia al rinvio
Legge elettorale. In attesa del delicato passaggio in aula, in commissione l'intesa tra Pd e Forza Italia, Lega e Ap non scricchiola nel primo giorno di votazioni. Ma il relatore deve rinviare gli emendamenti più delicati, come il voto disgiunto, le quote di genere e lo sbarramento per le micro liste
schede elettorali
di Andrea Fabozzi

Quello che importa per il cammino della legge elettorale è la tenuta dell’accordo Pd-Forza Italia, con Lega e Ap al rimorchio; per il momento l’accordo tiene. In commissione affari costituzionali non sono previsti voti segreti e i quattro partiti che sostengono il Rosatellum-bis possono contare sui due terzi dei commissari. Dunque nessun pericolo fino a quando, la prossima settimana, la proposta di riforma elettorale arriverà in aula e si misurerà la tenuta all’interno dei partiti. Il fatto che nel primo giorno di votazioni in commissione siano stati bocciati tre emendamenti di Mdp – sulle preferenze e su due varianti del sistema tedesco – non ha nulla di imprevedibile. Come non è una novità che Articolo 1 annunci battaglia contro la legge elettorale. Rilevante invece che il deputato Mdp D’Attorre accusi il Pd di «irresponsabilità in piena sessione di bilancio». Perché è sullo scostamento di bilancio che Mdp avrebbe potuto essere decisiva, come si spiega qui sopra. Ma, come ha poi precisato D’Attorre, «noi non avremo comportamenti ritorsivi».
Non è con i voti della minoranza che il Rosatellum-bis potrà cadere, siano essi di Mdp, Sinistra italiana o 5 Stelle. Ed è per questo che gli emendamenti di questi partiti sono stati studiati per indurre in tentazione i franchi tiratori di Pd e Forza Italia quando arriverà il momento dell’aula. Ufficialmente il difetto più grande del Rosatellum-bis è lo stesso per bersaniani, vendoliani e grillini: l’eccesso di «nominati» (quasi l’80 per cento secondo alcuni calcoli) conseguenza delle liste bloccate al proporzionale e delle pluricandidature. Un aspetto persino, si sostiene, incostituzionale. Ma è il meccanismo delle «finte» alleanze (perché non prevedono né programma né leader né simbolo comune) che penalizza di più i 5 Stelle, che non fanno accordi elettorali, e la sinistra, che finisce per dividersi sul nodo «con o contro il Pd». In più, secondo l’attuale testo base, Mdp sarebbe l’unica formazione presente in parlamento a dover raccogliere le firme per la presentazione delle candidature e del simbolo.
Per non incrinare l’accordo con berlusconiani, leghisti e Alfano, però, il relatore renziano Fiano ieri ha dovuto accantonare tutti gli emendamenti più importanti. Nell’insieme la maggioranza delle proposte di modifica, tanto che la commissione sarà costretta a un superlavoro oggi e soprattutto domani (bisognerà sospendere anche l’aula) per evitare ai commissari di riunirsi nel fine settimana e rispettare comunque l’appuntamento di martedì prossimo, giorno in cui il testo, se approvato, è atteso in assemblea. Contemporaneamente Fiano ha avuto una serie di colloqui con i delegati di Forza Italia, Lega e Ap per stringere i bulloni dell’accordo.
Gli emendamenti accantonati riguardano la quota di genere – attualmente è prevista l’alternanza nelle liste bloccate e che nessun sesso possa superare il 60% nei candidati all’uninominale e nei capilista al proporzionale – perché le proposte per una parità effettiva al 50% sono politicamente difficili da respingere eppure viste come fumo negli occhi da Forza Italia. Poi è stata accantonata la questione delle soglie di sbarramento, dal momento che appare di buon senso l’idea di evitare la proliferazione delle micro liste che con appena l’1% possono favorire le coalizioni; anche qui Fi è contraria. Accantonati anche gli emendamenti (tra i quali uno della minoranza orlandiana del Pd) che cancellano la ripartizione dei voti espressi per il solo candidato nell’uninominale, un sistema che abbiamo paragonato all’otto per mille alla Chiesa perché distribuisce i consensi tra i partiti della coalizione in proporzione al loro consenso diretto. Gli orlandiani hanno anche chiesto una riflessione sul voto disgiunto, che attualmente è vietato ma che non si esclude possa essere ripreso in considerazione dal Pd. Infine sono state accantonate anche tutte le proposte per ridurre il numero delle firme necessarie per la presentazione delle liste e soprattutto – e finalmente – consentire le firme elettroniche.

La Stampa 4.10.17
Ipotesi fiducia sul Rosatellum
Il Pd tentato dal blitz in Aula
Primi voti in commissione sulla legge elettorale, l’accordo regge
di Carlo Bertini

La tentazione si affaccia nei colloqui al vertice e ai piani alti del Pd è stata sviscerata in tutte le sue implicazioni, compreso il rischio boomerang sul governo in caso di flop: nel giorno in cui la legge elettorale fa il suo esordio in commissione, nessuno ne vuol parlare se non sotto promessa di anonimato, per la portata esplosiva che avrebbe la decisione di porre in aula martedì 10 ottobre la questione di fiducia sul “Rosatellum”. Con Mdp già sul piede di guerra e su una riforma che i grillini bollano come una «truffa incostituzionale», ribattezzata da Toninelli «l’Anticinquestellum».
I pro e contro
Ma sondando quelli che danno le carte tra i Dem sulle questioni istituzionali si scopre che se ne parla eccome. E vengono a galla i vari ragionamenti fatti in queste ore di grande fibrillazione. Tutti i palazzi che contano ne sono al corrente e i pro e contro vengono passati al microscopio. A livello istituzionale la questione viene considerata in questi termini: la fiducia sulla legge elettorale non è certo la strada maestra, ma non è vietata dai regolamenti, quindi legittima, anche se politicamente foriera di polemiche. «L’unica speranza di far passare indenne il “Rosatellum” potrebbe essere una richiesta di fiducia», fa notare però uno dei pochi dirigenti Dem con voce in capitolo. La paura infatti è che seguendo la via maestra dell’esame in aula di trecento emendamenti, la legge che introduce un terzo di eletti con collegi maggioritari e due terzi col proporzionale venga impallinata in uno dei novanta voti segreti previsti. Di qui la tentazione di togliere cartucce ai franchi tiratori, togliendo dal tavolo tutti gli emendamenti in un colpo solo con la richiesta di fiducia. La vera controindicazione è che dopo l’ok previsto a voto palese e chiamata uninominale, resterebbe sul tavolo un’arma formidabile in mano ai franchi tiratori per affossare lo stesso la legge elettorale sgradita a centinaia di peones spaventati dalle sfide nei collegi: il voto finale sul provvedimento nel suo complesso, che sarebbe gioco forza a scrutinio segreto per un cavillo regolamentare.
Una “fiducia tecnica”
Se si decidesse di percorrere questa strada, si tratterebbe, spiegano gli esperti in materia, di una «fiducia tecnica»: potrebbe essere votata a maggioranza semplice da Pd e Ap, ma non solo; e comunque Forza Italia e Lega sarebbero pronti a convergere nel voto finale sulla legge. Ma una scelta simile, alla vigilia della sessione di bilancio, innescherebbe un bombardamento sul Pd, «regalando un argomento fortissimo a Mdp con il rischio di andare sotto lo stesso», è l’obiezione sollevata dai frenatori nei confronti di queste ore tra i vertici Dem. Colloqui da cui si tiene a debita distanza Matteo Renzi, consapevole che la scelta è in capo al premier. Ma la questione è complessa, se è vera la voce che la richiesta di valutare la fiducia sarebbe caldeggiata addirittura da Forza Italia, che così verrebbe sollevata dal peso di gestire la spaccatura del suo gruppo sul “Rosatellum”, che sulla carta potrebbe avvantaggiare di più il Carroccio. Certo, anche nel Pd ogni corrente è percorsa da fibrillazioni. Stasera i renziani tasteranno il polso del gruppo alla Camera, venerdì c’è la Direzione. Nell’attesa il relatore Fiano ha accantonato in commissione gli emendamenti cruciali: soglie di sbarramento, pluricandidature, voto disgiunto. Mdp, con D’Attorre, ha fatto fuoco e fiamme. Ma nelle prime votazioni l’asse Pd-Lega-FI-Ap regge agli urti e boccia le modifiche di Mdp su doppia preferenza di genere e ritorno a un sistema proporzionale.

Il Fatto 4.10.17
Solo il proporzionale ridà voce ai cittadini e dignità alle Camere
Per una legge elettorale democratica - Change.org
Solo il proporzionale ridà voce ai cittadini e dignità alle Camere
di Gaetano Azzariti

