Repubblica 30.10.17
No a politica e religione per i giovani è l’era delle passioni tiepide
Italiani sempre più incapaci di accettare le responsabilità della vita adulta
La vecchiaia è l’unica paura comune e la gioventù dura fino a 52 anni
Osservatorio Demos-Coop: si assottigliano le differenze tra generazioni e cresce la dipendenza dalla famiglia
Gli
obiettivi più urgenti dei ventenni di oggi sono fare carriera e
diventare autonomi Il crollo dell’interesse per la fede è il segnale più
evidente del disincanto diffuso
di Ilvo Diamanti
PARAFRASANDO
il titolo di un noto libro, potremmo dire che viviamo in un’epoca di
“passioni tiepide”. Non “tristi”, come quelle evocate da Miguel
Benasayag e Gérard Schmit nel loro saggio (pubblicato nel 2004 da
Feltrinelli). Piuttosto: “disincantate”. Interpretate con realismo. In
particolare dai giovani. Abituati a proiettare il futuro nel loro
sguardo. E a orientare il nostro. Perché i giovani “sono” il futuro.
È l’immagine suggerita dal sondaggio dell’Osservatorio di Demos-Coop, condotto nei giorni scorsi e proposto oggi su Repubblica.
D’altronde,
la società, e soprattutto i giovani, si sono abituati al clima di
sfiducia che grava su di noi. Ormai da troppi anni. Così, lo
attraversano senza troppa paura. In particolare, i “giovani-adulti”
(secondo i demografi), la “generazione del millennio”, secondo l’Istat.
Insomma,
coloro che hanno fra 25 e 36 anni e stanno a metà fra giovinezza ed età
adulta. E cumulano l’insicurezza di chi ha di fronte un futuro carico
di incognite e la sicurezza di chi i problemi del futuro ha iniziato a
sperimentarli. È la metafora di una società che non accetta di
invecchiare. Dove tanti, quasi tutti, vorrebbero restare “per sempre
giovani”. A costo di protrarre all’infinito le incertezze degli
adolescenti. È un aspetto che avevamo già osservato altre volte, in
passato. Ma oggi si ripropone, in modo, se possibile, più marcato. La
giovinezza, secondo gli italiani, si allunga sempre più. Quanto più gli
anni passano. Fra coloro che non superano i 36 anni, la giovinezza
finisce poco più avanti: a 42 anni. Poi, via via che gli anni passano,
anche la giovinezza si allunga. Fino a 62 anni, per coloro che hanno
superato 71 anni. La “generazione della ricostruzione”. Parallelamente,
si allontana anche la soglia della vecchiaia. Tanto che, secondo i più
anziani, pardon, i “meno giovani”, si diventa “vecchi” solo dopo aver
compiuto 80 anni. Non è una novità. La nostalgia della giovinezza spinge
a negare la vecchiaia. E induce ad accettare di essere vecchi… solo
dopo la morte. Eppure, ogni volta mi stupisco. Non riesco a farmene una
ragione. La vecchiaia come dis-valore: significa negare l’importanza
dell’esperienza. La maturità. D’altra parte, l’età adulta si restringe
sempre di più. Così, la nostra biografia accosta e oppone gioventù e
vecchiaia. Una accanto all’altra. E riduce l’età adulta a un passaggio
rapido. Quasi occasionale. “Diventare grandi”, una promessa attesa,
quando ero bambino, oggi appare quasi una minaccia. Al più ci è concessa
la condizione di “adulti con riserva” (per citare un bel libro di
Edmondo Berselli). Le fratture generazionali, così, appaiono meno
evidenti e meno marcate di un tempo. Io stesso, alla fine degli anni
Novanta, avevo definito i giovani una “Generazione invisibile” (Ed. Il
Sole 24ore, 1999). Per sottolineare la progressiva marginalità dei
giovani, ma, ancor più, la loro coerenza con gli orientamenti degli…
adulti. Meglio, dei genitori. Al punto da non coglierne più le distanze.
Cioè: le specificità generazionali. D’altronde, gli anni delle
contestazioni sociali, ma prima ancora, familiari — dei figli contro i
genitori — erano lontani. In seguito, non si sono più riproposte. Anzi: i
genitori, la famiglia, sono divenuti l’appiglio che permette ai figli
di condurre la loro transizione infinita all’età adulta. Si spiega
soprattutto così l’importanza attribuita dai più giovani ai rapporti con
la famiglia. Ma soprattutto all’indipendenza e all’autonomia. Tre su
quattro, fra quanti hanno fino a 24 anni, li considerano molto
importanti. Nel 2003 erano poco più di uno su due. Segno evidente che il
sostegno della famiglia è necessario, ma, al tempo stesso, aumenta, la
domanda di in-dipendenza. Di crescere e auto- realizzarsi. Di affermarsi
e “fare carriera”. Obiettivo ambìto dal 41% dei più giovani: quasi 10
punti in più rispetto ai primi anni 2000. Una speranza che, per essere
realizza- ta, li spinge a guardare — e andare — altrove. I più giovani,
insieme ai giovani-adulti, i millennials, sono la generazione della
rete, la generazione più globalizzata. Abituati a comunicare a distanza.
E a orientarsi verso “altrove”, sostenuti dai genitori. E dai nonni.
Per questo non riescono a sfuggire al senso di solitudine, che grava su
tutta la società. Certo, i giovani-più-giovani sono sostenuti e aiutati
da reti amicali più fitte. Ma i loro fratelli maggiori, i
giovani-adulti, la “generazione del millennio”, ne soffrono più degli
altri. Nel sondaggio di Demos-Coop, il 39% di essi, quasi 4 su 10,
ammettono di “sentirsi soli”. D’altra parte, internet e i social media
permettono di restare sempre in contatto con gli altri. Gli amici. Ma
sei tu, davanti al tuo schermo. Da solo. Oppure in mezzo agli altri. A
comunicare. Da solo. Con il tuo smartphone.
Così, le passioni non
diventano “tristi”, ma più tiepide. Perché le stesse “fedi” sbiadiscono.
E si perdono. La politica: non interessa più quasi a nessuno. Anche fra
i più giovani. Presso i quali la componente che considera importante la
politica non va oltre il 14%. Poco sopra alla media generale. Sono
lontani i tempi della “contestazione”. La stessa “generazione
dell’impegno” — del ’68 — appare disillusa. Elisa Lello, in una ricerca
pubblicata alcuni anni fa, ha parlato di una “triste gioventù”,
(Maggioli, 2015). Insomma, non c’è più fede. Soprattutto fra i più
giovani. Lo ha spiegato Franco Garelli, studioso delle religioni
giustamente ri-conosciuto, in un testo dal titolo esplicito: “Piccoli
atei crescono” (Il Mulino, 2016). L’indagine di Demos- Coop lo conferma,
visto che la religione è ritenuta importante solo dal 7% della
“generazione della rete”. Un quarto, rispetto alla popolazione
nell’insieme. Meno di un terzo rispetto al 2003.
In altri termini,
“non c’è più religione”. Soprattutto fra i più giovani. Così, diventa
difficile provare “passioni”. Accese e perfino tristi. Prevale il
disincanto. E le passioni si raffreddano. Divengono tiepide. Eppure
conviene “credere” nei giovani. Perché, comunque, più di tutti gli
altri, “credono” nell’Europa. Perché sono il nostro futuro. E più di
tutti gli altri, “credono” nel futuro.