giovedì 5 ottobre 2017

il manifesto 5.10.17
Uno sciopero per non sentirsi impotenti
di Luigi Manconi, Antonella Soldo

Lo scorso anno sono arrivati in Italia circa 26mila minori non accompagnati. Quest’anno “solo” circa 13.400. Ecco, dei migranti non arrivati, una parte significativa ora si trova in Libia, in quei centri di detenzione definiti orribili da tutte le organizzazioni per la tutela dei diritti umani. Ragazzi e bambini come quegli 800mila figli di stranieri nati e cresciuti nel nostro Paese a cui non viene riconosciuto il diritto a una cittadinanza piena. Nella storia c’è un precedente a tutto, ma quella che si configura appare una sorta di guerra ideologica contro i minori: e questo sì, rappresenta un fatto storico senza precedenti.
Eppure qualcosa si deve fare per non doverci amaramente rammaricare, tra qualche mese o qualche anno, della nostra impotenza o ignavia.
E se – come molti segnali sembrano confermare – questi sono giorni decisivi per la sorte dello ius soli è necessario provare ad impedire che si chiuda lo spiraglio, pur esile, che sembra essersi aperto. E’ per questo motivo che, a partire da oggi, 5 ottobre, iniziamo uno sciopero della fame a staffetta senatori e deputati, insieme a tutti quei cittadini che ritengono quella sullo ius soli una legge ragionevole e saggia.
L’iniziativa raccoglie il testimone del digiuno attuato lo scorso 3 ottobre (giornata nazionale in memoria delle vittime delle migrazioni) da oltre 900 insegnanti in tante scuole italiane a sostegno della legge. Infatti, dopo l’approvazione della nota di aggiornamento al Def, si apre una finestra.
La legge di stabilità arriverà alle Commissioni del Senato verso la fine di ottobre: ciò vuol dire che vi sono due settimane di tempo per ricercare i numeri necessari alla fiducia sul provvedimento relativo alla riforma della cittadinanza.
Ed è esattamente in queste settimane che si svolgerà la nostra iniziativa di digiuno a staffetta. Hanno aderito già decine di senatori e deputati, il ministro Graziano Delrio e i sottosegretari Benedetto Della Vedova e Angelo Rughetti, oltre ai dirigenti di Radicali italiani. Ma ciò che ci aspettiamo è l’adesione e la partecipazione attiva di tanti cittadini. Si tenga conto che quello stesso periodo di tempo coincide con la fase conclusiva della campagna «Ero straniero. L’umanità che fa bene» e della relativa raccolta di firme per una proposta di legge di iniziativa popolare finalizzata al superamento della “Bossi-Fini”.
I due obiettivi potrebbero – e dovrebbero – sostenersi e incentivarsi a vicenda. E si ricordi che il pomeriggio del 13 ottobre, a partire dalle ore 15, davanti a Montecitorio è prevista una manifestazione, promossa dalla rete degli «Italiani senza cittadinanza», alla quale sarebbe importante che molti partecipassero.
Si tratta, ne siamo consapevoli, di una prova difficile ma che vale la pena affrontare. Una sfida che riguarda le parole e i pensieri e la rappresentazione di fenomeni che fanno parte della nostra vita e della nostra contemporaneità. D’altra parte «tutte le grandi rivoluzioni della vita umana avvengono nel pensiero», come scriveva Lev Tolstoj.
E nella dimensione del pensiero, lì dove si formano idee e sentimenti, l’intolleranza etnica può trovare lo spazio per covare e svilupparsi. Ma anche quello per essere contrastata e sconfitta.
Per aderire allo sciopero della fame per lo Ius soli bisogna comunicare la propria partecipazione al link

http://www.radicali.it/sciopero-per-iussoli/

il manifesto 5.10.17
Sul lavoro le parole di un profeta che non usa la fede come ammortizzatore sociale
Il libro. L’incontro con gli «ultimi» diviene scontro con i «primi», ovvero conflitto con quelle gerarchie socio- economiche che presentano la diseguaglianza come natura. Quanto distante questo magistero sul lavoro dalle chiacchiere moderniste sulla flessibilità che alimenterebbe lo sviluppo e che invece spezza carne e anima delle persone
Bergoglio e gli operai dell'Ilva
di Nichi Vendola

La radicalità evangelica del magistero di Papa Francesco è, in tutta evidenza, il contrario di una deriva integralistica o mistica. E, nel contempo, a differenza da ciò che lamenta l’ala tradizionalista del cattolicesimo, non ha alcuna soggezione verso le seduzioni della secolarizzazione.
Le sue parole vanno diritte al cuore delle cose ed esibiscono fastidio per gli eufemismi che spesso le cose le manipolano o le anestetizzano.
Quella radicalità coglie la radice dei mali del secolo e non usa la fede come «ammortizzatore sociale». Anzi.
Nelle sontuose sale vaticane o nelle polverose periferie del pianeta, la «buona novella» che il pontefice annuncia non è una sublimazione mistica delle cattive notizie che dicono della miseria di un’epoca di guerra globale, una guerra che si presenta persino in forme pulviscolari: la guerra come terrore industriale o come artigianato dei «lupi solitari», la guerra alla bio-sfera nel nome della mercificazione di tutto il vivente, la guerra sociale contro il lavoro e i suoi diritti, la guerra degli uomini contro le donne, la guerra dei più ricchi contro i più poveri, la guerra e i suoi derivati culturali che elevano muri e partoriscono paure individuali e fobie collettive.
La radicalità di Bergoglio a me appare tutta giocata sul terreno del discernimento e dell’analisi anti-retorica della malattia sociale e antropologica che affligge la nostra post-modernità, a partire dall’Occidente: la disumanizzazione della vita, alienata e desacralizzata in nome della religione del profitto economico, ridotta a oggetto di veloce consumo, spesso considerata scarto o eccedenza da chi non vede il volto delle persone al di là delle asettiche statistiche con cui ci raccontiamo o con cui ci nascondiamo.
Colpisce la vividezza dell’affresco con cui, nei discorsi ai movimenti popolari, il Papa «venuto dalla fine del mondo» racconta il vivere concreto, amaro, spoglio, degli poveri: a cui non offre consolazione, bensì esortazione alla lotta, direi alla resilienza; colpisce la precisione puntigliosa con cui evoca ciascun tassello del mosaico, ciascun soggetto sociale, non riducendolo mai a mera sociologia, a oggetto di studio o di terapie riparative.
Il suo incontro con gli «ultimi» diviene scontro con i «primi», ovvero conflitto aperto con quelle gerarchie socio-economiche che presentano la diseguaglianza come natura e che, nel migliore dei casi, prevedono «politiche sociali» di contenimento neo-caritatevole della povertà.
Ed è non generica la povertà di cui parla e per la quale non chiede l’elemosina. È quel non avere né tetto né legge dei migranti, oggi rappresentati e repressi come disturbatori della quiete pubblica o propagatori di malattie o competitori nel mercato del lavoro servile.
È il non aver casa, ancora oggi mentre cerchiamo alloggi su Marte, proprio come accadde a quella coppia che trovò riparo in una grotta per dare alla luce un bambino, prima di migrare da rifugiati in un Paese lontano.
È il non avere terra da coltivare, non poter essere biblici «custodi del creato», perché la terra è bruciata dai pesticidi e dalla mutazione climatica e dalla violenza predatoria delle grandi multinazionali.
È il non avere lavoro, o avere un lavoro precario o saltuario, senza reddito decente, senza tutela sindacale, senza rispetto della dignità e del singolare talento di ciascun essere umano.
Quanto distante questo «magistero del lavoro» dalle chiacchiere moderniste sulla flessibilità che alimenterebbe lo sviluppo economico e che invece semplicemente flette e spezza la carne e l’anima delle persone, che differenza con gli anglicismi con cui il lavoro viene parcellizzato, umiliato, svuotato di senso e ridotto a merce o a osso di seppia, che alterità rispetto all’emergenzialismo dei piani di assistenza che distribuiscono briciole di lavoro che è sempre una grande fatica ma non è mai un vero lavoro, quello che offre «la vera inclusione»: «quella che dà il lavoro dignitoso, libero, creativo, solidale e partecipe», come scandisce il Papa in uno dei suoi discorsi più belli.
In questa prospettiva la «conversione ecologica» che annuncia Bergoglio – che volle non a caso chiamarsi col nome del poverello di Assisi – è propedeutica a un modo di produzione che ha l’ambizione di capovolgere la piramide sociale che ci schiaccia: affinché non si estragga ricchezza dalla povertà, ovvero dall’impoverimento della natura, della cultura, della bellezza, dei diritti, della vita e delle sue prerogative.
Questa a me appare la grande profezia di Bergoglio: non la fuga dalla storia, ma la ricerca nella storia umana di quel filo rosso che lega il dolore alla salvezza, la demistificazione del male e della sua banalità, ma anche la costante indicazione del varco che lascia intravvedere la luce del bene.
Questo fanno i profeti: dicono la verità, la gridano anche quando è scomoda e rischiosa, la rappresentano dinanzi al popolo, non sono Cassandre che spingono alla rassegnazione o alla depressione, ma sono testimoni di una verità che esorta all’azione, all’assunzione di responsabilità, a diventare «seminatori di cambiamento».
E qui i poveri non sono solo vittime, ma sono anche protagonisti del possibile riscatto di tutti: perché possono insegnarci l’economia del riuso e del riciclo contro quella del consumismo onnivoro e degli scarti, perché i lavoratori poveri, che sono contadini o artigiani o manovali o pescatori o trasportatori o venditori ambulanti o cartoneros, sono portatori di un bisogno universale di salvezza del mondo, per andare oltre quella dittatura del presente che colonizza i popoli, atomizza gli individui, rompe i legami sociali, disobbedisce al Dio che danza la vita, al Dio che non ci chiede di essere reclute del clericalismo ma sentinelle che scrutano la notte in attesa di una nuova alba.


Dal 5 ottobre, in edicola con il manifesto «Terra, casa, lavoro. Discorsi ai movimenti popolari» di papa Francesco. Un libro edito da Ponte alle Grazie curato da una delle nostre firme Alessandro Santagata. Introduzione di Gianni La Bella.

La Stampa 5.10.17
Pedofilia online, alla Pontificia Università Gregoriana le cifre di un fenomeno sottovalutato
Padre Zollner: l’anno scorso 57mila casi in Europa, cinque bambini al giorno abusati nel mondo. La «pornificazione» della società, la prevenzione possibile, il nuovo impegno Cei
di Iacopo Scaramuzzi

Città del Vaticano. La pedofilia online, «più diffusa di quanto si parli», la violenza intrinseca della pornografia e di una «società pornificata», la possibilità di prevenire gli abusi sui minori. Il convegno «Child Dignity in the Digital World» («La dignità del minore nel mondo digitale»), presso la Pontificia Università Gregoriana, è iniziato inquadrando il problema con le relazioni di accademici ed esperti degli Stati Uniti e non solo. 
Il gesuita tedesco Hans Zollner, direttore del Centre for Child Protection presso lo stesso Ateneo romano dei Gesuiti che ha organizzato l’evento, nonché membro della Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori, sottolinea la necessità di affrontare il problema trasversalmente, con la partecipazione di Governi, scienziati, forze dell’ordine, religioni. E commenta come un ottimo primo passo la recente decisione della Conferenza episcopale italiana di creare un «gruppo di lavoro» per la prevenzione della pedofilia nella Chiesa. 
Al congresso aperto ieri dal cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, «c’è tanta energia, tanta buona volontà e tanta comprensione tra tutti quelli che sono venuti da tutte le parti del mondo e da varie provenienze religiose, universitarie, professionali», afferma padre Zollner in una pausa dei lavori della prima mattinata di discussione plenaria. «È un’esperienza molto bella, ed è già uno degli obiettivi del congresso che ci sia un’intesa per combattere un male che, come abbiamo visto dalle presentazioni di questa mattina, è molto più grande e ha un impatto molto più ampio di quanto pensiamo. Qui abbiamo avuto i migliori del campo che da 20-30 anni fanno ricerca molto seria in questo campo, provengono dalle migliori università degli Stati Uniti, da scuole di Medicina, di psicologia forense, e abbiamo quindi sentito quello che la scienza in questo momento conosce su questo fenomeno, segno di una perversione sessuale più diffusa di quanto si parli». 
Può citare un dato che spiega la diffusione del fenomeno? 
«L’anno scorso in Europa sono stati denunciati 57mila casi di abuso sessuale di minori online, immagini nude, filmati, prodotti con ricatto o con la forza fisica, spesso immagini fatte o vendute dagli stessi genitori o dai membri della famiglia. Si può ragionevolmente pensare che i casi effettivamente avvenuti siano almeno cinque volte tante. Sono numeri impressionanti e dietro queste grandi cifre si nascondono vite distrutte per sempre. Il danno più grave che avviene con l’abuso online, poi, è che queste immagini rimarranno per così dire per sempre accessibili. Ci sono certo misure che possono sopprimere una foto o un video, ma se una persona sola ha scaricato l’immagine sul suo computer può ricaricarla sempre di nuovo. Una persona abusata soffre così due, tre, molte volte, non sa chi guarda questo materiale e chi possiede una sua foto molto intima. Interpol ha detto che l’anno scorso ogni giorno cinque bambini sono stati abusati sessualmente nel mondo per produrre pedopornografia online, ossia per filmare uno stupro, a volte anche a danno di bambini molto piccoli, tra 3 e 4 anni, distruggendo non solo il corpo ma anche l’anima».
La baronessa Joanna Shields, fondatrice della organizzazione britannica We Protect Global Alliance, ha notato, nel suo discorso di aperture del congresso, che i video pornografici «non descrivono semplicemente due adulti che hanno una relazione sessuale, essi presentano interazioni misogine prive di amore, piene di abuso verbale e fisico». È un tema sul quale siete tornati? 
«Sì, anche le relazioni di questa mattina hanno messo a fuoco la violenza inerente la pornografia. Mary Ann Layden, della University of Pennsylvania, ha messo in luce che la società è stata “pornificata”, ed ha citato ricerche che indicano che se uno guarda pornografia, anche pornografia tra adulti, riceve immagini di relazione tra sessi che mostrano un maschio dominante, una femmina sottomessa, che inviano un messaggio secondo il quale alla donna piacerebbe essere umiliata, soffrire, e la diffusione della pornografia ha innescato il diffondersi di pratiche sessuali, fino a poco fa non diffuse, che infliggono dolore alla donna. Donald Hilton Jr, della University of Texas Helath Science Center, ha parlato dell’influsso della pornografia sul funzionamento del cervello: prima il bambino è esposto a immagini pornografiche e prima sarà influenzato da un immaginario, inondato da emozioni che non può processare perché né il cervello né il cuore sono preparate per vedere queste immagini. E qui c’è un fenomeno molto interessante: l’inizio dell’adolescenza sembra anticiparsi sempre più. Negli Usa le bambine hanno concluso lo sviluppo sessuale adolescente all’età di 13-14 anni, quindi l’inizio della pubertà da un punto di vista fisiologico è attorno ai 9-10 anni e si vede che questo inizio per ogni generazione è anticipato di un anno, mentre la responsabilità e lo sviluppo del cervello sono sempre alla stessa età, o addirittura posticipato. Si registra cioè una maturità del corpo molto precoce alla quale non corrisponde la maturità relazionale e cognitiva, la consapevolezza della propria identità e della propria vita sessuale, e questa è una tensione a mio parere spaventosa, perché i bambini agiscono sessualmente ma non si rendono conto di ciò che stanno facendo. E invece dobbiamo aiutare una maggiore integrazione tra il fisico e l’etica».
Elizabeth J. Letourneau, della John Hopkins University, ha insistito sulla possibilità di prevenire gli abusi sessuali sui minori, che non sono dunque una malattia dalla quale non si guarisce più e nella quale inevitabilmente si ricade. Come prevenire, su cosa puntare? 
«La prevenzione ha molti aspetti. Se parliamo di immagini online, bisogna fare tutto il possibile affinché le immagini non circolino, il che vuol dire che il legislatore, gli Stati, dovrebbero imporre leggi più severe, e poi punire quelli che violano queste leggi. Dovrebbero poi essere educate maggiormente le persone dove c’è maggior rischio. Le immagini, per esempio, vengono vendute spesso in famiglie violente, distrutte, disfunzionali, quindi dovremmo investire nella stabilizzazione della convivenza delle persone, nelle famiglie e in altri tipi di convivenza. È una prevenzione che ha origini lontane, ma che avrà risultati durevoli. Inoltre, far sì che i giovani vengano educati e sappiano meglio cosa significa se mandano in rete proprie immagini nude, se cedono all’invito dei loro compagni di mettersi in esposizione. La prevenzione poi include tutti, specialmente gli insegnanti che non hanno spesso molta conoscenza del problema e dei rischi dei bambini e degli adolescenti che accedono facilmente a internet in modo sregolato e senza controllo. In questi giorni abbiamo sentito spesso la parola collaborazione, fare rete: ci rendiamo tutti conto che né la scienza, né la politica, né le forze dell’ordine, né le religioni possono fare da soli. Letourneau ha fatto riferimento alla Chiesa sottolineando che gli scienziati hanno bisogno della voce forte della Chiesa, e io aggiungerei di tutte le religioni, che è proprio questo che ci aspettiamo da discorso del Santo Padre venerdì prossimo».
Finalmente la Conferenza episcopale italiana, rappresentata a questo congresso da monsignor Ivan Maffeis, ha annunciato la nascita di un gruppo di lavoro per la prevenzione della pedofilia, che era atteso da tempo, presieduto da monsignor Lorenzo Ghizzoni , che ha sottolineato come la Cei cercherà di fare come hanno fatto altre conferenze episcopali nazionali: come valuta e cosa si attende da questo gruppo di lavoro? 
«È una ottima decisione. Ci siamo visti con don Maffeis al convegno di Sofia tra portavoce delle conferenze episcopali europee, dove mi avevano invitato a parlare di abuso sia online che offline, e lì è nata la conoscenza. Ora sono molto contento che la Cei abbia deciso in questa linea. Ghizzoni è un ex alunno dell’Istituto di Psicologia della Gregoriana, siamo in contatto da qualche anno. Sono stato in contatto anche con i componenti di un altro gruppo di lavoro che precedeva questo gruppo. Ad aprile a Firenze abbiamo celebrato un convegno, voluto anche dal cardinale Betori, in cui per la prima volta avevamo radunato psicologi, psicoterapeuti ed esperti che lavorano nei seminari o collaborano alla selezione dei futuri sacerdoti: è stato un grande punto di partenza per la Chiesa italiana. La situazione non è la stessa in tutte le città, i seminari, ma erano rappresentate tutte le regioni. Noi come centro per la protezione dei minori della Gregoriana lavoriamo da tempo con le diocesi di Bolzano e di Trento, oltre che con Firenze, a Roma c’è molto interesse, e mi aspetto che possiamo entrare sempre più in dialogo, sia come Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori che come centro per le protezione dei minori, anche offrendo programmi in lingua italiana per la formazione di persone che siano coinvolte nelle scuole, nelle parrocchie, nelle attività giovanili. Vedo che c’è un passo avanti, ne devono seguire altri ma almeno questo passo è fatto».