Ripubblichiamo parte dell’intervento che il professor Azzariti ha tenuto nel convegno dei Comitati del No lunedì
La discussione sulla riforma del sistema elettorale è diventata insopportabilmente confusa, anzi del tutto indecifrabile, almeno per chi vuole ragionare in base a valori e non solo per perseguire i propri interessi di partito, se non direttamente quelli strettamente personali. Ci vengono proposti sistemi elettorali, sempre più complessi, che sembrano fondarsi sul mistero della cabala, con il solo scopo di acquisire prima del voto un risultato politico desiderato ovvero con il fine di esorcizzare esiti non graditi.
Così è per l’ultima proposta, elaborata dagli stessi protagonisti che pochi mesi addietro si erano accordati per introdurre un sistema del tutto diverso, che ora immaginano di poter escogitare un meccanismo grazie al quale – secondo le parole dei commentatori più accreditati e dei più scaltri esponenti politici – si garantisca a Berlusconi di ottenere la leadership nel centrodestra, a Salvini di fare il pieno nei collegi del nord, ad Alfano di provare a non scomparire, a Renzi di tacitare gli avversari interni e orchestrare un trappolone per Pisapia, a quest’ultimo di affrancarsi dall’ingombrante D’Alema e abbandonare la sinistra soi-disant radicale.
È questo un terreno di discussione inaccettabile. L’espressione unicamente del livello di assoluta autoreferenzialità della politica, un’ostentazione della politica che si allontana sempre più dal mondo reale.
Allora, il nostro primo sforzo credo debba essere quello di riportare con i piedi per terra il confronto sulla legge elettorale. Ricordare, che questa non serve per assicurare il risultato ai giocatori, bensì a permettere al popolo sovrano di esprimere e scegliere i propri rappresentanti.
Sulla riforma della legge elettorale mi limito qui a due considerazioni.
In primo luogo, ricordo che entrambe le decisioni della Consulta sui sistemi elettorali hanno rilevato che le ragioni della governabilità – obiettivo politico legittimo – devono però essere perseguite “con il minore sacrificio possibile per la rappresentanza politica nazionale”, la quale “si pone al centro del sistema di democrazia rappresentativa e della forma di governo prefigurati dalla Costituzione”.
A me sembra chiaro il senso di un tale rilievo: l’ansia di governabilità che ha dominato la politica in Italia nell’ultimo quarto di secolo è andata troppo oltre ed è giunta a comprimere eccessivamente il valore supremo della rappresentatività dell’assemblea parlamentare.
Dopo queste sentenze, il buon legislatore non perderebbe un attimo del suo tempo e – ringraziata la Corte per averla avvertita del pericolo incorso – rimedierebbe al mal fatto, riscoprendo le virtualità della rappresentanza politica che si pone alla base della nostra democrazia costituzionale.
V’è, poi, una seconda ragione che dovrebbe sollecitare a invertire la rotta. Ed è la constatazione dello stato in cui ci troviamo.
Dopo venticinque anni di democrazia maggioritaria nessun risultato auspicato è stato conseguito: non la promessa semplificazione del sistema politico, che è invece esploso e s’è frammentato al suo interno; non la reclamata stabilità dei governi, costantemente ostaggio di maggioranze sempre più litigiose; non l’illusione della scelta del governo rimessa al corpo elettorale, che non decide ormai più nulla, non solo non sceglie il governo, ma neppure i propri rappresentanti, neppure l’ultimo dei peones.
Non solo non si sono raggiunti gli obiettivi perseguiti ma si sono pericolosamente inaridite le fonti che alimentano la democrazia costituzionale. Il Parlamento in primo luogo. Quest’ultimo io credo sia stato il peccato più grande.
Se vi è un organo sacrificato dal lungo regresso che ha accompagnato il progressivo, apparentemente inarrestabile, declino del paese questo è stato l’organo della rappresentanza popolare.
Oggi il Parlamento italiano non conta più nulla, schiacciato dal governo che ne domina i lavori, impedito al confronto da regolamenti fatti apposta per poter decidere senza discutere.
Il Parlamento sembra aver perduto ogni autonomia di organo costituzionale, posto ai margini della nostra forma di governo, che pure si vuole ancora qualificare come “parlamentare”.
Questa “riduzione al nulla” del Parlamento è il più grave dei peccati e la più imperdonabile delle leggerezze perché – come scriveva Kelsen – “alla sorte del parlamentarismo è legata la sorte della stessa democrazia”.
In verità, il Parlamento oggi non è stato solo abbandonato dalla classe politica, che discute altrove, ma anche dal popolo che si indigna, ma non va più a votare, che non si riconosce più nelle istituzioni democratiche.
Ed è questo il lato più preoccupante perché non c’è democrazia senza consenso. Invero, non c’è neppure un governo democratico senza consenso. Eppure le ultime leggi elettorali sembrano essere state pensate proprio per governare senza popolo, con l’unico scopo di avere un governo la sera stessa delle elezioni, anche se queste fossero andate deserte e comunque a prescindere dalla rappresentanza effettiva, dal peso reale delle forze in campo.
Oggi abbiamo l’occasione di rimettere al centro della nostra riflessione la questione della rappresentanza reale, cercando di ridurre il terribile gap tra rappresentanti e rappresentati; provando a recuperare un po’ di popolo alle ragioni della democrazia e del parlamentarismo.
Per far questo è necessario sfatare un po’ di luoghi comuni. Mai stati veri, sebbene ostinatamente ripetuti. Non è vero, ad esempio, che si vota per “scegliere” il governo: si votano i membri dell’organo legislativo, i rappresentanti della nazione, che poi svolgeranno le proprie funzioni senza vincolo di mandato. La democrazia parlamentare è cosa ben diversa dalla democrazia del capo.
Poi, dei parlamentari autorevoli, perché realmente rappresentativi della nazione, potranno assicurare un sostegno duraturo e responsabile ai governi, i quali – dopo le elezioni, in base all’esito di esse, e dopo la nomina effettuata dal presidente della Repubblica – si presenteranno di fronte ad essi per esporre un programma di governo.
Sono dunque i parlamentari a dover conferire – con mozione motivata – la fiducia al governo e non viceversa. Dunque il parlamento viene prima del governo.
Un Parlamento davvero rappresentativo non può essere il frutto esclusivo di torsioni maggioritarie, premi, sbarramenti e altre diavolerie immaginate solo per giungere ad un esito voluto. La richiesta di una legge elettorale di tipo proporzionale vuole preservare l’essenza e il valore del parlamento di una democrazia realmente pluralista.

Il Fatto 4.10.17
Legge elettorale. Facciamoci sentire, diciamo no a un sistema incostituzionale
di Raffaele Arnesano

Il vero straordinario protagonista della politica italiana dell’ultimo decennio è il camaleontico Denis Verdini. Sua è la costruzione e la regia dell’accordo Renzi-Berlusconi che risale al periodo in cui portò Renzi, sindaco di Firenze, ad Arcore. Verdini si è cresciuto Renzi, aiutandolo nell’elezioni provinciali e comunali. Ne ha fatto lo spregiudicato Cavallo di Troia qual è, per distruggere la sinistra dall’interno, approfittando della senile deficienza di alcuni dirigenti e della vocazione a delinquere degli altri. Le farse che si sono succedute, circa i disaccordi manifestati di tanto in tanto, compresa l’elezione del presidente della Repubblica, fanno parte della sceneggiatura. Per questo basta ricordare quanti onori ha riservato Mattarella a Berlusconi, mentre lo stesso veniva cacciato dal Parlamento. Qualunque sarà la prossima legge elettorale, se i cittadini non daranno un responsabile seguito al 4 dicembre, il governo Renzi-Berlusconi è già cosa fatta. Mi sorprende come, fatti così evidenti, siano gravemente sottovalutati. M5S e Articolo 1 hanno una grandissima responsabilità.
Gentile Raffaele, tralasciando per un attimo la figura di Denis Verdini, di cui ci siamo tante volte occupati – sia per il suo ruolo di mediatore politico, sia per le grane giudiziarie – parliamo della legge elettorale. Votiamo tra una manciata di mesi ed è scandaloso che ancora non si sappia con quale metodo: è ovvio che qualunque legge elettorale venga partorita oggi sia figlia di una trattativa tra i partiti che ha come unico orizzonte il tornaconto di ciascuno. La circostanza più incredibile è che siamo arrivati a questo punto dopo anni. Nel 2014 la prima sentenza della Consulta ha dichiarato incostituzionale il Porcellum, stessa sorte è toccata all’Italicum con la sentenza di quest’anno. Non si sa come il Parlamento non si vergogni di queste ripetute umiliazioni da parte della Corte, sta di fatto che la legge attualmente all’esame della Commissione Affari istituzionali della Camera secondo molti commentatori presenta diversi profili di illegittimità costituzionale: nei prossimi giorni ospiteremo opinioni e commenti dei più importanti studiosi. Lei dice giustamente che chi si oppone a questa proposta – 5 Stelle e Mdp in particolare – ha una grande responsabilità. Ma ce l’abbiamo anche noi: dobbiamo farci sentire com’è stato per il referendum. Andare al voto con una legge onesta è un nostro diritto.

Il Fatto 4.10.17
Ecco perché un pezzo del Pd può uccidere il Rosatellum
Sistema elettorale - Il Partito democratico al Nord rischia di perdere quasi il 60% degli eletti. Tradotto: ci sono decine di possibili franchi tiratori pronti ad affossare la legge
di Tommaso Rodano

Con la nuova legge elettorale per il Pd al Nord rischia di arrivare una disfatta.
Il passaggio al Rosatellum – il sistema per un terzo maggioritario e due terzi proporzionale – potrebbe più che dimezzare i deputati del Pd eletti nelle Regioni settentrionali.
I numeri che presentiamo in questa pagina arrivano dalle stime di Federico Fornaro, senatore di Mdp esperto di sistemi elettorali e calcoli statistici. Si tratta, ovviamente, solo di una simulazione, basata sulla media dei sondaggi territorio per territorio. I risultati reali dipenderanno anche dalle capacità attrattive dei candidati nei singoli collegi. Ma il modello di Fornaro è utile per isolare uno degli effetti del sistema che potrebbe essere votato nelle prossime settimane: il Pd al Nord gioca una partita quasi disperata. Soprattutto nei collegi uninominali, dove sfiderà una coalizione di tre partiti: Forza Italia, Fratelli d’Italia e soprattutto la Lega. I dem hanno anche il problema della concorrenza a sinistra: domenica scorsa a Napoli Roberto Speranza (Mdp) e Giuliano Pisapia hanno confermato che con il Rosatellum sarebbero costretti a schierare un candidato in ogni collegio. Allo stato attuale, l’unico alleato significativo del Pd sarebbe il partito di Alfano, Alternativa Popolare, che al Nord è quasi irrilevante.
Ecco i numeri:in Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli e Liguria il Pd passerebbe dai 107 deputati eletti con il Porcellum nel 2013 ai 43 eletti con il nuovo sistema. In pratica il partito di Matteo Renzi riuscirebbe a confermare solo il 40,9% di quei seggi alla Camera.
In Lombardia passerebbe da 49 a 20 eletti, in Piemonte da 21 a 10, in Veneto da 22 a 7, in Friuli da 6 a 2, in Liguria da 9 a 4.
Dei 43 deputati ottenuti con la nuova legge elettorale, solo 8 sarebbero eletti nei collegi uninominali (4 in Lombardia, 2 in Piemonte e 2 in Liguria). Gli altri 35 invece uscirebbero dai listini bloccati della quota proporzionale. In pratica nei 42 collegi plurinominali delle 5 Regioni citate, i dem riuscirebbero a far eleggere solo i capilista. In Veneto, nemmeno quelli: il Pd porterebbe a casa solo 7 deputati in 10 collegi plurinominali. Il peso degli eletti al Nord nel gruppo Pd alla Camera passerebbe così dal 36,7% del 2013 (107 deputati su 291 totali) al 22% (43 su 195, secondo la simulazione di Fornaro).
Lo ripetiamo ancora: si tratta solo di una stima. Ma potrebbe essere persino prudenziale, come sottolinea lo stesso senatore bersaniano: “Gli eletti nella quota proporzionale in realtà potrebbero essere anche meno della simulazione, in ragione di una complessa procedura di attribuzione dei seggi nelle circoscrizioni che potrebbe privilegiare in casa dem le regioni (ex) rosse”.
Al di là delle inevitabili approssimazioni del modello, resta un fatto significativo: la maggior parte dei deputati eletti nelle 5 Regioni citate sanno già che non avranno alcuna possibilità di conservare il proprio seggio. “Se si aggiunge una quota fisiologica di ricambio nelle liste – ragiona ancora Fornaro – non più di 1 deputato su 3 tra i dem nel Nord tornerà a Montecitorio”. Un numero che si trasformerà in un bel problema politico, quando sarà il momento di votare il Rosatellum alla Camera. Sulla carta la legge elettorale conta sull’appoggio anche di Forza Italia, Lega e centristi, quindi di una maggioranza rassicurante. Ma il percorso parlamentare è più che accidentato: si stima almeno un centinaio di voti segreti. Le occasioni per i franchi tiratori quindi non mancheranno.
Gli ex compagni di Mdp, peraltro, sono pronti a riattivare i canali diplomatici per convincere alla diserzione i parlamentari dem poco convinti da questo sistema elettorale. E tra le altre incognite, la principale è il comportamento di Forza Italia: come il Pd al Nord, il Rosatellum penalizza i berlusconiani al Sud, che faticheranno a eleggere deputati nei collegi uninominali senza l’appoggio della Lega di Salvini.
La partita sul Rosatellum quindi è ancora apertissima. A maggior ragione dopo l’epilogo dell’ultimo tentativo di approvare una legge elettorale, andato in scena a giugno. Il cosiddetto “Tedeschellum” è stato demolito da un voto segreto “svelato” per errore dalla Presidenza di Montecitorio: ben 59 deputati (in buona parte del Pd) avevano votato contro l’indicazione del proprio gruppo con l’obiettivo – realizzato – di far fallire l’accordo sulla legge.

