Corriere 3.10.17
il calvario della Turchia
Milioni di morti e un impero smembrato ma l’accordo Sykes-Picot c’entra poco
di Paolo Mieli
Quando
nel 1923, dopo oltre 11 anni di guerra, scese la pace sugli ex
possedimenti ottomani, fu difficile calcolare il numero delle vittime.
Quattro o cinquecentomila soldati erano morti nel corso della Prima
guerra mondiale. I morti, però, furono molti di più. La popolazione che
abitava in terra turca prima del 1911 ammontava a 21 milioni di persone.
Nel 1923 si era ridotta a meno di 17 milioni. Uno degli imperi che la
Grande guerra portò via con sé fu quello ottomano. Ma il mondo arabo nei
decenni che precedettero la Prima guerra mondiale non era affatto
stabile. Era forse meno violento di come sarebbe stato nella versione
postbellica posta sotto la tutela anglo-francese, però in luoghi come la
Mesopotamia, la sovranità ottomana nel 1914 «era perlopiù una finzione,
anche se probabilmente utile e costruttiva». Così Sean McMeekin in Il
crollo dell’Impero ottomano. La guerra, la rivoluzione e la nascita del
moderno Medio Oriente 1908-1923 , che esce oggi per Einaudi
nell’eccellente traduzione di Daniele Cianfriglia e Chiara Veltri.
L’Impero ottomano era durato per più di sei secoli prima di naufragare
nella guerra del 1914-18. Dal 1517 al 1924 (tranne un breve interregno,
dal 1802 al 1813, in cui gli insorti wahhabiti erano saliti al potere) i
sultani avevano dominato i luoghi sacri islamici dell’Arabia,
«legittimandosi, agli occhi dei fedeli musulmani, come califfi
dell’islam». In cambio di questa legittimazione, i sultani ottomani
avevano offerto ai sudditi «un’identità comune e l’orgoglio di
appartenere a un grande impero, un orgoglio provato soprattutto dai
musulmani ma condiviso anche, in qualche misura, dalle vaste minoranze
ebraica e cristiana dell’impero, la cui protezione dipendeva dal
sultano».
Poi venne la guerra. Per quel che concerne il discorso
sulle persone «scomparse» tra il 1911 e il 1923, i numeri, per McMeekin,
sono calcolati con «rozze approssimazioni» e «non è chiaro quale sia il
dato dell’emigrazione a fronte di quello delle perdite dovute a
malattie, denutrizione e altre cause più direttamente legate al
conflitto». Si tende però a «concordare sul fatto che i tassi di
mortalità per l’impero nel suo complesso si avvicinarono al venti per
cento, un numero sconvolgente se lo si confronta ai peggiori dati pro
capite sul fronte occidentale che videro la Francia perdere il 3,5 per
cento». I «nudi numeri dei morti e feriti» raccontano poi solo «una
piccola parte della terribile guerra ottomana». Interi popoli, «in
alcuni casi intere nazioni, furono sradicate da case in cui vivevano da
secoli, insieme a tutto il loro stile di vita».
Qual era lo stato
di quell’area in quel determinato momento? L’arrivo nella regione «di
diplomatici, ingegneri e uomini d’affari europei era in corso da tempo e
probabilmente avrebbe proiettato Palestina, Siria e Mesopotamia
nell’orbita occidentale anche senza una guerra tra grandi potenze»,
mentre la Russia stava gradualmente conquistando la Turchia orientale e
la Persia settentrionale. L’Impero ottomano aveva già perso l’Africa
nella «guerra di Libia» (1911) e parte rilevante della Rumelia (i suoi
possedimenti europei) nelle guerre balcaniche, insieme alla maggioranza
delle isole dell’Egeo e del Dodecaneso. La decisione dei turchi di
entrare in guerra nel 1914, scrive McMeekin, «si può interpretare come
l’ultimo rantolante tentativo di prevenire il declino e la spartizione
sfruttando la forza tedesca contro le potenze più pericolose che avevano
mire sul territorio ottomano: la Russia, la Gran Bretagna e la Francia
(grossomodo in quest’ordine)». Anche se gli Imperi centrali avessero
vinto la guerra, come si illusero che potesse accadere allorché
ottennero a Brest-Litovsk la resa della Russia bolscevica, prosegue lo
storico, «una Germania vittoriosa probabilmente sarebbe finita in una
posizione mandataria di supervisione dell’amministrazione e
dell’economia turche». E persino in quel caso, «una Gran Bretagna
pseudovittoriosa avrebbe potuto prendersi la Palestina, la Mesopotamia e
la Siria ottomane in cambio dell’accettazione della posizione tedesca
in Russia e Ucraina». Ragione per cui si può sostenere con McMeekin che
«non esisteva uno scenario realistico in cui all’impero sarebbe stato
possibile continuare a durare a tempo indeterminato in una specie di
status quo ante ». All’epoca si prospettavano solo «opzioni
peggiorative». E si può dire che tutto sommato fu saggia la scelta di
Mustafa Kemal Atatürk di abbandonare l’impero ingovernabile a favore di
uno Stato-nazione che i suoi uomini nuovi avrebbero potuto gestire «con
mano ferma».