Corriere 5.10.17
Il parroco di Renzi a Firenze: Matteo preghi anche per Massimo

Il nuovo parroco di Matteo Renzi, padre Giuseppe Pagano, rettore della Basilica di Santo Spirito di Firenze, non lontano dalla casa in cui l’ex premier si è trasferito, consiglierebbe al segretario del Pd di pregare «per gli avversari» e quindi anche per Massimo D’Alema. Padre Pagano è intervenuto ieri a Un giorno da pecora , su Rai Radio1. «Sì, è vero, Renzi è venuto con i suoi figli, credo che lui si sia trasferito da poco qui», ha detto il sacerdote. «Ci conosciamo dal 2009, quando lui era sindaco. Da noi è sempre venuto volentieri, specie quando c’erano delle celebrazioni». Da uomo di chiesa che cerca di «unire» e avvicinare il prossimo, che consiglio darebbe a Renzi? «Di cercare sempre l’unità tra tutti. Per riconciliarsi, come prima cosa gli direi di pregare per la persona con cui fa fatica a rapportarsi e di trovare gli elementi che uniscono». Anche per D’Alema? «Certo — ha risposto padre Pagano — bisogna pregare per gli avversari».

il manifesto 5.10.17
Il campo stretto di Pisapia
di Norma Rangeri

La legge di bilancio, alla fine della legislatura, è uno spartiacque che impegna la sinistra a dare battaglia contro una politica economica del governo che, giustamente, Gentiloni rivendica alla continuità di chi lo ha preceduto. Scostamento dal deficit e ribollita delle scelte che hanno coperto di miliardi le imprese allargando il girone della precarietà, togliendo (i diritti) e tagliando (gli ammortizzatori sociali). Senza voler aprire altri amari capitoli come quello sull’immigrazione.
Diciamo che pur meritoriamente impegnati a chiedere l’abolizione del superticket, il non voto al Def di Pisapia e Bersani (abbreviazione di Campo progressista e Mdp), è una rincorsa a smentire tutto quello che gli scissionisti del Pd hanno votato fino a ieri insieme a Renzi. Oltretutto mettere sul tavolo un do ut des tra legge elettorale e legge di bilancio non depone a favore di una limpida battaglia.
Tuttavia pur se tardiva, questa sacrosanta «discontinuità» spesso si impiglia nelle vicende ormai davvero stucchevoli del balletto tra Pisapia e il resto della sinistra, riducendo così il« campo largo» dell’alternativa a una storiella evaporata, in breve tempo, in un campo molto stretto. Ormai l’unica occupazione dell’ex sindaco di Milano sembra quella di alzare muri per escludere Sinistra italiana, D’Alema e tutti quelli vogliono costruire una forza di sinistra nei tempi necessari e intanto lavorare anche a una (una) lista elettorale credibile su alcuni punti chiari.
Oggi pubblichiamo un piccolo volume con i tre discorsi di papa Bergoglio ai Movimenti popolari su Terra, Casa, Lavoro. Il papa naturalmente non è diventato comunista, ma definisce un programma di rinnovata dottrina sociale della chiesa, richiamando analisi condivise dalle sinistre nel mondo. Tre discorsi dove i poveri non sono più oggetti della solidarietà, ma soggetti del cambiamento contro l’attuale sistema dell’economia globale. Secondo il papa devono intervenire, farsi protagonisti di una politica contro lo sfruttamento. Scrive Bergoglio ma sembra di leggere Vandana Shiva. Sfruttamento della natura e dell’uomo, impegno contro un sistema economico capace di tutto, «come avviene anche in Italia dove con la disoccupazione si annulla un’intera generazione per mantenere l’equilibrio». Non si potrebbe dire meglio.
Invece la discussione pubblica declina verso questioni di schieramento di ceto politico, con l’uomo del dialogo che vuole allearsi con Renzi «perché ha vinto le primarie» mentre chiede a D’Alema di farsi da parte perché è «divisivo» e in pratica traccia il confine, tra chi è dentro e chi è fuori. A volte non si capisce nemmeno tanto a nome di chi delimita il campo, a volte l’investitura ricevuta da Bersani sembra la definizione di una linea politica, salvo assistere al balletto delle smentite a stretto giro. Dire «Non siamo alternativi al Pd, siamo sfidanti del Pd», aiuta poco a capire il che fare quando si passa al linguaggio delle cose concrete che riguardano sia le politiche che gli interlocutori con cui costruire una campagna elettorale.
Il delegato, il coordinatore, il facilitatore Pisapia è il primo a sapere che quando ci si investe di una funzione politica di primo piano a livello nazionale bisogna esserne all’altezza e al servizio, innanzitutto parlando con tutti. Laura Boldrini e Pietro Grasso, due figure istituzionali presenti in questa fase del dibattito a sinistra, lo stanno facendo testimoniando un impegno utile a parlare a un’opinione pubblica più larga. Figure con autorevoli biografie, poco avvezze alla vita dei vecchi partiti, circostanza che oggi al mercato elettorale vale quanto una medaglia al valore.

Corriere 5.10.17
Due leader troppo diversi
D’Alema e Pisapia divisi su tutto sin da quando il primo era presidente del Consiglio e decise l’intervento in Kosovo
di Aldo Cazzullo

«Non dovete chiedere a Pisapia se candida me, dovete chiedere a me se candido Pisapia». «Quando D’Alema faceva la guerra in Kosovo, io partivo per il Kosovo a lavorare in un campo profughi».
Come Massimo D’Alema e Giuliano Pisapia potessero essere il fondatore e il leader del nuovo partito della sinistra, è un mistero che lo scontro di ieri ha forse risolto: sono troppo diversi.
Troppo diverse le loro storie, le loro idee della politica, dell’Italia, del mondo. Anche se il punto di partenza è lo stesso: la primavera del 1949 (Pisapia è del 20 maggio, D’Alema del 20 aprile).
Pisapia è figlio della borghesia milanese delle professioni e dei diritti, che gli avversari definiscono radical chic. Suo padre Gian Domenico era un avvocato importante, lui è un avvocato importante («ineffabile» dice D’Alema). D’Alema è figlio del partito. Suo padre Giuseppe fu mandato a dirigere la Resistenza nel Ravennate, al posto di capi partigiani che erano stati fucilati; ma la vera comunista togliattiana era la madre, donna forte e asciutta («io somiglio a mamma»). Pisapia ha avuto come insegnante di religione al Berchet don Giussani ma è cresciuto nel mito di don Milani: «Andai a Barbiana per incontrarlo, era già molto malato. Dormo con la Lettera a una professoressa sul comodino, sul leggìo in salotto tengo un altro suo libro: L’obbedienza non è più una virtù ». D’Alema è cresciuto all’ombra di Berlinguer, gli ha anche dedicato un saggio, A Mosca l’ultima volta , in cui il segretario prima di morire confida al futuro successore i tre segreti del socialismo reale: «“I dirigenti mentono. Sempre, anche quando non sarebbe necessario. L’agricoltura non funziona. Mai, in nessuno di questi Paesi. E le caramelle hanno sempre la carta attaccata”. E fece con le dita il gesto di stropicciarsele, come se dovesse liberarsi appunto di una carta appiccicosa». Ma prima ancora D’Alema aveva conosciuto e ammirato Togliatti: aveva dieci anni, era il capo dei pionieri del partito, e il Migliore lo autorizzò a occupare con i compagni una sezione del Pci per farne la loro sede, «se necessario forzando la porta con un piede di porco» (il piccolo Massimo pensò a una zampa di suino. Non ci sono conferme invece della leggenda secondo cui Togliatti, incantato di fronte a un suo precoce discorso, avrebbe detto: «Non è un bambino, è un nano»). In quegli anni, il piccolo Giuliano era negli scout.
Insomma: Pisapia nasce uomo di movimenti; D’Alema uomo di partito. Ma il vero scontro l’ebbero quando cadde Prodi e il primo postcomunista entrò a Palazzo Chigi. Rifondazione, nei cui scranni sedeva Pisapia, si divise; e lui prima negò la fiducia al governo D’Alema «fondato sul trasformismo», poi avversò il suo gesto politicamente più impegnativo, l’intervento contro la Serbia di Miloševic.
Ora l’uomo che li separa è Renzi. Pisapia non gli è pregiudizialmente ostile. Ha votato Sì al referendum . Ha proposto un accordo con il Pd in Sicilia. Sostiene la necessità di allearsi alle prossime elezioni, che per il centrosinistra saranno difficilissime. D’Alema invece è il più antirenziano di tutti. Al referendum ha fatto campagna per il No ed esultato per la vittoria. «Finché sarò vivo, Renzi non potrà stare sereno» lo maledisse quest’estate, per poi correggersi solo all’ap parenza: «Non infierisco con gli uomini in difficoltà, non lo feci neppure con Craxi», che com’è noto fu operato, morì e riposa in Tunisia.
Qualche punto in comune ci sareb be. Ad esempio il rapporto con i grillini. Nessuno dei due li demonizza. Il loro progetto sarebbe riconquistarne alla sinistra almeno una parte. Pisapia fa notare che nella sua Milano i Cinque Stelle non hanno mai sfondato, anche perché la sua giunta aveva in parte saputo intercettarne la radicalità. D’Alema lega il successo di Grillo alla crescita delle disuguaglianze, «all’ingiustizia inaccettabile per cui se un artigiano non paga il mutuo gli portano via la casa, se un imprenditore fa un buco di un miliardo lo ripianano le banche».
Eppure la nuova forza senza nome alla sinistra del Pd rischia di essere ben poco attrattiva per i delusi del renzismo. Il rischio che appaia un’operazione di ceto politico, pref eribilmente adulto e maschile, esiste. Per questo Pisapia chiede a Mdp di sciogliersi in un progetto più ampio, e D’Alema gli risponde: «Non siamo ancora nati, e già vorrebbe sopprimerci». Tabacci, navigatore democristiano di lungo corso approdato alla sinistra dura e pura, è sconsolato: «Quei due sono come Vettel e Raikkonen, che si scontrano a inizio corsa e si mettono fuori gara da soli». E Gad Lerner, altro consigliere di Pisapia, ammette gesti apotropaici: «Quando D’Alema dice che Giuliano è il leader, noi subito ci tocchiamo».