Il Fatto 4.10.17
Scalfari e la sfortunata ricerca del nuovo Scalfari
di Marco Palombi

Noi siamo appassionati lettori degli editoriali domenicali di Eugenio Scalfari: e non solo, come sostengono i maligni, perché estende alla mattina il piacere del sonno, ma proprio per il piacere di vederlo sistemare la rava e la fava attorno all’unico punto fermo d’Occidente, che poi è Scalfari stesso. Ci piace tutto dell’omelia del fondatore di Repubblica: la prosa apparentemente sciatta, il pensiero apparentemente confuso, le citazioni apparentemente fuori contesto. Peccato per la sfortuna che da un po’ lo perseguita: appena benedice un nuovo “piccolo Scalfari”, per rispetto delle proporzioni, quello lo delude. È successo con Renzi e Merkel, poi con Macron (già “stupefacente” panacea dei mali d’Europa, oggi ducetto dal “tratto napoleonico”), ora è la volta di Gerhard Schröder, quello dei mini-job: “Sarebbe un eccellente Presidente della nuova Europa – ha scritto il 17 settembre – Se la proposta che diventi presidente dell’Europa andasse a buon fine, immagino che Spinelli, Rossi e Colorni ne sarebbero felici. Ed io con loro” (d’altronde quei tre sono solo un suo pseudonimo). E che ti fa Schröder? Venerdì s’è fatto nominare presidente del consiglio di sorveglianza di Rosneft, gigante petrolifero russo e, come scrive il Corsera, “tra i maggiori veicoli geopolitici di Putin”: l’ex cancelliere “sarà l’ambasciatore degli interessi del Cremlino nel mondo”. Vabbè, peccato, ma basta rifletterci e Lui, Spinelli, Colorni e Rossi un nome per rimettere le mutande al mondo lo trovano: certo, mai buono come “Eugenio Scalfari”, l’originale.

il manifesto 4.10.17
«La nostra è una protesta civica, il sindacato non sta con Puigdemont»
Ccoo Catalogna. «Tutti gli indipendentisti sono indignati, ma non tutti gli indignati sono indipendentisti. È chiaro che oggi il confine è labile». Per Michela Albarello della costola regionale di Comisiones Obreras, «se si parlasse del lavoro tanto quanto si parla di patria e nazione ci sarebbe un’altra aria. Migliorare le condizioni dei lavoratori non è altrettanto sexy»
di Luca Tancredi Barone

BARCELLONA  Ccoo (Comisiones Obreras) è il principale sindacato spagnolo, la sua costola catalana fa parte della cosiddetta «Tavola democratica», nata la settimana scorsa sulla scorta degli abusi della polizia nazionale nei giorni precedenti alla celebrazione del referendum. Davanti alle immagini di violenza, domenica pomeriggio, Ccoo Catalogna ha deciso di convocare una protesta per oggi, una «fermata civica», che coincideva con lo sciopero generale proclamato da alcune sigle minori per appoggiare l’indipendentismo. Per spiegarci questa complicata situazione, abbiamo parlato con Michela Albarello, torinese, segretaria di internazionale e cooperazione di Ccoo Catalogna.
«Noi partecipiamo alla ’fermata civica’, uno ’sciopero civico’, non allo sciopero generale. È una rivendicazione per protestare contro l’attacco repressivo, brutale e sproporzionato dell’1 ottobre».
Non temete di essere schiacciati su posizioni indipendentiste?
Ccoo ha sempre difeso il «diritto a decidere» e che il popolo catalano possa esprimersi in un referendum con le condizioni necessarie per essere vincolante. Per noi le rivendicazioni per i diritti nazionali vanno sempre a braccetto con quelle per i diritti sociali. È chiaro che oggi il confine fra gli indipendentisti e gli indignati è labile. Tutti gli indipendentisti sono indignati, ma non tutti gli indignati sono indipendentisti.
D’accordo, ma in piazza c’erano soprattutto bandiere indipendentiste.
Il pericolo di confusione c’è. Le rivendicazioni sono sempre mescolate. Noi vogliamo protestare fermamente per quello che è successo, per come si comporta il governo del Pp e per la sua incapacità politica di dare una risposta. L’unica strada possibile è quella del dialogo, non quello della polizia e della magistratura.
Vi mettete dal lato del governo catalano in questo frangente?
No. Siamo la prima organizzazione sociale in Catalogna. Rispettiamo la pluralità della società, al nostro interno ci sono federalisti, indipendentisti e anche altre posizioni. Noi rappresentiamo solo la classe lavoratrice e i suoi diritti.
Come definirebbe quello che è successo domenica?
Condanniamo fermamente l’azione del governo spagnolo, la cui durezza e ingiustizia non può non indignare qualsiasi persona democratica nel mondo. Si è trattata di una violazione flagrante dei diritti civili.
Podemos ha attaccato il governo anche per gli ordini «irresponsabili» dati alla polizia. Siete d’accordo?
Le forze dell’ordine non possono iscriversi a un sindacato di classe. Per cui su questo punto non abbiamo preso posizione. Posso solo dire che in uno stato democratico la responsabilità della violenza è di chi la ordina e di chi la esercita.
Se il Govern di Puigdemont dichiarasse l’indipendenza, Ccoo come reagirebbe?
Non l’appoggeremmo. Siamo per una soluzione dialogata, di consenso per non aumentare la tensione in Catalogna.
Perché oggi la «fermata» organizzata in poche ore ha più successo dei vostri scioperi?
In un anno e mezzo abbiamo organizzato tre scioperi generali contro la riforma del lavoro del Pp votata anche da uno dei soci di governo in Catalogna, Convergència. Quando è un problema del mondo del lavoro noi diamo una risposta. In questo momento il problema è più ampio e coinvolge tutta la società, dagli imprenditori alle istituzioni, alle scuole e all’università.
Sono più bravi gli indipendentisti di voi sindacalisti?
Il nazionalismo si sta preparando da anni, c’è un’efficace macchina politica e mediatica che lo fomenta. Se si parlasse delle condizioni lavorative delle persone tanto quanto si parla di patria e nazione ci sarebbe un’altra aria. Migliorare le condizioni dei lavoratori non è altrettanto «sexy».

il manifesto 4.10.17
Tutto è cambiato in quarant’anni
Madrid-Barcellona. Dopo la morte di Franco la capitale catalana era in preda al virus della democrazia, oggi è difficile credere a una egemonia di sinistra su ciò che sta accadendo: il fenomeno è più complesso e meno limpido
di Aldo Garzia

Arrivare per la prima volta a Barcellona e Madrid nel 1977, quarant’anni fa, dopo le prime elezioni democratiche che avviavano una difficile transizione. Il ricordo è vivissimo. Tutto è cambiato rispetto agli anni Settanta, quando viaggiare in Spagna era un’esperienza dalle forti emozioni. La morte di Francisco Franco (19 novembre 1975) aveva lasciato dietro di sé un paese arretrato e povero. Per rendersene conto, bastava percorrere i pezzi di autostrada e poi di aperta montagna che portavano da Barcellona a Madrid in non meno di nove-dieci ore.
Lungo il tragitto s’incontravano paesini dalle mura tinte interamente di bianco e donne che indossavano enormi scialli neri. Il traffico era rado, come se muoversi da un punto all’altro lo si potesse fare solo con i treni che tra l’altro viaggiavano su binari diversi da quelli del resto d’Europa.
Lo stacco tra Barcellona e Madrid aggiungeva sensazioni a sensazioni. La capitale catalana era in preda al virus della democrazia. Lungo le ramblas si faceva tardi la notte discutendo di politica. La città sembrava essersi lasciata dietro le spalle il fascismo già da qualche anno e non da pochi mesi. In tanti ti raccontavano che erano andati a vedere Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci a Perpignan, passando la frontiera francese: era il loro modo di parlare del cosmopolitismo di Barcellona (quel film giunse subito dopo nelle sale spagnole mentre da noi ne era vietata la visione). La sinistra era fortissima con il baluardo dei comunisti del Psuc – dove militavano dallo scrittore Manuel Vázquez Montabán, non ancora internazionalmente famoso, all’intellettuale cattolico Alfonso Comin – e del gruppo della nuova sinistra Bandera roja, molto affine al manifesto. Capitò di imbatterci in una grandiosa manifestazione con lo sventolare di bandiere rosse e gialle che celebrava la tradizione della sinistra repubblicana catalana. A dominare non era però allora la volontà di secessione, bensì l’orgoglio di rivendicare la propria identità in una Spagna libera dopo decenni in cui non si poteva neppure parlare la propria lingua e usare le proprie simbologie. Barcellona era un’isola di idee libertarie in una Spagna ancora oscurantista. Era la città più democratica e vivace della penisola iberica.
A Madrid, nel 1977, si respirava un clima tutto il contrario di quello di Barcellona. Nell’architettura imperiale e nei simboli indenni del franchismo, era restata la capitale ossificata di un regime che stava provando a sopravvivere privo del suo caudillo. Tutto era opprimente. Nel 2017, invece, la capitale spagnola non ha niente da invidiare a Barcellona, mentre la competizione tra le due città è continuata in quanto a servizi, rete metropolitana, qualità della vita. A Madrid oggi nulla ricorda l’atmosfera grigia, da regime, repressiva e militare degli anni Settanta. Chiunque abbia visitato Madrid non può dimenticare la Gran Vía, la strada simbolo che è un po’ la Broadway di Spagna con cinema, teatri e vita notturna che termina solo all’alba. I suoi palazzi, testimoni del modernismo novecentesco, hanno visto i bombardamenti della guerra civile vinta dal fascista Franco, il ritorno alla democrazia di fine anni Settanta e la movida del decennio successivo. A colpire è l’insieme degli stili architettonici: dal Neo Barocco all’Art Nouveau fino al modernismo post Novecento. Questa capitale europea compete ormai con Parigi e Londra in quanto a modernità. Un treno denominato «Ave» la collega a Barcellona, distante 650 km, in appena due ore e mezza.
Già a iniziare dal 1980 le cose sono iniziate a cambiare a Barcellona. Alla presidenza della Catalogna veniva eletto Jordi Pujol, poi rieletto – per più di un ventennio – fino al 2003, il vero ispiratore dei secessionisti di oggi, fondatore del partito Convergenza democratica. Il suo successore Artur Mas ha radicalizzato via via le richieste autonomiste fino all’attuale presidente della Generalitat Carles Puigdemont diventato il portavoce ufficiale della secessione. Mentre la Catalogna era governata da Pujol, andavano intanto in crisi o a pezzi i partiti tradizionali fino alla marginalità attuale. Tornando a Barcellona, che resta una affascinante metropoli malgrado il vento nazionalista, si notava negli ultimi anni il crescere della febbre secessionista con l’esaltazione acritica di tutto ciò che è catalano. Bastava poco ad accendere la miccia della secessione. Ed è difficile credere a una egemonia di sinistra su ciò che sta accadendo: il fenomeno è più complesso e meno limpido.
Resta comunque tutta da scrivere la storia di come si sia sottovalutata la polveriera catalana. L’ultimo tentativo di abbozzare la riforma dello Stato spagnolo in direzione più federalista lo ha fatto l’ex premier socialista José Luis Rodriguez Zapatero, che però non riuscì a portare a termine il suo progetto. L’avvento dei governi di Mariano Rajoy non hanno fatto una mossa per evitare l’epilogo che ormai sembra inevitabile.