Non furono in quell’occasione solo il sultanato e il
califfato ottomani a scomparire dalla faccia della terra. L’impero
stesso, «dopo essere sopravvissuto a un assalto dietro l’altro nel corso
di secoli, venne infine fatto a pezzi e mai più riassemblato». E se è
vero che «tutti gli imperi producono caos e miseria quando crollano,
oltre alle lamentele per un’età dell’oro di cosmopolitismo perduta e per
uno spirito di tolleranza immaginario», va detto anche che, così come
il crollo degli imperi degli Asburgo e degli Hohenzollern produsse
un’era di intolleranza e di antisemitismo nell’Europa centrale, la
caduta degli ottomani diede il via a un periodo di enormi problemi in
Medio Oriente.
I n tutto il «caos cartografico» prodotto dalla
Prima guerra mondiale, un fatto curioso è che sia i confini più duraturi
sia quelli meno stabili furono tracciati nell’ex Impero ottomano. La
«fragilità dell’insediamento postbellico nel Medio Oriente arabo è
diventata un trito cliché negli ultimi anni, e l’ascesa dello Stato
islamico nei territori della Siria e dell’Iraq è soltanto la più recente
perturbazione». Di queste perturbazioni che hanno sconvolto le immense
terre che rimasero fuori dai confini turchi, è consuetudine far risalire
le colpe a Mark Sykes e Georges Picot, i due negoziatori (inglese il
primo, francese l’altro) che nel 1916 per conto dei rispettivi governi
tracciarono le linee di spartizione di quell’area. Lo ha fatto qualche
tempo fa Patrick Cockburn sulla «London Review of Books» e, dopo di lui,
un’infinità di uomini politici, analisti e commentatori. Quello
dell’«accordo Sykes-Picot», lamenta McMeekin, «è divenuto un cliché ,
una formula abbreviata ormai sulla bocca di tutti, usata per spiegare la
più recente rivolta in Medio Oriente». A giudicare dall’onnipresenza
dei riferimenti nei media si potrebbe pensare che i due siano stati «gli
unici attori di rilievo sul teatro ottomano della Prima guerra
mondiale», e la Gran Bretagna assieme alla Francia la sola parte
decisiva nella decisione delle sorti del territorio ottomano. Una tesi
che già all’inizio degli Anni Sessanta faceva capolino nel film di David
Lean Lawrence d’Arabia . Tra l’altro, osserva lo storico, «non è
difficile comprendere la risonanza popolare della leggenda dell’accordo
Sykes-Picot» dal momento che «nella nostra epoca postcoloniale,
l’imperialismo e gli imperialisti, sepolti da tempo, sono facili
bersagli su cui scaricare le responsabilità dei problemi odierni». Sykes
e Picot, secondo questa vulgata, sarebbero la personificazione dei
«peccati della Gran Bretagna e della Francia, il cui progetto di
espansione coloniale, già in atto da secoli, raggiunse l’apogeo finale
con l’apposizione della Union Jack e del tricolore francese nel Medio
Oriente arabo, dove da allora ogni cosa cominciò ad andare male».
Inoltre,
il sostegno della Gran Bretagna ai progetti sionisti con la
dichiarazione Balfour del 1917, sarebbe stato «in questa drammatica
vicenda di hybris e nemesis », un «passo troppo lungo» che avrebbe
«risvegliato gli arabi da un sonno di secoli» e li avrebbe spinti a
«insorgere contro i crociati contemporanei — europei e israeliani — che
avevano sottratto le loro terre». Sicché tutto quel che riguarda i
movimenti panislamici, la Fratellanza musulmana, Hamas, Hezbollah, Al
Qaeda, Daesh e ogni nuovo gruppo che si proporrà di «cancellare i
confini artificiali imposti dall’Europa», avrà in comune con gli altri
il desiderio di «assestare il colpo di grazia sull’accordo Sykes-Picot».
Ma
la sintesi dell’accordo Sykes-Picot proposta da queste versioni del
passato mediorientale ha, secondo McMeekin, «ben poco in comune con la
storia su cui teoricamente si basa». La spartizione dell’Impero ottomano
«non fu decisa bilateralmente da due diplomatici, uno britannico e uno
francese, nel 1916, bensì in una conferenza di pace internazionale
tenuta a Losanna, in Svizzera, nel 1923, all’indomani di un conflitto
che era durato quasi dodici anni e risaliva all’invasione italiana della
Tripoli ottomana nel 1911 e alle due guerre balcaniche del 1912-13».
Quasi dodici anni e non poco più di quattro, quanti ne durò la Prima
guerra mondiale.