Corriere 5.10.17
Gli attacchi all’esecutivo dividono l’opposizione
di Massimo Franco

Il primo sì è arrivato, previsto e scontato. I prossimi voti al Senato sulla manovra finanziaria potrebbero provocare qualche incertezza in più, ma è difficile pensare a una caduta del governo: nonostante gli avvertimenti delle componenti estremiste della sinistra. La responsabilità di «non dilapidare i risultati raggiunti», richiamata ieri dal premier Paolo Gentiloni, va al di là dello scontro aspro tra Pd e Mdp; e oltre le tensioni tra quest’ultimo e il suo aspirante leader, Giuliano Pisapia. Per paradosso, l’atteggiamento dialogante di Palazzo Chigi sta dividendo le opposizioni.
Il coordinatore di Mdp, Roberto Speranza, ieri ha anche implicitamente ammesso il suo scarso potere di interdizione, per gli «aiutini» parlamentari che arrivano a Gentiloni quando rischia: dettaglio sottolineato con soddisfazione dal segretario dem, Matteo Renzi. Ma l’aspetto più imbarazzante è la spaccatura di fatto tra Pisapia e l’Mdp di Pier Luigi Bersani e di Massimo D’Alema. L’ex sindaco di Milano non riesce a far decollare il suo ruolo di federatore non solo per il carattere ritenuto poco pugnace: non marcia il progetto.
Il disappunto verso D’Alema nasce dalla sensazione che sia l’ostacolo più coriaceo da superare; che controlli la maggioranza di Mdp, e imponga il conflitto totale col Pd renziano. C’è da chiedersi, tuttavia, se il bersaglio non nasconda il tentativo di trovare un alibi di fronte a un ricompattamento nato con ambizioni già ridimensionate. L’impressione, ormai, è che l’operazione Pisapia sia destinata a dirigersi su un binario morto; e che alla fine gli alleati guardino altrove per avere un leader.
Ogni parola dell’ex sindaco di Milano a favore del governo viene percepita come un cedimento al Pd, raffigurato invece da Mdp come espressione di una «maggioranza fantasma con Denis Verdini». Il senatore Miguel Gotor arriva a dire che sarebbe il prodotto di un «mediocre patto di potere toscano» con i vertici dem, «che non ha riguardato la politica, ma si è consumato all’ombra della vicenda Consip». L’insinuazione evoca il sospetto di un’alleanza tra Pd e Forza Italia dopo il voto nel 2018. Il paradosso è che Mdp si è scisso dal Pd per difendere Gentiloni da Renzi.
Se a questo si aggiungono i timori di un patto sulla riforma elettorale con Lega e FI, lo scontro è totale. Sono girate anche voci di un ricorso alla fiducia per approvare la legge. «Non ne so nulla, e se non lo so io...», ha risposto la ministra per i Rapporti con il Parlamento, Anna Finocchiaro. E il Pd comincia a avere fretta di andare a votare quanto prima. Con un approccio del genere, non esiste dialogo. La contraddizione, però, finisce per scaricarsi in primo luogo su Mdp. Ma non solo: trasmette un’immagine delle sinistre percorse tuttora da istinti suicidi.

il manifesto 5.10.17
«D’Alema è divisivo», gaffe di Pisapia. Mdp si spazientisce
Sinistra&alleanze. Sinistra ai ferri corti, anche Vendola contro l’ex sindaco su twitter Poi l’abbraccio con Bersani e Errani, ma Insieme è sul binario mortoTabacci: Giuliano è amareggiato, Mdp sta diventando una piccola sinistra di testimonianza con Fratoianni e il Brancaccio, non ci interessa
di Daniela Preziosi

Marciare divisi per colpirsi l’un l’altro. Ieri buona parte delle sinistre impegnate – a parole – a unirsi per le politiche, si sono prodotte per l’intera giornata nella parodia del precetto di Mao Tse Tung. Segno che al di là della retorica delle dichiarazioni unitarie, nella pentola della sinistra bollono due liste, se non tre. Per la gioia di Matteo Renzi, che ai suoi infatti confida gran divertimento.
A dare il via alla giostra del veleno stavolta è Giuliano Pisapia. Per il quale ieri mattina non era stato un buon risveglio: sui giornali era per lo più descritto sotto scacco di Mdp per via della decisione di rompere con il governo, con tanti saluti ai toni concilianti che lui stesso aveva usato a Palazzo Chigi con Gentiloni. Regista della rottura, secondo i retroscena, come sempre Massimo D’Alema. Così di buon mattino l’ex sindaco interviene a Radio Capital e si leva un sassolino dalla scarpa. «D’Alema sa che io sono a disposizione di un progetto unitario e invece lui continua a fare dichiarazione che dividono», dice. Poi rivela: « Lui era favorevole che oggi (ieri, ndr) non si votasse lo scostamento di bilancio che avrebbe portato all’aumento dell’Iva». E infine conclude: «Io sono dell’idea che chi non ha obiettivi personali potrebbe fare un passo di fianco, bisogna esser in grado di unire. Vale per lui come per me». Insomma: D’Alema è divisivo ed è meglio che non si candidi.
Il presidente di Italianieuropei ha intenzione di candidarsi e non replica. Ma in Mdp l’ultima uscita di Pisapia è la goccia che fa traboccare il vaso. Rottamate le frasi di circostanza, partono i fendenti: «Di questa storia di D’Alema leader occulto non se ne può più», attacca l’eurodeputato Massimo Paolucci, roba da «propaganda renziana, «menzogne», «rancori personali», «sconcerta che Pisapia utilizzi le stesse insopportabili argomentazioni». Si accodano in tanti, dal bersaniano Flavio Zanonato fino a Davide Zoggia, ex pontiere fra Mdp e Campo progressista. «D’Alema è una personalità di questo paese, può piacere o no, ha un seguito e vuole dare un contributo», dice. Poi fa scivolare sul tavolo un’altra questione: «Io sto facendo delle cose in Sicilia con D’Alema e con Bersani e le piazze sono sempre piene: loro sono due leader, due capi. Non dobbiamo rinunciare a nessuno, non siamo un milione».
Il riferimento è alla ritirata di Pisapia dal fronte siciliano. L’ex sindaco non sostiene Fava ma neanche Micari. E per la sinistra la campagna elettorale non è facile. Il risultato sarà letto in chiave nazionale: sono in molti a pensare che Pisapia deciderà definitivamente cosa fare solo dopo quel voto.
A stretto giro contro l’ex sindaco si abbatte anche un colpo di Nichi Vendola. Non è la prima volta che l’ex presidente della Puglia lo attacca per via del suo «niet» all’alleanza con i suoi eredi di Sinistra italiana. Vendola twitta con sarcasmo: «Ha ragione Pisapia, D’Alema è divisivo, divide la sinistra dalla destra. Per Pisapia è sufficiente dividere la sinistra». E dire che anche Vendola quanto a divisioni della sinistra ha un discreto curriculum da vantare: nel 2009 ha guidato la fuoriuscita di Sel dalla casa madre Rifondazione comunista.
Pisapia replica piccato, e anche il suo è un colpo gobbo: «Si può cambiare idea, ma non dimenticare: hai governato la Puglia in variegata compagnia. A Milano non c’era destra in giunta». Allude alla presenza di esponenti di area Udc, quando quella forza faceva parte del centrodestra.
Ma alla fine in serata l’ex sindaco è costretto, anche dai suoi, a correggere il tiro almeno su D’Alema. Nessun veto, rettifica, «non ne ho mai messo né ho intenzione di metterne ora o in futuro», la sua era solo una generale richiesta di «meno protagonismi personali».
«D’Alema e Pisapia sono molto più complementari di quanto possa apparire, possono stare naturalmente insieme», butta acqua sul fuoco Roberto Speranza. E domani sera è attesa la pace di Ravenna: Pisapia e Bersani festeggeranno il ritorno in politica di Vasco Errani, ex commissario alla ricostruzione. All’ex segretario Pd toccherà elargire un altro dei suoi famosi abbracci pacificatori.
Ma era stato proprio Speranza, domenica scorsa dal palco di Napoli, ad avvertire Pisapia: «Il tempo è scaduto». In Mdp c’è chi spiega che al di là delle punzecchiature il matrimonio con Cp è inevitabile. Ma non è quello che pensa Bruno Tabacci, il consigliori di Pisapia che ieri ha votato sì al Def: «Giuliano è amareggiato», racconta a un collega, «Mdp sta diventando una piccola sinistra. E questo non ci interessa»

Il Fatto 5.10.17
La lista unica non c’è più: Pisapia incolpa D’Alema
Il partito insieme agli ex Pd è un ricordo: “È divisivo, faccia un passo di lato”
di Tommaso Rodano

All’improvviso Giuliano Pisapia pronuncia una parola chiara: “Massimo D’Alema dovrebbe fare un passo di lato”. Dopo macchinose riflessioni, retroscena, smentite e contro-smentite, l’ex sindaco di Milano esprime una posizione comprensibile e definitiva, se non altro: lui D’Alema non lo vuole. Il pretesto sono le dichiarazioni del “leader Massimo” la sera prima, al programma della Berlinguer: “Con il governo abbiamo mani libere, tanto lo sostiene già Berlusconi”.
Nel percorso ormai quasi comico che avrebbe dovuto portare a una lista unica della sinistra, significa un’altra svolta negativa. Appena due giorni prima, Pisapia guidava la delegazione di Mdp-Articolo Uno (il movimento fondato anche da D’Alema) all’incontro con Gentiloni per presentare le richieste comuni sul Def. Un fatto importante, dicevano gli ex Pd. Ieri mattina, invece, riecco l’incidente: l’ex sindaco risponde alle domande di Jean Paul Bellotto e Massimo Giannini su Radio Capital. Nega strappi o rotture con Mdp, ma di fatto sancisce quella definitiva con una delle sue figure carismatiche: “D’Alema è divisivo, come Renzi”, in Mdp “ci sono posizioni profondamente diverse”, insomma “D’Alema faccia un passo di fianco”.
La sortita di Pisapia produce una nuova crisi di nervi tra gli ex Pd, nelle ore in cui erano impegnati nello strappo definitivo con la maggioranza di Gentiloni. Le agenzie di stampa battono il fuoco di fila dei dalemiani di Mdp. Il primo è il deputato Danilo Leva: “Basta con questi continui attacchi personali a D’Alema. Questa è una fase per noi delicata e Pisapia ha la responsabilità maggiore di favorire un clima unitario e costruttivo”. Per l’ex ministro Flavio Zanonato, oggi eurodeputato di Mdp, l’attacco di Pisapia è “sconcertante” ed “è arrivata, anche per lui, l’ora di scegliere con chi stare e cosa fare”. Secondo l’altro parlamentare europeo Massimo Paolucci, “di questa storia non se ne può più”.
A Roberto Speranza, come di consueto, spetta il compito di spegnere l’incendio. È duro, a modo suo: “Non possono prevalere i personalismi, non ci possono essere veti”, afferma in un’intervista al Corriere.it. Poi concilia: “D’Alema e Pisapia sono molto più complementari di quello che possa apparire, possono stare naturalmente insieme”.
Alla telenovela tra Pisapia e i bersaniani assistono, da fuori, i presunti contraenti del patto per la sinistra unita. Pippo Civati la butta a ridere e pubblica un video in cui annuncia ironicamente l’accordo sulla lista unica: “Il video celebrativo l’abbiamo fatto. Ora manca solo l’unità della sinistra”.
Nicola Fratoianni, leader di Sinistra italiana, si dice stanco della commedia delle parti e si limita a una battuta: “È curioso che sia Pisapia a dire che gli altri sono divisivi”. Poco dopo arriva un tweet di Nichi Vendola, sulla stessa falsariga: “Ha ragione Pisapia: D’Alema è divisivo, divide la sinistra dalla destra. Per Pisapia è sufficiente dividere la sinistra”. L’ex sindaco replica subito: “Si può cambiare idea, ma non dimenticare: hai governato la Puglia in variegata compagnia. A Milano non c’era destra in giunta” (si riferisce probabilmente ai montiani imbarcati da Vendola quando era governatore pugliese).
Tra motti di spirito e risentimenti personali, l’idea di un partito “Insieme”, come doveva chiamarsi quello di Pisapia con Speranza, Bersani e D’Alema, sembra seppellita del tutto. E senza eccessivi rimpianti. I pontieri di Mdp predicano pazienza, bisogna aspettare le elezioni siciliane – Pisapia s’illude che Renzi ne esca molto indebolito, e il Pd torni contendibile – e soprattutto la legge elettorale. Le cose poi verranno da sé: con il Rosatellum l’alleanza con il Pd renziano è impossibile, ha detto lo stesso Pisapia non più tardi di domenica scorsa. Ma pure con il Consultellum in vigore adesso, qualche forma di collaborazione elettorale a sinistra sarebbe obbligata dai fatti, e dal residuo spirito di sopravvivenza di chi rischia di scomparire dal Parlamento. Di certo, lo spettacolo offerto negli ultimi mesi non contribuisce alla futura prosperità elettorale.

Il Fatto 5.10.17
Il “Leader Massimo” come genere letterario
di Marco Palombi

Massimo D’Alema, si sa, ha una certa passione per le battute taglienti: quando non ci amava, per rimanere al Fatto, ci definì “giornale tecnicamente fascista”. È uomo, e anche questo si sa, che ha un’alta considerazione della sua persona (“capotavola è dove mi siedo io”) e del lavoro che fa: “Io non conosco questa cosa, questa politica che viene fatta dai cittadini e non dalla politica. La politica è un ramo specialistico delle professioni intellettuali”. Quanto al suo ruolo attuale, D’Alema è un ex pezzo grosso della sinistra italiana che oggi, grazie anche alla sua coltivata rete di relazioni, tenta insieme ad altri di ricostituire un soggetto elettorale che salvi se non le idee, ché al momento se ne vedono poche, almeno un pezzo di ceto politico della sinistra che fu.
Questo è il D’Alema reale, poi c’è il personaggio letterario che compare su giornali, siti d’informazione (e no), e nei migliori bar tanto fisici che virtuali (social network). Questo D’Alema letterario è il “leader Massimo”, un personaggio cattivo un po’ grottesco, senza alcuna profondità psicologica, che è sempre invariabilmente impegnato a tessere, tramare, congiurare, maneggiare, raggirare, trafficare, intrigare e altre attività tipiche del cattivo. I processi politici, gli interessi reali, persino le legittime ambizioni ormai sono sparite dal racconto del D’Alema letterario: è cattivo e basta, per gusto. Ieri, ad esempio, abbiamo letto sui principali giornali italiani ricostruzioni dell’uscita di Mdp dalla maggioranza di questo tipo: Bersani e Speranza stavano tranquilli, Pisapia aveva fatto l’accordo con Gentiloni, poi è arrivato alla Camera D’Alema e i bersaniani hanno deciso di far dimettere il loro viceministro e non votare il Def. Il Corsera, ad avvalorare la tesi, riporta le autorevoli parole del renziano Ettore Rosato: “Lì dentro c’è uno solo che decide: D’Alema e lui voleva rompere”. Così, perché è la sua natura: un buon cattivo serve a qualunque pessimo romanzo.

Il Fatto 5.10.17
Logica e politica: il caso dei “pisapiani”
Compagni - Analogie e differenze tra il “progressista” Stefàno e l’amico dc Tabacci

L’ultimo episodio della saga del “federatore” della sinistra è opera di un visionario: Pisapia smentisce i senatori pisapiani. Oppure: esistono pisapiani che persino Pisapia ignora.
È andata così. Martedì sera Mdp decide di non votare la relazione sul Def e lascia la maggioranza con le dimissioni del viceministro Filippo Bubbico. A quel punto irrompono sulla scena i pisapiani. Parla l’ex Sel Dario Stefàno: “Sono in disaccordo con le scelte di Mdp. Io sono orientato a votare a favore della nota e con me ci sono altri 7 o 8 senatori che la pensano allo stesso modo. Siamo un gruppo di senatori, non solo ‘pisapiani’, che non condivide certe scelte di Mdp”.
È una sorpresa: Pisapia smentirebbe la linea appena concordata con i bersaniani. Però è un falso. Si mettono a lavoro gli uomini vicini all’ex sindaco di Milano, che contattano le redazioni politiche con un messaggio urgente: i pisapiani del Senato non esistono. Il giovane portavoce Alessandro Capelli detta il comunicato alle agenzie: “Leggiamo ancora oggi che alcuni senatori dichiarano votazioni a nome di Campo Progressista. Peccato che sono mesi che non partecipano alle nostre riunioni. Pertanto, ancora una volta, siamo costretti a ricordare che si tratta di posizioni personali che non rappresentano Campo Progressista né tanto meno Giuliano Pisapia”.
Chi sono i pisapiani immaginari? Oltre a Stefàno ci sono sicuramente il sardo Luciano Uras e i quattro ex grillini Orellana, Molinari, Bencini e Romani. Più che pisapiani, si sono avvicinati molto a Matteo Renzi (tramite il collega toscano Andrea Marcucci).
Si erano accreditati come senatori di Campo Progressista anche in occasione del voto sulla manovra con cui sono stati reintrodotti i voucher. Anche in quel caso furono smentiti da Capelli: “Non fanno parte di Campo Progressista”. Uras se l’è legata al dito. Martedì sera non ci ha visto più: “Il signor Capelli è un maleducato, io parlo a nome di Campo Progressista Sardegna. Non so a che titolo parli lui. Io ho contribuito alla vittoria di Zedda a Cagliari, non devo chiedere il permesso a Capelli”. Bisogna pur dire che Pisapia fa figli e figliastri. Per l’ex sindaco c’è un altro problema: con la logica.
I sedicenti senatori di Campo Progressista infatti sono stati sbugiardati dal loro portavoce. I deputati di Campo Progressista invece no. L’ex Dc Bruno Tabacci è il fondatore di Centro democratico, che ha aderito da tempo al partito di Pisapia. Lui sì, ha partecipato a tutte le riunioni ristrette con i fedelissimi dell’ex sindaco. Martedì Tabacci ha dichiarato: “Mdp sbaglia, voterò sicuramente a favore del Def”. Proprio come Stefàno. Ma nessuno l’ha smentito: è un pisapiano in carne e ossa.