Il Fatto 4.10.17
Con Rajoy vince solo la sorda e cieca oligarchia
di Peter Gomez

Mariano Rajoy è un pericoloso idiota. E sarebbe il caso che i suoi amici del Partito popolare europeo se ne rendessero conto in fretta. Se davvero i democristiani del Vecchio continente, assieme ai socialisti un po’ ovunque loro alleati, vogliono essere il baluardo contro quello che definiscono la minaccia del vento populista dovrebbero affermare un principio chiaro, precedente a ogni legge e Costituzione: nessun governo può ordinare di picchiare, malmenare, manganellare decine di migliaia di manifestanti inermi e non violenti. Le immagini della Guardia Civil travestita da Dart Fener, che si contrappone alle divise pacifiche e colorate dei pompieri, colpendo a sangue donne anziane e ragazzi con le mani alzate sono la propaganda migliore per chi denuncia (a volte non a torto) gli abusi di un establishment apparentemente interessato solo a conservare il proprio potere.
I tanti dotti commenti che in questi giorni, anche sulla stampa nostrana, si limitano a sottolineare come il referendum per l’indipendenza della Catalogna fosse illegale perché non previsto dalla Costituzione, sono miopi e ridicoli. È vero infatti che da sempre nelle democrazie l’uso legittimo della violenza è demandato allo Stato anche per mantenere l’ordine costituito. Ma è evidente che nella società contemporanea la forza deve essere l’extrema ratio, che le sue conseguenze vanno ponderate con cura e che prima di farvi ricorso va battuta ogni strada. La domanda da porsi è dunque una sola: c’erano altre vie? Le cronache che in questi mesi sono giunte dalla Spagna sono unanimi nel rispondere di sì. Basti pensare che Rajoy nel 2010 portò davanti alla Corte costituzionale (che in Spagna è di nomina solo politica) e fece cassare il nuovo statuto per l’autonomia della Catalogna siglato nel 2006 tra il suo predecessore José Zapatero e l’allora amatissimo ex sindaco di Barcellona, Pasqual Maragall.
Così, oggi, le centinaia di migliaia di persone che scendono in piazza per protestare contro la violenza di Stato, fanno diventare un gigante politico l’alcadesa Ada Colau. Lei, che da subito aveva annunciato il suo no alla secessione nel referendum poi soffocato nel sangue, si era battuta perché i catalani si potessero comunque esprimere. Il perché è evidente. In un territorio in cui si parla una lingua diversa da quella dello Stato centrale e dove i partiti indipendentisti – ma quasi sempre europeisti – raccolgono il 48 per cento dei consensi, impedire ai cittadini di votare è impossibile (come ci ha insegnato il Regno Unito con la Scozia). Compito della politica è invece quello di prendere atto della situazione e trovare le vie per una mediazione. Anche perché, spesso, come ripeteva Leo Longanesi in uno dei suoi fulminanti aforismi, “un’idea che non trova spazio a tavola è capace di fare la rivoluzione”.
Il refrain “ma la Costituzione non lo prevede” in questo caso è solo l’ultimo rifugio di chi teme che quanto sta accadendo in Catalogna (per ragioni diverse dall’indipendenza) possa ripetersi altrove. Di chi alla realtà sa solo opporre incapacità e arroganza. Seguendo questa logica, se domani in Spagna un partito repubblicano raccogliesse il 50% e più dei consensi, il referendum per decidere se uscire dalla monarchia dovrebbe essere comunque vietato. E pure l’Europa, che spesso a vanvera si dichiara dei popoli, dovrebbe schierarsi con le truppe del Re contro i cittadini. Dimostrando che oggi il pericolo più grande corso dalle nostre democrazie non è la dittatura o il populismo, ma la sorda e cieca oligarchia.

Il Fatto 4.10.17
Il contagio della dittatura indipendentista
Patrie - Ciò che accade a Barcellona rafforza le rivendicazioni in gioco anche in Lombardia e Veneto
Il contagio della dittatura indipendentista
di Guido Rampoldi

La brutalità della polizia spagnola ha regalato all’indipendentismo catalano la solidarietà istintiva dell’opinione pubblica italiana, fino a un entusiasmo per una secessione quanta non se ne vedeva dal tempo in cui implose l’ex Jugoslavia. Ricordate? “La storia si vendica!’, “Risale dal profondo!”, “Crollano le prigionie dei Popoli!”. Anche lì era la democrazia contro la tirannide, la Gente contro la violenza del potere, ed era chiaro da che parte stare. Ma se poi andavi a vedere cosa vi fosse dietro quel fondale trovavi tutt’altro: i sinceri democratici che traghettavano la Croazia in Occidente in realtà erano un miscuglio di vecchi apparatcik titoisti riciclati e di ustasha tornati dall’esilio. Trovavi generali galantuomini che non volevano sparare sulle folle, nel nome di una patria, la Jugoslavia, che consideravano figlia di un movimento risorgimentale, non del comunismo come garantivano in Italia masnade di orecchianti. E quando mi capitò di vedere il Popolo liberato dalla prigione, non fu un gran spettacolo. A Spalato, corteo interminabile di nazionalisti croati, soprattutto gli operai dei cantieri e gli ultras dell’Hajduk, con sacrificio umano finale, un soldatino jugoslavo strangolato da un patriota (tuttora libero) tra i lazzi e gli applausi dei dimostranti.
Ora, tra i catalanisti ci sono tante persone perbene, infinitamente migliori dei truci manifestanti ‘spagnolisti’ che a Madrid domenica inneggiavano a Franco e deridevano Rajoy come mollaccione. Ma alla fine gli uni e gli altri son figli della stessa ideologia, il nazionalismo etnico: Castiglia o Catalogna, se non è zuppa è pan bagnato. Hanno in comune l’idea d’una democrazia maggioritaria in cui il numero e la storia sono l’unica fonte del diritto, cioè quanto il liberalismo rifiuta da due secoli. E anche senza scomodare i Principes di Benjamin Constant (1806), non è difficile intendere dove conduca rinnegare il costituzionalismo. Chi ha trovato commovente l’ammutinamento dei Mossos, che hanno rifiutato di impedire un referendum dichiarato illegale dal Tribunal Constitucional, provi a immaginarseli nel caso la Catalogna dichiarasse la secessione e una o più città catalane insorgessero, dichiarandosi ostinatamente spagnole: i Mossos difenderebbero il diritto all’autodeterminazione di quelle popolazioni o piuttosto, in modo ‘energico’, l’unità territoriale del nuovo Stato? È la contraddizione insanabile dell’indipendentismo: non solo non può riconoscere alle minoranze interne il diritto che si arroga, ma deve cancellarle, talvolta fisicamente, per non perdere la propria legittimazione.
Quanto poi al diritto storico, non c’è nulla di più manipolabile. E gli storici sono i primi a darsi da fare per compiacere un nazionalismo che vince. Valga di esempio la reinvenzione delle storie serba o croata cui si prestarono tanti accademici delle scienze jugoslavi, anche preclari. Si vendettero per una cattedra, una rubrica sui giornali, un microfono. I giornalisti, per molto meno.
E anche per questo è sciocco sostenere che la crisi spagnola non può avere equivalenti in Italia, in quanto la nazione catalana avrebbe una storia secolare e una lingua propria, caratteristiche di cui la Padania è sprovvista. Il Pais vasco, altra terra di frizione, non aveva una lingua propria. La provincia autonoma la inventò, unificando vari dialetti: impresa per nulla impossibile in Veneto, dove parte della popolazione non è in grado di formulare una frase in un italiano decente. Inoltre Venezia ha un passato indipendente probabilmente più glorioso della Catalogna. Dunque non prendiamo sottogamba il referendum del 22 ottobre in Lombardia e Veneto. Consultivo, certo: ma autorizza la Regione a negoziare con Roma le proprie prerogative in alcuni settori, inclusa l’istruzione. Fu appunto dal controllo delle scuole che il nazionalismo catalano cominciò a omologare la popolazione, fino al punto che a giugno i democraticissimi insegnanti catalanisti insorsero contro il diritto degli studenti a sostenere gli esami non in catalano ma in spagnolo. Che tutto ciò non inquieti la stampa italiana è nella norma di un Paese privo di cultura liberale. Forse ormai è normale anche la vacuità di un centro e di una sinistra incapaci perfino di capire che le versioni opposte del nazionalismo, quello padano e quello italiano, spaccano la destra.

Il Fatto 4.10.17
Cari Catalani, non riducetevi come la Sicilia
Cercando il dopo Crocetta
La Sicilia voterà il 5 novembre per trovare il successore di Rosario Crocetta (Pd)
di Pietrangelo Buttafuoco