N é Sykes, né Picot «svolsero alcun ruolo degno
di nota a Losanna, dove la figura dominante che incombette sui lavori fu
quella di Mustafa Kemal, il nazionalista turco le cui armate avevano
appena sconfitto la Grecia e (per estensione) la Gran Bretagna,
nell’ennesimo conflitto durato dal 1919 al 1922». Persino nel 1916,
«l’anno in teoria passato alla storia per il loro accordo segreto sulla
spartizione, Sykes e Picot ebbero un ruolo secondario rispetto al
ministro degli Esteri russo Sergej Sazonov che era ormai la vera forza
trainante dietro la divisione dell’Impero ottomano, in tutto e per tutto
un progetto russo». Progetto russo «riconosciuto come tale dai
britannici e dai francesi quando fu chiesto loro di dare il proprio
consenso al piano per la spartizione, già tra il marzo e l’aprile del
1915». L’accordo del 1916, poi, non conteneva neppure un accenno alla
dinastia saudita che, dopo la conquista delle città sacre La Mecca e
Medina, avrebbe formalmente governato l’Arabia ottomana dal 1924.
È
ora di dire apertamente che nessuno dei «più famigerati confini
postottomani — quelli che separano la Palestina dalla (Trans)Giordania e
dalla Siria, o la Siria dall’Iraq, o l’Iraq dal Kuwait — fu
tratteggiato da Sykes e Picot nel 1916». Nessuno. Perfino i confini che i
due funzionari delinearono, come quelli che avrebbero separato la zona
britannica, francese e russa in Mesopotamia e in Persia, «furono
scartati dopo la guerra». Mosul, in Iraq, è il caso più celebre: fu
prima assegnata ai francesi, finché gli inglesi non decisero che
volevano i suoi campi petroliferi. Dopo che i russi siglarono una pace
separata con i tedeschi a Brest-Litovsk, nel 1918, la zona che sarebbe
spettata agli stessi russi secondo i patti del 1916, «venne dapprima
sottratta e poi eliminata dalla memoria storica».
Coloro che oggi
scrivono di Medio Oriente, secondo McMeekin, «non sbagliano a ricercare
le radici dei problemi attuali di quell’area nella storia di inizio
Novecento». Ma «i veri eventi storici sono più ricchi e di gran lunga
più drammatici del mito». Perciò si dovrebbe «andare oltre il mito
dell’accordo Sykes-Picot se si vuole comprendere l’impatto della Prima
guerra mondiale su questa vasta regione, su cui essa ha lasciato tracce
tangibili, da Gallipoli ad Erzurum, da Gaza a Baghdad». I fronti
ottomani si estesero su «tre continenti e tre oceani coinvolgendo non
solo la Gran Bretagna e la Francia ma tutte le altre grandi potenze
europee (e alcune più piccole) oltre ovviamente agli ottomani stessi».
Così, anche se coloro che «danno la colpa» a Gran Bretagna e Francia per
il conflitto infinito in Palestina, Libano e Siria «presentano delle
argomentazioni plausibili» — nel senso che l’antichissima politica
imperiale del divide et impera , applicata a una regione già
frammentata, «contribuì a esacerbare le tensioni esistenti tra arabi ed
ebrei, cristiani e musulmani, musulmani sunniti e sciiti» —, tutto
questo non basta.
Chi ricorre a quelle argomentazioni, dovrebbe
ricordare che le potenze d’occupazione ritirarono le ultime truppe dalla
regione nel 1946 e 1947, in tempi precedenti allo scoppio della prima
guerra arabo-israeliana. Il teatro ottomano, «lungi dall’essere ai
margini della Prima guerra mondiale, fu centrale sia per lo scoppio del
conflitto europeo nel 1914, sia per l’accordo di pace che vi pose
davvero fine». La «guerra di successione ottomana» come potremmo
chiamare il più ampio conflitto dal 1911 al 1923, fu una battaglia epica
come si comprende dalle «figure leggendarie» che la resero celebre. E
qui McMeekin elenca le principali: Ismail Enver, Ahmed Cemal e Mehmed
Talat, il triumvirato dei «Giovani Turchi»; sul versante tedesco il
Kaiser Guglielmo II, l’ammiraglio Wilhelm Souchon e Otto Liman von
Sanders; su quello britannico Horatio Kitchener, Winston Churchill, T.E.
Lawrence e David Lloyd George; Sergej Sazonov, il granduca Nicola,
Nikolaj Judenic e Aleksandr Kolchak in Russia; al-Husayn, sceriffo della
Mecca e i suoi figli Faysal e Abd Allah insieme a Ibn Saud in Arabia;
Eleftherios Venizelos e re Costantino in Grecia; e, «non ultimi», Kazir
Karabekir, Ismet Inonu e Mustafa Kemal, padri della Repubblica turca.
Altro che Sykes e Picot con quello che simboleggiano e che ancor oggi,
con una buona dose di semplificazione, si fa a loro risalire. Personaggi
che quasi scompaiono al cospetto dei giganti di cui qui si è tracciato
un primo, provvisorio, elenco.