La Stampa 5.10.17
La seconda giovinezza di Massimo il radicale
Rinnegata la terza via e Blair, adesso per D’Alema i riferimenti diventano Podemos e Mélenchon. Ecco chi sono i fedelissimi
di Andrea Carugati

La seconda vita politica di Massimo D’Alema inizia il 5 settembre 2016, in un cinema di Roma, a Campo de’ Fiori, quando in solitaria si schiera per il No al referendum di Renzi. Di lì a poco lo seguiranno Bersani e gli altri della minoranza Pd, con cui pochi mesi dopo uscirà dal partito. La sera del referendum, il 4 dicembre, in un loft dietro il Circo Massimo festeggia la vittoria del No, con Nico Stumpo, Davide Zoggia e altri ragazzi di Bersani che, in quell’estate di campagna referendaria, avevano ripreso a frequentare la sede della Fondazione Italianieuropei a piazza Farnese, ritrovando in D’Alema un punto di riferimento per chi, dentro il Pd, di Renzi non ne poteva più. Da allora per il leader Massimo è un crescendo fatto di impegni internazionali (in Europa, in Canada, negli Usa, ma di recente molto spesso in Cina) e un viaggio per tutta l’Italia per rianimare quel che resta delle truppe diessine di un tempo: amministratori, quadri, consiglieri regionali. 
Un viaggio mosso dall’odio per Renzi, racconta la vulgata dominante dentro il Pd. «Un percorso anche autocritico sulla sinistra dagli Anni Novanta in poi, sul fallimento della sbornia blairiana», spiega invece Peppino Caldarola, che lo conosce da 50 anni e che da poco guida la rivista Italianieuropei con una netta svolta a sinistra. «Sì, sono arrivato tardi», ha confessato D’Alema sul palco della festa di Mdp a Napoli pochi giorni fa, rispondendo a una provocazione dello scrittore Maurizio De Giovanni. «Sono arrivato tardi a sviluppare una critica radicale della Terza via». Fatto sta che oggi D’Alema, dopo essere stato disarcionato a giugno dalla guida della Fondazione dei socialisti europei (Feps) con il contributo determinante di Renzi, è un leader di sinistra più radicale, che dialoga con la Linke tedesca, gli spagnoli di Podemos, Syriza in Grecia, Mélenchon in Francia e con le componenti più a sinistra della Spd e del Labour. Un leader che punta a far rinascere una sinistra in Italia, e poi forse a ricostruire un centro-sinistra col trattino con forze più moderate, come il Pd, possibilmente de-renzizzato. 
Nella sua nuova vita, accanto alla passione per il vino nella sua tenuta in Umbria, D’Alema ha trovato più nuovi amici rispetto a quelli di quando era dominus della politica italiana. Spariti i vari Rondolino e Velardi, Marco Minniti ha spiccato il volo nel governo Gentiloni, il leader coi baffi si affida a due uomini chiave: nel partito i giochi li tiene Massimo Paolucci, eurodeputato campano («Mi sono avvicinato a Massimo nel 2012, nel momento in cui era meno forte») e alla Fondazione Mario Hubler, ingegnere con una passione per la vela e un ruolo di primo piano nell’organizzazione della Coppa America a Napoli nel 2013. Subito dopo il referendum, con oltre 600 comitati nati come funghi in tutta Italia, D’Alema a fine gennaio lancia «Consenso», un proto-movimento che avrebbe dovuto guidare la scissione se Renzi avesse forzato per le urne a inizio 2017. Poi, dopo la nascita di Mdp a marzo, fa confluire la truppa in Mdp. Con un mantra rivolto ai suoi fedelissimi: «Date una mano a Roberto». Roberto è Speranza, coordinatore del partito, pupillo di Bersani ma anche figlioccio del deputato lucano e dalemiano Antonio Luongo, scomparso tragicamente nel 2015. È dalla notte del 4 dicembre, quando tra le bottiglie di spumante D’Alema lo indicò come leader del futuro, che D’Alema punta su Speranza. Assai più che sull’«ineffabile avvocato Pisapia», con cui l’idillio non è mai scoccato. Anzi. Della rete di Consenso facevano parte anche il deputato molisano Danilo Leva, il siciliano Angelo Capodicasa, l’eurodeputato lombardo Antonio Panzeri, il consigliere regionale pugliese Ernesto Abbaterusso, il calabrese Alex Tripodi. Tutti confluiti in Mpd, come il governatore toscano Enrico Rossi, un tempo critico con D’Alema, e oggi suo grande amico.
Al netto del rapporto con Bersani, che si è ricucito più sulla politica che sugli affetti dopo il grande gelo del 2012-2013, per D’Alema Mdp è una seconda vita anche in termini di rapporti. Dopo gli attacchi di Pisapia, tutto il partito si è stretto intorno a lui con un moto d’affetto, quasi un richiamo della foresta verso un padre nobile che in questo anno «non si è mai risparmiato». E che in primavera, salvo sorprese, tornerà in prima linea come senatore. Altro che passo indietro come chiede Pisapia. Il vero tallone d’Achille, in questa rinascita, è proprio Italianieuropei. I fasti e le generose donazioni di un tempo sono ormai un ricordo. «Renzi ci ha fatto il vuoto intorno, chi si avvicina viene marchiato», spiega un dalemiano. 

La Stampa 5.10.17
“Effetto Bonino”, la novità che può sparigliare l’offerta elettorale a sinistra
L’ipotesi di una “Lista civica nazionale” con Pisapia, Calenda, la leader radicale e alcuni sindaci. Prodi e Letta come sponsor
di Fabio Martini
qui
http://www.lastampa.it/2017/10/05/italia/politica/effetto-bonino-la-novit-che-pu-sparigliare-lofferta-elettorale-a-sinistra-AbBJxa5MbEgtgPANwdldSI/pagina.html

La Stampa 5.10.17
La partita doppia allontana il nuovo Ulivo
di Marcello Sorgi

Partita doppia, con due fronti aperti, per Massimo D’Alema, tornato in campo nel giorno in cui Mdp ha annunciato la sua uscita dalla maggioranza e ha messo in forse l’appoggio alla legge di stabilità che il Parlamento deve votare di qui a fine anno. La manovra passerà, come sono passate ieri la nota di aggiustamento del Def (con una sorta di appoggio tecnico dei fuorusciti dal Pd) e la relazione del ministro dell’Economia Padoan (con i voti dei senatori verdiniani che hanno sostituito quelli stavolta mancanti di Mdp): da oggi in poi l’opposizione dei dalemiani-bersaniani potrebbe indurirsi , inaugurando anzitempo la campagna elettorale.
Il primo fronte di D’Alema è contro Renzi. La linea del leader Maximo è chiarissima: lotta dura, senza esclusione di colpi e a qualsiasi prezzo, per imporre al segretario del Pd la più dura delle sconfitte, una botta finale. In questo senso, se anche dovesse essere approvata la nuova legge elettorale Rosatellum 2, che con un terzo di parlamentari eletti nei collegi uninominali spingerebbe il centrosinistra a coalizzarsi, Mdp dovrebbe presentare suoi candidati in ogni collegio, puntando a far perdere, o almeno a rendere più ardua l’elezione di quelli renziani.
Il secondo fronte di D’Alema è contro Pisapia. Che l’ex-premier e ministro degli Esteri non vedesse di buon occhio la confluenza del neonato partitino degli scissionisti nel nuovo Ulivo che l’ex-sindaco di Milano sta cercando di costruire, era abbastanza chiaro. Dichiarando che non si sarebbe candidato alle elezioni, Pisapia intendeva rivolgersi alla vecchia guardia ex-Pd, e in particolare a D’Alema, per spingerlo a fare lo stesso. Inoltre Pisapia ha sempre insistito sulla necessità di ricostruire un’intesa, sulla base di un rinnovato accordo programmatico, anche con Renzi: prospettiva inaccettabile per D’Alema, che mira esattamente all’opposto. Sottotraccia fino a martedì, questa insanabile divergenza è esplosa a margine dello scontro in Senato, tal che Pisapia oggi dice: o io o D’Alema. E spinge perché il leader Maximo (che non ha alcuna intenzione, e sembra molto appassionato al ruolo di vero capo degli anti-renziani) faccia dichiaratamente un passo di lato. Il destino del nuovo Ulivo torna così in alto mare, e la semi-opposizione annunciata martedì da Speranza e messa in pratica ieri con un voto, sebbene «tecnico», a favore del governo, e uno contro, non sembra affatto destinata a rientrare, anche se Gentiloni e Padoan ieri hanno fatto ogni sforzo per recuperare i riottosi alleati di sinistra.

Repubblica 5.10.17
Pisapia, colpo a D’Alema “Faccia un passo di lato” E in Senato cinque sinistre
Alta tensione tra i leader del progetto che sfida il Pd. Il governo supera la prova Def, senza Mdp e con alleati super divisi. Verdini: noi ci siamo
Il no di Mdp ha ridotto a 164 i sì alla Nota che ripartisce le risorse della manovra. In entrambi i voti c’è stato il “rinforzo” di Ala, il partito dell’ex forzista Verdini
Il cosiddetto “scostamento”, cioè il rinvio del pareggio di bilancio al 2020, è passato con 181 sì, venti in più della maggioranza assoluta (161) richiesta
di Tommaso Ciriaco

ROMA. In un angolo remoto di Palazzo Madama, il senatore Dario Stefàno è l’immagine impietosa della sinistra più a sinistra del Pd: a pezzi. «Io sto con Campo progressista, mentre Mdp è sulle posizioni di Sinistra italiana perché non gliene frega un c... del progetto di Pisapia». Senato della Repubblica, mattina di divorzi e veleni. Muore una maggioranza, senza neanche il pathos delle grandi occasioni. I bersanian- dalemiani votano lo scostamento dei conti pubblici (servono 161 sì, ne arrivano addirittura 181 sì) e si sganciano sulla nota di aggiornamento al Def, anche se il testo passa comunque con 164 sì. L’unico a godere è Denis Verdini. «Se la sinistra si comporta da irresponsabile – ruggisce mentre si accarezza la criniera argentata - ci siamo noi». Tecnicamente non è stato decisivo, ma domani chissà.
Sulla carta, è il giorno in cui la sinistra rompe col governo. In pratica, Giuliano Pisapia strappa soprattutto da D’Alema, che la sera prima aveva strappato da lui: «Deve fare un passo di lato – scandisce l’ex sindaco a “Circo Massimo” su Radio Capital rispondendo a Massimo Giannini -. È divisivo, come Renzi». È l’ultimo schiaffo di una lite che sega alla radice il progetto unitario.
Non vanno d’accordo su nulla o quasi. Se Mdp esulta per lo scontro con Gentiloni, l’avvocato milanese sceglie l’angolatura opposta: «Era fondamentale che Mdp non votasse contro lo scostamento di bilancio. Ora inizia un percorso». Già segnato, sembra, perché Campo progressista non esclude di sostenere la manovra puntando sulla disponibilità del governo a rivedere i superticket della sanità, ma gli scissionisti ex Pd hanno già deciso: «Facciamo quello che ci chiedono i nostri elettori – giura Roberto Speranza mostrando il cellulare – guardate quanti messaggi che ci incoraggiano ad andare avanti!».
Per andare dove, si vedrà. Al Senato, intanto, una linea invisibile spacca lo spicchio sinistro in quattro o cinque campi da gioco. E non mancano le gomitate. Ultimamente i sedici senatori di Mdp vanno d’accordo con quelli di Sinistra italiana, in guerra permanente con Pisapia. «D’Alema è divisivo, divide la sinistra dalla destra - è il tweet al cianuro di Nichi Vendola - Per Giuliano è sufficiente dividere la sinistra... ». Seguire il filo è un’impresa, come il gioco del “chi sta con chi”. I due presunti pisapiani Stefàno e Uras, ad esempio, raccontano un film diverso da quello dei bersaniani: «Siamo in cinque, bisogna contare anche i tre senatori dell’Italia dei valori. Vogliamo un centrosinistra plurale. E pensiamo che senza il Pd non si possa costruire». «Macché - replica dall’Idv Maurizio Romani - stavamo con Campo progressista, ma adesso abbiamo scelto un’altra strada». Chi ci capisce è bravo. «Ma no, è facilissimo - fa la sintesi un antico dalemiano rimasto dem come Ugo Sposetti - la linea è soltanto una, quella di D’Alema. Solo che stavolta Massimo porterà tutti a sbattere».
Se il separatismo di sinistra scava trincee tra i progressisti, immaginare un patto ulivista che tenga tutti dentro sembra addirittura da visionari. Per i bersaniani conta soprattutto allontanarsi il più possibile da Renzi, spingendogli contro Verdini: «Ala ha sostenuto il governo - ricorda Miguel Gotor, nel cuore del Transatlantico - è la solita maggioranza fantasma che si muove al Senato da anni». Come d’incanto, si manifesta il berlusconiano ex verdiniano Domenico Auricchio. E punta proprio Gotor: «Tu non voti? Voto io al posto tuo, qua nessuno vuole andare a casa». In fondo, è la “teoria Gasparri”: «Il governo non cadrà mai - spiega l’ex An - Qua c’è gente che non vuole perdere un giorno di legislatura, perché sa che a Palazzo Madama ci tornerà solo in gita col Comune...».
Il separatismo scava trincee. Stefàno e Gotor agli antipodi. Sposetti: Massimo porta al disastro

Repubblica 5.10.17
Senza compagni e senza storia
L’odio domestico e i veti intestini paralizzano la politica scambiano gli avversari
di Ezio Mauro

CI VORREBBE uno Spirito Santo progressista — professione sconosciuta — capace di toccare le orecchie e gli occhi della sinistra italiana, liberando finalmente lo sguardo e l’ascolto, su se stessa e sugli altri. L’inconcludenza politica annunciata e la tragedia tribale in corso infatti sono solo il risultato finale di un fenomeno più ampio e più profondo, che nasce dall’incapacità di leggere il mondo nuovo in cui una moderna sinistra deve agire, senza una chiara nozione politico-culturale di sé e del concetto di amici, compagni e avversari. Per un partito (in questo caso due, o addirittura tre) questo significa semplicemente una condanna mortale: stare fuori dalla storia, in cui invece vive solitaria la sua gente.
Non c’è nozione del ruolo di spina dorsale di un sistema malato che nonostante tutto la sinistra italiana ha esercitato per tutto il lungo periodo della crisi economico- finanziaria dell’Occidente: come se lo avesse fatto per caso e per sbaglio, e dunque questa esperienza dovesse essere nascosta al Paese, dimenticata, dispersa. Nessuno rivendica, molto semplicemente, il senso di responsabilità generale con cui una sinistra malandata e travagliata è tuttavia riuscita, tra errori, forzature e mancanze, a tenere insieme il Paese in questi anni.
PERCHÉ non c’è coscienza che la responsabilità politica e istituzionale sia la forma moderna di un riformismo governante.
Manca in più la consapevolezza della frattura tra il mondo compatto del Novecento e l’universo frammentato della globalizzazione, che cancella le classi ma trasforma le disuguaglianze in esclusioni, rompendo l’alleanza storica tra capitalismo, welfare e democrazia rappresentativa, dunque mettendo in gioco il nocciolo stesso dell’identità politica dell’Occidente.
Non c’è, infine, lo sforzo di ragionare sulle conseguenze di tutto questo, e in particolare sul terremoto in corso nella rappresentanza: dove il ceto medio si sta spostando tra gli sconfitti della mondializzazione, in un nuovo magma ancora senza nome dove il precariato diventa la moderna interpretazione del proletariato. Ma gli occhi chiusi della sinistra e le sue orecchie tappate, l’incerta e indefinita nozione di sé fanno sì che queste nuove figure sociali non vengano intercettate e si disperdano ai margini della cittadinanza, in una nuova solitudine repubblicana, in uno spaesamento democratico dove crescono i risentimenti individuali, incapaci di trovare una traduzione collettiva, di costruire un sentimento comune, di farsi politica, di diventare una Causa.
Il risultato è il prosperare della destra, vecchia e nuova che lavora sugli individui più che sui cittadini, sugli stati d’animo piuttosto che sulla loro traduzione politica. Nelle forme salviniane scoperte, nella copertura mimetica grillina, nel finto moderatismo berlusconiano, cavalca le solitudini e le marginalità, ma più ancora la rabbia degli individui, non offre politica e governo, ma propone riconoscimento, legittima il risentimento, e lo indirizza verso i nuovi fantasmi sociali che è capace di creare, o almeno di ingigantire.
Ce n’è abbastanza per concludere che per la sinistra tutto questo è un allarme finale e insieme un’occasione straordinaria. C’è un avversario forte e definito — le due destre — da contrastare, c’è un popolo disperso e dimenticato da riconquistare, c’è uno spazio sociale da riorganizzare, c’è una scommessa culturale da giocare per ridefinire la propria presenza nel secolo. Sapendo che nello zaino di una moderna sinistra europea ci sono gli strumenti più utili per contrastare la crisi della democrazia, e cioè la libertà del merito, l’emancipazione dalle nuove povertà materiali e sociali. Insieme formano l’orizzonte naturale di qualsiasi sinistra di governo occidentale, consapevole della sua funzione e della sua storia. Basterebbe crederci, invece di rispondere all’emergenza globale con l’odio domestico e i veti intestini che paralizzano la politica, annullano la prospettiva, scambiano gli avversari, confondono il campo di gioco, immiseriscono la storia. La partita è aperta, mancano i giocatori. Immagino che lo Spirito Santo nella sua lunga esperienza ne abbia viste di tutti i colori, ma credo che in Italia davanti a questa sinistra senza compagni alzerebbe le mani, nascondendo l’aureola.