Sarà giusto questa mattina – l’orologio della storia lo reclama – e a Barcellona si consumeranno le quarantotto ore di tempo che si sono dati gli indipendentisti per arrivare alla Diu, ovvero la Dichiarazione unilaterale di indipendenza della Catalogna.
Dopo di che, si vedrà. Il 23 ottobre si vota in Veneto e in Lombardia. Il quesito referendario, sebbene incandescente di romanticismi secessionisti, è incastonato nella legittimità costituzionale – è la richiesta di Autonomia – ed è coerente con il blocco sociale da cui deriva. La secessione, si sa, è un lusso dei popoli ricchi. Si vota – così a Milano e a Venezia, come già il primo ottobre s’è fatto nei seggi della Generalitat di Carles Puigdemont – per mettersi in tasca le proprie tasse.
Si vedrà. Non avendo più occhi per piangere, invece, il 5 novembre – nella routine trasformista – si andrà alle urne in Sicilia per le Regionali.
Una terra oltremodo emblematica in tema di conflitti con lo Stato centrale, la Sicilia, perché il collaudo dello Statuto Speciale nel vicereame di Palermo è ben antico: fu nientemeno che una concessione del Regno d’Italia, nel solco dei moti separatisti, in vantaggio dunque sui catalani, sui baschi, sui fiamminghi, sugli irlandesi, sugli scozzesi e – va da sé – sui padani.
Il primo ottobre s’è votato un referendum risultato carta straccia agli occhi di Madrid, dell’Ue e forse anche dell’intero delicato equilibrio geopolitico internazionale. Se solo si procedesse ai desideri dei separatisti – e uno studio di Focus lo dimostra – raddoppierebbero le nazioni nell’attuale assetto europeo. Quella dell’Autonomia regionale siciliana, intanto, resta un’eccezione a conferma della regola se il privilegio di legiferare e amministrare indipendentemente dall’autorità centrale, a differenza di altre aree del Vecchio continente, non ha mai determinato – e tempo ne è passato da ieri a oggi per capirlo – un effettivo progresso economico e sociale, anzi: lo Statuto Speciale s’è trasformato, fino a conclamare la catastrofe politica di tutti i partiti, nella fogna del potere.
Una carta, questa dell’Autonomia regionale siciliana, che diventa inevitabilmente modello per le auspicate indipendenze altrui. Basti pensare che lo Statuto della Catalogna riprende passo passo l’elaborato a suo tempo controfirmato da Umberto di Savoia. Ed è una chimera, questa della Strabuttanissima Sicilia, per le regioni dell’Alta Italia (effettivamente è un’espressione démodé ma rende bene) che però lo status internazionale, la specificità territoriale, se lo conquistano in ragione di una performance produttiva figlia del mondo, non certo del pittoresco provinciale.
Sono la storia di comunità aperte al mondo, non certo sacche di contenimento dell’angusto pozzo dei privilegi parassitari, quei fortilizi delle clientele con cui la Sicilia, dopo la stagione dei saccheggi di Verre, s’è aggiornata coi granai elettorali a disposizione di chiunque vi arrivasse per dispensare, al netto delle retoriche, l’impostura perpetua dei sottopanza.
Ebbene, sì: i vertici delle istituzioni nazionali – dal presidente della Repubblica al presidente del Senato – sono siciliani. Ma il ceto politico rimasto nell’isola, sfogliate pure l’album fotografico, racconta l’apoteosi della piccineria paesana. Osservate appunto la foto di Rosario Crocetta, il governatore uscente, in posa da sirenetto. In questo scatto, c’è tutto. Copre l’uccellino con una copia del giornale, dopo di che si proclama testimonial della bellezza dell’isola. Ridere. Per non piangere.
L’Autonomia è meritata sul campo, altrimenti come spiegarsi la vitalità di una tratta mai dismessa qual è quella della Via della Seta, l’ininterrotto percorso di merci, uomini e progetti in viaggio di andata e ritorno tra Venezia e Pechino.
L’orologio della storia, batte. La realtà, invece, urta. È un grumo di lacciuoli, questo dello Statuto, che con la corruzione, l’arretratezza delle strutture e le elefantiache macchine burocratiche – nella pastura della criminalità – inchioda la Sicilia a una condizione di sottosviluppo ingiustificato rispetto alle eclatanti potenzialità. Ed è questo ciò che fino a oggi si vede. Non si capisce, infatti, come malgrado i suoi gioielli di assoluta bellezza – da Vendicari a Taormina, dalla Riserva dello Zingaro a Selinunte – la Sicilia che campa di sole per dieci mesi l’anno non sia quantomeno la prima vetrina del turismo. Così come con il proprio patrimonio storico e culturale: non si capisce come non riesca a farne economia e commercio. E così anche nelle sue risorse di lavoro, fantasia, impresa se si pensa che l’unica grande industria presente – per quel che potrà restare – è il pubblico impiego.
L’unica ricchezza solida di Sicilia – ed è sufficiente rivedere il film Andiamo a quel paese di Ficarra e Picone per capirlo – è la previdenza sociale. Sono le pensioni dei genitori, dei nonni e degli invalidi a costruire l’unico ed estremo tesoretto a disposizione di una popolazione nel frattempo ridottasi ai minimi termini visto che l’unico segno di mobilità sociale è la fuga delle giovani generazioni.
Nessuno, tra i personaggi in vista – nessuno dell’élite siciliana – ha figli che siano rimasti nell’isola. Alla Lampedusa dei disperati in fuga dall’Africa corrisponde una consorella ulteriore – una Lampedusa che non c’è – cui si destinano i più acculturati, gli specializzati, i fortunati e chiunque, tra i ragazzi di Sicilia, abbia modo di trovare altrove approdo, un qualunque luogo, per costruirsi un futuro.
Per gli ingegneri di Catania che vogliano ingegnare, infatti, non c’è modo. Non per gli agricoltori di Enna che abbiano da zappare, non per gli scienziati di quella che è pur sempre la patria di Archimede, che sappiano di che scienziare. Non c’è alcun modo quando perfino nell’acquisto di libri, nel consumo di cultura, l’isola – la culla di eccellenze per scienza, letteratura, ricerca – conquista il primato capovolto: essere il fanalino di coda in tutte le statistiche. Primi però, noi siciliani, nello scempio ambientale, nella devastazione urbanistica, senza mai dimenticare il famoso primato. Quello.
La vecchia talpa della storia non sa più dove scavare se il rinnovo del Parlamento e del governo siciliano nulla può farsene della delicata posizione nel contesto geopolitico attuale – al centro del Mediterraneo – nel fuoco primo del Grande Gioco, nel bel mezzo del futuro del mondo, nel transito della contemporaneità se poi la Sicilia, ancor più perché autonoma, non ha diritto di parola sui droni armati di Sigonella, sul Muos, ovvero il radar dell’esercito americano installato a Niscemi, sul ridisegnarsi del globo a un braccio di mare dalle proprie coste e neppure sull’arroganza di Malta che, a dispetto del minimo di misericordia per i naufraghi, esercita la propria arroganza consumando ogni residuo di sovranità sugli scogli di Lampedusa.
Si vota, dunque, in Sicilia. Non si sa se si scende o si sale lungo il cammino degli eventi. L’orologio della storia, si sa, batte. Ma la realtà urta. Chiunque vinca alle elezioni regionali, non potrà reggere l’urto di realtà: il buco di bilancio, la disoccupazione ai livelli massimi, il Pil regionale inferiore a quello del dopoguerra, senza dimenticare la fame, la fame vera che dilaga in sempre più ampi strati della popolazione. Questa disgraziatissima terra non potrà trovare soluzione col rinnovo del suo Parlamento e della giunta di governo e la migliore sintesi all’urto di realtà si trova nelle parole di Giuseppe Pizzino, imprenditore, autore di un saggio di sfacciata lucidità, Progetto Sicilia. Ecco le sue parole: “Nel corso del 2017, il Procuratore della Corte dei Conti, dottor Pino Zingale, impugna prima presso la sede di Palermo, poi anche a Roma il Rendiconto del Bilancio 2016 della Regione siciliana che la Corte comunque approva con non poche difficoltà. Questo significa che a giugno del 2018, questa volta, la Corte non potrà che accogliere la richiesta di non parifica del rendiconto 2017 del Bilancio della Regione, per un motivo semplicissimo: intanto che i contendenti sono impegnati a prendersi la Sicilia per un pugno di voti, nessuno si preoccupa di porre rimedio alle richieste del Procuratore Zingale. Chi vincerà non avrà tempo, ne mezzi (soldi), per apportare le correzioni al Bilancio 2017 così da veicolare la Regione verso il Commissariamento di giugno 2018”.
Ecco, il commissariamento all’orizzonte. Che accada presto, e che sia lungo. Il più a lungo possibile. Al punto di cancellare l’Autonomia.

Repubblica 4.10.17
Italiani evasori
Il Paese ha deciso che la lealtà nel pagare le tasse non è un valore Esattori in tilt: incassano solo l’1,13% delle somme da riscuotere contro il 17% Ocse
di Sergio Rizzo

INCHIESTA/ TUTTE LE FALLE, DALL’IVA ALLA RISCOSSIONE
COPRIRE le spese sanitarie della nazione per un anno intero. Oppure mettere in sicurezza tutto il patrimonio edilizio italiano. O ancora, tagliare almeno un quinto delle tasse. Lasciamo alla fantasia ciò che si potrebbe fare con più di cento miliardi. Quei soldi appartengono solo alla sfera dell’immaginario.

I dati della commissione sul sommerso e di una relazione del magistrato Fabio Di Vizio Delle imposte sul reddito del lavoro autonomo nelle casse pubbliche entrano solo 4 euro su 10 Il sistema fa acqua: Equitalia ha contenziosi per 817 miliardi, ma ne recupererà appena 29

SECONDO i calcoli della commissione governativa sull’economia sommersa sono i denari che ogni dodici mesi sfuggono al fisco. Sottratti alla collettività da un esercito di evasori: quel che è più grave, senza colpo ferire. Perché qui lottare contro i furbetti è come svuotare il mare con il colabrodo. In Italia si riscuote appena l’1,13 per cento del carico fiscale affidato all’esattore, contro una media Ocse del 17,1 per cento.
Anno dopo anno, infatti, il maltolto aumenta: 107,6 miliardi nel 2012, 109,7 nel 2013, 111,7 nel 2014. E sia pure in diminuzione i dati provvisori del 2015, contenuti nella nota di aggiornamento al Def, non fanno presagire un cambio sostanziale di rotta come ha anticipato qualche giorno fa il nostro Roberto Petrini. Il calo risulterebbe infatti di 3,9 miliardi e non c’è ancora una valutazione esatta del mancato introito Irpef dei lavoratori dipendenti irregolari, pari nel 2014 a 5,1 miliardi. Ben che vada, si tornerebbe quindi ai livelli del 2012. Una situazione tale da far dire ieri al presidente dell’Istat Giorgio Alleva che la lotta all’evasione «è strategica». Ovvio.
Il problema è come farla. Perché il sostegno al conseguimento del risultato è corale, come fa capire una relazione del sostituto procuratore di Pistoia Fabio Di Vizio, uno dei più esperti magistrati del ramo evasione, riciclaggio & affini. Quelle 50 pagine piene di numeri e tabelle scritte in occasione di un suo intervento alla bolognese Insolvenz-Fest, organizzata ogni anno dall’Osservatorio sulla crisi d’impresa, tracciano lo scenario di un Paese che in tutte le sue componentei ha coscientemente deciso che la lealtà fiscale non fa parte dei valori della convivenza civile. È bastato mettere in fila circostanze, fatti e dati per nulla riservati, rintracciabili negli atti e nei documenti ufficiali. A patto, naturalmente, di saperli e volerli leggere.
Si scoprirebbe, per dirne una, che la propensione a evadere l’Irpef da parte del lavoro autonomo ha raggiunto nel 2014 un impressionante 59,4 per cento. Significa che entrano nelle casse pubbliche solo quattro euro su dieci delle imposte sul reddito dovute da chi esercita un’attività non dipendente. Il 3,5 per cento non viene versato, ma il 55,9 per cento neppure dichiarato. Trenta miliardi e 736 milioni evaporati ogni anno, ma la cosa davvero preoccupante è che in cinque anni l’aumento di questa evasione, dicono i dati della commissione presieduta da Enrico Giovannini, ha superato il 50 per cento. Nel 2010 la calcolatrice si era fermata a 20 miliardi e 149 milioni.
Per non parlare dell’Iva. Qualche giorno fa da Bruxelles è arrivata la brutta notizia che l’Italia è il Paese europeo che detiene il record dell’evasione di questa imposta. Ma purtroppo non è una notizia nuova, perché è così da sempre. Il differenziale fra l’Iva dovuta e quella effettivamente pagata sfiora il 30 per cento: 29,7, esattamente. Altri 40,1 miliardi sfumati. Cinque anni prima erano 37,4. È colpa della crisi, deduzione ovvia. Ma fino a un certo punto. Perché la crisi da sola non spiega il fatto che l’Italia rappresenti quasi un quarto dell’evasione Iva dell’Unione europea, contro il 15,3 per cento della Francia e il 3,9 per cento della Spagna, che dalla stessa crisi non sono state certo risparmiate.
Se a quelli delle imposte dei lavoratori autonomi e dell’Iva si aggiungono i buchi sui redditi d’impresa, dell’Irap e dei contributi previdenziali, arriviamo appunto ai 111,7 miliardi cui sopra. Una cifra enorme. Che in più si riferisce per oltre due terzi alle tasse non pagate dai fantasmi: cioè da coloro che per il fisco nemmeno esistono. In media, 75 miliardi e mezzo l’anno. Somma pari al 15 per cento di tutte le entrate tributarie.
Basterebbe questo per mettere in dubbio la tesi di chi assolve l’infedeltà fiscale considerandola alla stregua della legittima difesa contro uno Stato ingordo. E assolvendola, per giunta, dai vertici dello Stato stesso. «L’evasione di chi paga il 50 per cento dei tributi non l’ho inventata io. È una verità che esiste. Un diritto naturale che è nel cuore degli uomini »: sono le parole memorabili pronunciate da Silvio Berlusconi ai microfoni di Radio Anch’io il 18 febbraio 2004. Ripetute più volte dal Cavaliere prima, durante e dopo le sue permanenze a palazzo Chigi. Senza che in tutti quegli anni la pressione fiscale sia calata e gli evasori si siano dati una regolata.
Sul fatto che in Italia l’imposizione fiscale sia per tutti troppo pesante, davvero non ci piove. La stessa Corte dei conti certifica un dato mostruoso che era stato già calcolato da Confartigianato: su un’impresa di medie dimensioni grava un carico fiscale complessivo del 64,8 per cento, superiore di quasi 25 punti alla media europea (40,6). Né le cose vanno meglio per il cuneo fiscale, che con il 49 per cento oltrepassa di dieci punti il valore medio continentale (39). E se la pressione del fisco, che statisticamente si è aggirata negli anni più recenti intorno al 43 per cento (decimale più, decimale meno), risulta inferiore a quella di Danimarca, Francia, Belgio, Fin-d’Europa landia e Austria, non si può non considerare che a sostenerla è una platea di contribuenti in proporzione nettamente più ridotta. Per non parlare della qualità dei servizi offerti con quel costo ai cittadini italiani. Ma ciò non può giustificare affatto quanti si sottraggono ai propri obblighi verso la collettività. Né, a maggior ragione, giustificare chi li giustifica.
Certo, qualcuno potrebbe tirare in ballo questioni che sconfinano nell’indole degli italiani. Come la storica avversione per le tasse, oggetto persino di proverbi popolari. Ma se quel sentimento esiste, va detto pure che è stato sempre coccolato dalla politica, fin dai tempi antichi. Con i condoni. Il primo è del 118 dopo Cristo. Autore l’imperatore di origini iberiche Adriano, che rinunciò a riscuotere le tasse ancora non pagate dai cittadini dell’impero nei 16 anni precedenti: 900 milioni di sesterzi. Ricorda Di Vizio che dall’unità d’Italia a oggi si possono contare 80 (ottanta) condoni fiscali sotto varie forme. Anche la rottamazione delle cartelle esattoriali, a modo suo, può rientrare in questa fattispecie.
E per avere un’idea del rapporto fra gli italiani e il fisco basti dire che ne 2016 erano 21 milioni i residenti con una pendenza aperta a Equitalia: che in ogni caso, per il 54 per cento di loro, non superava i mille euro. Il fatto è che all’evasione contribuisce un sistema pubblico obeso e inefficiente che affoga nelle follie burocratiche. Cervellotico e strampalato al punto da imporre a chi vuol pagare le tasse rateizzandole un interesse di dilazione pari al 4,50 per cento, cioè addirittura più alto rispetto a quello di mora a carico di chi le imposte non le paga affatto: 3,50. E questo semplicemente perché quei tassi sono fissati da due leggi diverse, che nessuno ha mai pensato di rendere coerenti l’una con l’altra. Troppa fatica.
Succede così, sottolinea Di Vizio nel suo studio, che in un Paese nel quale l’economia sommersa vale il 21,1 per cento del prodotto interno lordo e l’evasione fiscale incide per il 24 per cento sul gettito potenziale, siano necessarie mediamente 269 ore l’anno per adempiere a tutti gli obblighi fiscali, contro le 173 della media europea. Mentre il sistema di riscossione fa acqua da tutte le parti. Inaccettabile il balletto che avviene fra l’accertamento e la riscossione. Dal 2000 al 2016 gli enti creditori hanno affidato a Equitalia 1.135 miliardi di euro da riscuotere: una cifra pari alla metà dell’attuale debito pubblico. Di questi, una parte è stata annullata dagli stessi creditori e una piccola fetta riscossa negli anni, con un residuo contabile che oggi ammonta a 817 miliardi. Ma 147,4 riguardano soggetti falliti, 85 i morti, 95 i presunti nullatenenti, 348 posizioni per cui si è già tentato invano il recupero, 26,2 sono oggetto di rateizzazioni e 32,7 non sono riscuotibili a causa di norme favorevoli ai debitori. Di quella enorme massa, grazie anche al contributo dei ricorsi tributari che hanno visto nel 2016 l’amministrazione soccombente in terzo grado nel 62 per cento dei casi, restano così aggredibili 51,9 miliardi, con una previsione di concreto realizzo che si riduce a 29 miliardi. Nella migliore delle ipotesi potrebbe rientrare il 3,5 per cento. Da chiarire come ciò si possa conciliare con i roboanti risultati nella lotta all’evasione (una ventina di miliardi introitati, secondo Maria Elena Boschi).
E veniamo ai controlli. Di Vizio segnala che nel 2016 gli accertamenti dell’Agenzia delle entrate sono calati del 33,8 per cento, passando da 301.996 a 199.990. Logico, perciò, che gli introiti siano diminuiti del 17,2 per cento, da 7,4 a 6,1 miliardi. Al netto, va precisato, della cosiddetta “voluntary disclosure”. Qui sta il bello. Perché dietro a quelle due paroline inglesi apparentemente misteriose si nasconde la spiegazione di dove sparisce una bella fetta dei soldi rubati al Paese. Ma questa è un’altra storia.


