Repubblica 30.10.17
La stagione della non politica
di Michele Ainis
IN
PRINCIPIO c’era la politica, gonfia di sentimenti. Poi l’antipolitica,
con i suoi risentimenti. Ora si è aperta la stagione della non politica,
dove l’insofferenza è diventata indifferenza, distacco collettivo
rispetto alle imprese dei politici. È questa l’eredità della XVII
legislatura: aperta all’insegna dei furori contro ogni casta, si chiude
lasciandoci casti d’ogni furore.
Le turbolenze che hanno
accompagnato il Rosatellum ne offrono la prova più eloquente. Giacché lo
scontro — aspro, drammatico, impetuoso — si è consumato tutto
all’interno del Palazzo, senza infiammare gli italiani, senza
trascinarli sul campo di battaglia. Quante persone sono accorse alle
manifestazioni indette da Grillo e da Bersani, mentre il Parlamento
votava la nuova legge elettorale? Poche centinaia. Nel 2002, per
difendere l’articolo 18, Cofferati ne portò in piazza tre milioni.
Sempre in quell’anno, s’imbastivano raduni danzanti, saltellanti: i
girotondi. E in 15 mila sfilavano in corteo sotto la pioggia, come
accadde a Firenze con la “marcia dei professori”.
Altri tempi,
altre tempre. Agli inizi del terzo millennio, era ancora accesa la
scintilla che nel 1948 spinse quattro milioni d’italiani a iscriversi ai
partiti del Fronte popolare (Pci e Psi), che ancora nel 1990 generava
due milioni di tessere per la Democrazia cristiana. Dopo di che, un po’
alla volta, quell’energia civile si è tramutata in apatia. E il
quinquennio della legislatura ormai agli sgoccioli ha sancito il
divorzio finale tra popolo e Palazzo. Nel 2013 il Pd contava 539 mila
iscritti; adesso ne dichiara 405 mila, un quarto di meno. A sua volta,
nel 2016 la nuova Forza Italia sommava 165 mila tesserati, quando nel
2007 la vecchia formazione aveva superato quota 400 mila. Mentre i 5
Stelle viaggiano con 170 mila iscritti, pur essendo il primo partito
italiano.
No, la politica non è più capace d’intrigarci, di
smuovere il nostro appetito. E infatti pratichiamo il digiuno
elettorale. Il Parlamento in carica fu votato senza il concorso di 11
milioni d’elettori, un record. Ma a ogni elezione un nuovo record
straccia quello precedente, perché ogni volta cresce l’astensione.
Succederà anche alle prossime consultazioni siciliane, stando alle
previsioni: secondo Demopolis il 52% del corpo elettorale non si
presenterà alle urne. Come del resto avvenne nel 2015 in Toscana e nelle
Marche. Com’è avvenuto alle comunali del 2017, dove l’affluenza si è
fermata al 46%.
Tu dici: è il ritiro della delega, è la crisi
della democrazia rappresentativa, un fenomeno che s’osserva in tutto il
mondo. Ma allora dovrebbero trarne slancio gli istituti di democrazia
diretta, insieme alla democrazia digitale che s’affaccia all’orizzonte.
Viceversa in Italia gli ultimi referendum abrogativi ad aver superato il
quorum furono quelli sull’acqua pubblica, nel 2011. Mentre il 22
ottobre scorso nella Regione più dinamica e moderna del Paese — la
Lombardia — un referendum a voto elettronico, e con un messaggio
subliminale che prometteva più quattrini, è stato disertato da 2
elettori su 3.
Insomma, la politica ci è venuta a noia. Non è più
al centro dei nostri discorsi, dei nostri pensieri. Possiamo azzuffarci
con gli amici per un gol, non per un voto. E i talk show politici hanno
meno pubblico delle televendite. Un unico programma ci sveglia dal
letargo: quando appare sugli schermi un condottiero solitario, ritto sul
suo cavallo bianco. In questo caso ne accompagniamo le fortune, ne
condividiamo le sventure. Com’è accaduto a Renzi, durante la parabola di
questa legislatura.
Nel 2014 c’era un moto di simpatia nei suoi
confronti, che gli recò un formidabile successo alle europee; due anni
dopo lui era già antipatico, e il referendum costituzionale fu un
formidabile insuccesso. Ma in entrambe le occasioni l’affluenza al voto
s’attestò sul 60%, un picco che non si è più ripetuto. Merito delle
specifiche questioni sottoposte agli elettori? No, merito di Renzi. Nel
2014, mentre si riempivano le urne alle europee, in Emilia crollava la
partecipazione alle elezioni regionali (37%); nel 2016, l’anno del
referendum costituzionale votato dal 65% degli italiani, rimase a secco
il referendum sulle trivellazioni in mare, con un misero 31% di votanti.
Da
qui un doppio problema per la democrazia italiana, perché nessun
sistema democratico può reggersi senza un popolo che ne spartisca le
vicende, e perché in democrazia il popolo si rispecchia nei molti, non
nell’uno. Ma da qui il soccorso d’una regola non scritta degli
ordinamenti costituzionali: quando s’allenta il controllo popolare, al
contempo si rafforzano i controlli di legalità, e dunque cresce il peso
dei garanti. Nei giorni in cui Mattarella s’accinge a promulgare la
legge elettorale, il silenzio degli astanti quantomeno può permettergli
di lavorare in pace.