Repubblica 5.10.17
Emanuele Macaluso
“Dna anarchico e personalismi spaccarsi è una malattia antica”
“Le scissioni non portano a niente, tranne quella del Pci”
di Alessandra Longo

ROMA. A 93 anni, Emanuele Macaluso le ha viste tutte e certo non si sorprende del clima da parenti serpenti che si respira in queste ore. Lui si è fatto un’idea sulle scissioni: «Non portano a niente, tranne quella del Pci, non a caso legata a vicende internazionali». E sulle persone: «In parte della sinistra prevale il personalismo piuttosto che l’obiettivo che dovrebbe essere sempre quello di sconfiggere l’avversario, cioè la destra rinascente in tutta Europa e i Cinque Stelle. Una storia, quella delle divisioni e dei veleni in famiglia, che viene da lontano e non finisce certo qui».
Macaluso, chissà quante volte si è chiesto perché dentro la sinistra c’è questa “gramigna infestante”, come l’ha definita Peppino Caldarola. Liti, tensioni, coltelli, rotture.
«Il socialismo italiano è nato nell’anarchismo. Le sembrerà una risposta troppo lontana nel tempo ma io credo che la storia tormentata del socialismo sia stata segnata proprio da questo e ancora oggi il Dna anarchico giochi un ruolo».
Suggestiva come lettura, forse anche un po’ troppo nobile.
«Eppure un po’ di storia va ricostruita. Penso alla prima separazione del partito socialista dopo la fondazione quando cacciarono il riformista Bonomi, alla scissione comunista, alla scissione tra i massimalisti e i socialisti di Matteotti. Con il filo conduttore di una difficoltà di fondo: l’impossibilità di concepire il partito come una casa in cui convivono molte anime nella cornice di un obiettivo comune ».
Facendo un salto brutale si arriva a Occhetto e D’Alema.
«Prima di Occhetto il Psi subì la scissione del Psiup...».
Domanda banale. Perché a sinistra si litiga tanto?
«Si litiga e ci si separa quando l’ambizione personale, che pure è legittima in politica, prevale sulla necessità della collegialità, quando trionfa il personalismo ».
Natta diceva cose pesanti su Occhetto.
«Sì, nonostante l’avesse voluto lui alla segreteria. Poi divenne molto critico, gli diede del propagandista».
Bertinotti litigò con Cossutta.
«Guardi com’è ridotta oggi Rifondazione.
Non rimane niente. Così come nel ‘72 sparì il Psiup...».
Bertinotti e Cossutta, e poi Veltroni e D’Alema...
«Certo hanno litigato aspramente, avevano due visioni diverse ma non sono arrivati alla scissione. Quello che succede oggi è un’altra storia. C’è una separazione e se ne sono andati due che hanno fatto la storia del Pd, D’Alema e Bersani. Io penso che questa scissione non abbia futuro perché è segnata da una guerra personale con Renzi, a sua volta detentore di una visione personalistica della politica».
Speranza ha annunciato l’uscita dalla maggioranza.
«Si sentono spiazzati. Hanno costruito tutto sull’ipotesi che Renzi sia il candidato premier. È lui l’uomo della loro guerra. Se invece Renzi rimane solo segretario e Gentiloni conclude con successo la legislatura, cade il loro impianto ».
Una battaglia frontale.
«Da una parte sono accecati dall’antirenzismo e dall’altra vivono i dalemiani come traditori da punire».
Arriverà il giorno in cui la sinistra smetterà di litigare e si concentrerà solo sulle cose da fare?
«Io, quel giorno, non lo vedrò certamente. Ho 93 anni. Ma il bisogno della sinistra non si estingue, checché ne dicano gli scienziati della politica».

Repubblica 5.10.17
D’Alema.
L’ex premier respinge il ruolo di “anima nera”. E incalza il capo di Cp: “Decidi cosa fare”
“Noi non siamo gli ascari del Pd Giuliano si illude di piegare Renzi”
di Stefano Cappellini

ROMA. «Non capisco la posizione di Pisapia, mi pare si corra il rischio di finire a fare gli ascari del Pd». Apprese le parole dell’ex sindaco di Milano contro di lui, Massimo D’Alema si è sfogato al telefono con i compagni di Mdp. Ha ricevuto solidarietà interna e pubblica, «e altra ancora – assicura – ne arriverà». Con tutti gli interlocutori si è schermito sul suo presunto ruolo di “anima nera” dietro lo strappo di Mdp dalla maggioranza: «La posizione che ha preso il partito sul Def non è la mia linea, è la linea giusta per una forza di sinistra che deve pensare a difendere gli interessi di un pezzo di Paese altrimenti non più rappresentato». Ma soprattutto D’Alema ha mostrato insofferenza all’idea che la discussione su formule e programmi della sinistra possa risolversi in una diatriba sul suo conto: «Provo fastidio per questa tendenza di ridurre tutto a discorsi da salotti romani, a beghe tra leader. In Italia ci sono dieci milioni di persone che hanno rinunciato a curarsi, ma sembra non interessare a nessuno. Poi però ci si stupisce se la gente, anziché la sinistra, vota 5 stelle».
Con Pisapia la diffidenza reciproca cova da mesi, fin qui era rimasta sotto traccia. Una faglia quasi antropologica li divide: partitista uno, movimentista l’altro; centrista togliattiano il primo, forgiato nella temperie della nuova sinistra il secondo; primato della politica contro opzione civica; e di altre antinomie politiche e caratteriali si potrebbe riempire un foglio. La distanza non si poteva accorciare nemmeno con l’incrocio che li ha portati a invertire la collocazione sull’asse della sinistra, con l’ex diessino D’Alema che ha ormai scavalcato il Pisapia già indipendente di Rifondazione comunista. Ora che le apparenze sono saltate, D’Alema non vuole dare per finito il percorso unitario con Campo progressista ma è chiaro che, come ha spiegato ai suoi, la frattura di queste ore non sarà facile da ricomporre: «Cosa vuol fare fare Pisapia? Cosa aspetta? Se spera che da qui alle elezioni si produca una novità che tolga di mezzo Renzi e permetta di fare un accordo elettorale con il Pd, questa è una illusione. Renzi è il segretario del partito, rieletto con 1 milione e 800 mila voti, pienamente in sella con la sua agenda, non si farà da parte».
L’ex premier non dà credito a quanti suggeriscono che i legami tra Pisapia e un pezzo del Pd possano cambiare i rapporti di forza nella principale forza della sinistra: «Pisapia – spiega – ha rapporti con una frangia minoritaria del Pd. Quanto al resto del partito, non mi sembra di vedere un gruppo dirigente con le qualità necessarie ad avviare una riflessione critica». Né D’Alema crede che un sempre più probabile rovescio dem alle elezioni regionali in Sicilia possa influenzare o addirittura cassare la candidatura di Renzi alla premiership : «E perché dovrebbe? Renzi le ha già perse tutte e non è mai successo niente. È un professionista della sconfitta, visto che dalle europee del 2014 in avanti ha collezionato ogni genere di disfatta elettorale possibile e immaginabile ». La conclusione, per D’Alema, è una sola: «C’è Renzi da una parte, e ci siamo noi dall’altra. Lo hanno capito quasi tutti, diciamo». Ragione per cui, secondo l’ex premier, in caso di rottura con Mdp a Pisapia non resterebbe che chiedere accoglienza a Renzi. «Con quale convenienza reciproca – ragiona – non so, è più facile che ciascuno faccia perdere voti all’altro piuttosto che riescano a sommarli ».

Repubblica 5.10.17
Pisapia.
L’ex sindaco furioso per la rottura di Mdp con il governo di Gentiloni: non mi hanno informato
“Per vincere serve chi unisce se Massimo si ritira fa bene al Paese”
di Goffredo De Marchis

ROMA. «C’è poco da chiarire: tra chi si assume la responsabilità di creare una maggioranza in grado di battere i 5stelle e la destra bisogna cercare le candidature più unitarie possibili. Se qualcuno, forse suo malgrado, magari contro la sua volontà, divide e non unisce deve fare un passo indietro. È il caso di D’Alema». Giuliano Pisapia, dopo il colloquio con la trasmissione Circo Massimo su Radio Capital, ha intenzione di smentire la leggenda che lo circonda e lo dipinge come attendista, ambiguo, arrendevole. È furioso per la rottura di Mdp con il governo Gentiloni. «Hanno condiviso un percorso senza neanche comunicarmelo. Eppure il tema della manovra economica è così delicato... Io non sono di Mdp, io sono di Campo progressista. Ma se si decide di fare la strada insieme sarebbe bene informare i compagni di viaggio, devi comunicare con chi ti sta vicino». In questo colloquio l’ex sindaco di Milano ribatte a tutte le critiche che i dirigenti della sinistra gli muovono a mezza bocca. Ma alla fine sempre lì si torna: a Massimo D’Alema. «Il suo passo indietro sarebbe un bene per la sinistra e per il Paese. E si dimentica sempre di dire che io parlo anche di me. Sarei il primo a farmi da parte se non ci fossero le condizioni per unire».
Dicono i compagni di viaggio: Pisapia si occupa troppo di formule - l’allargamento, il centrosinistra, l’ispirazione ulivista - e poco di andare a prendere i voti. «Io penso solo ai voti - risponde l’ex sindaco - e le riunioni a porte chiuse sono la parte meno entusiasmante di questa impresa. La scorsa settimana sono stato a Mantova, Parma e Napoli. Domani (oggi ndr) vado a Ravenna, il giorno dopo sono a Roma per le Officine delle idee, poi corro a Brindisi. A me interessano i dibattiti aperti a tutti, non solo ai propri militanti. Per quello partecipo anche alle Feste dell’Unità. Dappertutto mi chiedono il cambiamento e di stare uniti. Sto girando l’Italia, non capisco perché si voglia dare un’altra impressione ». Gli dicono, sempre i compagni di viaggio: prendi quello che c’è, non lasciare fuori nessuno, tutti sono indispensabili per creare una forza e contrastare gli avversari, Renzi in primis. «Ma quello che c’è non è affatto sufficiente. Lì fuori ballano 3 milioni e mezzo di voti da recuperare e il problema è andare prendere quelli che non ci stanno, non quelli che ci sono già. Parliamo di milioni e milioni, che in questi anni sono andati ai grillini o di chi non è andato a votare al secondo turno delle amministrative. Altroché restare chiuso a fare le riunioni e occuparmi di formule».
Di tattica si occupa qualcun altro, fa notare Pisapia. L’ex sindaco infatti non ha condiviso i passaggi del voto di Mdp sul Def. Oltre che averne saputo poco. Lui vorrebbe rimanere attaccato al carro del governo Gentiloni e della trattativa sulla legge di bilancio. Non è uscito dalla maggioranza e non si sente le mani libere, come hanno detto ieri Speranza e D’Alema. «C’è stata un’apertura molto chiara da parte di Padoan. Tutta da verificare, naturalmente. Ma c’è stata. Se una parte dei miei compagni di strada non la vuole vedere, è un problema ». E se proprio vogliamo dirla tutta, non è una bella “formula” quella adottata ieri dai bersanian- dalemiani: «Mi stupisce che chi è stato al governo e in maggioranza 4 anni, a pochi mesi dalle elezioni esca così, senza battere ciglio. Su questo bisognerebbe riflettere». E ora? «Ora io continuo», risponde Pisapia. Se sarà strappo deve ancora consumarsi del tutto.

il manifesto 5.10.17
Pd, modifiche per blindare il Rosatellum
Legge elettorale. Da oggi i nodi del nuovo testo sul sistema di voto arrivano in commissione. Forza Italia chiede ritocchi al proporzionale per cercare di fare l'en plein al nord
legge elettorale
di Andrea Fabozzi