La Stampa 4.10.17
1946-48, così l’Italia ritornò al futuro
La Repubblica inquieta: nel nuovo libro di Giovanni De Luna gli slanci e i conflitti da cui nacque la Costituzione
di Giovanni De Luna

Con la Costituzione, i partiti della Resistenza, oggi possiamo dirlo, avevano vinto e il loro processo di legittimazione, iniziato con le armi nel biennio 1943-45, poteva dirsi definitivamente concluso. Non era certo la Costituzione dei Cln e tuttavia i Cln ne avevano segnato in modo marcato l’impronta «partitocratica». È vero, il prezzo pagato alla «continuità dello Stato» fu molto alto, ma a pagarlo furono soprattutto «gli uomini della Resistenza», non tanto nelle loro carriere professionali o nei loro destini individuali, quanto nell’improvviso e drastico smarrimento di quel potere costituente che per un momento era sembrato appartenere a essi e solo a essi.
Il momento della scelta
Era un percorso probabilmente inevitabile, che quando era cominciato aveva guardato agli uomini in armi come ai depositari di una sovranità popolare che, sulle macerie dello Stato totalitario, si affermava direttamente nelle coscienze dei singoli. Le bande partigiane furono, lo disse Guido Quazza, «un microcosmo di democrazia diretta»; lo furono non tanto perché applicarono il principio della collegialità nei processi decisionali (le esperienze in questo senso furono davvero molto ridotte), quanto perché permisero a un’intera generazione di affacciarsi alla politica scavando nella propria coscienza, attingendo alle proprie motivazioni individuali, proponendo la propria scelta partigiana come il fondamento di una rigenerazione collettiva che avrebbe potuto realizzarsi soprattutto in un apparato istituzionale rifondato dal basso.
In questo senso, ancora prima della «banda», ancora prima del suo definirsi intorno a un’opzione partitica, ci furono gli uomini che scelsero dopo l’8 settembre di impugnare le armi: venuta meno la sovranità statale ognuno di loro si trovò in una condizione di «naturale assolutezza», ognuno, nel momento di andare in banda, divenne «sovrano». E in quella scelta del singolo come atto sovrano c’erano le potenzialità per produrre, attraverso la lotta armata, un nuovo ordine giuridico e politico. Fu l’emergere di un concetto nuovo di sovranità il cui titolare non era più il popolo come entità unica (questo si era detto e scritto prima), ma tutti i singoli cittadini che lo compongono e ciascun cittadino esercita la sovranità attraverso le sue libertà e i suoi diritti politici.
Resistenza degli uomini
Queste istanze, nella banda, si raccolsero intorno ai concetti chiave della partecipazione e dell’autogoverno; in uno stadio successivo, nelle prime formulazioni a caldo dei partiti, divennero il «via i prefetti» dei liberali, la «democrazia progressiva» dei comunisti, la «rivoluzione progressiva» dei democristiani, la «rivoluzione democratica» degli azionisti, la «repubblica socialista dei lavoratori» dei socialisti; trovarono poi la loro compiuta definizione nella «Costituzione dei partiti». Oggi che di quei partiti, della loro forma organizzativa ma soprattutto della loro storia, non è rimasto niente se non macerie, forse è il caso di ripartire dalla Resistenza degli uomini.
La Resistenza fu qualcosa più grande dei Cln e dei partiti che la guidarono, perché la Resistenza fu soprattutto la «moltitudine delle vite concrete dei resistenti», di quanti interpretarono l’8 settembre 1943 come la fine di una stagione di carestia morale e di avvelenamento delle coscienze, vivendola come il momento in cui finalmente non ci si doveva vergognare di sé stessi e si potevano riscattare venti anni di passività e di ignavia. E fu quella scelta che contribuì a fare del 25 aprile 1945 una data fondamentale della nostra religione civile. Perpetuarne il ricordo significa ritrovare la scintilla di allora in chi oggi mette in atto scelte altrettanto consapevoli, violando deliberatamente le regole del conformismo e del compiacimento, in chi si avventura nei luoghi dell’emarginazione e della sconfitta, in chi sfida il male nel silenzio delle istituzioni, in chi testimonia la volontà di rompere la crosta dell’egoismo e degli interessi particolari.
Ed è proprio la Resistenza degli uomini che oggi ci dà speranza, ci invita a essere ottimisti rispetto alle nostre inquietudini. Quelli che diventarono partigiani erano uomini e donne che, come tutti, avevano slanci e coraggio, debolezze e fragilità, forza d’animo, generosità e limiti caratteriali. Erano persone normali. Eppure, all’appuntamento con la storia, diedero il meglio di sé; combattendo diventarono migliori e migliorarono questo paese.
Non fu sufficiente per «fare la rivoluzione». Ma servì a darci una democrazia. Non fu in grado di spezzare la vischiosità della «continuità dello Stato». Ma ci restituì la libertà. Non riuscì a scalfire lo zoccolo duro del familismo e della diffidenza verso la cosa pubblica. Ma in soli tre anni scatenò una somma di energie vitali che portarono al «miracolo» della ricostruzione. Non fu capace di riunire e pacificare le molte Italie che si confrontarono nel nostro paese. Ma ne fece emergere una, affollata di uomini liberi, che si rivelò decisiva per riscattare il nostro passato e garantire il nostro futuro. Lasciò intatto un apparato istituzionale nostalgico del fascismo. Ma ci diede una classe politica che si rivelò pienamente all’altezza dei suoi compiti e seppe resistere alle serpeggianti tentazioni autoritarie.
Da partigiani a elettori
Ed è proprio sulla Resistenza degli uomini che oggi trova fondamento la nostra Costituzione. «La costituzione» affermò Piero Calamandrei in un suo citatissimo discorso del 1955 «è la carta della propria libertà, la carta per ciascuno di noi della propria dignità di uomo. Io mi ricordo le prime elezioni dopo la caduta del fascismo, il 2 giugno 1946, questo popolo che da venticinque anni non aveva goduto le libertà civili e politiche, la prima volta che andò a votare dopo un periodo di orrori - il caos, la guerra civile, le lotte le guerre, gli incendi. Ricordo - io ero a Firenze, lo stesso è capitato qui - queste file di gente disciplinata davanti alle sezioni, disciplinata e lieta perché avevano la sensazione di aver ritrovato la propria dignità, questo dare il voto, questo portare la propria opinione per contribuire a creare questa opinione della comunità, questo essere padroni di noi, del proprio paese, del nostro paese, della nostra patria, della nostra terra, disporre noi delle nostre sorti, delle sorti del nostro paese». I partigiani, gli uomini in armi, erano diventati elettori, ed erano restati uomini, proponendo direttamente il proprio vissuto come l’elemento indispensabile «perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su quella carta».

il manifesto 4.10.17
Netanyahu attacca la riconciliazione Hamas-Fatah
Gaza . Il premier israeliano si scaglia contro un accordo tra il movimento islamista e il presidente dell'Anp Abu Mazen. Afferma che sarebbe un rischio per l'esistenza di Israele.
di Michele Giorgio

Benyamin Netanyahu entra a gamba tesa nelle trattative per l’unità nazionale palestinese. Ieri il premier israeliano, dopo aver annunciato la costruzione di altre migliaia di alloggi nella colonia di Maale Adumim, ha sganciato un siluro contro la riconciliazione tra il movimento islamico Hamas e Fatah, il partito del presidente Abu Mazen. «Non possiamo accettare – ha detto – presunte riconciliazioni in cui la controparte palestinese si riconcilia a spese della nostra esistenza…Chi vuole fare riconciliazioni – ha aggiunto – deve riconoscere Israele, smantellare l’ala armata di Hamas, spezzare i legami con l’Iran». Immediato l’applauso del ministro e leader partito ultranazionalista “Casa ebraica”, Naftali Bennett, che da parte sua ha invocato sanzioni economiche contro l’Anp.
Le minacce di Netanyahu sono giunte mentre il premier dell’Anp Rami Hamdallah teneva ieri a Gaza city la prima seduta del suo governo dopo oltre due anni e annunciava che i suoi ministri hanno assunto la gestione amministrativa della Striscia. «Il governo si occuperà di tutte le questioni rimaste in sospeso e la riconciliazione darà fiducia ai paesi donatori per la ricostruzione di Gaza», ha detto prima della riunione dell’esecutivo con all’ordine del giorno la questione dei circa 40mila dipendenti pubblici di Hamas di cui il movimento islamico chiede l’integrazione nell’Anp.
Sul buon esito dei negoziati non gravano solo le dichiarazioni di Netanyahu. Non è stata ancora trovata una soluzione per il ruolo delle Brigate Ezzedin al Qassam, il braccio armato di Hamas, di cui gli islamisti escludono categoricamente lo scioglimento. In un monito rivolto ad Hamas, ieri Abu Mazen ha detto che a Gaza non saranno tollerate armi illegali. «Se qualcuno di Fatah ha un’arma illegittima in Cisgiordania, lo arresto. Lo stesso a Gaza», ha avvertito.