Sette emendamenti nei primi due giorni di lavoro sono pochi anche per una commissione affari costituzionali dove non si registrano grandi preoccupazioni per la sorte della riforma elettorale. E così c’è stato bisogno di convocare nuove sedute: una giornata intera oggi e due mattinate venerdì e sabato; il Rosatellum-bis dovrebbe così essere pronto per l’aula martedì prossimo. Laddove cominceranno i veri problemi.
Il Pd naturalmente accusa dei ritardi (come di tutto ormai) gli scissionisti di Mdp, ma se i tempi si sono dilatati la colpa è delle questioni ancora aperte nella maggioranza a quattro che sostiene la riforma. Pd e Forza Italia sembrano intendersi su tutto, ma ci sono le richieste dei centristi di Ap e le resistenze della Lega, nuove mediazioni sono necessarie. In più ci sono i nodi non sciolti dentro lo stesso partito democratico, affrontati ieri sera in una riunione del gruppo, per quanto non siano gli ostacoli politici a preoccupare maggiormente. Tant’è vero che l’invito che il capogruppo Rosato ha rivolto alla minoranza dem di non insistere per l’introduzione del voto disgiunto è stato sostanzialmente accolto. «Forza Italia non ci starebbe», ha spiegato Rosato. Il che è vero, ma è solo un pezzo di verità visto che anche il Pd ha tutto da perdere nel lasciare l’elettore libero di scegliere la sua lista: sarebbe a quel punto impossibile fare campagna per il voto utile. Preoccupa di più l’impossibilità di controllare il gruppo nei (tanti) voti segreti, preoccupazione identica ce l’ha Forza Italia. Ecco perché in queste ore conta di più il lavoro che i renziani più in vista stanno facendo sui singoli deputati, provando a smentire quelle simulazioni (non a caso di provenienza Mdp) dove si dimostra che il Rosatellum-bis è un grande regalo a Berlusconi. Soprattutto al nord, specie se dovesse essere accolta anche un’altra richiesta di Forza Italia, quella di diminuire i collegi proporzionali: da quasi 80 a non più di 65.
Sarebbero collegi enormi (da circa 800mila elettori), dove però il centrodestra potrebbe fare l’en plein. Con il Rosatellum-bis non conta infatti tanto il voto proporzionale, ma il trascinamento del voto dato all’uninominale, con o senza la scelta di una lista. Il problema è che avendo deciso di lasciare i listini bloccati alle dimensioni che furono del Mattarellum, cioè non più di quattro candidati (altrimenti crolla la retorica dei «listini corti»), con collegi così grandi che assegnano anche sei seggi, si rischia che il partito egemone (Forza Italia o la Lega, al nord) finisca per non avere abbastanza candidati da eleggere. A maggior ragione se sarà conservato il sistema delle liste «a perdere», quelle cioè comprese tra l’uno e il tre per cento dei voti che non guadagnano seggi ma riversano voti sugli alleati più grandi. Problema per gli elettori, che perderanno ogni legame tra le loro scelte e i candidati effettivamente eletti, non per i partiti perché i seggi «vuoti» finirebbero comunque a quella lista, ma in un altro collegio.
Tutti gli emendamenti delicati saranno messi in votazione tra oggi pomeriggio e domani. Tra le questioni ancora aperte c’è quella della soglia di sbarramento al 3%, che Ap chiede venga calcolata al senato su base regionale. Come appare costituzionalmente più corretto (art. 57: «Il senato è eletto a base regionale») e come del resto è nel Consultellum attualmente in vigore (con soglie assai più alte). Per gli alfaniani vorrebbe dire la certezza di rientrare a palazzo Madama grazie alla spinta di alcune regioni. Per i berlusconiani significherebbe dover dividere i seggi con qualche micro formazione meridionale, quindi dicono no alla modifica del testo base.
Sopra tutte queste variabili, e nel silenzio di Mattarella, è tornata la suggestione del voto di fiducia sulla legge elettorale. Impossibile secondo Costituzione (articolo 72) e però già utilizzato tre volte nell’ultimo (e non nel primo) passaggio dell’Italicum. Il regolamento della camera non permette però di scansare tutti i voti segreti, come infatti fu per l’Italicum nel passaggio definitivo. Ammesso che il governo voglia smentire la sua «neutralità» sulla legge elettorale, i nodi andrebbero comunque tutti sciolti prima.

Il Fatto 5.10.17
Legge elettorale, a cosa serve la nostra campagna
di Silvia Truzzi

Le ragioni per cui il Fatto ha iniziato la campagna per una legge elettorale con cui i cittadini possano davvero scegliere i propri rappresentanti sta tutta nelle parole presidente dell’Anpi Carlo Smuraglia: “La legge elettorale, tra le leggi ordinarie, è quella che più si avvicina alla Costituzione”. Perché è attraverso la legge elettorale che si possono attuare i principi espressi nella Carta. Di questa campagna, in un Paese non normale, ma semplicemente decente e davvero democratico, non dovrebbe esserci bisogno. Se i nostri onorevoli fossero davvero tali, non dovremmo spendere fiumi d’inchiostro sul tema. Succede perché se la legge elettorale è – come ha scritto Gaetano Azzariti – lo specchio di una democrazia, la nostra è alquanto malconcia.
Dopo la pronuncia della Corte sul Porcellum (gennaio 2014) deputati e senatori avrebbero dovuto scusarsi, trovandosi nell’imbarazzante situazione di sedere a Palazzo Madama e Montecitorio con un grave difetto di legittimità: il Parlamento non è incostituzionale (per via del principio di continuità dello Stato), ma è dimezzato nella legittimità del suo mandato. Persone davvero onorevoli si sarebbero precipitate ad approvare una legge elettorale legittima per poi andare alle urne. Invece hanno osato approvare una riforma costituzionale monstrum, che scardinava un terzo della Carta e, non paghi, hanno pure approvato una legge elettorale valida solo per la Camera, in previsione dell’abolizione del Senato poi scongiurata da venti milioni di assennati cittadini. Ma c’è di più: quella legge elettorale, l’Italicum, era pure incostituzionale in più punti, lo ha stabilito la Consulta in gennaio. Dopo questa seconda umiliazione, uno si sarebbe aspettato dimissioni di massa con ceneri in capo. O almeno l’immediata approvazione di una legge che consentisse di andare al voto. Ovviamente non è accaduto e dieci mesi dopo siamo ancora qui: in barba al codice di buona condotta elettorale del Consiglio d’Europa (secondo cui non bisognerebbe approvare nuove leggi elettorali nell’anno precedente alle elezioni, perché si è troppo condizionati da interessi di parte), siamo ancora impossibilitati ad andare al voto. Le leggi che risultano dalle sentenze della Consulta sono disomogenee. La proposta in discussione in questi giorni – il Rosatellum bis – secondo molti studiosi presenta – ancora! – profili d’incostituzionalità (per esempio un’alta percentuale di nominati). Al di là della scandalosa recidiva, c’è una premessa di cui tener conto: è assolutamente anomalo che un Paese resti senza legge elettorale, come accade in Italia, per anni: in caso di necessità si deve sempre poter ricorrere alle urne.
Gustavo Zagrebelsky ha detto che, al di là della legge elettorale, è la povertà della proposta politica a generare disincanto tra i cittadini. Le due cose sono strettamente connesse: leggi come Porcellum e il mai utilizzato Italicum allontanano i cittadini dai loro rappresentanti e svincolano questi ultimi dal patto di fiducia con territori ed elettori. Last but not least: la governabilità è diventata l’ossessione di tutti i commentatori, per non dire dei cosiddetti leader politici. Ma, di nuovo con Azzariti, lo scopo della legge elettorale non è quello di votare i governi: si votano i membri dell’organo legislativo, i rappresentanti della nazione, che poi svolgeranno le proprie funzioni senza vincolo di mandato. La democrazia parlamentare è cosa ben diversa dalla democrazia del capo. “La sovranità appartiene al popolo”, recita la Costituzione al primo (non a caso) articolo. Ce la vogliono scippare di nuovo, possiamo provare a fermarli sommergendoli di firme (la petizione è sul sito del Fatto).

Il Fatto 5.10.17
“Lotteremo per una legge elettorale costituzionale”
L’avvocato “Antitalikum”: “Difendiamo la Carta dal testo di Rosato”
di Felice Besostri

Pubblichiamo l’intervento che l’avvocato Besostri ha tenuto nel convegno dei Comitati del No lunedì scorso

Secondo il programma, dovrei parlare della necessità di verità della rappresentanza che solo un sistema elettorale proporzionale può dare. Ma dopo gli interventi che mi hanno preceduto, parlare ora di proporzionalità è come “portare vasi a Samo”, inutile e superfluo. Ritengo, invece, più interessante riferirvi dei lavori del gruppo degli avvocati “Antitalikum”, da me coordinati, che hanno ottenuto l’annullamento parziale dell’Italikum, nella parte più pericolosa, cioè l’attribuzione di un premio di maggioranza, sempre e comunque, senza alcuna soglia di partecipazione o di percentuale minima di voti al primo turno grazie al trucco di un ballottaggio limitato alle due liste più votate. Avevamo dedotto 13 motivi di incostituzionalità dell’Italikum, da noi scritto rigorosamente con la kappa, un ricordo ideografico di altre antiche battaglie democratiche e un 14° relativo a una norma residuata dal Porcellum, le soglie del Senato fissate irragionevolmente al doppio della Camera, pur avendo la metà dei membri. Siamo stati preveggenti perché è una delle norme chiave dell’armonizzazione chiesta dalla stessa sentenza n. 35/2017 e auspicata dai presidenti della Repubblica e del Senato. L’annullamento parziale di due punti dei 13 non ci soddisfa, ma parliamoci chiaro: quell’annullamento ha creato le condizioni tecniche e politiche per la formazione di un quarto polo civico, costituzionale di sinistra. Tuttavia, senza una legge elettorale proporzionale, non potranno nascere soggetti politici in grado di determinare nuovi equilibri politici per evitare una vittoria della destra o una riedizione di un centro-finta-sinistra a egemonia Pd. Giustamente dobbiamo mettere al centro la legge elettorale per averne finalmente una costituzionale di tipo proporzionale. La maggioranza solo numerica del Parlamento non si è rassegnata alla sconfitta del 4 dicembre e cerca una rivincita con la terza legge incostituzionale. Dobbiamo impedirlo ed è possibile, perché entro novembre ci sono 10 dei ricorsi Antitalikum maturi per la decisione. Il Tribunale dell’Aquila deve depositare la decisione e il 13 ottobre è attesa la decisione del Tribunale di Messina, il 26 e il 27 dello stesso mese rispettivamente Lecce e Venezia. Siamo in tempo per portare in Corte costituzionale il meccanismo elettorale incostituzionale del Rosatellum 2.0, il voto congiunto per il candidato uninominale e per la lista bloccata proporzionale, impugnando le norme dello stesso tenore vigenti per il Trentino-Alto Adige. Il gioco è chiaro: andare a votare con norme incostituzionali per ripetere lo sconcio del Porcellum dichiarato incostituzionale dopo le elezioni. Se si vota con una legge incostituzionale la Costituzione non sarà attuata e la vittoria dei No al referendum tradita.

45.000 firme
L’appello dei comitati
Il Coordinamento democrazia costituzionale – che prosegue le battaglie dopo aver salvato col referendum la Carta dalla riforma del governo renziano – ha approvato un appello in cinque punti per una nuova legge elettorale che, sia chiaro, parta dal presupposto di far scegliere i parlamentari dai cittadini. Al punto 1, per esempio, c’è scritto: “La partita che si sta giocando sulla legge elettorale è una partita sulla Costituzione perché il modello di democrazia consegnatoci dai Costituenti e convalidato dal referendum del 2016, è fondato sulla centralità di un Parlamento rappresentativo attraverso il quale trova espressione il principio supremo che la sovranità appartiene al popolo”. Tanti i nomi in calce: da Villone a Gallo, da Carlassare a Grandi fino al presidente del comitato scientifico Pace. La petizione, lanciata dal Fatto Quotidiano, può essere sostenuta firmando sulla piattaforma di Change.org.

Corriere 5.7.17
Le elezioni tedesche e la sinistra in declino
di Danilo Taino

La lettura di un risultato elettorale effettuata a caldo è quasi sempre parziale. Quella delle elezioni tedesche del 24 settembre non fa eccezione. Un’analisi più articolata indica soprattutto che, a differenza di quella che è stata l’interpretazione corrente finora, i partiti della classe media — l’Unione Cdu-Csu di Angela Merkel e i Liberali di Christian Lindner — in realtà non hanno perso voti a destra, a favore dei nazionalisti di Alternative für Deutschland (AfD). Il vero declino, e non di breve periodo, è quello dei partiti della sinistra — socialdemocratico (Spd), Verde, Linke. Il professor Manfred Güllner, sociologo e direttore dell’istituto di ricerca Forsa, ha calcolato le tendenze dell’elettorato, compresi i non votanti, e ne ha dato un’anticipazione sul quotidiano Handesblatt . Primo dato: tra i tedeschi aventi diritto al voto, AfD ha raggiunto il 9,5% . Il 90,5% non ha voluto dare il consenso al partito con tendenze illiberali, nonostante che molti di più del 9,5% siano gli insoddisfatti del panorama politico: il 24,6% non ha votato. Secondo fatto: la base della classe media che vota tradizionalmente l’Unione Cdu-Csu e i Liberali non si è di fatto ristretta: era di 20,4 milioni di voti nel 1998 , è stata di 20,2 milioni nel 2013 e di 20,3 milioni nel 2017 . È cioè passata dal 33,6% di 19 anni fa al 32,6% delle elezioni del 24 settembre (percentuali sempre sul totale degli aventi diritto al voto). Terzo dato: Spd, Verdi e Linke — cioè i partiti della sinistra — tra il 1998 (quando socialdemocratici e verdi andarono al governo con Gerhard Schröder e Joschka Fischer) e il 2009 sono scesi da venti a dieci milioni di voti e quest’anno sono calati ancora a 9,5 milioni. Negli scorsi 19 anni, a ogni elezione la loro quota è calata, dal 42,8 al 29,2% del 2017. Un’analisi approfondita dei risultati elettorali avrà conseguenze sulle scelte politiche future. Per esempio, AfD non è così travolgente. E, nel campo conservatore, chi ha perso di più a suo favore è stata la Csu, il partito gemello in Baviera della Cdu di Merkel: quel partito che ha voluto una politica di maggiore chiusura verso gli immigrati. Altro esempio: alla Spd il risultato dovrebbe suggerire che andare all’opposizione non fa guadagnare in sé voti, li ha persi sia quando era nel governo di Grande Coalizione sia quando ne era fuori. La prima impressione non sempre legge bene la realtà.

La Stampa 5.10.17
Madrid manda l’esercito in Catalogna
Puigdemont: “Il re ci ha delusi”. A Barcellona si inseguono le voci di arresti
Barcellona dritta verso la secessione
“Sì, noi realizzeremo il nostro sogno”
Puigdemont: non cederemo di un millimetro. Lunedì la votazione decisiva in Parlamento Il capo di Mossos accusato di sedizione. E Madrid manda l’esercito: sostegno logistico
di Francesco Olivo

Basta mettere in fila le novità di giornata, per capire che in Catalogna il baratro è dietro l’angolo: dichiarazione di indipendenza in arrivo, la Borsa che crolla, poliziotti accusati di sedizione, voci di arresti e ora persino i militari in cammino.
La guerra istituzionale prende anche una piega personale. Il presidente della Generalitat, Carles Puigdemont, ha risposto direttamente al re Filippo VI, che martedì aveva attaccato con durezza gli amministratori secessionisti.
Il capo del governo catalano ha aspettato 24 ore per replicare, ha spostato il suo intervento alle 21, la stessa ora del sovrano, «per far capire che al re risponde un altro capo di Stato», racconta l’entourage di Puigdemont. «Così no - ha detto il “president” -. Lei ha deluso molti catalani, gente che aspettava un appello al dialogo e alla concordia».
Con una certa perfidia, il leader catalano ha ricordato che «il re ha facilitato le decisioni che il governo si prefigge», accusandolo di fatto di essere uno strumento (negli ambienti della Generalitat si usano parole più esplicite) nelle mani di Rajoy. La sfida è stata anche linguistica, a Barcellona molti sono rimasti sorpresi, oltre che dal tono del discorso di Filippo VI, anche dal fatto che il monarca non si sia mai espresso in catalano «una lingua che lei comprende bene», ha ricordato Puigdemont, il quale, al contrario, si è rivolto in castigliano «agli spagnoli che ci hanno mandato messaggi di simpatia in questi giorni».
Ma nell’intervento tv del capo della Generalitat è emerso un dato che, a quell’ora della sera, tutti ormai davano per scontato: si tira dritto verso la dichiarazione unilaterale di indipendenza: « Realizzeremo il nostro sogno, non cederemo di un millimetro». La votazione decisiva è stata fissata per lunedì prossimo nel parlamento catalano. Niente sembra poter fermare i propositi secessionisti, nemmeno il parere contrario degli esperti giuridici della Camera di Barcellona. Nella coalizione indipendentista non c’è una visione unanime degli effetti concreti della dichiarazione del parlamento. Le colombe spingono per una versione morbida, che preveda uno stop in caso di un’offerta da Madrid (o Bruxelles). Ma il discorso del re, letto qui come un ordine per nuovi interventi del governo spagnolo, ha rafforzato la linea dura, guidata dall’estrema sinistra della Cup, che vuole un pronunciamento con effetto immediato e la messa in moto della legge di transitorietà dalla legalità spagnola a quella giuridica. I propositi di mediazione sono molti, gli ultimi quelli di Pablo Iglesias, leader di Podemos (ha telefonato a Puigdemont e a Rajoy), e del cardinale di Barcellona, ma non fermano la corsa degli indipendentisti.
La scena tanto evocata, i carri armati sulla Diagonal, ancora non si verifica. Ma da Madrid arriva la notizia che il ministero della Difesa ha inviato i primi mezzi militari verso la regione insorta. «Si tratta soltanto di sostegno logistico alle forze di polizia», si precisa prudentemente. Ma l’immagine del territorio assediato si rafforza, con l’esercito in arrivo, di nuovi ingredienti, oltre ai traghetti carichi di agenti ancorati al porto di Barcellona. Piazza Sant Jaume è la piazza del potere di Barcellona: uno di fronte all’altro sorgono il palazzo della Generalitat e quello del Comune e tutti credono che, «è questione di ore», arriverà la Guardia Civil. Mentre Puigdemont scrive con i suoi il discorso che pronuncerà in serata, un elicottero della polizia nazionale sorvola la piazza, sempre più basso: «Sanno tutto del palazzo, controllano chi entra e chi esce», dice un funzionario.
Già al mattino i segnali non erano certo di distensione: il capo dei Mossos d’Esquadra Josep Lluis Trapero è accusato di sedizione per aver messo a repentaglio la sicurezza dei poliziotti spagnoli, durante le perquisizioni nelle sedi della Generalitat. L’uomo simbolo dei giorni terribili degli attentati, diventato un mito per gli indipendentisti, rischia una pena di 15 anni e si dovrà presentare domani a Madrid per essere interrogato.
Che la crisi possa precipitare lo credono anche adesso anche i mercati. Ieri l’Ibex 35, il listino dei principali titoli spagnoli, ha ceduto il 2,85%, il prezzo più alto lo pagano soprattutto le banche con sede in Catalogna: Sabadell (-5,69%) e Caixabank (-4,96%). I segni del baratro ci sono tutti.