La Stampa 4.10.17
Gaza, Hamas cede il potere ma non le armi
Che valore ha la «riconciliazione»?
di Giordano Stabile

Il governo palestinese ritorna a Gaza dopo dieci anni di regno di Hamas ma il movimento islamista sembra disposto a cedere soltanto i ministeri, e non le armi. La «riconciliazione» fra le due anime palestinesi è arrivata dopo mesi di lavoro diplomatico, e ai fianchi, di Egitto e Arabia Saudita. Il presidente egiziano Al-Sisi ha imposto una stretta durissima sulla Striscia, in tandem con il raiss palestinese Abu Mazen, che ha bloccato per mesi i pagamenti del gasolio per l’unica centrale elettrica di Gaza e ha messo con le spalle al muro la leadership di Hamas. Senza luce 21 ore su 24, con il sistema fognario al collasso, gli ospedali al lumicino, il malcontento popolare che cresceva ogni giorno, i dirigenti del movimento legato ai Fratelli musulmani hanno dovuto cedere alle richieste di Abu Mazen e del suo partito, Al-Fatah, spalleggiati dagli alleati arabi e, discretamente, da Israele. Il mai decollato governo di unità nazionale, formato nel 2014, ha così potuto prendere finalmente i poteri anche a Gaza. L’altro ieri il premier Rami Hamdallah è arrivato nella Striscia, accolto da migliaia di persone festanti, che sventolavano anche bandiere egiziane e ritratti di Al-Sisi. Ieri si è tenuta la prima riunione ministeriale ma è anche ripartito il braccio di ferro fra le due «anime». Abu Mazen, intervistato da una tv egiziana, ha chiarito subito quale dovrà essere il prossimo passo, il disarmo del braccio militare di Hamas, le temibili Brigate Ezzeldim Kassam che contano su 25 mila uomini e un arsenale missilistico di tutto rispetto. «Non voglio un modello Hezbollah in Palestina», ha detto il vecchio presidente, pur dicendosi disposto a lasciare il posto a un concorrente di Hamas, «se il popolo lo voterà». Il modello Hezbollah significa una milizia che non risponde a nessuno se non ai leader di partito, uno Stato nello Stato. Il leader di Hamas Ismail Haniyeh ha però replicato che «finché ci sarà un’occupazione sionista della Palestina» il popolo ha diritto a resistere in tutti i modi: «Ci sono le armi di esercito e polizia e ci sono le armi della resistenza». Il difficile arriva ora e il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha avvertito tutti: non accetterà una «riconciliazione» che metta «a rischio l’esistenza di Israele». Cioè che lasci Hamas libero di agire e non tagli i legami con l’Iran.

Corriere 4.10.17
Ero perplesso, Kip mi disse «Perché non provarci?» Abbiamo vinto la partita
di Carlo Rovelli

Il premio Nobel per la fisica è stato assegnato a Rainer Weiss, Barry Barish e Kip Thorne per la rilevazione delle onde gravitazionali annunciata all’inizio dell’anno scorso. È momento emozionante per la fisica fondamentale, che corona un percorso tutt’altro che lineare durato un secolo.
La storia si apre nel 1915, all’inizio della Grande Guerra, quando Albert Einstein, già riconosciuto fra i massimi fisici del tempo, pubblica le equazioni di una stranissima teoria che prevede che lo spazio in cui siamo immersi si possa deformare come gomma dura. Lui stesso nota subito che potrebbe anche vibrare come una corda di violino o un bastone di ferro, e quindi trasmettere onde. Ma presto cambia idea e scrive un articolo per dire che queste onde non esistono. Poi cambia idea di nuovo, e scrive un altro articolo per dire che sì, dovrebbero esistere.
Nei decenni successivi i fisici sono confusi, e discutono sulla realtà o meno delle onde gravitazionali. Feynman parteggia per l’idea che siano reali. Altri dissentono: se lo spazio vibra, noi vibriamo con lui e non ce ne accorgiamo... La faccenda si chiarisce solo negli anni ‘60, quarant’anni dopo i dubbi di Einstein: un teorico austro-inglese, Hermann Bondi, mostra che con le onde gravitazionali si può in linea di principio fare bollire un pentolino d’acqua, e finalmente tutti si convincono: la teoria prevede che lo spazio possa portare vibrazioni simili alle onde elettromagnetiche. Increspature sullo spazio come su un lago mosso dal vento. Chiarito questo, ci si chiede se possiamo vederle davvero. Ce ne sono veramente, che corrono nello spazio interstellare? Un fisico americano, Joe Weber, costruisce un enorme cilindro di metallo, con l’idea che le onde di spazio possano metterlo in vibrazione, e si convince di averle viste: ma non convince nessun altro e finisce per essere sempre più isolato e scorbutico. Ma oramai la ricerca è partita.
L’Italia è all’avanguardia. Edoardo Amaldi, padre nobile della grande scuola di fisica romana intuisce l’importanza e la fattibilità dell’impresa e promuove la linea di ricerca italiana per rilevare le sfuggenti onde. Si costruiscono in Italia prototipi di antenne. A Frascati, più tardi a Legnaro, presso Padova. Si continua con l’idea di Weber delle grandi barre di metallo, ma si cercano anche altre idee. Ricordo da ragazzo, giovane studentello di fisica, Massimo Cerdonio e Stefano Vitale che mi mostravano nel dipartimento di fisica di Trento un bussolotto oscillante con dentro un anellino superconduttore: prototipo di un’altra idea di antenna. Cerdonio costruirà poi l’antenna di Legnaro, Vitale guida oggi il più spettacolare progetto internazionale di antenna gravitazionale previsto per il futuro: Lisa, un’antenna fatta di satelliti in orbita solare...
Presto si capisce che la tecnologia più promettente per vedere le onde sono gli interferometri: due laser a 90 gradi che confrontano le lunghezze di due bracci perpendicolari. Se passa un’onda, un braccio si allunga, l’altro si accorcia, e si dovrebbe vedere. Partono uno dopo l’altro in diversi Paesi progetti per costruire prototipi di simili antenne, ma la sensibilità che serve è spettacolare, molto al di là della portata della tecnologia disponibile. Bisogna misurare variazioni di lunghezza molto più piccole di un atomo, su distanze di chilometri.
Nei primi anni Novanta sono giovane professore in America, e Richard Isaacson viene a Pittsburgh, dove lavoro. Richard è il responsabile per la fisica della gravitazione della National Science Foundation, l’agenzia americana che assegna i fondi per la ricerca scientifica. Sta decidendo se investire fondi per le onde gravitazionali. Il progetto proposto è arrivare a rivelare le onde in cinque anni, massimo dieci. Ceniamo in due in un ristorantino indiano. Io sono perplesso, come tanti, le onde sono deboli, e prima che la tecnologia arrivi a tanto, passerà tempo. Gli chiedo cosa gli dia la convinzione che ci si possa arrivare in tempi ragionevoli. La risposta è netta: la fiducia in Kip Thorne. Kip è uno dei migliori relativisti al mondo. Lavora a Caltech. È lui il grande esperto di buchi neri, stelle di neutroni, e altre magie dell’universo dove dovrebbero succedere catastrofi così violente da scuotere lo spazio abbastanza per fare arrivare increspature di spazio fino a noi.
Qualche anno dopo incontro Kip a una conferenza in India. Siamo seduti accanto in un bus che ritorna nella notte dalla cena della conferenza. Gli chiedo cosa gli abbia dato la sicurezza per convincere Isaacson della fattibilità della misura in tempi brevi. Kip aspetta a lungo prima di rispondere, guardandomi negli occhi. La notte indiana scorre accanto a noi. Poi: «Secondo te non dobbiamo provarci?» E mi rendo conto di quanto alta sia la misura di una grande mano di poker.
Ho ricordato a Kip questa conversazione l’anno scorso, dopo la rilevazione. La sua risposta è stata subito: non è merito mio, ho avuto fiducia in Rainer Weiss e Barry Barish, sperimentatori spettacolari. Sono passati venticinque anni dalla mia cena con Isaacson. Venti dalla conversazione con Kip. La mano di poker è stata durissima. Ne sono state coinvolte le vite di decine e decine di colleghi. Abbiamo vinto.

il manifesto 4.10.17
Fisica, il Nobel non può sfuggire alle onde gravitazionali
Il premio. La possibilità di rilevare le onde gravitazionali apre ora una finestra nuova per l’astronomia, per risolvere il mistero della «materia oscura»
di Andrea Capocci