il manifesto 5.10.17
Catalogna, è in gioco la democrazia in Europa
L'intervento. Dichiarazione congiunta della segretaria di Die Linke e del segretario di Sinistra Italiana: La "crisi catalana" dovrebbe essere un’occasione per aprire finalmente la discussione a livello transnazionale sulla democrazia in Europa. Ma per fare questo è fondamentale una grande mobilitazione europea a sostegno dello spirito e della lettera della Dichiarazione di Saragozza
di Katja Kipping, Nicola Fratoianni

In queste ore, l’Europa e il mondo stanno guardando alla Catalogna con sentimenti contrastanti. Siamo innanzitutto seriamente preoccupati per l’escalation della situazione da parte del Governo spagnolo.
La repressione poliziesca e l’uso della violenza non sono mai la soluzione giusta per un conflitto politico, indipendentemente dal quadro giuridico dato.
Pensiamo piuttosto che questo problema riguardi l’Europa e l’Unione europea nel suo insieme. Non solo perché negli ultimi anni le Istituzioni europee, con la famigerata azione della Troika che ha imposto le politiche di austerità a livello nazionale, hanno mostrato ben altra attitudine nell’intervenire negli “affari interni” dei singoli paesi membri, come abbiamo visto con l’incubo sociale della crisi greca.
E non solo perché un’iniziativa politica dell’Unione – magari insieme ad altri e più neutrali negoziatori – potrebbe svolgere un positivo ruolo di mediazione in questo momento, favorendo la riapertura del dialogo tra i vari attori coinvolti e la ricerca di una soluzione negoziata alla crisi.
Ma c’è di più.
I recenti sviluppi della “crisi catalana”, al di là delle specificità storiche di questa vicenda, sono sintomi di una più profonda malattia in Europa: la crisi della democrazia nelle forme di Stato esistenti, per come le abbiamo fin qui conosciute.
Le immagini di domenica scorsa con decine di migliaia di persone, donne e uomini, giovani e anziani, attivamente impegnati a disobbedire all’imposizione della forza, a garantire il diritto ad esprimersi, il “diritto di decidere”, di votare sul proprio futuro, ci parlano proprio di questo: una forte domanda di democrazia e di autodeterminazione, che va ben al di là della classica questione di “indipendenza nazionale”.
Di fronte alla violenza sradicante dei processi di globalizzazione economica, alle disastrose proporzioni della crisi ecologica, alla crescita esponenziale delle disuguaglianze sociali, da almeno due decenni la tradizionale politica degli Stati-nazione ha mostrato la sua inadeguatezza ad affrontare le grandi sfide del nostro tempo.
Dieci anni di crisi economica hanno aggravato questi elementi. E se lo spazio nazionale – e l’esercizio della democrazia rappresentativa all’interno delle sue frontiere – non è stato da solo capace di contrastare i flussi del capitalismo finanziario, tanto meno una replica della logica dello Stato-nazione su scala minore, nella moltiplicazione di “piccole patrie”, ci pare una risposta comprensibile e realistica.
Per queste ragioni strutturali, pensiamo che nella “crisi catalana” sarebbe sbagliato essere costretti a scegliere tra la difesa autoritaria dello Stato centralista spagnolo e la proclamazione unilaterale dell’indipendenza di uno “Stato della Catalogna”.
Ma al tempo stesso pensiamo che la popolazione di questi territori debba essere messa nella condizione di decidere liberamente il proprio destino, in maniera democratica e nel rispetto della maggioranza.
Dal punto di vista strategico, abbiamo bisogno di una “terza opzione”, di un approccio radicalmente differente: considerare il principio della “prossimità” e portare così il luogo della decisione politica il più vicino possibile alle persone e alle loro comunità, partendo da un principio di “auto-governo” che dalle città salga dal basso verso l’alto.
Dobbiamo pensare e immaginare che tali territori autonomi possano federarsi su scala più ampia, al di là dei limiti dello Stato-nazione e lo sciovinismo nazionalista, in un rinnovato patto di convivenza e condivisione.
La “crisi catalana” dovrebbe perciò essere un’occasione per aprire finalmente la discussione a livello transnazionale sulla democrazia in Europa, sull’Europa che vogliamo nel presente e in futuro, sulla necessità di un processo costituente che risponda alle sfide e ai rischi che abbiamo di fronte.
Ma per fare questo è fondamentale seguire in questo momento la strada indicata, con chiarezza e coraggio, dalle piattaforme municipali, dalle confluenze e dalla sinistra in Spagna e in Catalogna. Con Ada Colau e Pablo Iglesias, con Manuela Carmena e Alberto Garzon, è il momento di fermare la repressione e gli atti unilaterali, il momento della politica contro l’uso della forza, e del dialogo per la convivenza.
È sempre il momento per trovare una soluzione pacifica. È adesso il momento di una grande mobilitazione europea a sostegno dello spirito e della lettera della Dichiarazione di Saragozza.
Siamo disponibili, insieme a tante e tanti altri, a fare la nostra parte perché oggi in Spagna e in Catalogna sono in gioco il presente e il futuro della democrazia in Europa.
* Katja Kipping è parlamentare al Bundestag tedesco e co-presidente di Die Linke
** Nicola Fratoiani è membro della Camera dei Deputati e segretario nazionale di Sinistra Italiana

La Stampa 5.10.17
L’Europa avverte la Generalitat
“Fermatevi, oltre c’è il baratro”
di Marco Bresolin

No alla violenza, sì al dialogo. Nello scontato copione del dibattito all’Europarlamento sulla Catalogna, le parole-chiave sono state due. Ma attenzione, per quanto ogni gruppo abbia espresso la sua opinione con le relative sfumature, il messaggio di Strasburgo è indirizzato principalmente ai catalani. Con un chiaro avvertimento: «Non gettate benzina sul fuoco con una dichiarazione unilaterale di indipendenza», che potrebbe provocare «nuovi scontri e nuovi disastri». Le parole non arrivano dal gruppo dei Popolari (che sostengono il governo di Madrid), ma dai Socialisti. Il loro presidente Gianni Pittella, pur criticando Rajoy per la gestione della crisi, ha chiesto un passo indietro: «Fermatevi. Perché quando si è sull’orlo del baratro basta poco per cadere».
Nonostante le tensioni politiche dei giorni scorsi, poco ci si poteva aspettare dal dibattito. Che è stato volutamente organizzato con una formula ingessata. Un solo intervento per gruppo, oltre a quello della Commissione, rappresentata da Frans Timmermans. L’eurodeputato catalano Ramon Tremosa ha provato ad animare un po’ la giornata, regalando rose rosse tra i banchi, come si fa durante la festa di Sant Jordi. In Aula è spuntata anche una bandiera catalana, scatenando l’ira dei popolari spagnoli: «Togliete questa bandiera golpista contro uno Stato membro della Ue», ha protestato Carlos Iturgaiz.
Ma gli animi si sono subito raffreddati e, a conti fatti, Madrid può essere soddisfatta. Il timore era che il dibattito si trasformasse in una sorta di processo a Rajoy, anche per questo il governo ha mandato a Strasburgo il segretario di Stato agli Affari Ue, Jorge Toledo, a controllare la situazione. Nel suo intervento, Timmermans ha spiegato che «lo Stato di diritto non è un optional» e che «il diritto di espressione è essenziale, ma un’opinione non vale più di un’altra perché espressa a voce alta». Non poteva certo sorvolare sulla condotta della Guardia Civil e infatti ha ribadito che «la violenza non è mai una soluzione». Però ha anche aggiunto una frase che in qualche modo sembra scagionare Rajoy: un governo ha il diritto di difendere la legge «e questo a volte richiede un uso proporzionato della forza».
Il liberale Guy Verhofstadt ha detto che sì, «non si può andare contro la legge», ma «non si può nemmeno risolvere una situazione così profonda solo con la legge. Bisogna ascoltare». Anche lui, però, ha dato dell’«irresponsabile» al governatore catalano Carles Puigdemont. Il popolare Manfred Weber ha ricordato che la secessione dalla Spagna comporterebbe «l’uscita dalla Ue, da Schengen e dall’eurozona». Inutili le richieste di Verdi e Sinistra per una mediazione dell’Ue: il presidente Antonio Tajani ha chiuso con un appello al «dialogo in Spagna». Dunque tra Barcellona e Madrid, con Bruxelles alla finestra.

Corriere 5.10.17
Le nuove forme del populismo (e del potere)
di Sergio Romano

Che cosa vogliono i catalani? Se vogliono gestire i loro affari senza piegarsi agli ordini di Madrid, organizzare liberamente la vita delle loro città, parlare la loro lingua e coltivare le loro memorie storiche, l’obiettivo è già stato raggiunto da parecchi anni e può sempre essere migliorato con qualche nuovo ritocco.

Se vogliono essere europei e partecipare alla costruzione dell’Unione, niente può favorire le loro iniziative quanto la partecipazione a uno Stato che negli uffici della Commissione europea ha un peso alquanto maggiore di quello che avrebbe la Catalogna. L’indipendenza, se decidessero di proclamarla, non aggiungerebbe nulla alla loro autorevolezza e creerebbe probabilmente inutili contenziosi fra Barcellona, Madrid e Bruxelles. Ci viene risposto che i Risorgimenti romantici del XIX secolo e il principio dell’autodeterminazione dei popoli, proclamato da un presidente americano alla fine della Grande guerra, giustificano pienamente le richieste catalane e quelle di altri secessionisti, non soltanto in Europa. La risposta non mi convince. Viviamo in tempi diversi. La democrazia, se bene amministrata, può garantire i diritti delle minoranze. L’economia liberale e la libertà degli scambi hanno considerevolmente diminuito l’importanza delle frontiere. La lezione impartita dalle due grandi guerre del Novecento dovrebbe ricordarci quanti danni i nazionalismi abbiano fatto alla umanità nel secolo scorso. Il fenomeno a cui stiamo assistendo ha nuove caratteristiche. Viene spesso chiamato patriottismo, ma è in realtà un nuova forma di populismo ed è provocato nel mondo occidentale dai mali, veri o immaginari, di cui soffrono in questo momento tutti gli Stati: la corruzione delle classi dirigenti, una gioventù cresciuta nella stagione delle speranze e delusa dalla realtà, l’eccessiva importanza della finanza, il crescente divario tra ricchezza e povertà, l’immigrazione di massa, l’impetuoso arrivo sulla scena economica di nuove potenze extra-europee. Come tutte le grandi crisi di sistema, anche queste hanno creato nuovi tribuni affamati di potere. A differenza di quelli che fecero le rivoluzioni del primo Novecento, questi tribuni non hanno ideologie e vanno a caccia di ricette salvifiche che possano mobilitare la grande massa dei malcontenti. Per fare queste battaglie, naturalmente, occorre un nemico. Per gli indipendentisti catalani è Madrid. Per il Fronte Nazionale della signora Le Pen e Alternativa per la Germania, è l’immigrato, soprattutto se proviene dal Medio Oriente. Per il Presidente ungherese Viktor Orbán è George Soros, il grande finanziere che predica la democrazia liberale nella Europa centro-orientale. Per il leader polacco Jaroslaw Kaczynski i nemici sono gli ex comunisti e le élite laiche della nazione. Per Boris Johnson, ministro degli Esteri della Gran Bretagna, i nemici sono Bruxelles e la Commissione europea. Per Donald Trump, il più grande dei tribuni mondiali, i nemici sono i latinos e tutti i Paesi che rifiutano di riconoscere il primato e la grandezza dell’America. Ai muri che questi tribuni vogliono costruire contro l’«invasore» e il «diverso» a noi spetta il compito di opporre la trincea della razionalità e del buon senso.

Repubblica 5.10.17
Susana contro Pedro la crisi istituzionale riaccende il duello fratricida dei socialisti
Sánchez chiede una trattativa con Barcellona, Díaz sposa la linea dura
di Alessandro Oppes

SONO le due anime inconciliabili di un partito in crisi. Pedro Sánchez e Susana Díaz litigano da anni – con alterne fortune – per conquistare saldamente il controllo del Psoe, oggi l’ombra della formazione che un tempo mieteva trionfi elettorali con Felipe González e José Luis Rodríguez Zapatero. Ma quella che a lungo è stata solo un’estenuante bega interna, rischia di trasformarsi ora in un affare di Stato di fronte alla più grave crisi istituzionale che la Spagna abbia vissuto negli ultimi 40 anni. Sánchez - tornato nel maggio scorso alla guida dei socialisti vincendo le primarie proprio contro Díaz - temporeggia sulla linea da adottare per affrontare la sfida catalana. Domenica scorsa, nella drammatica giornata del referendum illegale segnata dalle violenze della polizia contro gli elettori in fila ai seggi, ha taciuto per ore mentre le immagini di Barcellona aprivano i tg delle televisioni di tutto il mondo. Poi, a freddo, ha rilanciato il suo appello al dialogo con il presidente catalano Puigdemont, ha denunciato l’irresponsabilità del governo Rajoy, ha chiesto che le Cortes censurino la vice-premier Sáenz de Santamaría, ritenuta la stratega delle cariche di polizia ai seggi.
Mosse tattiche in attesa di vedere quale sarà la reazione della Moncloa alla dichiarazione d’indipendenza, che il Parlamento catalano potrebbe pronunciare in modo unilaterale lunedì prossimo. A Mariano Rajoy l’onere delle decisioni più difficili, poi il Psoe deciderà il da farsi, sembra essere il ragionamento.
Tutto il contrario dell’atteggiamento netto, a volte impulsivo, della presidente regionale andalusa. Díaz oggi guida l’opposizione interna al segretario, ma un anno fa fu proprio lei a promuovere la congiura interna che, al termine di una drammatica riunione nella sede di Calle Ferraz a Madrid, provocò le dimissioni dell’allora segretario generale mettendo il partito nelle mani di un comitato provvisorio. A Susana, la figlia di un idraulico di Siviglia diventata la leader della più forte federazione regionale socialista (gli iscritti al Psoe andaluso sono il 25 per cento del totale nazionale) non piace affatto che il suo rivale Pedro - l’economista madrileno fino a tre anni fa semi-sconosciuto e protagonista di un’irresistibile ascesa – abbia chiesto di censurare la vice di Rajoy. E non le piace neppure che, pochi giorni prima del referendum illegale, l’attuale dirigenza del partito si sia rifiutata di votare in Parlamento una mozione di pieno sostegno a tutte le iniziative che il governo centrale decidesse di prendere in risposta alla sfida catalana. In più, Díaz è stata la prima a pronunciarsi, martedì sera, sul duro intervento televisivo del re. Felipe VI aveva concluso il suo discorso da appena dieci minuti quando la leader andalusa ha twittato: «Condivido la difesa della Costituzione, della democrazia e della convivenza di tutti gli spagnoli che ha fatto il re». Meno netta, tra dichiarazioni ufficiali e commenti ufficiosi, la posizione di Sánchez e del circolo più ristretto dei suoi collaboratori ai vertici del Psoe: formale sostegno alle parole del sovrano, ma anche il rammarico per l’assoluta mancanza di un appello al dialogo tra Madrid e il governo di Barcellona.
Non è un mistero che, un anno e mezzo fa, quando Pedro Sánchez ricevette da Felipe VI l’incarico di formare il governo, fu anche per il fuoco di sbarramento di Susana Díaz e di altri “baroni” regionali del partito che i socialisti non poterono formare una maggioranza con Podemos, che avrebbe avuto bisogno del sostegno anche dei nazionalisti baschi e catalani. Nessun dialogo con chi vuole rompere la Spagna, è da sempre la parola d’ordine della leader andalusa. Ma ora c’è che chi comincia a pensare che quella strategia del muro contro muro abbia solo peggiorato le cose.

Repubblica 5.10.17
L’ultimo condono per il Ventennio
di Paolo Berizzi

DUNQUE inneggiare al regime «totale », gridare in un altoparlante che la democrazia «fa schifo» , annunciare che i tossici andrebbero «sterminati » , arredare un lido balneare con immagini di Mussolini, saluti fascisti, cartelli con scritto “me ne frego”, “camera a gas”, “manganello sui denti”, è solo “un’articolazione del pensiero”. Qualcosa di più raffinato che una goliardata, come la derubricò il bagnino miranese Gianni Scarpa. E dunque viene da pensare che aveva davvero ottime ragioni, il comiziante in bandana nera, a dire che lui di chiedere scusa non ci pensava proprio. Come dargli torto. A sollevarlo momentaneamente da ogni imbarazzo e dall’impiccio di avere violato la legge Scelba (apologia di fascismo) sono i magistrati di Venezia: inchiesta da archiviare, chiedono. L’indagato Scarpa ha solo espresso, anzi, articolato pubblicamente le idee che albergano nella sua mente nostalgica. E «se non ti piace me ne frego» . Sconfessando questura e prefettura, e per la gioia dei 650 bagnanti che quest’estate affollavano la spiaggia chioggiotta di Punta Canna, dove «vige il regime», la Procura ritiene in sostanza che i richiami al Ventennio non siano apologia. Come dire: la legge Scelba ha lo stesso peso di un soprammobile. Bisogna immaginarselo, in queste ore, il 64enne Scarpa. Magari avrà ricevuto una telefonata di felicitazioni da Matteo Salvini, che sotto il sole di luglio tra i cimeli del lido fece la sua passerella solidale e chiosò: «Lasciate lavorare la gente, le idee non si processano!» . Infatti: semmai si cancellano («toglieremo la legge Mancino e la legge Fiano», ha promesso).
Nell’attesa è sempre pronto un “condono” post-ideologico: come quello di cui hanno beneficiato i mille camerati che il 29 aprile hanno messo in piedi un saluto romano collettivo in onore dei caduti della Rsi sepolti al Campo X del cimitero Maggiore di Milano. Anche in quel caso i magistrati hanno chiesto l’archiviazione. Nessun “pericolo di suggestione”, zero “attrazione” verso l’ideologia del Ventennio. Solo una “finalità commemorativa”.

Il Fatto 5.10.17
1946-1948, l’Italia inquieta della democrazia seduttiva
Giovanni De Luna - Lo storico in libreria con il nuovo saggio: “La lezione è che il conflitto è fisiologico, non patologico”
di Stefano Caselli

“Tra il 1946 e il 1948 l’Italia ha vissuto un momento irripetibile, che chiamerei l’età della democrazia seduttiva”. Parola dello storico Giovanni De Luna, da ieri in libreria con La Repubblica inquieta (Feltrinelli), ideale prosecuzione del precedente La Resistenza Perfetta.
Professor De Luna, in quegli anni ci fu una concentrazione di eventi e di tensioni difficile da immaginare. Quanto alto è stato il rischio di catastrofe?
Indubbiamente alto, ma non è questo il punto. Ciò che affascina è che in quella congiuntura tutti i conflitti più radicali che il nostro Paese si è trovato ad affrontare nella sua storia – Monarchia contro Repubblica, fascisti contro antifascisti, operai contro padroni, Nord contro Sud, città contro campagna, centro contro periferia… – ci sono tutti, nessuno escluso. La lezione da trarne è che la democrazia si alimenta di conflitti, non è vero che ne viene disgregata. Il conflitto è la fisiologia democratica, non la patologia. Questa ossessione odierna della concordia, dove tutti devono andare d’accordo con tutti, è ridicola. Ecco perché la chiamo democrazia seduttiva: mobilitò l’intero Paese proprio per questo motivo.
Lei parla di Italia divisa, di due Italie. Eppure, a tratti, sembra una società più coesa di quanto sia oggi. In fondo cattolici e comunisti avevano forti punti di contatto culturale…
Per quanto riguarda il conflitto politico, ciò che prevale per gli attori in campo è il contesto storico e quello era uguale per tutti. L’identità politica tra comunisti e cattolici era profondamente divisa, ma sui valori concreti, la famiglia, la morale, i rapporti tra uomo e donna, torna con prepotenza l’Italia rurale, le differenze sono minime. L’operaio di Borgo San Paolo a Torino, il modello del comunista perfetto, doveva essere assolutamente monogamo, stare alla larga dai bordelli e non amare le osterie. Il buon padre di famiglia insomma.
Quanta di quell’Italia – se ancora esiste – è arrivata fino alla nostra epoca?
Quell’Italia non esiste più. Questo è il Paese del Novecento, non sono sopravvissuti i partiti, non sono sopravvissuti i valori, non è sopravvissuta nemmeno l’antropologia. L’unico punto di contatto, forse, è che – oggi come allora – sembra di nuovo possibile il recupero di una dimensione individuale nello spazio pubblico anche al di fuori dei canali istituzionali. In fondo la lezione della Resistenza è stata questa, la sola rifondazione è quella che parte dagli individui.
Colpisce il protagonismo assoluto dei leader politici e dei partiti, senza distinzioni di schieramento.
Questo è un dato di fatto, la grande qualità della classe politica. Se dovessi indicarne l’emblema sceglierei il discorso di De Gasperi alla Conferenza di Parigi (“Prendo la parola in questo consesso mondiale e sento che tutto, tranne la vostra cortesia, è contro di me…”). In quelle parole c’è tutta la dignità di una classe politica che era così all’altezza perché – ahimè – selezionata dalla più drammatica delle prove, la guerra civile. Che fossero comunisti, democristiani, socialisti, liberali, repubblicani, la sensibilità e la prossimità ai bisogni della gente – a causa anche dei compiti di elevatissimo grado che si imponevano – era immediata. Oggi questa equazione tra politica e bisogni non esiste più.
La storia non si fa con i se e con i ma, tuttavia se il referendum e le elezioni del ‘48 fossero andate diversamente, se Togliatti non fosse sopravvissuto all’attentato, che Italia sarebbe stata?
È andata come doveva andare. Questa storia finisce nel 1948, quando la cappa plumbea della Guerra fredda cade sul Paese. La vera rivoluzione arriverà con il boom economico, che abbatterà tutte le sovrastrutture sessuofobiche dell’Italia contadina. Ma sarà una rivoluzione che nascerà dalla società civile dinamica a cui una politica statica si accoderà, l’esatto contrario dell’immediato dopoguerra. Un po’ come accade oggi, per la verità.

La Stampa 5.10.17
San Francesco, il Sultano e le “fake news” del 1200
In Egitto iniziate con oltre un anno di anticipo le celebrazioni per l'VIII centenario della visita del Santo di Assisi a Malik al Kamil. Un evento su cui circolano caricature di opposta fattura, tra chi lo esalta come gesto profetico di pace interreligiosa, e chi ne diffonde versioni anti-buoniste, trasformando il Poverello in un testimonial ante-litteram dell'identirarismo “cristianista”
di Gianni Valente

Roma San Francesco andò in Egitto nel 1219. Manca ancora ben più di un anno per inaugurare l'800esimo anniversario dell'incontro che in quel suo viaggio ebbe a Damietta con il sultano Malik al Kamil. Ma i frati francescani sembrano aver fretta, e in Egitto hanno già iniziato a commemorare l'ottavo centenario della visita del Poverello nelle terre dell'islam. La sera di lunedì 2 ottobre si è svolto al Cairo il primo evento delle commemorazioni ufficiali «che dureranno due anni», come ha tenuto a precisare il francescano egiziano Ibrahim Faltas, consigliere del Custode di Terrasanta. 
«La prossima tappa - ha aggiunto padre Ibrahim - sarà una celebrazione a marzo in Egitto. Poi tutti i francescani d'Egitto faranno una festa» nelle rispettive città. Il primo incontro commemorativo, con interventi e esibizioni canore ospitate presso la chiesa di San Giuseppe, al centro del Cairo, ha visto anche la proiezione di un film sulla visita egiziana del Santo di Assisi e sul suo incontro con il sultano ayyubide di origine curda, proiettato presso il cinema del Centro cattolico.
L'impazienza celebrativa dei frati francescani cresce intorno ad uno degli eventi della vita di San Francesco che più sembrano provocare l'attuale stagione ecclesiale. Nel tempo degli interventi militari in Medio Oriente bollati come nuove “Crociate” sia dalla propaganda jihadista che dai circuiti ecclesiali, e nel montare dei sentimenti anti-islam nei Paesi occidentali colpiti dal terrorismo, l'incontro tra San Francesco e il Sultano diventa fatalmente pietra d'inciampo e segno di contraddizione. 
Quell'episodio della vita di San Francesco viene da alcuni enfatizzato come uno dei più straordinari gesti di pace nella vicenda tormentata dei rapporti tra islam e cristianesimo, esaltato come una anticipazione profetica del dialogo interreligioso «moderno» e come «paradigma» del corretto modo di porsi della coscienza cristiana davanti all'Umma del profeta Mohammad. Nell'iconografia mediatica che ha accompagnato il viaggio di Papa Bergoglio in Egitto, in molti hanno affiancato l'incontro tra il Sultano e il Poverello d'Assisi alla foto dell'abbraccio tra l'attuale Successore di Pietro e il Grande Imam di Al Azhar. 
Nei suoi saggi dedicati all'incontro tra San Francesco e il Sultano, lo studioso francescano Gwenolè Jeusset ha messo a confronto quell'episodio con un'altra spedizione fatta dai frati minori verso il Marocco. A differenza di Francesco, i francescani arrivati in Marocco si erano messi a proclamare la superiorità della religione cristiana sulle dottrine insegnate da Mohammad, finendo per questo arrestati e torturati. Otto secoli dopo – suggerisce Jeusset – la scelta fatta dai francescani a Marrakesh appare come un vicolo cieco, mentre l'incontro tra Francesco e il Sultano, all'epoca considerato come una specie di fallimento, suggerisce una via per confessare Cristo che attraversa e non soccombe alla trappola del conflitto tra sistemi religiosi.
L'incontro tra Francesco D'Assisi e al Malik al Kamil non viene risparmiato dalle guerricciole pseudo-dottrinali tra circoletti clericali che funestano l'attuale stagione ecclesiale. Così, per reagire agli entusiasti che esaltano la cortesia del dialogo intercorso tra i due, e per denunciare le manipolazioni che trasformerebbero l'Alter Christus d'Assisi in un frate debosciato e vigliacco, antesignano patetico del relativismo religioso, i circuiti e i blog del neo-rigorismo identitario fanno circolare una “versione politicamente scorretta” della cronaca di quell'incontro, attribuedola a Fra Illuminato. In tale report, spesso indicato come proveniente da non meglio specificate “fonti francescane”, San Francesco compare come un predicatore che va apposta in Egitto per “sfidare” il Sultano con le verità su Dio uno e trino e su Gesù Cristo Salvatore di tutti. 
Nella cronaca circolante sui siti muscolari della galassia “cristianista”, si legge che: «Anche il Sultano, vedendo l’ammirevole fervore di spirito e la virtù dell’uomo di Dio, lo ascoltò volentieri e lo pregava vivamente di restare presso di lui». Ma il servo di Cristo, illuminato da un oracolo del cielo, gli disse: «Se, tu col tuo popolo, vuoi convertirti a Cristo, io resterò molto volentieri con voi. Se, invece, esiti ad abbandonare la legge di Maometto per la fede di Cristo, dà ordine di accendere un fuoco il più grande possibile: io, con i tuoi sacerdoti, entrerò nel fuoco e così, almeno, potrai conoscere quale fede, a ragion veduta, si deve ritenere più certa e più santa». 
Nella cronaca che piace ai siti dell'“orgoglio cattolico”, Francesco declina la sua sfida al Sultano con argomenti estremi: «Se mi vuoi promettere, a nome tuo e a nome del tuo popolo, che passerete alla religione di Cristo, qualora io esca illeso dal fuoco – avrebbe detto il Poverello al capo islamico - io entrerò nel fuoco da solo. Se verrò bruciato, ciò venga imputato ai miei peccati; se, invece, la potenza divina mi farà uscire sano e salvo, riconoscerete Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio, come il vero Dio e Signore, Salvatore di tutti».
La credibilità di tale versione dell'incontro, con San Francesco votato a “dimostrare” la gloria di Dio sottoponendosi a una specie di ordalia, è sempre stata confutata dagli studiosi delle fonti francescane. E la Regola francescana del 1221, quella conosciuta come «non bollata», fornisce un antidoto almeno parziale alle caricature e alle manipolazioni di opposta fattura confezionate intorno all'incontro di Damietta. In quella Regola, ai frati che vogliono andare «tra i saraceni e gli altri infedeli», viene raccomandato come prima cosa «che non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio (1 Pt 2,13) e confessino di essere cristiani». Poi, «quando vedranno che piace al Signore, annunzino la parola di Dio perché essi credano in Dio onnipotente Padre e Figlio e Spirito Santo, Creatore di tutte le cose, e nel Figlio Redentore e Salvatore, e siano battezzati, e si facciano cristiani, poiché, se uno non sarà rinato per acqua e Spirito Santo non può entrare nel regno di Dio (Gv 3,5)».
L'ottavo centenario della visita di san Francesco al Sultano offre il pretesto ai cultori delle diverse caricature del Santo di Assisi – quelli che ne fanno la bandiera banale del sentimentalismo pan-religioso, e quelli che lo trasformano in un precursore dell'identitarismo clericale da “battaglia culturale” - di auto-compiacersi e estenuarsi a vicenda nelle loro baruffe pseudo-teologiche da social media. Ma sarà anche un'occasione preziosa per godere di nuovo delle parole e dei gesti di un Santo che ha sempre lasciato alla grazia di Cristo il compito di “lavorare” tutti cuori. Compresi quelli dei fratelli musulmani.