Tutto come previsto: il premio Nobel per la fisica del 2017 è stato assegnato al tedesco Rainer Weiss e agli statunitensi Barry C. Barish e Kip S. Thorne. Si tratta dei fisici che nel corso di trent’anni hanno guidato la ricerca delle onde gravitazionali, coronata da successo nel 2016. Weiss, Barish e Thorne hanno progettato i sofisticati osservatori Ligo e Virgo (i primi negli Usa, il secondo a Pisa), in grado di rilevare le debolissime oscillazioni generate da eventi cosmici come le collisioni tra buchi neri.
LE LORO SCOPERTE hanno confermato le previsioni compiute da Einstein nel 1916 e hanno fornito una verificasperimentale della teoria della relatività generale. Per ottenerla, sin dal 1983 i tre fisici hanno diretto la realizzazione di tunnel lunghi quattro chilometri in cui l’oscillazione della traiettoria di un laser dovuta alle onde gravitazionali fosse abbastanza marcata da essere rilevabile. La prima perturbazione di questo tipo è stata captata nel settembre del 2015. Per la prima volta, era stata osservata direttamente un’onda gravitazionale generata da due buchi neri poco prima della loro fusione.
Einstein, dunque, aveva ragione quando un secolo fa aveva formulato una teoria della gravità alternativa a quella di Newton. Sir Isaac aveva spiegato l’attrazione tra le masse con una forza di attrazione a distanza, la cui legge fisica era in perfetto accordo con le osservazioni astronomiche dell’epoca. Invece, per Einstein ogni massa «curva» lo spazio-tempo circostante deviando le traiettorie dei corpi vicini come un sasso appoggiato su un telo teso ai bordi. I pianeti, secondo Einstein, orbitano non per l’attrazione di una forza, ma perché il loro percorso è «piegato» dalla massa del Sole.
LA TEORIA DI NEWTON e quella di Einstein sono sostanzialmente identiche sulla scala dei fenomeni con cui abbiamo a che fare quotidianamente, tanto che la fisica newtoniana (più semplice) è tuttora insegnata in ogni scuola e università. Per verificare l’esattezza della nuova teoria occorre esaminare fenomeni più esotici in cui le previsioni delle due teorie non coincidono. Il primo fenomeno riguarda la deviazione della luce, che secondo le leggi di Newton si muove in direzione rettilinea mentre per Einstein avrebbe dovuto essere deviata dalla curvatura dello spazio generata da una stella. Un’altra previsione einsteiniana riguardava l’esistenza delle onde gravitazionali: l’accelerazione di una massa molto grande avrebbe dovuto provocare un’oscillazione dello spazio osservabile anche sulla Terra, sotto forma di una piccola e temporanea variazione delle distanze tra gli oggetti.
La conferma della deflessione della luce giunse nel 1919 quando, sfruttando un’eclissi, l’astronomo Arthur Eddington dimostrò che la luce di una stella è deviata dalla massa solare. La caccia alle onde gravitazionali, invece, si è rivelata ben più ardua. Le oscillazioni sono talmente piccole che è quasi impossibile isolarle da altre fonti di vibrazione, dai terremoti alle onde sonore. Per due decenni, il lavoro degli scienziati si è concentrato nell’isolare gli osservatori dai rumori esterni con attenuatori di vibrazione sempre più efficienti. Inoltre, costruendo altri osservatori gemelli (due negli Usa e uno, Virgo, vicino Pisa) i ricercatori hanno potuto accertarsi che un segnale rilevato in tutti e tre i laboratori abbia necessariamente un’origine cosmica. Nell’ultimo anno, con questo sistema sono state rilevate quattro onde gravitazionali. L’ultima è stata annunciata proprio una settimana fa durante il G7 di Torino e rappresentò anche un riconoscimento pubblico al ruolo del nostro Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, che nella collaborazione Ligo/Virgo svolge un ruolo primario.
IL PREMIO non è però il tributo postumo a una teoria ormai accettata. Al contrario, la possibilità di rilevare le onde gravitazionali apre ora una finestra nuova per l’astronomia, per risolvere il mistero della «materia oscura». Essa rappresenta la maggior parte della massa dell’Universo ma non emette onde elettromagnetiche, cioè la luce visibile, le onde radio, le microonde o i raggi x e gamma che possono essere rilevate negli osservatori tradizionali. I nuovi osservatori permetteranno di studiare anche questa porzione ancora ignota dell’Universo. L’impressione che la scienza abbia scoperto tutto il possibile è quanto mai sballata. La prossima rivoluzione scientifica è già iniziata.

Il Fatto 4.10.17
Nobel per le onde gravitazionali ai fisici che criticano la Fedeli
Hanno firmato la lettera a difesa dei ricercatori
di Laura Margottini | 4 ottobre 2017

Il premio Nobel per la fisica va a Rainer Weiss e Kip Thorne, due degli scienziati coinvolti nel progetto di ricerca sulle onde gravitazionali che nei giorni scorsi hanno firmato una lettera al ministro dell’Istruzione Valeria Fedeli per denunciare come i parametri di valutazione della ricerca in Italia stronchino la carriera a chi si occupa di progetti applicati che durano decenni. Proprio come quello che ha permesso di scoprire le onde gravitazionali e che ieri ha ricevuto il riconoscimento più ambito.
“We did it”, ci siamo riusciti. Così i ricercatori della collaborazione scientifica Ligo-Virgo – tra Usa, Italia e Francia – aveva annunciato a febbraio 2016 la rilevazione delle onde gravitazionali previste da Albert Einstein un secolo fa, catturate per la prima volta dai due rilevatori del progetto Ligo (negli Usa) nel settembre 2015. Ieri, la scoperta è valsa a tre membri della collaborazione Ligo-Virgo (un migliaio di ricercatori) l’assegnazione del premio Nobel per la Fisica 2017: Rainer Weiss — fisico del Massachusetts Institute of Technology (Mit); Kip S. Thorne, fisico teorico emerito del California Institute of Technology; Barry C. Barish , fisico delle particelle, anche lui al Caltech. Insieme a Ronald Drever deceduto a marzo, Weiss e Thorne sono i fondatori del laboratorio statunitense Ligo. Barish lo ha diretto dal 1997 al 2005.
Oltre a confermare le previsioni della Teoria della Relatività Generale di Einstein, la scoperta “apre un nuovo campo della fisica: l’astronomia gravitazionale,” spiega Helios Vocca, fisico dell’Università di Perugia, tra i responsabili di Virgo. Quella che permetterà, per la prima volta, di studiare il 95% della materia invisibile di cui si suppone sia costituito l’universo. Ad agosto, alla rilevazione delle onde gravitazionali da parte dei due interferometri statunitensi si è aggiunta quella del rilevatore Virgo a Cascina, Pisa, partner di Ligo dal 2007. Ha confermato i risultati di Ligo e permesso di individuare la posizione della sorgente che le ha emesse. Ma a settembre 2015, quando le due antenne Ligo le ha intercettate per la prima volta, quella di Virgo era spenta, per consentirne l’aggiornamento. Anche quelle di Ligo sono state spente dal 2010 al 2015 per lo stesso motivo. “Ma hanno fatto prima di noi a riaccenderle,” spiega Fernando Ferroni direttore dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn), ente che finanzia, insieme a partner francesi, il progetto Virgo. “Abbiamo sofferto della mancanza di personale che avrebbe velocizzato i tempi necessari a riaccendere Virgo,” ha spiegato, riferendosi alle politiche adottate dai governi dell’ultimo decennio – anni cruciali per Ligo-Virgo – che hanno ridotto il numero di docenti del 20 per cento e il Fondo Finanziamento Ordinario per l’università di oltre un miliardo. Ferroni aggiunge che Virgo è stato capace di celebrare il successo insieme a Ligo con un finanziamento totale di 350 milioni di euro contro i 2 miliardi investiti dagli Usa dal 1978.
I ricercatori di Virgo oggi raccolgono gli onori internazionali. Ma molti di loro negli ultimi 20 anni hanno sofferto di una situazione di carriera molto precaria. Simile a quella che oggi vive la comunità di ricercatori italiani che partecipa alla costruzione di un interferometro milioni di chilometri più grande di Ligo-Virgo, che l’Agenzia Spaziale Europea conta di lanciare tra 15 anni. Nel 2016, dopo 16 mesi di test nello spazio, l’esperimento Lisa Pathifnder diretto da Stefano Vitale, fisico dell’Università di Trento, ha mostrato che è possibile realizzare un rilevatore di onde gravitazionali spaziale, ottenendo un riconoscimento mondiale. Ma come riportato dal Fatto nei giorni scorsi, i più importanti fisici internazionali, molti dei quali impegnati sulle onde gravitazionali, hanno scritto una lettera al ministro dell’Istruzione Valeria Fedeli per denunciare come l’Italia stia tagliando fuori dall’accademia, e quindi dalla ricerca, proprio il gruppo di ricercatori di Lisa Pathfinder. Oltre a Takaaki Kajita, vincitore del Nobel per la fisica nel 2015, tra i firmatari ci sono anche Rainer Weiss e Kip Thorne, premiati ieri a Stoccolma.
Il problema denunciato dalla lettera è che le regole fissate dal ministero per abilitare i ricercatori al ruolo di professore dopo la riforma Gelmini del 2010 li bocciano in automatico: non colgono la differenza tra chi è poco produttivo perché non si impegna nella ricerca e chi invece si occupa di progetti fondamentali ma che richiedono decenni per produrre risultati, proprio come è accaduto per Ligo-Virgo.

La Stampa TuttoScienze 4.10.17
Onde gravitazionali
Nobel al respiro del cosmo
Premio “annunciato” per la Fisica a Barish, Thorne e Weiss
di Barbara Gallavotti

Questa volta a Stoccolma non hanno giocato la carta dell’effetto sorpresa: il Nobel per la fisica è quello atteso, annunciato, quasi inevitabile che premia l’osservazione diretta delle onde gravitazionali e di fatto l’apertura di impensabili nuove frontiere nell’esplorazione del cosmo. C’erano anche pochi dubbi sulle tre figure che il crudele meccanismo dei Nobel avrebbe selezionato per rappresentare una caccia lunga 40 anni. Si tratta di Rainer Weiss, di origine tedesca, e degli statunitensi Barry Barish e Kip Thorne: scienziati visionari, considerati «padri» dei due strumenti americani Ligo che per primi hanno captato il segnale delle onde.
Ma quella che i tre fisici rappresentano è la collaborazione Ligo-Virgo, costituita da più di un migliaio di ricercatori al lavoro oltre che sui due strumenti americani anche sull’analogo strumento italo-francese Virgo, nei pressi di Pisa. «Se dovessimo citare altre due persone che hanno avuto un ruolo fondamentale nella caccia alle onde gravitazionali non potremmo dimenticare l’italiano Adalberto Giazzotto e il francese Alain Brillet», dice Fulvio Ricci, coordinatore di Virgo. Ancora una volta quindi un Nobel sfiorato per la ricerca italiana, a conferma della sua eccellenza e delle sue difficoltà.
Le onde gravitazionali sono increspature dello spazio-tempo generate da corpi dotati di massa in movimento: se lo spazio-tempo fosse un tappeto elastico, potremmo immaginarle come la vibrazione prodotta da una palla che si muova su di esso. E tanto più grande è la massa del corpo, maggiori sono le increspature. La loro esistenza era prevista dalla teoria della relatività di Einstein, ma persino quando sono generate da eventi cosmici giganteschi come la fusione di buchi neri, la loro entità percepibile dalla Terra è talmente esigua che sono occorsi decenni per misurarle. La svolta si è avuta a partire dagli Anni 70, quando si è affermata l’idea di usare gli interferometri, come sono appunto Ligo e Virgo. Si tratta di strumenti così sofisticati, che descriverli è difficile: in estrema sintesi ogni interferometro è costituito da due bracci posti ad angolo retto fra loro, lunghi alcuni chilometri e percorsi da raggi di luce laser. I raggi di luce rimbalzano su specchi sospesi alle estremità, così da tornare indietro e incontrarsi nuovamente in un punto unico. L’arrivo di un’onda gravitazionale deforma lo spazio-tempo, modificando la lunghezza relativa dei bracci di una lunghezza di molto inferiore al diametro di un atomo. Questa differenza, tanto minuscola da essere impensabile, è sufficiente ad alterare il tempo impiegato dalla luce a percorrere il tragitto, facendo sì che i fasci di luce laser ritornino al punto di arrivo in tempi non perfettamente coincidenti. È questo il segnale, o meglio l’interferenza, che rivela ai fisici il passaggio dell’onda.
«L’enorme difficoltà naturalmente sta nel far sì che lo strumento registri la traccia di un’onda senza confonderla con un impercettibile terremoto, o persino con la vibrazione prodotta da un coniglio che saltelli nelle vicinanze - spiega Fulvio Ricci - e proprio in questo il contributo italiano si è rivelato fondamentale, perché è in Virgo che è stato concepito il sistema di attenuazione dai rumori esterni». Ma la collaborazione fra gli interferometri non si è certo esaurita con la loro messa a punto. Quella alle onde non è una caccia per lupi solitari: ha bisogno di più strumenti che lavorino in gruppo, a distanze grandi fra loro. Solo così è possibile individuare con precisione dove nell’universo il movimento di corpi colossali ha dato origine all’onda, grazie a una triangolazione simile a quella che permette ai GPS di stabilire dove si trova un’auto. «Il primo segnale è stato captato da Ligo nel settembre 2015, e ne sono seguiti altri - dice ancora Ricci - Quando in agosto 2017 Virgo ha concluso una lunga fase di modifiche e ha potuto unirsi alla caccia, abbiamo captato una nuova onda riuscendo a individuarne l’origine con una precisione dieci volte superiore». Ecco perchè quella premiata dal Nobel è la fine di una lunghissima caccia, e l’apertura di una nuova era di esplorazione.